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Racconti degli autori

Il pilota beone



Il Caposervizio si guardò attorno con fare circospetto con la speranza che nessuno dei suoi collaboratori mi avesse udito, poi replicò: – Comandante, lo sa cosa mi sta chiedendo? –

– Ehmm … sì lo so – risposi io con convinzione – le sto chiedendo un piccolo favore.

– Piccolo favore? – rispose contrito.

In effetti, quello che stavo chiedendo al Caposervizio dell’Ufficio personale non era affatto un piccolo favore. Sì, i turni di servizio venivano abitualmente concordati tra l’Azienda e gli equipaggi, piloti o assistenti di volo che fossero, ma credo che mai, nel corso della trentennale carriera del Caposervizio, un Comandante aveva accampato una richiesta come la mia.

– Ma sì – insistetti, – in fin dei conti le chiedo solo di dare una botta lì e un’aggiustata là … tanto per far quadrare il cerchio.

Lui mi guardò con distacco poi, con enfasi, concluse: – Ascolti Comandante, certe cose non sono autorizzato a farle … neanche se mi offrisse i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni.

Ecca ‘lla, dissi fra me e me. Finalmente ci siamo arrivati! L’allusione non lasciava adito a dubbi. Tirai un sospiro di sollievo: almeno ora sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Tutto nella vita ha un prezzo … il difficile è conoscerlo per poi sapere se si è in grado di pagarlo o meno.

– Finale di Champion Legue?! – chiesi rassegnato. Il Caposervizio fece cenno col capo non prima di essersi dimostrato costernato. Aprii la mia valigetta e tirai fuori due biglietti immacolati: -Tribuna Monte Mario, posti numerati, sotto alle autorità … pensa che sarebbero sufficienti? –

Non feci in tempo a sventolarli che i preziosi biglietti erano già finiti nel cassetto del Caposervizio. Immaginai che mi sarebbero costati un patrimonio in gelati e figurine – in certi casi mio figlio sa essere crudele?! – ma, pensai, che erano volati via per una buona causa. