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Sulle ali dell’entusiasmo

Spiccai il volo alle 08:37 del mattino.

Partii dal campanile della chiesa sul colle di San Tommaso, la vetta più alta della prima periferia. Da lassù vedevo tutta la città, dai cortili del duca fino alla piccola capanna dello zio Samuele, dalla caserma dei pompieri fino all’orticello dell’Antonella. I palazzi brillavano sotto la luce del primo sole del giorno; e con calma facevano capolino i primi fiori, invitati da un caldo piuttosto insolito per il mese corrente dell’anno.

Ero estasiato, ubriacato dalla bellezza dei tetti rossastri che si alternavano alle chiome verdi delle querce, sparse qua e là a ombreggiare i passanti; e il mio sguardo sornione venne ridestato soltanto dal frastuono di un grande aereo, che volava in cielo con me solcando le nuvole bianche.

La città viveva due risvegli, nei giorni feriali: il primo, il mattino presto, dovuto a fabbriche e scuole, che muovevano una buona fetta di paesani entro le otto; il secondo, invece, iniziava una mezz’ora dopo, con molta più calma e dispersività; e vedeva protagonisti tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non avevano, in precedenza, nulla da fare.

Era il caso dell’ormai non più piccolo Filippo, che marinava per l’ennesima volta la scuola per vedersi con la bella Teresa, che in compenso poteva svegliarsi tardi essendo di professione mantenuta, vivendo alle spalle del povero Michele, che era invece in piedi da ore, per portare a casa qualche tozzo di pane.

Oppure era il caso di Luciano che, dopo l’ennesimo comportamento irriverente al lavoro, si era ritrovato disoccupato e viveva di piccoli furti; oppure di Maria che avrebbe, dopo una vita di sacrifici, meritato un po’ di riposo e che invece doveva svegliarsi per cucinare per tutti i suoi nipotini, rimasti orfani dopo l’incidente di maggio scorso; ma anche del duca che, vivendo di rendita e prepotenze, metteva con pigrizia gli stivaletti per andare a caccia in una delle sue varie tenute di campagna.

Ecco, in questo preciso momento della giornata scelsi di librarmi in aria.

Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato.

Come avviene nei musei e nelle gallerie d’arte, dove, in contemplazione di un quadro, inizialmente si ha una visione d’insieme e poi l’occhio cade sui vari particolari, allo stesso modo mi trovai, dopo un primo istante di meraviglia visiva in cui potei ammirare tutta la città, a mettere a fuoco alcuni piccoli, ma significanti, dettagli.

Solo certe cose attirarono, involontariamente, le attenzioni delle mie pupille. E non furono le ormai ultime foglie gialle e rosse in terra che venivano raccolte dal vento, non furono le grazie della signorina Rosaria che usciva a stendere la biancheria in terrazza, non furono nemmeno le code di biciclette che si stavano creando attorno a Porta Garibaldi in vista della corsa cittadina del pomeriggio. Furono altri i dettagli, quelli che non avresti creduto di vedere, ma che invece non puoi più fare a meno di osservare.

Subito, l’occhio mi cadde su casa mia, su quel tetto un po’ rovinato ricoperto da frisbee e palloni che mio figlio Filippo non andava mai a recuperare. Ma più che sul tetto, notai la finestra di camera sua, quella al pian terreno, ancora aperta, lasciata spalancata dopo la sua fuga per incontrare la sua focosa amante. Dall’alto dove mi trovavo io – ma anche dalla strada – si intravedevano tutti i suoi aggeggini tecnologici, dal tablet al laptop fino all’impianto stereo e alla Reflex; doveva averli visti anche Luciano che, passando di lì, stava, senza difficoltà alcuna, entrando nel vuoto edificio sapendo di poterci trovare un così ricco bottino, non solo fra le cose di mio figlio, ma anche fra le mie.

Volli distogliere lo sguardo e non pensare a quello che avevo appena visto, non potendo del resto fare nulla per evitarlo. E come si cambia punto del quadro quando di questo ormai si conosce tutto, cambiai anch’io, senza pensarci, spostando rapidamente gli occhi da destra a sinistra.

E un’altra finestra attirò subito la mia attenzione.

Era un edificio bianco, il piano era il quarto, e la struttura occupava un intero isolato; attaccata sopra al tetto, dove qualche camice bianco era andato a fumare, una grande croce rossa.

Attraverso il vetro pulito svogliatamente il giorno prima, intravedevo due occhi di donna, stanchi, pesanti. Vedevo un sorriso spento e una lacrima che solcava una guancia ormai rugosa, con le ancora delicate mani che scostavano i capelli bianchi che le cadevano sulla fronte.

Era il viso di mia madre, ormai giunta al capolinea di una lunga ma straziante malattia; guardava fuori, sulla strada dove era cresciuta, per dire addio un’ultima volta al mondo.

Feci anch’io come lei, e osservai meglio la via dietro l’ospedale, quella strada a senso unico. Poco più avanti, sempre su quella strada, due persone si abbracciavano qualche metro fuori l’uscio di casa; lui, vestito in camicia, evidentemente pronto ad andare a lavorare poco più tardi; e lei, che gli accarezzava i capelli brizzolati, in un comodo paio di jeans completati da una felpa di tuta. La donna dai capelli biondi legati sopra la testa era mia moglie, e la valigia appoggiata di fianco all’ingresso gliel’avevo regalata io, per il nostro viaggio di nozze. Evidentemente, per lei, più che a senso unico, quella strada era senza ritorno.

A volte capita che uno spettatore, davanti a un bel quadro, trovi un particolare e inorridisca; allo stesso modo feci io, di fronte a quella scena. Così cercai di cambiare completamente panorama, spostando il mio sguardo dall’altra parte della città.

Notai un’automobile che usciva da un garage condominiale; era un’auto elegante, una BMW nera, di quelle che solo a vederne il prezzo ti viene un attacco di cuore. Seguii per un po’ il percorso di quella macchina, finché non capii di chi era, e dov’era diretta: era dell’avvocato Bianchini, e veniva verso casa mia. Passava a prendermi per andare in tribunale; quel giorno era il giorno della sentenza. Sapevo già come sarebbe andata: colpevole. Quando investi i genitori di ben cinque bambini mentre attraversano la strada sulle strisce, sai già come va a finire.

Pensando a questo, mi resi conto che il mio brevissimo tempo in volo era ormai scaduto; e il mio corpo, dopo essersi lanciato dal campanile, stava per toccare, per un’ultima volta, la terra della mia città.

Sulle ali dell’entusiasmo di dire addio a quella vita.



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Sulle ali dell’entusiasmo

angioletto senza fogliaIl racconto Sulle ali dell’entusiasmo vede il narratore raccontare, mentre si trova in volo, come se si trovasse davanti a un’opera artistica, la sua città, da una visione di insieme fino a scendere nei dettagli che lo riguardano più da vicino.



Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Una notte da dimenticare

Settembre è un mese gradevole sotto vari punti di vista. Non è caldo come in luglio e agosto, le giornate sono ancora lunghe e si possono fare ancora delle belle passeggiate per godere il tiepido vento di scirocco, che spira quasi costantemente nella Sicilia occidentale. Quando si è giovani, poi, tutto è bello e anche gli episodi negativi, che entrano nella memoria con violenza e cinica realtà, pur lasciando un solco profondo nella vita di chi li subisce, col passare degli anni leniscono la loro crudezza e lasciano solo un forte dolore nello spirito di un giovane.

Un mio amico qualche tempo fa mi ha parlato di una sua terribile avventura di quando era giovane ufficiale con l’incarico di Controllore d’intercettazione in un Centro Radar. Il suo lavoro gli piaceva molto e vi si dedicava con zelo e professionalità.

A volte, però, queste caratteristiche non sono sufficienti per evitare situazioni di pericolo, specialmente quando c’è un concorso di cause nell’evento.

Dicevo settembre perché il racconto inizia proprio in quel mese in una bella città della Sicilia occidentale.

Raf, così lo chiamavano e lo chiamano gli amici, era tutto eccitato perché in quei giorni si stava preparando per una importante esercitazione/valutazione che era un punto d’arrivo nel suo lavoro e, contemporaneamente, una nuova partenza verso altri ambiti traguardi.

Nei giorni che precedettero l’evento da dimenticare, a volte, guardava verso ovest il sole tramontare e, con una certa tristezza premonitrice, sentiva una stretta al cuore. Pensava dentro di sé che tale stato di tensione era forse dovuto all’impegno che stava per affrontare per la prima volta e così, cercando di farsene una ragione, continuava nel suo addestramento con maggior impegno e continuità.

Spesso cercava di distrarsi con gli amici, trascorrendo delle serate in attività di diporto nella ridente città. Anche la sua ragazza, una splendida bionda con occhi azzurri e un fisico mozzafiato, si accorse di questa sua particolare tensione e cercò di distrarre la sua attenzione dal prossimo evento, almeno, quando era fuori servizio. Raf era molto innamorato e accondiscendeva sempre a tutte le sue richieste.

In fin dei conti, per lui era un toccasana liberare un po’ la mente e Sara, anche lei molto innamorata, per distrarlo un giorno gli diceva: “Raf mi accompagni all’atelier di Trapani, devo comperare un nuovo vestito per il matrimonio della mia cara amica Rosalba”. Un altro giorno gli chiedeva di accompagnarla dal meccanico perché la sua auto aveva bisogno di urgente manutenzione e poi dall’orefice per comperare una nuova parure da abbinare al vestito e così via giorno dopo giorno. Raf la guardava, sorrideva e le diceva: “Va bene Sara”. Erano gli unici momenti in cui il suo pensiero smetteva di pensare al lavoro.

Intanto, erano arrivate le disposizioni per l’attività da svolgere e Raf le studiò con attenzione cercando di memorizzare anche le eventuali azioni alternate da porre in essere. Si sentiva sereno ed eccitato nello stesso tempo.

L’attività di volo si doveva svolgere durante un solo giorno in tutta Italia e, perciò, era necessario uno stretto coordinamento anche con gli altri Centri Radar limitrofi e con le basi aeree a loro collegate: era la simulazione di attacchi da varie posizioni verso il territorio nazionale.

Era una Valutazione Tattica Nato dei reparti della Difesa Aerea Nazionale.

E’ opportuno ricordare che a quei tempi i coordinamenti e le trasmissioni dati erano tutti via telefono/cuffia; non esisteva ancora la trasmissione automatica dati via computer.

Arrivò il grande giorno e tutto era pronto. La sala operativa era a pieno organico, compreso il Comandante, il Capo Ufficio operazioni e il Capo Servizio tecnico. Inoltre c’era il team di valutazione composta da personale Nato e personale nazionale per i necessari coordinamenti relativi all’esercitazione.

Il Capo Controllore della Sala Operativa coordinava l’attività di volo attraverso i suoi assistenti ed assegnava gli intercettori ai Controllori d’intercettazione che ricoprivano due postazioni. In una di queste postazioni sedeva Raf con il suo assistente che provvedeva a fornirgli i dati necessari per l’attività.

Il tutto cominciò intorno alle ore 19:00 quasi in contemporanea in tutta Italia. I Capi Controllori potevano impiegare dei velivoli intercettori (F104S) in volo (Combat Air Patrol – CAP, ndA) per avere un margine di vantaggio sui target che potevano giungere in qualsiasi momento, da ogni direzione e a qualsiasi quota.

La prima CAP toccò a Raf che la mantenne, come ordinatogli, 10 miglia nautiche (NM, nautical miles, ndA) a nord dell’aeroporto di Trapani Birgi, in attesa di un target da intercettare.

Non aspettò molto. Il Capo Controllore gli assegnò un bersaglio proveniente da est, a circa 80 NM. Immediatamente Raf ordinò agli intercettori sotto il suo controllo di dirigere nella direzione del target.

Mentre gli intercettori si stavano avvicinando (circa 40 NM), il Capo Controllore diede l’ordine di interrompere la missione in quanto il velivolo indicato era stato identificato come traffico aereo civile.

Raf ordinò l’interruzione dell’intercettazione e il ritorno nella posizione di CAP. Nel frattempo il numero due, poiché aveva perso il contatto con il leader, chiese a Raf delle indicazioni di azimuth e distanza per riportarsi sul suo numero uno. Il numero due si trovava dietro il leader a circa 15 NM.

Raf iniziò a fornire le necessarie informazioni fino a quando il gregario non informò il Controllore d’Intercettazione di avere il contatto radar sul numero uno. Proprio in tale momento il Capo Controllore ordinò a Raf di dirigere verso un nuovo target a circa 50 NM proveniente da Nord con direzione 180°.

Gli intercettori sotto il controllo di Raf si trovavano quasi su Palermo e subito eseguirono l’ordine.

Il momento era abbastanza concitato perché sarebbe stata la prima missione effettiva della valutazione.

I piloti eseguirono l’ordine e giunsero in breve tempo in posizione idonea per intercettare il target ed effettuare l’abbattimento simulato come da procedura.

Appena completata tale procedura, il leader della formazione chiese: “Potete darmi delle informazioni sul numero due in quanto non lo vedo?”.

Raf, che non aveva avuto altre richieste dal numero due per ricongiungersi con il leader, era convinto che i due fossero in formazione; di rimando chiese: “Perché non siete in formazione?” In quel preciso momento, Raf ebbe la sensazione che qualcosa di grave era successo.

Cominciò a chiamare il numero due sulla frequenza operativa per varie volte senza ricevere alcuna risposta. Intanto, con i suoi giovani occhi, cercava sullo schermo radar dell’UPA-35 possibili tracce da ricollegare al velivolo. Erano quasi le 22:00.

Cominciò a chiamarlo anche sulle frequenze di guardia e, anche, tramite il leader: nessuna risposta.

Raf non voleva credere a un possibile incidente e continuò a chiamare il velivolo in tutti i modi possibili. Venne definita l’area di perdita di contatto radio/radar e il leader, fino al raggiungimento del bingo fuel (esaurimento del carburante, ndA), continuò a scandagliare la stessa.

Purtroppo, l’esito fu negativo e il leader, suo malgrado, fu costretto a rientrare sull’aeroporto di Birgi.

Nel frattempo, serata nefasta, furono riportati altre due incidenti di volo: uno a Brindisi ed uno a Grazzanise.

Messi davanti a tale situazione, il Control Team della valutazione decise con effetto immediato di sospendere l’attività di volo.

Si rafforzava, laddove fosse stato necessario, in Raf la percezione che il velivolo sotto il suo controllo radio/radar era precipitato. Non ci poteva credere. Non era possibile che un tale evento fosse capitato proprio a lui.

Intanto, era stato allertato il Soccorso Aereo (SAR, ndA) che dopo circa un’ora raggiunse l’area per osservare a bassa quota eventuali rottami nell’area indicata.

Raf rimase in contatto con tale elicottero per fornire possibili indicazioni. Intanto il Capo Controllore e i suoi assistenti facevano delle ipotesi sulle aree da esplorare.

La mente di Raf era in tilt. Guardava il monitor ma i suoi pensieri andavano al pilota di cui ormai da più di tre ore non si sapeva più niente.

Contemporaneamente, come dei “flash”, il suo pensiero gli poneva davanti il volto di Sara, triste per l’accaduto, alla quale stava raccontando la triste storia. Si sentiva in colpa, pensava che forse avrebbe dovuto fare qualcosa di più e nel profondo dell’anima provava un senso di rimorso e piangeva, piangeva con singhiozzi sentendo tutto il peso dell’accaduto sulle sue spalle.

Rimase, in uno stato semi-confusionale, attaccato all’UPA 35 fino all’alba, sperando in un ritrovamento in vita del giovane pilota. Niente da fare. Non fu trovato neanche un minimo indizio in merito all’accaduto e alla possibile posizione del velivolo e del pilota. Tutti erano andati via e, ormai, la sala operativa era in normale assetto notturno.

Arrivò un altro collega a sostituirlo verso le sette del mattino. Raf non voleva andar via ma fu convinto che era meglio che andasse a riposare un po’.

Dopo circa due ore, senza dormire ma solo pensare e pensare, sentì il bisogno di incontrare Sara per avere un po’ di conforto e ritornare mentalmente alla realtà; Raf, infatti, si trovava con la sua testa ancora davanti al monitor.

Sara non sapeva cosa dire: era completamente a digiuno del lavoro svolto da Raf. Cercò di distrarlo in qualche modo e, quando sembrava di esserci riuscita, ecco arrivare la camionetta dei Carabinieri: “Signor tenente, deve venire con noi presso la base operativa per delle dichiarazioni in merito all’incidente”.

Raf senza parlare lasciò la mano di Sara guardandola con profonda tristezza come se fosse l’ultima volta. Si sentiva come un condannato a morte.

Era il tardo pomeriggio e, anche se il cielo era sgombro di nuvole, a lui sembrava di un grigio cupo come quando in sospensione nell’aria, portata dal vento di scirocco, c’è tanta sabbia mischiata alle goccioline di pioggia pronte a precipitare e sporcare tutto.

Ovviamente, era stata avviata un’inchiesta interna all’Aeronautica Militare tesa ad accertare l’accaduto. Insieme ad altri colleghi ascoltò e riportò per iscritto le registrazioni audio dalle quali emerse che Raf aveva svolto correttamente il suo lavoro e che la possibile causa dell’incidente era dovuta ad un guasto tecnico del velivolo.

I piloti degli altri due velivoli incidentati si salvarono. Del pilota controllato da Raf, purtroppo, non se ne seppe più niente.

Questo evento sconvolse profondamene Raf che per alcuni giorni provò un senso di paura inconscia nell’avvicinarsi al monitor di controllo. Aiutato psicologicamente dal suo Capo Ufficio Operazioni e dai colleghi, però, riuscì a vincere il timore che si portava dentro da quella sera e ricominciò a lavorare con maggior zelo e continuità. Non smise, però, mai più di pensare a quella notte e a quel ragazzo, che aveva la sua stessa età, di cui non seppe più niente.

Ancora oggi, dopo più di quarant’anni, mentre mi raccontava la storia, traspariva dalla sua voce, un po’ più roca, il suo forte coinvolgimento e il ricordo ancora vivo nella sua mente. Il sole era quasi all’imbrunire e lui d’istinto diresse lo sguardo in quella direzione come se aspettasse il rientro del pilota di quella sera e che qualcuno lo svegliasse da quel terribile sogno e gli dicesse: “Raf, svegliati … devi andare in sala operativa per l’esercitazione”.

Sara era diventata sua moglie e, durante il racconto, si sentì coinvolta emotivamente come quando l’evento era accaduto, manifestando una profonda commozione.

Subito dopo, in linea con il suo carattere gioviale e cordiale, cercò di riportarci fuori dal passato verso la realtà in una giornata calda di settembre con un gradevole vento di scirocco, offrendoci un bicchierino di Rosolio di sua zia.



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Dirigibile
Raffaele Carlino

I pirati del cielo

biplano sorridenteI pirati del cielo sono dei giovani ragazzi che navigano i cieli al termine della guerra di Città Ventosa.

Hancor fa parte del gruppo, è un ragazzo impacciato e insicuro e per questo poco simpatico ai compagni. E’ incaricato assieme ad altri di recuperare provviste e quanto di utile sorvolando con il proprio plano riadattato le zone abbandonate della città.

Deriso per i suoi scarsi risultati, trova sostegno nell’amico Pacifico che crede nelle sue possibilità tanto da proporgli di affiancarlo nell’imminente gara di volo.

Hancor reticente alla partecipazione avrà grazie a questa occasione la possibilità di riabilitarsi agli occhi dei compagni e soprattutto di sé stesso.


Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015 classificandosi in XIV posizione ; in esclusiva per “Voci di hangar”



NOTA della REDAZIONE: a causa di un madornale errore di impaginazione, il presente racconto non fa parte – come di diritto – dell’antologia contenente i 20 racconti finalisti della III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015 organizzato dal nostro sito in collaborazione con l’HAG.

Il racconto verrà comunque pubblicato, fuori dalla rosa dei 20 finalisti, nell’ambito dell’antologia della prossima edizione (2016) del Premio tuttavia, nel frattempo, VOCI DI HANGAR ha il privilegio di ospitarlo e regalarlo ai suoi visitatori a titolo di riconoscimento morale per il torto subito dall’autrice.

I pirati del cielo

“Che cosa hai pescato?” chiese Everest brusco. Lo guardava fisso attendendo una risposta soddisfacente che tardava a venire.

Hancor non poteva far altro che rispondere, la voce mal ferma “Due cavoli e …”

Sentiva le risate attorno a lui. “… una bottiglia di latte”. Finì la frase deglutendo, la gola secca.

Everest lo metteva in soggezione. Ogni volta che andava a pescare si ripeteva la stessa scena. Hancor e la sua pesca scarna, Everest e i suoi occhi che si facevano piccoli piccoli, Hancor e la sua voce che tremava, Everest e la sua pazienza che veniva meno.

“E cosa ce ne facciamo di due cavoli?” chiese ancora Everest salendo di un paio di toni nella voce, l’ira che montava.

I ragazzi radunati attorno alla pesca avevano smesso di ridire. Lo sguardo di Hancor fissava la terra sperando che si aprisse per inghiottirlo.

“A me piacciono i cavoli”. Basilea aveva tredici anni, una lunga treccia e uno sguardo che non la tradiva mai.

Everest l’avrebbe presa a calci se non fosse stata l’unica ragazza del gruppo. Basilea lo sapeva e senza scomporsi restava fissa su Everest che di rimando sputò per terra.

“Cile che cosa hai pescato?” Everest era passato a un altro ignorando Hancor rimasto in piedi come un palo in mezzo alla radura.

Dopo un momento di esitazione si sedette impacciato senza dire altro. Doveva ringraziare Basilea. Se non fosse stato per lei Everest l’avrebbe di certo punito. Patate da pelare, stoviglie da pulire, letti da rifare. La ricompensa dopo ogni volo.

L’avrebbe anche accettato comprendendo come dipendesse il loro sopravvivere dai suoi goffi tentativi di procurare un pasto decente ai compagni. L’avrebbe anche accettato, se non fosse stato che ogni volta alle punizioni di Everest si aggiungevano scherzi di ogni tipo giocati dai suoi compagni che mal lo sopportavano.

Era già da un anno che volava e ancora non era riuscito a procurare nulla di buono al gruppo più di qualche pesce scarno e di una manciata di frutti maturi. Era questo che più non sopportava, Everest aveva ragione. I pirati come loro solcavano ormai da anni i cieli per racimolare ogni sorta di oggetto che avesse un’utilità al loro vivere: mele, coperte, pane, acqua, parti meccaniche, libri, giacche, piatti, freni, bulloni, pistoni, caramelle, calzettoni …

Il gruppo di cui faceva parte Hancor era il più giovane che il cielo conoscesse. Si muovevano sopra minuti aerei giocattolo monoposto, riadattati con motore ed eliche che loro stessi avevano più volte smontato, ricostruito, rimontato, rattoppato. Erano i retaggi del passato della Città Ventosa, il luogo in cui erano nati e in cui erano cresciuti come bambini, e che ora da adulti, quali si consideravano a quindici anni, gli restituiva dopo la guerra qualche briciola di misericordia e il ricordo dei voli tra le pale dei mulini lungo il fiume.

Alla fine della raccolta del pescato il gruppo iniziò a sparpagliarsi, per tutto il tempo Hancor aveva cercato di diventare trasparente come il vento che gli soffiava addosso ma non ci era riuscito. Si era limitato a restare in silenzio e sempre in silenzio si apprestava ad andare verso la sua tenda per sprofondare in un sonno che gli avrebbe restituito forse un po’ di pace.

“Hancor” si sentì chiamare. Era Pacifico.

“Hancor” chiamò ancora il ragazzo che lo stava raggiungendo correndo.

Pacifico si era scelto un nome bellissimo, pensava Hancor.

I pirati del cielo quando si erano riuniti in gruppo, senza patria e senza famiglia, desideravano per loro un nuovo inizio, e il punto da cui erano partiti dopo il recupero degli aerei, era stato darsi un nuovo nome sperando così di cambiare un po’ anche il loro destino. Avevano scelto il nome dei luoghi che avrebbero voluto sorvolare. Cile, Minnesota, Singapore, Grand Lake …

Everest che era il capo aveva scelto il nome della montagna più alta su cui era stato con suo padre. Basilea si chiamava come la città in cui era nata. Hancor aveva scelto i templi della Thailandia che tanto l’avevano affascinato da piccolo con l’oro che luccicava fin fuori dai libri di storia. E poi c’era Pacifico, che era il suo migliore amico.

Lui aveva scelto il nome più bello, pensava Hancor, quello dell’Oceano.

Erano in quattordici a volare, tredici ragazzi e una ragazza. Tutti tra i dodici e i quindici anni ad eccezione di Polonio il fratello minore di Pacifico che di anni ne aveva dieci.

“Hancor” ripeté Pacifico mezzo ansimante una volta raggiunto il ragazzo, le mani sulle ginocchia a riprendere fiato, la testa alzata verso di lui e un sorriso aperto. “Voli con me domani?”.

“Cosa?” rispose Hancor con fare quasi indignato “Domani? Ma sei diventato matto? Il giorno della grande pesca e tu vuoi fare la figura dell’uccello morto?”.

Domani era il giorno della festa dell’anno che i ragazzi celebravano con una gara di volo a coppie, una sorta di staffetta per raccogliere quanto più materiale possibile. “Più raccogli, più guadagni” continuò Pacifico senza distogliere il sorriso come leggendogli nel pensiero.

“Appunto” rispose Hancor “Ti mancano due aquile d’oro per sfidare Everest, potresti essere tu il nostro nuovo capo e vorresti gettare al vento questa possibilità per metterti in coppia con me che ho pescato due cavoli oggi?”.

“Anche a me piacciono i cavoli” rispose tranquillo Pacifico “facci un pensiero amico” e senza aspettare risposta corse via.

Hancor entrò nella tenda e quasi non chiuse occhio rimuginando su ciò che gli aveva detto. Erano cresciuti insieme, Pacifico per lui era come un fratello, non voleva essergli di peso né tanto meno deluderlo. Perso nei suoi pensieri scivolò nel buio mentre la luce iniziava a farsi strada nel cielo.

La mattina seguente di buon ora i ragazzi erano già tutti schierati pronti a partire, sprezzanti e fieri. Eliche brillanti, cofani luccicanti, motori vibranti. Hancor sospirò. Pacifico gli corse incontro, “Hancor sei arrivato, pensavo non venissi più”.

“Stavo per farlo” voleva dire, ma rispose annuendo.

“Allora voliamo assieme” disse Pacifico, non era una domanda. Hancor annuì ancora.

“Ehilà!” gridò da lontano Basilea, sventolando una mano mentre l’altra teneva un grosso cappello di paglia “il vento è forte oggi!”.

“Non voli Basilea?” chiese Pacifico quando la ragazza gli fu vicino.

“No oggi no, ho il plano in riparazione”.

Pacifico rise di gusto. “E da quando due bulloni che saltano sono un problema per te?”.

“Infatti non lo sono” sorrise sorniona Basilea “lo sono il carburatore fuso e il braccio meccanico bloccato, quello che un certo “ci penso io” aveva promesso di aiutarmi a riparare un mese fa”.

“Mi arrendo, sono colpevole” disse Pacifico con un sorriso disteso “ti regalerò una delle mie aquile vinte oggi”.

“Siamo sicuri di noi!” rispose gioviale Basilea.

“Abbiamo le nostre armi” Pacifico batté la spalla a Hancor che altro proprio non riuscì a fare se non un forzato sorriso tanto la sua preoccupazione stava crescendo.

“Sbrighiamoci, stiamo partendo” fu la frase pronunciata in modo deciso dall’amico a scuoterlo.

“Buona fortuna” sentì Basilea da lontano.

Il vento soffiava maestoso, i plani lucidi e brillanti erano allineati per partire, un rumore di eliche che vorticavano.

Hancor si avvicinò a Pacifico. “Allora” iniziò l’amico “Io vado per primo, mi dirigo a est, andranno tutti verso la città, non ci conviene andare di là, troppa gente uguale meno cibo, a est ci sono i campi, distese di campi, seguirò il fiume. Una volta arrivato al confine, in fondo alle piantagioni di patate, troverò un punto adatto per pescare. Quando tornerò indietro ti dirò dove planare. Dobbiamo essere veloci”.

Hancor non capiva perché non potevano fare come gli altri, andare in città, sorvolare qualche vecchio magazzino, arraffare quanto più potevano e andare via. Ma si limitò a dire un semplice “come vuoi”.

Pacifico, strizzando gli occhi per il vento, con un piccolo salto salì a bordo del suo plano mentre Hancor si strascicava poco convinto verso il suo, posto alcuni metri più in là, dietro al velivolo dell’amico.

Il ragazzo addetto a far iniziare la gara alzò un fazzoletto rosso.

“Allora come detto?” urlò Pacifico rivolto ancora a Hancor e si abbassò il casco dopo che il ragazzo alto e mingherlino disse “Pronti!”.

Subito il fazzoletto si abbassò. Poco dopo fu solo un forte rumore di motori e di ruote stridenti e in breve Pacifico volava nel cielo come un grande uccello metallico.

L’eco dei rumorosi plani rimbombava ancora in lontananza mentre la maggior parte dei ragazzi si dirigeva a ovest verso la città con le sproporzionate reti che penzolavano dagli abitacoli. I plani brillavano sotto i riflessi del sole, piccoli ma sufficientemente veloci, le ali sostenute dal vento che li accompagnava. I ragazzi più grandi salutavano lo sparuto pubblico raccolto con qualche acrobazia, disegnando grandi cerchi verticali nel cielo e facendo muovere le spighe dei campi di grano lì accanto.

Hancor osservava e quando non vide più nessuno all’orizzonte si sedette strappando un filo d’erba.

“Hancor quanti cavoli prevedi di pescare oggi?” Sentiva gli altri come lui rimasti a terra che lo schermivano ma fingeva di non dargli ascolto, ripetendo a mente il percorso che Pacifico gli aveva dato.

Dopo una buona ora un luccichio apparve nel cielo. Era Pacifico con una rete talmente piena che quasi strascicava al suolo. Conteneva parti di mulino, grandi viti che tornavano utili per gli aerei, e pale, ma anche pentole di rame, stoviglie varie, abiti, sacchi e sacchi di graniglia che poteva essere ancora buona per uno stufato, e, se gli occhi non lo traevano in inganno, grossi, anzi grossissimi pesci che quasi saltavano fuori dalla rete.

I ragazzi seduti nella radura in attesa dell’arrivo del primo plano presero ad alzarsi e a sventolare vecchi fazzoletti. Chi fischiava, chi gridava in segno di saluto.

Hancor che era rimasto a bocca aperta di fronte all’arrivo del compagno così carico di provviste si fece coraggio, si mise in piedi in fretta e a pugni stretti si diresse verso il suo plano. Se Pacifico ce l’aveva fatta lui non voleva essere da meno. Il suo amico che era arrivato primo con un carico che mai si era visto contava su di lui. E lui non lo avrebbe deluso. Si sistemò nell’abitacolo, abbassò il casco, avviò il motore e attese l’atterraggio di Pacifico che fu bravissimo a mantenere l’equilibrio con la grande rete che pendeva dietro.

Appena il plano si affiancò a quello di Hancor l’amico si sfilò veloce il casco e gli urlò “Il mulino rosso!”.

Hancor decollò. Non perse tempo. Si alzò veloce nel cielo. Il suo tra tutti era il plano più leggero e per questo anche il più veloce. In breve tempo raggiunse la quota necessaria sostenuto dal vento fresco che continuava a soffiare. Aveva capito il punto indicato da Pacifico. Si trattava di una fila di vecchi mulini di diverso colore disposti lungo il fiume a est, dopo i campi di riso.

Hancor filava dritto con il suo plano e aveva ormai raggiunto metà della strada necessaria per arrivare al luogo indicatogli da Pacifico quando all’altezza di una grande quercia, che segnava l’inizio della periferia della città, dove lui avrebbe dovuto virare ad est, qualcosa attirò la sua attenzione.

C’era una massa grigia, grossa, dall’aspetto metallico incastrata tra i rami degli alberi cresciuti vicino alla recinzione di una vecchia industria tessile. Poteva trattarsi di qualche rottame rimasto lì nel tempo se non fosse che quella strada l’aveva già fatta diverse volte e che, seppur in parte nascosto dalle fronde, quel velivolo si vedeva bene ma lui non l’aveva mai notato.

