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Recensione dei Libri aeronautici

L’ultimo volo

titolo: L’ultimo volo – La drammatica avventura dell'”Italia” al Polo Nord 

autore: Felice Trojani

editore: Mursia & C.

anno di pubblicazione: 1967

ISBN: non disponibile





Il titolo è di quelli che non lascia adito a dubbi né incertezze. E’ lapidario, quasi laconico. Il sottotitolo svela invece il contenuto delle 244 pagine del libro cui fanno da corredo, in appendice, una preziosa cronologia, l’elenco dei naufraghi e dei soccorritori nonché un utilissimo breve glossario.

Il risguardo interno della sovracopertina puntualizza:

“finalmente la verità sulla sfortunata spedizione di Nobile al Polo Nord a bordo del dirigibile Italia, rivelata da uno dei protagonisti della grande impresa”

Ma cosa accadde esattamente durante quell’ultimo volo? Ricordiamolo soprattutto a beneficio di chi lo ignora per ovvi motivi anagrafici.

La splendido disegno, opera dell’illustratore Marcello Cassinari Vettor, presente all’interno del volume che ritrae il dirigibile N4, ribattezzato “Italia”, realizzato nello Stabilimento di Costruzione Aeronautiche di Roma Ciampino. Nel suo glossario in appendice, così descrive Felice Trojani l’aeronave : “l’Italia” era un dirigibile semirigido di 18’500 metri cubi. Nonostante la cubatura modesta (era veramente esigua: furono costruiti dirigibili fino a 200’000 metri cubi) le dimensioni erano notevoli: lunghezza 105 metri, larghezza 19,45, altezza 24,30. […] Il dirigibile, fusiforme a sezione trilobata, finiva in basso con uno spigolo formato dalla trave applicata al ventre dell’involucro. La trave era in tubi di acciaio, prismatica, […] praticabile per tutta la sua lunghezza, si estendeva da prua a poppa; la fila dei correnti inferiori serviva da passerella. Alla trave era unita, verso prua, la cabina di comando e vi erano appese le navicelle motrici: due al centro e una a poppa. Dalla trave si accedeva alla cabina e alle navicelle; rimontandola a prua, si saliva in groppa all’involucro. Gli impennaggi erano quattro, due orizzontali e due verticali, disposti a croce. […]

La mattina del 19 marzo 1928, il dirigibile modello N4 – ribattezzato “ITALIA” – decolla dall’aeroporto di Ciampino. E’ stato progettato e costruito proprio lì, a Roma, ad opera del generale del genio aeronautico, ingegner Umberto Nobile. Egli è anche a capo della missione – tutta italiana – dall’alto contenuto scientifico che si prefigge di raggiungere in volo il Polo Nord sorvolando, per buona parte della navigazione, territori completamente inesplorati.

La retrocopertina del volume: “L’ultimo volo” non è nient’altro che una metà della grande tavola da cui è stata ricavata la copertina. Alla scena dell’orso colpito da Malgrem si aggiungono infatti gli altri sopravvissuti al disastro aereo. La visuale si allarga sul pack e in lontananza si scorge la tenda divenuta giornalisticamente famosa come “la tenda rossa”. E’ possibile avere il quadro d’insieme rimuovendo la sovraccopertina di cui è dotato il volume e stendendola in piano.

A bordo dell’aeronave c’è proprio il nostro Felice Trojani in qualità di timoniere. In realtà egli ha dato un notevole contributo alla missione occupandosi di quello che oggi chiameremmo l’”ingegneria” e la “logistica”.

Dopo diverse tappe e lunghi voli di trasferimento che non risparmiano all’equipaggio momenti di alta tensione, il 6 maggio 1928 l’ITALIA attracca al pilone di ormeggio di Ny Aalesund, microscopica cittadina mineraria situata nella Kingsbay (Baia del re) nelle isole Svalbard, anticamente chiamate Spitsbergen dagli olandesi che le scoprirono.

Nonostante le condizioni meteorologiche non siano delle migliori, nei giorni successivi, non senza difficoltà, l’ITALIA riesce comunque a compiere due voli di avvicinamento al Polo Nord e a tornare alla base di partenza. Ma è nella notte del 24 maggio 1928, alle ore 0,20 locali, che il dirigibile ITALIA, nel corso del suo terzo volo, sorvola finalmente il Polo Nord.

La riproduzione meglio riuscita e anche la più voluminosa del dirigibile “Italia” è quella conservata all’interno del Museo Storico dell’Aeronautica Militare Italiana sito a Vigna di Valle, sulle rive del lago di Bracciano – Roma. Felice Trojani, ben consapevole che avrebbe appesantito l’avvincente narrazione della sua trasvolata polare, rimanda al glossario in appendice la descrizione tecnica il dirigibile “Italia”: “Nella cabina si trovava quanto serviva a controllare lo stato dell’aeronave, a governarla, a determinare la sua posizione, manometri del gas e dell’aria, comandi delle valvole, della zavorra, comandi d sgancio dei malloppi, inclinometri, variometri, altimetri, indicatori di velocità, trasmettitori meccanici di ordini ai motoristi, bussole, deviometri, sestanti, tavolo per carteggiare, etc […] A prua e sulla destra erano le due ruote che comandavano il timone di direzione e quello di profondità. […] Un piccolo compartimento conteneva la stazione radiotelegrafica, ricevente e trasmittente. […] I motori erano tre Maybach di 245 cavalli ciascuno. Marciando con i tre motori a 1450 giri, raggiungevamo la velocità di 115 km/h. Normalmente andavamo con due motori soli a 1200 giri e facevamo 80 km/h. Alle quali velocità e dalle quali si doveva aggiungere o togliere la velocità del vento, favorevole o contraria.”

Un’idea molto molto realistica di quella che fu la navicella di comando del dirigibile ITALIA ci viene resa dalla sua ricostruzione fedelissima presente anch’essa presso il Museo di Vigana di Valle.

Così Trojani rievoca quegli istanti:

“Furono trasmessi messaggi al Papa, al Re, a Mussolini; poi Nobile iniziò il lancio delle bandiere e dei simboli. Lanciò la bandiera italiana, il gonfalone di Sant’Ambrogio, la medaglia della Vergine del Fuoco di Forlì, la croce che ci era stata affidata dal Papa. Poi brindammo al Polo Nord bevendo una bottiglia di liquore all’uovo preparato dalla signora Nobile”.

Anche se le condizioni meteo non consentono l’atterraggio sulla banchisa polare, tutti i rilievi scientifici vengono effettuati e la missione raggiunge il pieno successo.

Purtroppo, nel volo di rientro a Ny Aalesund, il dirigibile incappa in condizioni meteo ancora più avverse nonché in un guasto al timone di quota.

Tra gli uomini che si avventano contro l’orso, inconfondibile per essere l’unico ad indossare gli occhiali, c’è anche l’autore che impugna con tono minaccioso la sua roncoletta, la stessa con la quale poi scuoierà la pelliccia dell’orso. Trojani – annota nel suo libro – che il coltello a roncola era un compagno inseparabile di tutti voli ma che, realisticamente, a quel bestione avrebbe potuto fare sì e no un salasso. Ma le note tragicomiche riportate dall’autore non si fermano qui. Tra queste c’è l’elenco delle armi da offesa a disposizione dei naufraghi dell’aria. E’ davvero impietoso ed è il seguente: “un coltellaccio, un’accetta, una lima, un pezzo di tubo, un chiodo”. Poi, lo ricordiamo, la già citata rivoltella di Malgrem e la roncoletta di Trojani. Ci viene da pensare che, di fronto ad un simile arsenale, l’orso dovette morire proprio di paura! L’autore riporta poi una confidenza preoccupata che, appena il giorno prima, Malgrem aveva concesso Nobilea A dire dello svedese con quella rivoltella sarebbe stato impossibile ammazzare un orso! E invece? … miracolo! Altra nota significativa emerse nel sezionare le carni e nell’eliminarne le interiora, Trojani si accorse infatti che lo stomaco del povero animale era pressoché vuoto, fatto salvo che per alcune striscioline di carta che provenivano dai portolani in inglese caduti anch’essi sul pack assieme agli aeronauti. Chissà da quanto tempo non mangiava! Sicuramene da molto più tempo di loro che, per quanto disperati, avevano consumato regolarmente dei pasti – razionati, è vero – ma pur sempre dei pasti. Quantomeno non a base di carta.

Alle 10,33 del 25 maggio accade l’immane tragedia: l’aeronave cade inesorabilmente sul pack. Una parte dell’equipaggio, tra cui il nostro Trojani, viene sbalzato fuori della navicella di comando mentre la restante parte viene trascinata di nuovo in volo. Il dirigibile infatti, alleggerito di parte del suo carico umano e di attrezzature, riprende il volo senza alcun controllo. Di costoro e dell’aeronave non se ne saprà più nulla.

La banchisa polare è un luogo desolato, apparentemente disabitato, spazzato quasi costantemente dal vento, bruciato da una luce abbacinante di giorno e di notte, costantemente alla deriva e con temperature che sono perennemente molto al di sotto dello zero. Insomma un vero inferno bianco.

I superstiti della spedizione polare sono male in arnese: Nobile ha una gamba e un braccio fratturati, il viso tumefatto e insanguinato, accusa dolori al torace; Zappi è convinto di avere qualche costola rotta tanto è il dolore che prova anche lui al torace; il taurino Cecioni ha la gamba rotta in due punti, il meteorologo Malgrem è stordito e suppone di avere un braccio rotto; Biagi, il radiotelegrafista, sente forti dolori alla testa e si lamenta per contusioni; Trojani avverte un forte dolore al ginocchio sinistro, il suo viso è insanguinato per un taglio profondo alla fronte; Mariano, Viglieri e Bohunek sono in piedi ma sono anch’essi sotto shock; Titina, la cagnetta di Nobile, è l’unica che zompetta felice finalmente sulla terraferma.

Uno dei splendidi disegni che accompagnano il libro. L’autore è il talentuoso Marcello Cassinari Vettor che, su precise indicazioni dell’autore, disegnò mirabilmente alcune situazioni realmente avvenute. Nelle avvertenze presenti nella prefazione del libro viene precisato: “Le illustrazioni del volume sono state eseguite sotto la diretta consulenza dell’autore al fine di renderle ineccepibili sotto il profilo dell’esattezza documentaristica.”

 

Dovranno resistere fino al fatidico 12 luglio prima che la nave rompighiaccio sovietico “Krasin” li possa salvare e restituirli alla civiltà. Durante ben 48 giorni di permanenza sul pack numerose saranno le disavventure, travagliate le decisioni da prendere, contrastanti gli stati d’animo a fronte a quello che sembra un inesorabile epilogo.

“L’ultimo volo” è dunque il resoconto più sincero e attendibile di quanto accadde nel corso di uno degli episodi più esaltanti ma al contempo tra i più tragici della storia dell’aviazione italiana: la missione al Polo Nord del dirigibile ITALIA.

In effetti, fatto salvo per i diversi libri che scrisse il generale Nobile, solo Felice Trojani riportò minuziosamente quanto accadde: dapprima ne “La coda di Minosse” e poi – ma in misura molto più blanda – ne “L’ultimo volo” che viene considerato, a torto o ragione il “Minossino”.

Il volume “L’Ultimo volo” in nostro possesso riporta nella sua copertina interna la data delle edizioni stampate: giugno 1967 (per la prima) e dicembre 1967 (per la seconda). Non ci è dato sapere a quale di queste due appartenga, tuttavia è certo che l’editrice Mursia & C. pubblicò un’edizione del libro con una copertina molto più consona di quella dell’orso colpito a morte da Malgrem. Inoltre il sottotitolo “L’avventura della tenda rossa” anticipava in modo estremamente esauriente il contenuto del libro rendendolo più accattivante. Ovviamente il contenuto era il medesimo. Nell’immagine sovrastante la copertina “migliorata”

L’editore Ugo Mursia convinse infatti Trojani a pubblicare una versione alleggerita del La coda di Minosse; era sua intenzione creare un secondo volume divulgativo, pensato e illustrato come all’epoca era uso fare per un pubblico molto giovane, giusto quello della collana per ragazzi denominata: “La Meta – viaggi e scoperte”. E in effetti la lungimiranza dell’editore e l’ottimo lavoro di riduzione dell’autore furono premiati: “L’ultimo volo” vinse il premio Castello 1967, per il miglior libro di letteratura giovanile.

Che Felice Trojani fosse un ottimo ingegnere non ne avevamo dubbi: sua fu la progettazione dell’hangar (senza tetto per evitare i sovraccarichi distruttivi della neve) e dei piloni di attracco del dirigibile di Ny Aalesund e di Vadso; sua l’invenzione della tenda di seta grezza divenuta poi virtualmente “rossa”; suo l’allestimento delle attrezzature e delle vettovaglie imbarcate sul dirigibile NORGE prima e sull’ITALIA poi; sua la partecipazione alla progettazione e alla costruzione dell’Aeroporto del Littorio a Roma (oggi Aeroporto dell’Urbe). Semmai nutrivamo dei dubbi sulle sue capacità narrative in quanto, dopo gli studi classici al Liceo “Torquato Tasso” di Roma, egli seguì il corso di laurea presso la Scuola di Applicazione degli Ingegneri di San Pietro in Vincoli, sempre a Roma, che non poteva – e ancora oggi – non può certo definirsi una fucina di letterati o di poeti. Salvo rare eccezioni, s’intende. Perché, in effetti, Felice Trojani costituisce proprio una di queste eccezioni.

Ma veniamo al libro.

Un ritratto molto intenso del generale Umberto Nobile, ideatore della missione polare tutta italiana, fatto salvo per il meteorologo svedese Malgrem e il fisico cecoslovacco Behounek

Benché il volume abbia, fondamentalmente, i presupposti di un diario, l’autore riesce a tessere attorno ad ogni singola data, ad ogni singolo episodio un racconto fluido e appassionante degno dei migliori scritti di salgariana memoria.

Certo, quanto accadde prima, durante e dopo quei 48 giorni sul pack va al di là di ogni più geniale invenzione narrativa del più fantasioso autore del genere, tuttavia Trojani sa tenere ben alta la tensione della narrazione e non è mai monotono.

Sebbene il libro sia stato scritto a distanza di ben quarant’anni da quegli avvenimenti, la memoria di Trojani è assai lucida e minuziosa – tipica di un ingegnere, oseremmo dire – ma il testo appare elegante e privo di tecnicismi, sebbene asciutto e schivo di inutili riflessioni interiori che pure ci sono ma pur sempre limitate all’essenziale, giusto per dare spessore e carattere ai suoi compagni di sventura o per rendere realisticamente drammatica la terribile esperienza che, loro malgrado, vissero in quella landa dimenticata dagli uomini.

Il risguardo interno della sovraccopertina del “L’ultimo volo”

Viene da domandarsi, inoltre, se l’autore fu davvero obiettivo rispetto a quanto fu testimone. Anche perché, a suo dire, fu l’unico a mantenere una condotta positiva e attiva. Solo una volta – confessa – ebbe una crisi di nervi, un istante di profondo smarrimento ma subito rientrato.

Eppure la sua obiettività non può mai essere messa in discussione nel corso di tutto il libro. Ad esempio, nei confronti di Nobile – per alcuni versi il suo mentore – non è certo tenero quando scrive:

L’altro risguardo interno della sovraccopertina che riporta alcune informazioni circa l’autore

“Io, Nobile, lo capivo molto bene, capivo quali erano i sentimenti che lo agitavano: niente o poco lo spirito di conservazione, molto il desiderio che i suoi compagni venissero salvati, moltissimo il rimpianto di non essere più il capo.”

Anche nel momento del grande successo, l’autore rimane lucido scrivendo di sé:

La copertina interna del libro che rende il giusto merito all’illustratore ci si devono gli splendidi disegni presenti all’interno del volume

“Non avevo avuto ciò che avevo sognato, la mia vita era stata una serie quasi ininterrotta di insuccessi e delusioni, ma ero ingegnere, facevo parte di un equipaggio di un’aeronave che stava compiendo voli fuori del comune, e avevo collaborato alla progettazione e alla costruzione del dirigibile e alla preparazione dei voli.

Non mi sentivo un eroe, ma provavo l’orgoglio di trovarmi in prima linea, ero contento di aver diviso con i miei compagni tutti i rischi della spedizione, di non essermi fatto indietro pur conoscendo le deficienze della macchina e i pericoli dell’impresa.”

Tornando al suo rapporto con il suo capo missione, Trojani non gli risparmia il suo pragmatismo un po’ beffardo come per esempio in questo passo:

“Nobile ci esortava a non perderci d’animo, dicendo che le nostre famiglie erano state messe al riparo dal bisogno, che noi avevamo fatto il nostro dovere, che eravamo caduti nel compimento di un’impresa di scienza, di bellezza, di poesia alla quale il mondo intero era sensibile, gli italiani avrebbero venerato la mostra memoria […]

Agli argomenti civili ero sensibile anch’io ma non che credessi molto all’affetto degli italiani; contavo sull’assicurazione sulla vita e su ciò che mi doveva la Società Geografica. Quanto alla profezia di Nobile, era proprio bene ispirata: se il fato l’avesse sentita, sarebbe crepato dal ridere …”

E a proposito di fato, Trojani riporta anche la battuta che fu attribuita a Mussolini a fronte delle pressanti richieste di Nobile:

“Non si va due volte contro il destino”.

Una delle fotografie del dirigibile Italia in atterraggio a a Ny Aalesund divenute letteralmente memorabili. Da notare il foro presente nell’involcro all’altezza della gondola motore di sinistra. Sul lato destro s’intuisce invece la figura di un uomo – uno dei motoristi – che si trova giusto fuori dall’involucro, sulla passerella che lo conduce alla gondola di destra

Lo aveva detto il Duce dopo incertezze e tentennamenti su cui aveva influito – neanche poco – anche Italo Balbo, sottosegretario dell’aviazione e fervente oppositore dei dirigibili quanto sostenitore del volo a mezzo di aeroplani.

La frase, con il chiaro scopo di sconsigliare la spedizione, è in parte condivisa anche dallo stesso Trojani tanto che replica a Nobile spiegandogli che:

“Farebbe male a intraprendere una seconda spedizione. Se andasse bene diminuirebbe il valore della prima perché farebbe credere che raggiungere il Polo e tornare sia cosa facile, se andasse male farebbe pensare che il successo della prima è stato dovuto al caso. […] Ma la proposta è troppo seducente per rifiutarla e può contare su di me”.

In definitiva, l’immagine che ne deriva dell’autore è quella di una persona abbastanza equilibrata, che è forte del proprio “mestiere” ed è animata dai sui bravi principi morali. Egli, nonostante incappi in umani momenti di debolezza, riesce a mantenere una certa autonomia intellettuale pur lavorando -ricordiamolo sempre – accanto ad una stella di prima grandezza come il generale Umberto Nobile.

Non poteva mancare l’istante del terribile impatto dell’aeronave contro il pack. Il suo repentino involo, dopo aver lasciato sul ghiaccio polare una parte di equipaggio e, fortunatamente, anche parte delle attrezzature/vettovaglie, la porterà lontano dalla vista dei sopravvissuti. Trojani afferma di aver veduto all’orizzonto un sottile filo di fumo nero, segno evidente dell’involucro del dirigibile assilito dalle fiamme, tuttavia la sua sorte e dei suoi occupanti rimane ancora oggi un mistero.

Gli altri protagonisti del libro vengono descritti da Trojani più per il loro agire piuttosto che per una scrupolosa descrizione fisica o caratteriale. Da qui il merito dell’autore di non aver appesantito la narrazione e, al contempo, di essere riuscito a creare attorno a loro una forte caratterizzazione, uno spessore umano che li rende unici e verosimili.

I profili dei compagni di disavventura dell’autore si delineano perciò assai lentamente ma inesorabilmente a partire dall’episodio drammatico dell’impatto con la banchisa e proseguono fino all’epilogo con l’imbarco sul Krasin. Costoro sono giusto appunto gli esempi di una varia umanità che, variegata e multiforme, è presente a bordo del dirigibile ITALIA.

Il rompighiacco Krasin (in russo Красин) che prelevò soccorsi e soccorritori disseminati sulla banchisa polare nel corso del luglio 1928, esiste ancora ed è ancorata a San Pietroburgo, lungo le rive della Neva. La sua storia ci viene rivelata dallo stesso Trojani: il progetto era russo, a cura del vice-ammiraglio Makarov ma fu realizzata a Newcastle, nei cantieri navali inglesi Armstrong Whitworth, nel 1917 con corazzatura di acciaio al cromo. In realtà, varata come “Svjatogor” per la Marina Imperiale Russa, fu poi ribattezzata solo nel 1927 per onorare l’allora da poco defunto Leonid Krasin. Con una potenza di circa 10 mila cavalli vapore, era lunga circa 100 metri, larga 18 metri e poco più alta (quasi 22 metri). Al momento dell’incidente del dirigibile Italia il suo destino era pressoché segnato: dopo due anni di inattività se ne stava per decidere il definitivo disarmo e invece … tempo quattro giorni, la nave tornò completamente operativa, allestita di tutto punto e con un equipaggio di prim’ordine. Alla notizia della missione di recupero – racconta Trojani – diversi capitani di rompighiaccio alla fonda si erano infatti offerti come semplici timonieri pur di dare il loro contributo. Il funzionamento della nave ce lo spiega sempre Trojani, rammaricato oltremodo per non averla potuta visitare a causa di terribili dolori ai piedi che lo costringeranno a rimanere a letto per tutta la sua permanenza a bordo. Ebbene il rompighiaccio riusciva ad avere ragione della banchisa polare grazie alla particolare forma della prua che, arrotondata e con piano inclinato, montava letteralmente sopra ai ghiacci per poi romperli con il suo stesso peso di quasi 11 mila tonnellate. A questo punto la prua entrava in acqua e spostava lateralmente i lastroni frantumati. E se rimaneva intrappolata – come peraltro accadde alla baleniera italiana CITTA’ DI MILANO che fungeva da nave appoggio della missione artica – il travaso di acqua di zavorra nei vari serbatoi posizionati strategicamente in più punti dello scafo, provocano notevoli variazioni dell’assetto della nave con il risultato che riusciva a divincolarsi miracolosamente dai ghiacci. In effetti, il moderno Krasin ricorda solo vagamente il vecchio Krasin. Oggi, sopra la tòlda appare come una nave moderna mentre lo scafo, probabilmente, è ancora quello originale così peculiare. Certo è che è stata in servizio fino nientemeno che al 1991 come nave per ricerche scientifiche e centrale elettrica galleggiante nell’Artico, poi, dal 1992, è divenuta la filiale del Museo Oceanografico e quindi restaurata con il contributo di società italiane, a tangibile testimonianza della spedizione italiana al Polo Nord.

Il Krasin oggi

Colpisce, ad esempio, il capo montatore Cecioni che, seppure statuario e molto valido nelle attività manuali, viene dipinto come un peso morto piagnucoloso, letteralmente paralizzato dal terrore di essere abbandonato sul pack giacché, con la gamba fratturata, sarebbe incapace di marciare.

Quasi all’opposto invece il marconista Biagi che, riparando la radio con la grafite di una matita, è il vero salvatore della missione. A questo si aggiunge la sua fiducia indefessa verso la tecnologia radiotelegrafica nonché la sua dedizione all’ascolto delle trasmissioni radio. Sarà grazie a lui e alla sua perseveranza che il disperato SOS della missione verrà ricevuto da un radioamatore russo che a sua volta, tramite l’ambasciata russa a Roma, metterà in moto le operazioni di soccorso.

La descrizione dell’ambiente in cui si muovono i protagonisti è dettagliata ma non invadente al punto che si riesce ad avvertire sulla propria pelle un brivido freddo e soprattutto il dramma di chi lo visse davvero.

In queste due vecchie fotografie si possono ammirare le due creature ingegneristiche di Trojani: l’hangar senza tetto di Ny Aalesund che custodì per alcuni giorni di bufera il dirigibie Italia e l’aeronave N4 ribattezzata appunto ITALIA di cui Trojani curò la costruzione e il collaudo. La base si trovava a circa 1200 chilometri dal polo nelle isole Svalbard, così chiamate dai norvegesi riesumando il nome vichingo “Coste fredde”

Come già accennato, la prosa dell’autore è fluida e rende la lettura piacevole anche ad un pubblico adolescenziale. D’altra parte il volume era destinato proprio a quel genere di pubblico e dunque non è escluso che l’editore abbia affidato il manoscritto ad un bravo correttore di bozze per le opportune modifiche … ma questo non lo sapremo mai.

Certamente questo è un libro che non può e non deve mancare nella biblioteca di un appassionato di aviazione e del volo in genere, anche se, in ultima analisi, si tratta di una cronaca di una grande impresa aeronautica dall’esito tragico oltre che al resoconto dell’impresa stessa. Ma, d’altra parte, è risaputo che l’attività pionieristica, l’insaziabile sete di conoscenza e lo sviluppo tecnologico hanno da sempre mietuto – e ancora in futuro mieteranno – il loro tributo di vittime; ciononostante ci piace pensare che chiunque sia stato testimone o artefice di grandi eventi della storia dell’aviazione (e Trojani è sicuramente tra questi), anche di fronte all’insuccesso con risvolti luttuosi, non si perderà mai d’animo e farà della memoria di quell’insuccesso il punto di partenza per imprese ancor con più ardite. In questo senso ci piace anche ricordare quanto Felice Trojani scrisse a chiusura del suo ottimo libro:

“Volai ancora, volai in dirigibile, volai in aeroplano, volai in aliante. Non persi la passione del volo, continuai a sentirne tutta la poesia, ma il mio cuore è rimasto lassù, e ogni altro volo mi è sembrato che fosse la continuazione di quell’ultimo volo”.



Recensione a cura della Redazione

La Coda di Minosse - La verità sulla spedizione di Nobile - Felice Trojani - Copertina
La Coda di Minosse - La verità sulla spedizione Nobile





PASSIONE e i sogni diventano realtà

titolo: PASSIONE e i sogni diventano realtà

autore: Luigi Aldini

editore: Logisma

anno di pubblicazione: 2012

ISBN: 978-88-97530-213





All’inizio degli anni Ottanta, dopo più di un decennio di volo a motore, decisi di fare il corso per conseguire la licenza di pilota di aliante veleggiatore.

Andai a Guidonia e mi iscrissi come allievo. Dato che avevo già una licenza di pilota di aeroplano, le ore necessarie erano solo quattro in doppio comando e tre da solista. Feci l’esame e ottenni la licenza. Il tutto in circa tre mesi. Ma quella licenza ha cambiato il corso della mia vita fino ad oggi.

Il volo a vela, ancor più del volo a motore o del volo ultraleggero, è un mondo meraviglioso. Si vola nel silenzio, con il sottofondo del tenue fruscio dell’aliante che scivola nell’aria, si sale con le ascendenze fino a quote a volte elevatissime, ci si sposta sopra il mondo immersi nella natura.

Volevo fare il pilota militare, da ragazzo. Per una serie di ragioni non c’ero riuscito e allora avevo preso la strada del pilota civile.

Sin da subito avevo scoperto che i piloti come me non avevano proprio tantissimo da invidiare ai piloti militari. Anzi, leggendo tutti i libri di aviazione che riuscivo ad avere, mi meravigliava il fatto che ce ne fossero pochi dedicati al volo civile, al punto che sin dall’inizio avevo maturato l’idea di scriverne uno io stesso. Un libro che parlasse di come volavamo noi degli Aeroclubs, senza missioni di guerra da compiere, senza obiettivi da colpire, senza bombe sotto le ali, senza mitragliatrici e cannoncini armati e pronti a far fuoco. Non avevamo neanche le coccarde di nazionalità. Volavamo per volare e basta.

Un breve stralcio, presente nel risguardo interno di copertina, che riprende uno dei passi più carichi di stupore e di poesia espressi dall’autore

A Guidonia, un giorno, un ragazzo appena atterrato mi disse di aver fatto un volo bellissimo e aggiunse che avrebbe scritto un libro per condividere, con coloro che non sapevano nulla del nostro mondo aeronautico, le emozioni e le sensazioni che per noi erano consuetudine. L’idea mi colpì. Era anche la mia, da molto tempo.

Gli dissi che avrei fatto la stessa cosa.

Lui il libro non lo ha mai scritto. Io si.

Non occorre aggiungere altro rispetto a quanto presente al risguardo interno della copertina. La breve biografia dell’autore non gli rende merito delle molteplici attività aeronautiche svolte fino ad oggi

Scrissi “Zingari del cielo”, un libretto di 135 pagine dove stipai un mucchio di cose tra le più emblematiche del mondo del volo. Mi resi conto di quanto fosse difficile condensare, in poche pagine, fatti che avevano uno svolgimento lungo il corso di anni, sensazioni che un lettore non può immaginare perché non ha termini di paragone, emozioni profonde e personali che non si comprendono se non si fa l’esperienza diretta, volando realmente. Ma non basta andare in volo come passeggeri. Per capire fino in fondo cosa un pilota vuole comunicare, bisogna proprio volare da piloti, con le mani sui comandi.

Tuttavia, nonostante fossi cosciente dell’impossibilità di descrivere con le parole le emozioni del volo, ritenevo doveroso, per chiunque avesse esperienze simili da condividere, farlo attraverso la scrittura di un libro. Inoltre, un libro resta. I ricordi svaniscono. Se non scrivi, nulla resterà del tuo bagaglio di prezioso sapere. Tutti gli altri, che non hanno avuto la fortuna di far parte del tuo mondo e di conoscere ciò che tu sai, saranno privati per sempre della conoscenza di una parte della storia.

Per questo, nel corso degli anni, ho sempre esortato chiunque avesse fatto qualcosa di interessante, a scrivere un libro. E molti lo hanno fatto. Non perché glielo ho chiesto io, lo hanno scritto di propria iniziativa. Lodevole decisione.

Un giorno, a Rieti, uno di questi libri mi è capitato tra le mani. Me lo ha dato l’autore stesso, con tanto di dedica. E questo per me ha significato moltissimo. Ne sono stato oltremodo onorato.

L’autore, Luigi Aldini, è un personaggio di primo piano nella storia del volo a motore, del volo a vela, del volo acrobatico e di tutte le discipline aeronautiche in generale.

La sua attività di pilota e di istruttore, di organizzatore di eventi sportivi aeronautici, di costruttore amatoriale di aerei, si è svolta negli anni, ricevendo apprezzamenti da parte di autorevolissimi e famosi personaggi. Tanto per fare un esempio, quando Luigi Aldini ha costruito un velivolo F8, progetto dell’ingegner Stelio Frati, partendo da zero, modificandolo un po’ e addirittura migliorandolo, il progettista gli ha poi fatto autorevoli complimenti alla fine dell’opera. Una cosa non da poco, considerato che Stelio Frati è stato uno dei più geniali progettisti di cui può vantarsi il nostro paese. I suoi aerei continuano a volare oggi e sono apprezzati nel mondo.

Il libro riporta la storia della costruzione dell’esemplare di Aldini, con tutte le difficoltà che ha dovuto superare.

Noi che frequentiamo l’aeroporto di Rieti abbiamo il privilegio di veder volare quel bellissimo aeroplano, tutto rosso, elegante e velocissimo, pregevole opera di chi lo ha ideato e di chi lo ha costruito.

Il libro racconta tante altre storie, fatti che si sono svolti negli anni e nei luoghi che abbiamo frequentato entrambi. Ci siamo incontrati in alcuni di questi luoghi, ma soprattutto abbiamo vissuto le stesse storie, spesso da posizioni geografiche diverse. Ci siamo avvicendati in un aeroclub come istruttori di volo a vela. Lui non poteva più andare e io sono subentrato al suo posto.

I fatti narrati nel libro ricalcano una buona parte della storia aeronautica degli ultime decenni. E questo rende quella parte di storia visibile, disponibile per chiunque voglia conoscerla. Se Aldini non l’avesse scritta si sarebbe persa per sempre.

Ci sono alcune vicende curiose che vale la pena riportare qui. La storia dei primi approcci al mondo aeronautico, avvenuti negli anni della sua adolescenza, somiglia molto alla mia e credo somigli anche a quella di tanti altri ragazzini che poi sono diventati piloti.

Un altro elemento che abbiamo in comune e che Aldini riporta nel libro è la passione per i trattori. Anch’io, come lui, da ragazzino di pochi anni, subivo il fascino di quelle macchine cingolate. Lui ha fatto restaurare il trattore della sua famiglia. Io mi riprometto di fare altrettanto con il nostro, un giorno o l’altro, appena non sarà più necessario usarlo per i lavori agricoli, come facciamo sin dai primi anni sessanta. Quella cingoletta, come la chiamano al mio paese in Maremma, fa ancora egregiamente il suo dovere.

La retrocopertina del libro di Luigi Aldini, già ospite del nostro hangar con un divertentissimo racconto intitolato: “Incontro tra piloti” che partecipò nel 2013 alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”. Il racconto che rimane tuttora inedito, è un’esclusiva di VOCI DI HANGAR e , in prima stesura, costituiva proprio uno dei capitoli del libro. Purtroppo, in fase di rilettura, è stato preferito stralciarlo in quanto non aveva un deciso sapore aeronautico, Peccato, perchè avrebbe reso ancora più godibile un libro che è già attraversato da una sottila vela ironica ma che in quel captolo avrebbe trovato la sua chicca, la perla splendente che rimane nella mente dei lettori..

Questo libro, nelle sue 248 pagine, parla di tanti episodi. Ma soprattutto parla di noi. Di coloro che operano con l’obiettivo di esercitare, sostenere e far progredire il volo in tutte le sue forme, sostenuti da un solo sentimento che si chiama passione. E questa parola è appunto il titolo del libro.

Quando qualcuno mi chiede di scrivere una dedica su uno dei miei libri, spesso mi trovo in difficoltà. Per me è più facile trainare un aliante che scrivere una dedica.

Ma nel libro “Passione” che Luigi Aldini mi ha dato, anche la dedica è quanto di più appropriato potesse aver scritto. Tutto il contenuto del libro, tutte le storie narrate con il suo stile scorrevole e mai pesante, mi è noto per aver fatto parte di quel mondo in un modo o nell’altro. Anche il gran numero di fotografie che corredano i capitoli, potrei averle scattate io stesso perché conosco i luoghi e spesso molte delle persone ritratte. O gli aerei e gli alianti, che non soltanto conosco, ma su molti di essi ho volato per parecchie ore.

La dedica che l’autore ha regalato a Evandro Detti

La dedica dice: “A Evandro, collega istruttore che potrà così riconoscere alcuni momenti comuni”. Non avrebbe potuto scrivere una dedica più appropriata.

Consiglio questo libro a chiunque sia, in qualche modo, appassionato di volo. A chiunque abbia un minimo di Passione.

Ma lo consiglio ancor di più a tutti i piloti che fanno parte oggi del nostro mondo aeronautico. Oltre ad imparare molte cose sulla nostra storia… ci si potrebbero riconoscere.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)





I falchi del deserto

I falchi del deserto copertinatitolo: I falchi del deserto

autore: Sergio Flaccomio

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1959

ISBN: non disponibile





Come si legge sulla copertina del libro, una edizione Longanesi § C., si tratta dei ricordi di un pilota d’assalto italiano nei cieli infuocati dell’Africa Settentrionale.

Infatti il volumetto contiene una lunga serie di racconti di guerra, ambientati in quel teatro drammatico quale è stato quello libico.

Se dovessi sintetizzare in poche parole l’intero libro direi che, fondamentalmente, si tratta dell’ennesima testimonianza di come, in quegli anni, si siano contrapposti due elementi: l’eroismo degli italiani in guerra (in qualunque corpo e in qualunque luogo), costretti a combattere una guerra che non sentivano come loro, senza equipaggiamenti e senza organizzazione e la diffusa sciatteria e meschinità, inadeguatezza e, a volte, criminale colpevolezza di coloro che stavano ai vertici del potere politico italiano.

i falchi del deserto copertina interna
La copertina interna de; “I falchi del deserto”, volume di memoria storica ma anche di denuncia

Il libro è scritto da un pilota, cioè da un combattente che poteva vedere le cose dall’alto. Un punto di vista elevato, dal quale era più facile avere una visione d’insieme. In particolare, all’autore appariva ben evidente quale fosse il terreno sul quale si combatteva, l’orografia del paesaggio, le distanze, enormi e spesso costituite da solo deserto, le frequenti tempeste di sabbia e la loro grande estensione, la distanza dal mare degli accampamenti di fortuna nei quali i soldati erano precariamente sistemati etc. Gli aeroporti erano semplici strisce di deserto, livellate alla meglio.

Uno dei pochi scatti disponibili in rete che ritrae un CR42 Falco in volo. Lo abbiamo trovato nell’ottimo sito fotografico http://www.wwiiaircraftphotos.com. E dire che il Falco – come tutti i biplani – era a dir poco molto fotogenico

Gli aerei di cui parla il nostro pilota erano i CR 32 e 42. Biplani, superati ormai da anni, ma che il governo di allora manteneva in produzione, probabilmente per non scontentare qualche personaggio dell’industria. Ma intanto gli alleati, gli Inglesi prima e gli americani dopo, avevano aerei molto più performanti, terribilmente meglio armati, veloci, maneggevoli e dotati di maggiore autonomia.

Contro questi aerei i nostri piloti andavano ad ingaggiare combattimento, spesso in numero molto inferiore, magari ad alta quota, con l’handicap delle cabine aperte, senza protezione adeguata dal freddo e spesso senza neanche l’impianto dell’ossigeno.

Sempre proveniente dal sito http://www.wwiiaircraftphotos.com, ecco una singolarissima immagine della cabina di pilotaggio ripresa dal dorso dell’ala superiore. Inutile dire che i piloti amarono molto il CR42 per la sua formidabile maneggevolezza ma che soffrirono il suo scarso armamento, l’autonomia limitata e la velocità non paragonabile con i caccia nemici con i quali si dovettero confrontare. Ormai, a distanza di tanti anni, i loro ricordi, le loro esperienze si possono trovare solo nei libri di storia come quello di Sergio Flaccomio, appunto.

Questo descrive il libro.

Una lettura, ancora una volta, illuminante. L’eroismo è una cosa. La capacità strategica e la dotazione tecnica sono un’altra faccenda.

Si percepisce chiaramente, anche dove non viene detto esplicitamente, quanto fosse sofferta una simile situazione. E si coglie anche una sorta di fatalismo, di rassegnazione, nei confronti di tragici episodi, frequentissimi, dove si moriva, si restava feriti gravemente, ci si salvava per pura casualità.

Lo stesso progettista (l’ing Celestino Rosatelli) considerò il suo Falco un ottimo progetto ma tecnologicamente incapace di tenere testa a macchine più moderne benché minate da quei problemi di messa a punto, difetti progettuali e complicazioni tecniche di cui il Falco era pressoché privo. Quel divario tecnologico provarono comunque a colmarlo i piloti della Regia Aeronautica che, poco e male armati (due mitragliatrici SAFAT da 12,7 mm. montate sulla cappottatura motore, sincronizzate e sparanti attraverso il disco dell’elica con 400 colpi ciascuna) ricorsero spesso all’”acrobazia difensiva” piuttosto che all’esubero di potenza del modesto quanto onesto motore (un FIAT A.74 R.1C.38 con circa 840 cavalli). Così equipaggiati tentarono di tenere testa agli Hurricane, agli Spitfire. E se questo non fu uno scontro impari … (foto fornita da http://www.wwiiaircraftphotos.com)

E non si poteva in alcun modo protestare. La più lieve parvenza di critica sarebbe stata considerata disfattismo.

Due sono gli elementi che descrivono meglio l’inadeguatezza della politica italiana e tedesca in quella disgraziata guerra del Nord Africa.

Il primo riguarda il fatto che tutti i convogli di navi ed anche le squadriglie di aerei che dall’Italia dovevano rifornire, di truppe e materiali, il Nord Africa, erano soggetti agli attacchi, per mare e per aria, dalla vicina Malta, che non si era pensato di dover neutralizzare prima. Ci si era provato, ma con il pressappochismo e l’improvvisazione soliti, per cui Malta era rimasta lì. Risultato: tantissime navi affondate, squadriglie di aerei, da trasporto e non, abbattuti, migliaia di militari e civili morti e preziose merci perdute. Per anni.

Nel corso del II conflitto mondiale, se è vero che la ridotta incisività bellica della Regia Aeronautica – opinione diffusa e condivisa degli storici dell’aviazione – fu minata inesorabilmente anche dal gran numero di velivoli disponibili in termini di modelli e allestimenti – spesso validissimi per il voli da record ma assai meno poco per scopi militari – è altrettanto vero che il FIAT CR42 Falco costituì la panacea a tutti i problemi di impiego operativo cui l’Arma azzurra dovette fare fronte. Ed ecco allora che Il Falco diventò caccia notturno, cacciabombardiere, intercettore, aeroplano d’assolto per l’attacco al suolo e appoggio alle truppe di terra, antiguerriglia, disturbatore notturno, velivolo aviotrasportato, traino alianti, addestratore e – poco mancò – addirittura idrocaccia e aerosilurante. Per farne un caccia notturno o disturbatore notturno si presuppone almeno che fosse dotato di adeguato strumentazione per il volo notturno e invece … Un cacciabombardiere che trasporta due “bombette” da 100 chili ciascuna e che per farlo deve rinunciare ad una delle due mitragliatrici, può davvero continuare a chiamarsi “caccia” e anche “bombardiere”? Di sicuro l’italica capacità di adattarsi agli eventi più improbabili non venne meno quando, dovendo trasferire la bellezza di 52 velivoli fino al fronte dell’Africa Orientale, i CR42 furono disassemblati, infilati nella capiente stiva del SM82 Marsupiale (antesignano del blasonato C5 Galaxie statunitense) e lì aviotrasportati. Dovendo poi sostituire gli ormai vetusti idrovolanti IMAM Ro.43/44 chi pensate che fu proposto? … ma certo! Il CR42 versione idrovolante giusto appunto denominato ICR42. Fortunatamente non se ne fece nulla, salvo un prototipo. E se invece delle bombette da 100 kg piazzassimo un proiettile d’artiglieria navale da 381 mm denominato “bomba 630PD”, (P)erforante e (D)irompente del peso di 630 kg? Avremmo creato un nuovo caccia-aerosilurante. Anche in questo caso, fortunatamente, non se ne fece nulla. E se, al posto dell’ingombrante motore radiale Fiat montassimo il favoloso motore in linea Daimler-Benz DB601? … beh, otterremmo un Falco capace di volare a 500 km/h ma nulla più. No, meglio destinare i preziosissimi motori tedeschi alle cellule dei Macchi Mc.202 e i Reggiane Re.2001. Fortunatamente il Fiat Cr.42DB601 rimase solo allo stadio di prototipo e i famosi motori equipaggiarono effettivamente caccia moderni. (http://www.wwiiaircraftphotos.com)

Un po’ di numeri. Il Fiat CR42 Falco fu l’aeroplano più costruito dall’industria aeronautica italiana durante tutto il periodo bellico: un totale complessivo di circa 1800 esemplari assemblati con una cadenza mensile attorno ai 50 mensili. Se si tiene conto del decennio a cavallo dal ’34 al ’44, questo modello velivolo costituì da solo il 20% della produzione aeronautica nazionale. E dire che ne furono realizzati pure altri a beneficio di alcune alle forze aeree straniere. Il 10 giugno 1940 – momento dell’entrata in guerra dell’Italia – questo fu il velivolo che rappresentò il 40% dei caccia di pronto impiego della Regia Aereonautica. Cesserà di essere utilizzato nel ruolo di addestratore biposto nell’ambito dei Centri Addestramento al Volo delle Z.A.T. (Zone Aeree Territoriali, ossia le attuali regioni aeree chiamate zone aeree) dalla rinata Aeronautica Militare italiana nel ’52. In altri termini, un buon 70% dei piloti della vecchia nonché della nuovissima Aeronautica italiana “metteranno le ali” sul biplano di Celestino Rosatelli. (http://www.wwiiaircraftphotos.com)

L’altra questione riguarda la geografia del teatro di guerra. Il nemico era stato respinto attraverso migliaia di chilometri, dalla Libia verso l’Egitto. Negli anni le vicende di guerra sono state altalenanti, con perdite e riconquiste di posizione continue. Chi vuole si può documentare meglio attraverso tanti libri. Ma in sintesi, alla fine, il nemico si stava ritirando verso l’Egitto. Mancavano davvero poche decine di chilometri dal confine. L’autore descrive l’arrivo di un’altissima personalità del regime, con macchine al seguito e perfino un cavallo bianco. Si era portato anche la spada dell’Islam che gli era stata donata. Era pronto a fare il suo ingresso trionfale ad Alessandria d’Egitto.

Peccato che nel suo genio strategico non abbia fatto caso che, durante la ritirata, il nemico si avvicinava alla sua roccaforte, con maggiore abbondanza e rapidità di rifornimenti, con più possibilità di sostituzione delle truppe stremante con forze fresche. Mentre per Italiani e tedeschi avveniva il contrario. I rari rifornimenti, quando arrivavano, prendevano terra in Libia, poi dovevano percorrere migliaia di chilometri per raggiungere il fronte avanzato, con i rischi che c’erano. Alle porte dell’Egitto l’epilogo è stato quello che tutti conoscono. L’altissimo personaggio dovette tornare indietro senza neppure il cavallo bianco.

Il Fiat CR42 Falco fu la creatura volante meglio riuscita e prodotta in maggior numero di esemplari che partorì la mente geniale dell’ingegnere reatino Celestino Rosatelli. Alla fine degli anni ’30, divenuto capo dello studio di progettazione aeronautica della FIAT di Torino, Rosatelli creò probabilmente il migliore biplano della storia dell’aviazione … peccato che fu anche l’ultimo. Nato come progetto migliorato del suo precedessore CR32 Freccia, il Falco era vetusto già quando compì il suo primo rullaggio sulla pista di Torino Aeritalia nel maggio del ’38 e il confronto con i monoplani avversari fu sempre impari. In questo scatto memorabile quanto inusuale (http://www.wwiiaircraftphotos.com) si può intuire la linea di montaggio del Falco organizzata negli enormi capannoni della FIAT.

Quanto somigliano, le vicende di allora, a quelle di oggi.

Di sicuro, parlando con tante persone, ci potranno essere molti convinti che le cose siano interpretabili in altri modi. E ognuno fornirebbe la propria chiave di lettura.

Ma qui parliamo di un libro. “I falchi del deserto” parla di quelle vicende e il suo autore ci offre la sua pacata e diplomatica (a volte non tanto) chiave di lettura.

I falchi del deserto retrocopertina
La retrocopertina dello splendido libro di Sergio Flaccomio, autore anche del volume: “… Obbedire e combattere … senza credere”, pubblicato sempre dalla casa editrice Longanesi nel 1966.

Sergio Flaccomio è toscano. E anch’io lo sono. Nonostante ciò, spesso ho fatto un po’ di fatica a seguirlo, nei suoi modi prudenti, fatti di frasi idiomatiche, che capisco certamente, ma la sua toscanità è un po’ più antica della mia. Non fa molto uso delle virgole. Tuttavia, anche in questo libro come è stato per altri, ho ritrovato gli stessi fatti, descritti da altri autori. Mi è sembrato di ripercorrere strade e ambienti già conosciuti. Soltanto visti con altri occhi e da un’angolazione leggermente diversa.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)





L’U-2

titolo: L’U2 

sottottolo: I retroscena del più esplosivo caso di spionaggio del nostro secolo

autore: David Wise e Thomas B. Ross

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1963

ISBN: non disponibile





Ecco un libro molto interessante e che varrebbe la pena di andare a cercare su internet o sulle bancarelle dei mercatini. L’edizione in mio possesso è quella con la copertina rigida e senza illustrazioni. Né la ricopre una sovra copertina come è d’uso in questi casi. Il titolo, poi… “L’U-2”, sembra fare riferimento al gruppo musicale U2.

Invece si tratta di uno splendido lavoro, un resoconto dettagliatissimo di una vicenda avvenuta all’inizio degli anni cinquanta, continuata fino ai primi anni sessanta, in piena guerra fredda tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Una vicenda di spionaggio, ma non banale come può essere quella di informatori inseriti nella società del paese nemico. Qui si parla di un pilota americano che, a bordo di un aereo, sorvola il territorio sovietico e fotografa i siti più segreti, dove si pensa possano esistere infrastrutture capaci di nascondere armi nucleari.

Una delle rare immagini d’epoca dell’U-2. Rare perchè il programma fu subito classificato “segreto” e il velivolo fu presentato alla stampa quando era operativo già da qualche anno. Rare perché, almeno all’inizio della loro attività spionistica, i velivoli non erano dotati di contrassegni dell’USAF e i vari componenti che costituivano il velivolo erano completamente anonimi. Questo affinchè, in caso d’incidente, non consentissero di risalire al loro costruttore a stelle e strisce. Inizialmente anche i piloti, ovviamente militari, venivano momentaneamente congedati dall’USAF e formalmente “civilizzati” in quanto alle dirette dipendenze della CIA (Central Intelligence Service), la famosa agenzia spionistica statunitense. Così almeno le apparenze erano salve.

 

Il pilota è un normale ragazzo, nato e vissuto in campagna da una famiglia di umile lignaggio. La sua storia è altrettanto normale: si arruola in aviazione e poco dopo finisce in un gruppo di piloti ai quali viene affidato un compito speciale. E qui comincia l’avventura, che all’inizio sembra normale routine, ma poi…

L’aereo, invece, non è normale.

I mutati scenari internazionali, l’avvento dei famosi droni (velivoli a pilotaggio remoto senza pilota a bordo) e l’elevato costo di gestione degli U-2, unito alla vetustà della flotta disponibile, aveva indotto l’USAF (l’Aviazione militare statunitense) a programmare la loro progressiva radiazione entro il biennio 2019-2020 tuttavia, secondo indiscrezioni giornalistiche trapelate nel marzo del 2017, sembrerebbe ormai certo che il gioellino della Lockeed rimarrà in servizio ben oltre quella data e anzi godrà di nuova vita. La ditta di Skunk Works in Palmdale, California, sta infatti collaudando una cospicua serie di aggiornamenti degli apparati avionici di bordo, in particolare sensori e sistemi di comunicazione, un nuovo sistema di difesa, un rivoluzionario apparato offensivo di guerra elettronica, un nuovo radar avanzato e molto altro ancora che non ci è dato sapere ma che – e questo invece è una certezza – renderanno questo velivolo insostituibile per diversi anni. Ne ha dato indirettamente conferma Kyle Franklin, il nuovo responsabile della Lockeed per il programma U-2 che, intervistato al riguardo, ha dichiarato con il tono di chi la sa lunga: “C’è ancora molta pista per questo jet” e ha aggiunto, a conferma della portata enorme delle modifiche apportate al velivolo: “Potremo offrire un salto quantico delle sue capacità operative”. Staremo vedere.

E’ un jet, uno di quelli del primo periodo. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli aerei ad elica furono sostituiti dai jet, i cui motori a reazione consentivano di raggiungere velocità ed altezze nettamente maggiori. E già questo è un fatto speciale.

L’autonomia dei jet è ancora oggi molto limitata. Questo aereo, invece, può rimanere in volo moltissime ore.

Normalmente i jet raggiungono una quota massima di dieci o dodicimila metri. Forse qualcosa oltre. Nel mondo intero, nessuno, in quel periodo era in grado di salire di più.

Questo aereo vola tranquillamente a ventuno mila metri, ma potrebbe raggiungere i ventiseimila. Infatti il pilota usa una tuta speciale che ricorda le odierne tute spaziali.

Se il nomignolo “Dragon Lady” è stato sicuramente tratto dal nome del personaggio di un fumetto di grande successo negli anni ’50, la denominazione U-2 è avvolta letteralmente nella leggenda. Normalmente il programma di sviluppo di un nuovo aeromobile, cioè progettato e costruito completamente ex novo, prevede delle procedure di verifica intensive del prototipo; occorre verificarne le doti di volo, la bontà di pilotaggio e dunque la corrispondenza dei dati di progetto con quanto realizzato. Anche il prototipo dell’U-2 non venne meno a questa sacra regola e quindi, prima di procedere alle prove in volo vere e proprie, il velivolo fu sottoposto ad una verifica preliminare: un semplice rullaggio veloce. Pare – e sottolineiamo pare – che, a causa dell’ala con il forte allungamento (e dunque bassissime velocità di decollo/atterraggio), il collaudatore dell’epoca, certo LeVier, si trovò improvvisamente in volo anziché correre solamente lungo la pista iperchilometrica. La disavventura non rimase inosservata (possiamo solo immaginare quanti occhi fossero puntati addosso all’U-2) tanto che lo stesso progettista Clarence Johnson, via radio, lo invitò perentoriamente a tornare a terra. Ne seguì un risposta ugualmente seccata di LeVier il quale replicò che, nonostante picchiasse con convinzione, il velivolo continuava a galleggiare imperterrito. All’ennesimo rimbrotto di Johnson, seguì un violento battibecco tanto che il collaudatore – alquanto scocciato – decise di portare l’U-2 fino all’assetto di stallo per averne ragione. La manovra sorti l’effetto desiderato e i velivolo toccò finalmente l’asfalto – aggiungiamo noi – non proprio delicatamente. Giunto al parcheggio, la discussione tra i due riprese ancora più virulenta tanto che il botta e risposta si fece esponenzialmente più scurrile. Esasperato, LeVier sbottò urlando: “Che diavolo stavi cercando di fare? … ammazzarmi?” Non ricevendo risposta alcuna, il pilota collaudatore mostrò un inequivocabile indice medio verso l’alto e aggiunse: “Beh, vaf*****lo”. Letteralmente fuori di sé il progettista replicò ruggendo: «E vaf*****lo pure tu» Pare – e sottolineiamo pare – che quell’intercalare “anche tu” o meglio, “you too” in inglese, divenne dapprima il nomignolo dell’aereo e poi addirittura il suo codice identificativo. Pare – e sottolineiamo pare -. Nella splendida foto possiamo ammirare l’armonia delle forme dell’U-2 che è tipica degli alianti cui idealmente s’ispira.

 

 

Le ali dei jet sono normalmente piuttosto corte. Questo jet ha ali lunghissime, da aliante. Un motoaliante, per essere più precisi. Ma molto, molto più grande.

A bordo non ci sono soltanto gli strumenti tipici degli aerei. C’è un autopilota capace di seguire un percorso estremamente preciso. Ci sono apparati fotografici capaci di riprendere immagini del suolo assolutamente nitide. Sorprendentemente dettagliate.

Il nome dell’aereo è: U-2.

Nel periodo in cui l’U-2 veniva impiegato per i voli sull’Unione Sovietica, a quella quota, era difficile da rilevare. Spesso non veniva neanche visto. E poi non esistevano aerei in grado di salire lassù per abbatterlo.

Neanche i missili potevano raggiungerlo e colpirlo con la necessaria precisione.

Ma un giorno l’impensabile accade. Un missile lo raggiunge. Non lo colpisce direttamente, ma gli esplode vicino. Tanto basta perché l’aereo venga destabilizzato e cada in una specie di vite. Il pilota si lancia e atterra sul territorio sovietico. Ne segue un incidente diplomatico molto complesso.

E’ noto che la designazione degli aeromobili dell’enorme flotta delle forze armate statunitensi, dalla notte dei tempi fino ancora ad oggi, segua una logica ben precisa. Ad esempio, i velivoli che godono del prefisso “F” sono dei “fighter” (caccia), i velivoli che sono identificati con la “B” sono dei “bombardment” (bombardieri) oppure “C” per “cargo” (trasporti) e così via. Possiamo immaginare l’imbarazzo dei militari dell’USAF quando, dovendo denominare il nuovo aeroplano della Lockeed, non riuscirono a trovarne la giusta collocazione. Già dalle prime fasi embrionali, il programma U-2 fu classificato come segreto e dunque la soluzione del problema non fu così assillante. Pungolata però da una serie continua di indiscrezioni giornalistiche, di insinuazioni diplomatiche e da una selva di cosiddetti “rumors”, nel corso del 1959, l’USAF si decise a presentarlo finalmente alla stampa. A quel punto il problema andava risolto, il dilemma si riapriva. Certo, un ricognitore strategico ad alta quota sarebbe stato di difficile denominazione, specie se dotato – così com’era dotato – di apparecchiature fotografiche ad alta definizione con pellicole chilometriche a colori sensibili ai raggi infrarossi, soprattutto se aveva degli innocui quanto avanzatissimi congegni capaci di rilevare le emissioni radar e le trasmissioni radio nonché imprecisati apparati di guerra elettronica. Per non parlare dei sensori che rilevavano la radioattività dell’aria. Insomma non esisteva una designazione specifica per un aereo da spionaggio che non poteva essere dichiarato tale. Fu allora che qualche faccia di bronzo dell’amministrazione USA – probabilmente della CIA -, colto da una sfrenata fantasia, scovò la soluzione geniale quanto patetica:  quello dell’U-2 era o non era un programma segreto? … dunque nessuno, salvo gli addetti ai lavori e i militari, conoscevano queste informazioni. In fin dei conti, ufficialmente, era o non era un velivolo per ricognizione meteorologica? Era o non era destinato alla raccolta dati per gli studi sull’alta atmosfera e le sue “correnti a getto”? E i raggi cosmici? E la turbolenza atmosferica in aria serena? Sempre quella faccia di bronzo della CIA sentenziò: “U” come “utility”! Da qui a “U-2” il passo fu immediato … e il gioco era fatto!? Intanto godiamoci lo scatto meraviglioso che ha colto l’U-2 in fase di atterraggio con i flaps abbassati e gli aerofreni estesi. La foto è stata scattata probabilmente dal personale addetto a prestare assistenza al suolo al velivolo in quanto, una volta arrestata la sua corsa, le tips alari tendono a toccare la pista e dunque necessitano di qualcuno (a bordo di un veicolo) che le sostenga.

 

Il pilota si chiama Francis Gary Powers. E adesso molti possono ricordare qualcosa, perché questo episodio ha impressionato il mondo intero in quegli anni.

Powers venne scambiato, alla fine, con una spia sovietica catturata in America e tornò a casa.

Il libro comincia con la descrizione di questo scambio. Poi la storia ritorna all’inizio e si snocciola lungo tutti i capitoli successivi.

L’aspetto straordinario dell’egregio lavoro dei due autori è l’accuratezza dei dettagli. Segno evidente che hanno avuto a disposizione ogni possibile documento. La lettura ne risulta davvero piacevole.

C’è un’altra leggenda che aleggia attorno all`U-2. Quando la Lockeed cominciò a sviluppare il programma del rivoluzionario ricognitore di alta quota, l’eccezionale grado di segretezza industriale e militare impose ai vertici dell’azienda di trovare un luogo lontano da occhi indiscreti ove procedere ai voli prova e a tutte le operazioni di messa a punto inevitabilmente necessarie. La base abituale dei voli di prova della Lockeed, situata presso la base USAF di Edwards, non si prestava certo allo scopo e dunque, assillati da questa necessità, Clarence Johson, il progettista dell’U-2 e Tony Effe, il miglior collaudatore della Lockeed, partirono alla volta degli aeroporti o di potenziali siti presenti nelle aree interne e piu desolate del sud ovest del paese. Non ne trovarono e questo benché avessero girato in lungo e largo. Quando ormai la disperazione stava prendendo il sopravvento, Johnson si ricordò del racconto che gli aveva fatto tempo prima un funzionario della CIA che, nel corso della II Guerra Mondiale, aveva svolto il suo addestramento in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Si trattava di un angolo sperduto del poligono di tiro della Nellis Air Force Base in Nevada; a quei tempi faceva parte del NTS (Nevada Test Site) per i test nucleari. Lì sul greto di un antico lago salato, Il Groom Lake, giaceva un piccolo nucleo di infrastrutture ex militari ormai in stato semifatiscente ma recuperabili; c’era ancora la vecchia pista dell’aeroporto con un fondo compatto e già pronto per velivoli di grossa stazza …. Insomma l’ideale per le necessità della Lockeed. E non solo. Quel luogo prese il nome di Watertown . A distanza di alcuni anni divenne il luogo deputato per lo sviluppo e la custodia ideale di tutti i programmi segretissimi delle Forze Armate statunitensi che succedettero quello dell’U-2. Praticamente a tutt’oggi. E per segretissimi intendiamo dire anche sedicenti navi aliene comprese. Oggi – sorpresa sorpresa – quello stesso luogo è famoso come “Area 51”.

Un punto che mi ha interessato notevolmente riguarda l’abbattimento dell’U-2. Il pilota aveva a disposizione il classico seggiolino eiettabile, sebbene non certo del tipo perfezionato come quello dei caccia militari odierni. Ma sapeva anche che al meccanismo di espulsione del seggiolino era collegato un sistema di distruzione dell’aereo. Per paura di esplodere mentre si eiettava, Powers apre la cappottina e si lancia in maniera tradizionale, anche se con notevole difficoltà e a quota ormai piuttosto bassa.

Benché il servizio di spionaggio statunitense possa contare su una formidabile rete satellitare, l’U-2 “Dragon Lady” rimane ancora oggi il suo migliore strumento di osservazione e foto-video-ripresa, specie in quei scenari in cui occorra una presenza continua ma discreta. Il velivolo, infatti, a differenza dei satelliti che consentono una “copertura” dell’obbiettivo solo di pochi minuti, è in grado di volare ad altissime quote intorno ad esso, per lunghi periodi temporali e pressoché indisturbato. Non male per un ricognitore strategico che compì il suo primo volo nel lontanissimo 1955. In effetti per correttezza d’informazione, occorre precisare che al primo lotto di 20 velivoli costruiti al “modico” prezzo di 20 milioni di dollari cadauno, sono seguiti, nel corso dei decenni successivi, altri lotti di U-2 puntualmente migliorati e pesantemente modificati pur mantenendo l’architettura di base del prototipo portato in volo appunto nel ’55.

All’aeroporto di Ciampino, qualche decennio fa, atterrò un U-2. Non credo fosse più un aereo-spia. Piuttosto poteva essere davvero usato per rilevamenti atmosferici. Veramente, anche durante il suo impiego come aereo-spia veniva presentato allo stesso modo. Ma a Ciampino chiesi di salire a bordo. C’era una scaletta e mi dissero che potevo salire. La cabina non era molto spaziosa. Le ali erano lunghissime e sostenute da ruotine aggiuntive, dato che il carrello era monotraccia, un po’ come il motoaliante Falke. Ma le punte delle ali arrivavano davvero molto vicine al suolo, come piegate sotto il loro stesso peso. Ricordo con particolare vividezza una specie di tasca laterale dove c’erano un certo numero di albi di fumetti in inglese.

Il pilota, evidentemente, cercava di passare il tempo e di vincere la noia delle lunghe ore a quote così enormi da vedere ben poco della terra.

Sin da subito l’U-2 non piacque ai piloti. In un epoca in cui l’obiettivo dichiarato della tecnologia aeronautica era quella di superare la barriera del suono (il successo dei voli del X-1 era stato raggiunto solo dieci anni prima) e tutte le forze aeree, in particolare quella statunitense, ambivano a dotarsi di velivoli veloci o addirittura velocissimi, maneggevoli, caratterizzati da corte semiali a freccia, dotati di motori potentissimi (addirittura con post-bruciatore), armati di missili a guida infrarossa e con seggiolino eiettabile Martin Baker di ultima generazione, ebbene … ecco che veniva affidato loro un velivolo che era esattamente l’opposto. L’U-2 era enorme benchè avesse un solo pilota a bordo. Era tutto fuorchè maneggevole a causa dell’apertura alare spropositata.. L’ala era così allungata che, affinché non toccasse le estremità sulla pista, era stata dotata di appositi ruotini sganciabili dopo il decollo . Delicati e complicati da gestire, quasi una iattura. Inoltre quell’ala enorme aveva delle criticità congenite che la facevano galleggiare all’inverosimile (con relativi problemi in atterraggio) a bassa quota mentre stallava facilmente alle alte quota se il pilota accennava manovre brusche. E il carrello? vogliamo parlare del carello? … assolutamente inconsueto per un aeroplano militare: monotraccia e con il ruotino centrale talmente alto che sollevava pericolosamente il muso mentre quello posteriore era molto piccolo e delicato. Tutto sembrava studiato per lasciare ben poca visuale in avanti allo sventurato pilota. Praticamente come atterrare con uno spillo mentre si deve tenere una pertica in equilibrio.  Vogliamo poi parlare dell’abitacolo? A dir poco spartano! Mancando la pressurizzazione, il pilota era costretto a indossare una tuta e un casco del tutto simile a quella dei suoi colleghi astronauti. Ora, che I piloti dell’epoca fossero avvezzi all’uso del casco, della maschera e delle prime rudimentali tute anti G, è vero … ma il casco da astronauta con aiutava certo i movimenti , soprattutto in atterraggio e in volo (il pilota doveva osservare in un visore ottico l’area oggetto delle riprese fotografiche prima di far partire le pellicole) Anche le dotazioni di sopravvivenza non rassicuravano certo il pilota: nella prima serie di U-2 non era previsto il seggiolino eiettabile mentre il velivolo non era dotato di alcun sistema di difesa. La quota elevatissima cui volava era la sua unica protezione. A questo punto penserete che, almeno il motore, fosse affidabile e ben proporzionato al velivolo … nemmeno! Premesso che era una pulce se confrontato con la massa a vuoto e, soprattutto quella al decollo, la necessità di ridurre i consumi avevano imposto la scelta di un motore appena adeguato alla cellula ma non certo capace di esubero di potenza. Solo nella seconda generazione di U-2 il motore fu potenziato ma sempre e comunque configurato per funzionare al meglio nelle condizioni di aria molto rarefatta in cui era destinato ad operare prevalentemente. Quanto poi ai problemi di rimessa in moto ad alta quota dopo le lunghe planate a motore spento … beh, l,U-2 ne soffrì, ivi compresa nella situazione tragica che vide coinvolto lo sfortunato Gary Powers. Infine, come tutti i programmi particolarmente originali e rivoluzionari, l’U-2 fu protagonista di diversi incidenti catastrofici e diversi piloti persero la vita durante il loro impiego operativo tuttavia, a distanza di tanti anni, appare evidente che la bontà di questa macchina volante e le sue capacità operative rimangono inalterate. Ad ogni modo un dato è certo: la vista della Terra da bordo dell’U-2 è semplicemente fantasmagorica!

 

 

 

Ho visto decollare quell’U-2. In volo, il diedro negative delle ali era molto meno evidente.

Dal punto di vista aeronautico l’U2 costituisce un caso quasi isolato se non a dir poco singolare nella storia delle costruzioni aeronautiche per uso militare.
L’idea che fu alla base del progetto del geniale capo-progettista della Lockeed, certo Clarence L. (Kelly) Johnson, fu semplice e funzionale: progettare e costruire un aereo che era letteralmente alle antipodi rispetto a un’altra sua recente creatura come il velocissimo e potentissimo intercettore  F104 Starfighter. L’U-2, viceversa, avrebbe dovuto essere un aeroplano capace di volare a quote talmente elevate da non poter essere intercettato dai caccia né dai missili antiaerei lanciati da terra, che consumasse poco per avere un autonomia notevolissima (all’epoca prerogativa solo dei grandi bombardieri strategici), che fosse dotato di un solo membro dell’equipaggio, leggero e con un enorme carico pagante (costituito dagli apparati spionistici più assortiti).
Sul tavolo da disegno del sig Jonhson si materializzò allora una sorta di grandissimo aliante (ben 31 metri di apertura alare con un allungamento impressionante) motorizzato da una piccola turboventola (per niente assetata di carburante) che gli consentiva di raggiungere la ragguardevole quota di tangenza pratica di 85 mila piedi (circa 26 mila metri) portandosi addosso la bellezza di circa 10 mila chili di carico bellico utile. Ovviamente il progettista studiò tutto con esasperante minuziosità affinché potesse ottenere la massima robustezza con il peso minore possibile. Neanche a dirlo, anche nell’allestimento della cabina era bandito il superfluo.
Tutti questi sforzi furono comunque coronati da successo perché il grande aliante a motore conseguì un’autonomia accreditata di circa 6 mila chilometri che, ricorrendo alle sue spiccate doti aliantistiche, potevano essere incrementate ulteriormente spegnendo il motore e planando per lunghi tratti.
Della serie: quando i sacrifici pagano! In questo scatto fenomenale è possibile ammirare l’autoritratto del pilota a bordo dell’U-2. Comodo, vero?

 

 

Un libro da leggere e tenere nella propria libreria anche questo. Un libro che parla di spionaggio, ma anche di diplomazia al lavoro, per cercare di mantenere equilibri delicati fra nazioni potenti, i cui capi stanno costantemente con il dito su un pulsante che potrebbe scatenare l’apocalisse.

Gli sarà sufficiente la pista? E possibile vedere da vicino l’U-2 nel bel film diretto da Steven Spielberg intitolato: “Il ponte delle spie”e uscito nei cinema nel 2015, 

 

Questo è il pericolo che abbiamo corso e che corriamo anche adesso.

Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)


L'U-2





Il padrone del cielo

il padrone del cielo - copertinatitolo: Il padrone del cielo

autore: James Edgar Johnson (Johnnie Johson)

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1959

ISBN: non disponibile





Da pochi giorni mi è capitato per la prima volta tra le mani questo libro. Avevo letto moltissimi altri libri riguardanti la Seconda Guerra mondiale e in particolare la storia delle battaglie aeree in Europa. Già Pierre Clostermann, con il suo “La Grande Giostra”, aveva descritto tutta la guerra, vista dal suo posto privilegiato nella cabina di pilotaggio del suo Spitfire prima e dei suoi Typhoon e Tempest dopo.

Spitfire ala corta
Gli Spitfire furono costruiti in grandissimo numero e in moltissime versioni contraddistinte, secondo la numerazione della RAF, con l’indicativo MK. Non stupisce perciò che esista, a tutt’oggi, un notevole numero di velivoli perfettamente volanti in ogni angolo del mondo, alcuni restaurati, altri costruiti ex novo e motorizzati con motori moderni. Innumerevoli anche gli Spitfire conservati nei musei dell’aviazione tra cui, in Italia, ricordiamo quello presente a Vigna di Valle (provincia di Roma, sulle rive del lago di Bracciano), sede del Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana. Lo Spit, infatti, prestò servizio anche nella rinata Arma azzurra.

Tutti coloro che hanno scritto libri su questo argomento avevano avuto cura di cominciare proprio dall’inizio, dalla scuola di volo e successivamente dalla battaglia d’Inghilterra, per proseguire negli anni successivi e continuare poi con lo sbarco in Normandia e la lunga marcia verso Berlino. Tanto era il mio interesse per questo argomento che l’ho affrontato con diversi tipi di approccio. Come appassionato di fotografia ero in possesso di tanti libri scritti da famosi fotoreporters di guerra, primo fra tutti Robert Capa. L’approccio fotografico mi ha portato a collezionare centinaia di foto della guerra. E successivamente, da appassionato di viaggi, nel corso degli anni ho visitato ripetutamente i luoghi che avevo trovato descritti da tutti questi autori nei loro libri, fotografici e Spitfire in picchiatanon.

Spitfire visto da sotto
Una serie di bellissimi scatti che pongono in risalto la forma assai particolare dell’ala dello Spitfire, cosiddetta “a pianta ellittica”. Questa è una caratteristica tutta dello Spitfire perché non fu mai più adottata su altri velivoli, salvo il tedesco Heinkel He 70 che però – ad onore di storia – volò ben prima dello Spit (1932 il tedesco mentre solo 1936 per il britannico) dunque, a ben vedere, fu lo Spitfire a ispirarsi all’Heinkel e non viceversa. Il mistero è comunque presto svelato: la progettazione dell’ala fu appannaggio di sir Beverley Shenstone che, prima della guerra, aveva fatto parte dello studio di progettazione diretto da Ernst Heinkel. L’ellisse – secondo Shenstone – era semplicemente la forma che avrebbe permesso di ottenere contemporaneamente un’ala sottile – la più sottile possibile ma strutturalmente solida – con uno spazio adeguato all’interno per alloggiarvi l’armamento – non proprio minuto – e il carrello. Negli anni successivi, quando gli fecero notare l’imbarazzante somiglianza dell’ala dell’Heinkel He 70, Shenstone fu sempre pronto a ripetere che la famosa ala dello Spitfire non fu copiata. Oggi, a distanza di tanti anni, possiamo credergli?

Spitfire ala a pianta ellitticaHo seguito le orme di molti di questi autori. Sono stato dove erano stati loro e ho visto i luoghi. Ho parlato con le persone. Oggi tutto è cambiato. Ma si riconoscono ancora quasi tutti. Ho fatto migliaia di foto e le ho confrontate con quelle d’epoca. Il risultato, in moltissimi casi, è stato entusiasmante.

Quanto sopra per arrivare a dire che, cominciando questo libro, conoscevo già benissimo i luoghi e la storia dove Johnnie Johnsonn ha ambientato tutti i suoi racconti.

Lui inizia da quando, giovanissimo, cercava di entrare nella Riserva Volontaria Inglese o nell’Aviazione Ausiliaria, nella speranza di poter poi proseguire la carriera nella RAF. Non si sa come sarebbero andate le cose se la guerra non avesse creato la necessità di reperire tanti piloti. Ma di fatto questa necessità si è presentata quasi subito e Johnnie ha iniziato la sua vita di pilota militare, prima con il grado di sergente e poi è passato a quello di sottotenente per proseguire la carriera come ufficiale pilota.

Spitfire in volo
La mente geniale che concretizzò l’idea di un caccia purosangue monoplano, moderno, veloce e con grande potenza di fuoco appartenne al progettista britannico sir Reginald Joseph Mitchell. Egli era diventato famoso per aver dato vita agli idrocorsa (idrovolanti per competizioni di velocità) progettati e costruiti esclusivamente per partecipare alla celebre alla Coppa Schneider. L’albo dei vincitori della Coppa contiene più volte il codice dei suoi velivoli (il Supermarine S.5, l’S.6 e l’S6.B) intervallati dai quelli dei nostri italianissimi Macchi

Sin dalle prime pagine ho ritrovato la descrizione della vita delle scuole di volo che tanti altri hanno riportato nei loro libri. E quasi subito, mi è capitato di leggere una sua frase che tanti altri piloti hanno scritto e che per un pilota come me ha un sapore tutto particolare:

Non potrò mai dimenticare quel giorno in cui feci il mio primo volo sullo Spitfire…”.