Iniziò ad abbassarsi, facendo un cerchio largo per valutare meglio la situazione.

Un’ala era spezzata e doveva essere caduta a terra, il resto del plano era incastrato tra gli alberi a testa in giù, abitacolo compreso. Hancor volò in cerchio ancora più vicino. Riconosceva quel plano, apparteneva a Pago, un ragazzo con i capelli rossi sempre arruffati che non lesinava di rovesciargli qualche secchio quando toccava a lui pulire.

Trattenne il fiato e mentre si abbassava ancora notò che dal veicolo qualcuno agitava un maglione per attirare l’attenzione. “Pago!” gridò Hancor “stai bene?”.

Rispose una voce piagnucolante ma viva. “Hancor sei tu? Tirami fuori di qui!”.

Hancor sospirò per il sollievo. “Cerca di arrampicarti fuori dal plano, io faccio calare la rete”.

Pago rispose con un tremolante sì e dal finestrino rotto, dove aveva sventolato il maglione, iniziò a strisciare fuori con non poca fatica attaccandosi al robusto ramo dell’albero.

Il ragazzo appariva agli occhi di Hancor, che adesso poteva vederlo bene, impaurito e malconcio per la caduta e per i segni lasciati dal vetro dell’aereo. “Non preoccuparti!” gridò Hancor “ora calo la rete così ti ci puoi aggrappare. Ce la fai?” chiese al ragazzo.

“Si” rispose di nuovo il suo compagno.

Hancor in cuor suo invece, non era sicuro di farcela, pescare cavoli era un discorso mentre pescare un ragazzo ferito era un altro. Si fece coraggio aspettando il momento giusto per non incagliarsi tra gli alberi. Volò quanto più lentamente e vicino potesse e quando fu sufficientemente certo che il ragazzo potesse farcela, abbassò la rete. Non sbagliò. Il compagno ci si buttò rovinosamente dentro e Hancor iniziò a salire. “Tutto bene?” chiese a Pago.

“Sì, grazie al cielo!” si sentì rispondere.

Hancor volava piano, talmente piano che non era sicuro di rientrare prima del tramonto.

“Di certo a terra saranno tutti preoccupati per il nostro ritardo” pensava. Quanto alla sua gara ormai era andata così, gli dispiaceva solo per Pacifico. La rete sotto il plano dondolava lenta cullata dal vento.

Alla fine arrivò che il cielo iniziava a imbrunirsi. Quando fu sufficientemente vicino vide una piccola folla che agitava mani e cappelli in segno di festa.

Stranito da così tanto entusiasmo iniziò concentrato l’atterraggio, attento a non far strascicare rovinosamente la rete con il compagno a terra. Riuscì bene nell’intento e quando il plano finalmente si fermò si sfilò accaldato il casco e tirò un sospiro di sollievo trattenuto fino a quel momento.

Ce l’aveva fatta.

In breve fu attorniato da un gruppo urlante che lo incitava. Con la coda dell’occhio, mentre veniva trascinato dai festanti ai bordi della radura, vide Pago soccorso da altri ragazzi. Stava bene.

Arrivato ancora stordito in fondo al campo dove c’era una piccola collinetta vide prima Pacifico e poi Everest. Il sorriso che si era stampato sulla faccia sparì in breve.

Everest stava eretto, le braccia incrociate, lo sguardo imperturbabile che lo fissava. “Hancor” esordì duro Everest “sei arrivato fuori da ogni qualsiasi plausibile tempo”.

Hancor non sapeva cosa dire. Non lo sapeva mai, tanto meno in quel momento. Abbassò le spalle, pronto a ricevere un altro duro colpo al suo orgoglio già tante volte ferito. Mai come in quel momento avrebbe voluto essere soffiato via dalla terra come uno di quei fiori di campo.

“Ma sei tornato con la più grande pesca che si sia mai vista. E per questo io ti premio con una menzione d’onore e ti ringrazio per quello che hai fatto. Grazie Hancor. Oggi hai salvato un compagno. Non c’è pesca che valga più di questo”.

Hancor non credeva alle sue orecchie. Il viso di Everest si era disteso in sorriso che mai avrebbe pensato a lui rivolto e gli occhi brillanti del ragazzo sembravano perfino diventare lucidi. Anche Hancor si commosse. Tirò su col naso e si asciugò con la manica della camicia. Non fece altro.

Attorno a lui i ragazzi radunati saltavano e fischiavano ancora. Pacifico gli si avvicinò e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

“Quando ti ho chiesto di partecipare con me ero certo che avresti fatto grandi cose. Solo un cuore leggero può volare in alto” e così lo lasciò, solo, ai suoi festeggiamenti e ai suoi pensieri mentre le prime stelle della sera accedevano un cielo ormai spento.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Elisa Trettene