E questo pezzo, ovviamente, l’ho divorato con gli occhi…

Spitfire cacciabombardiere
Al Supermarine Spitfire non fu risparmiato neanche il compito di cacciabombardiere allorquando la RAF, da prevalente attività difensiva, cominciò a utilizzarli in modalità offensiva contro gli obbiettivi crocenero dislocati sul territorio francese. La foto ritrae appunto un Supermarine Spitfire Mk IXE “AGP” pilotato A.G. Page, Wing Commander del 125° Wing mentre si accinge al decollo per una sortita. Il velivolo è dotato di una bomba da 500 libbre collocata sotto la fusoliera e da due bombe da 250 libbre posizionate nei piloni subalari. Da notare nel ventre delle semiali anche le bande da invasione bianco-nere, segno evidente che questo velivolo fu utilizzato per le operazioni dello sbarco in Normandia

Nei capitoli successivi, nei racconti che vi sono contenuti, ho ritrovato l’atmosfera dell’epoca, i luoghi e la storia dell’epoca, che avevo conosciuto già attraverso le altre letture. Ma proprio per questo mi è sembrato di tornare dopo tanto tempo in posti familiari. Perfino i personaggi, visti con gli occhi di questo pilota, erano gli stessi visti da altri, o conosciuti direttamente attraverso i loro propri libri. Alcuni di questi personaggi, piloti e non, avevano anche prestato la loro opera come controllori ante litteram, guidando gli stormi ad intercettare i velivoli nemici per mezzo del radar di allora. Sono diventati famosi per questo e i loro nomi compaiono anche qui, dando al lettore l’impressione di ritrovare degli amici.

Spitfire a terra
Lo Spitfire fu il velivolo con il quale e grazie al quale molti piloti divennero degli assi. Oltre a Johnnie Johnson che militava nella Tangmere Wing, è impossibile non ricordare il comandante dell suo stesso stormo: Douglas Bader, il famoso pilota con le protesi che sarà proprio l’autore della prefazione de: “Il padrone dell’aria”. Poi, ovviamente, Pierre Clostermann. L’asso francese che volò con i colori della RAF, divenuto famoso anche a livello editoriale in quanto autore di romanzi d’aviazione di universale successo come “La grande giostra” o “Fuoco dal cielo“. Inoltre i pressoché sconosciuti George Beurling, asso canadese, e Colin Gray, neozelandese. Al primo furono accreditati 31 abbattimenti, di cui ventisei sull’isola di Malta. Ma è soprattutto la sua storia personale che merita di essere riportata brevemente: sopravvisse a diverse ferite, malattie varie (tra cui una grave forma di dissenteria) e addirittura a un disastro aereo (un bombardiere B-24 che lo trasferiva da Malta a Gibilterra assieme ai suoi compagni per una breve licenza precipitò). Morì invece nel ‘48, nel rogo di un aereo civile durante l’atterraggio sull’aeroporto dell’Urbe di Roma. Non fu mai svelato il mistero attorno a questa vicenda inspiegabile … certo è che aveva cominciato a trasferire residuati bellici in medio Oriente e, all’epoca, si sospettò che avesse accettato di volare per l’Aeronautica Militare israeliana. Dunque non fu mai escluso che fosse stato eliminato ricorrendo al sabotaggio del suo velivolo. Il secondo asso è stato invece a lungo pressoché ignorato, ancora per anni dopo la fine della guerra. Con il suo Spitfire, durante la battaglia d’Inghilterra, abbatté 14 aerei tedeschi, in gran parte caccia. In seguito, combatté nei cieli del Nord Africa e sull’isola di Malta.

C’è un altro elemento davvero importante ed oltremodo interessante in questo libro: la descrizione minuziosa ed accurata delle strategie e delle tecniche di combattimento aereo. Qualunque pilota nato dopo la guerra vorrebbe sapere come volavano questi aviatori e come combattevano, come si lanciavano da un aereo colpito, cosa provavano nel vedere un caccia nemico andare in pezzi sotto i loro colpi e cadere al suolo. Oggi per noi è una cosa impensabile ma in quei giorni era consuetudine. E quel tipo di guerra aerea, dalla quale deriva quella odierna, non tornerà mai più.

Spitfire visto dall'ogiva elica
Una rara e partcolarissima immagine dello Spitfire ripreso dalla punta dell’ogiva dell’elica. Dire che avesse una linea filante è a dir poco banale.

Sì, decisamente interessante. Entrare nella mentalità di tanti decenni fa, in una situazione drammatica come quella di guerra e soprattutto di guerra aerea, dove già il volo era un pericolo. Non dimentichiamo che il nostro autore volava su un aereo difficile, per quanto stupendo. Non era un mezzo di svago come lo sono oggi i nostri aeroplanetti da turismo o da diporto. Erano strumenti di guerra, di difesa e di attacco, avevano mitragliatrici, otto nel caso dello Spitfire, oppure quattro cannoncini, capaci di un volume di fuoco terrificante. Sotto le ali si potevano collocare delle bombe, anche da duecentocinquanta chili. Tutto questo rendeva le operazioni molto delicate, il decollo e tutte le altre fasi del volo avevano ben altra valenza di quella di un volo di piacere. Eppure i piloti di allora descrivono i loro voli come estremamente piacevoli, il cielo blu, le nubi intorno alle quali giravano o dentro le quali si precipitavano per nascondersi quando serviva, per poi uscirne e attaccare fulmineamente qualche squadriglia nemica. C’era in loro la stessa passione che c’è oggi in noi piloti moderni.

Wing leader ultimissima edizione copertina
L’autore del libro, Johnnie Johnson, dichiarò che lo Spitfire fu “il miglior caccia difensivo convenzionale della guerra”. In effetti, ne furono costruite così tante e variegate versioni che, piuttosto che ritenere il velivolo della Supermarine come un modello unico, si può affermare tranquillamente che si tratti piuttosto di una vera e propria famiglia di velivoli, adattata via via per ogni necessità pratica. Insomma, sulla medesima base solida e versatile dello Spit, gli ingegneri britannici riuscirono a creare tanti diversi velivoli con i quali furono in grado di coprire le varie esigenze operative della RAF. L’unico aspetto che li accomunava restò comunque la sua prerogativa di caccia difensivo enfatizzato dall’asso britannico giacchè il raggio d’azione del velivolo non fu mai sufficiente per le lunghe missioni offensive strategiche.

wing leader copertina edizione recente
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson descrive alcuni piloti che sono diventati famosissimi all’epoca e lo sono ancora. Uno di questi è il colonnello Douglas Bader, pilota pluridecorato con alcune delle massime onorificenze. Ma non sono queste che lo hanno reso famoso. Il colonnello Bader aveva perduto le gambe in un incidente e volava con delle protesi, evidentemente neanche troppo sofisticate come potrebbero essere quelle moderne. Nel corso di una battaglia aerea sulla Francia del Nord il colonnello Bader venne colpito e fu costretto a lanciarsi. Nell’emergenza perdette una delle protesi. Quando i tedeschi lo catturarono scoprirono anche di chi si trattava. Lo fecero prigioniero, ma riuscirono anche a far sapere agli Inglesi che Bader era sopravvissuto al lancio, che si trovava in una determinata città e che aveva bisogno di una protesi e offrirono un corridoio sicuro per un aereo inglese che volesse attraversare la Manica per lanciare la protesi in un punto stabilito nei dintorni di quella cittadina. Una storia davvero avvincente.

Spitfire a colori
Costruito in 22.890 unità e 29 versioni diverse, fece il suo primo volo nel marzo del ’36 mentre entrò ufficialmente in servizio nella RAF (Royal Air Force – Aeronautica Militare britannica) circa due anni più tardi. Assieme all’Hawker Hurricane fu il caccia da difesa aerea che si oppose a violenti attacchi della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca) nel corso della Battaglia d’Inghilterra.

Un altro pilota era stato ferito durante un combattimento aereo e aveva perduto un occhio. Dopo la convalescenza tornò a volare. Si potrebbe credere, con il senno di oggi, che una simile menomazione non rendesse possibile riottenere l’idoneità al volo. Ma erano altri tempi e c’era la guerra. I piloti esperti erano oro, perciò il nostro pilota, non solo ebbe l’idoneità (si disse che un veterano con un occhio solo valeva molto più di un pilota inesperto con due), ma fece anche diversi voli notturni!

Wing leader vecchia copertina
Lo Spitfire godette la fama di ottimo velivolo da caccia presso i piloti britannici e in egual misura il rispetto dei piloti dei piloti tedeschi che contro di esso si scontrarono. La leggenda narra che il Reichmarschall (maresciallo del Reich) Hermann Göring, capo supremo della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca), chiamò a rapporto tutti i comandanti dei reparti caccia e bombardieri impegnati nell’operazione Adlerangriff (tradotto letteralmente: “Attacco dell’Aquila”) che avrebbe dovuto annientare la RAF (Royal Air Force – l’Aviazione Militare britannica) e lasciare praticamente indifesa l’isola britannica all’invasione delle forze anfibie e paracadutate dei tedeschi . Molto contrariato per le sorti della Battaglia d’Inghilterra, nottetempo, li radunò nel suo bunker e li passò in rassegna chiedendo loro di cosa necessitassero per avere definitivamente la meglio sugli avversari. Il comandane di un reparto caccia rispose che occorreva estendere l’autonomia dei caccia Messerschmitt Bf 109, un secondo chiese motori più potenti sempre per il Bf 109, poi venne la volta di Adolf “Dolfo” Galland, già famoso asso della caccia tedesca. Con freddezza rispose: “Uno stormo di Spitfire”. Fu l’inizio della fine della carriera di Galland.

Un libro indimenticabile, che andrebbe letto anche in lingua originale, per scoprire le espressioni tipiche di quegli anni, lo slang e le frasi idiomatiche usate dai piloti che hanno combattuto in quei giorni gloriosi.

Wing leader copertina moderna
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson non risparmia critiche alla strategia applicata durante la Battaglia d’Inghilterra. Così come non risparmia lodi per il colonnello Bader.

La presentazione del libro, ad opera proprio del colonnello Bader, è breve e bellissima. Vale la pena riportarla qui, perché offre un’idea chiara della qualità di questo libro.

Spitfire al tramonto
Che lo Spitfire sia un aeroplano fotogenico lo dimostrano le numerosissime e bellissime fotografie d’epoca che si trovano facilmente anche oggi nel web tuttavia, un’immagine così ben riuscita si deve solo alla giusta combinazione apparecchio fotografico, tramonto e Spitfire restaurato e volante. Oltre ad un provvidenziale scatto eseguito in epoca “moderna”.

Scrive Bader:

Caro Johnnie, non avrei mai creduto che tu sapessi leggere e scrivere. Nonostante quel che scrivi di me, penso che il tuo sia uno splendido libro nonostante quella dissertazione sulla strategia della Battaglia d’Inghilterra, con la quale assolutamente non concordo. Mi piace il tuo stile, che si mantiene nella tradizione dei nostri famosi predecessori della prima guerra mondiale, Ball, McCudden, Mannock e Bishop. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra generazione di piloti imparò proprio da loro le regole fondamentali del combattimento aereo; quando ero allievo a Cranwell, leggevo e rileggevo più e più volte i loro scritti che non ho, poi, mai dimenticato. Sono certo che questo tuo libro sarà letto con lo stesso entusiasmo dalle future generazioni di allievi, alle quali lo raccomando. Tuo Douglas. Londra 7 giugno 1956”.

Una presentazione che non potrebbe essere più efficace nel suo compito.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)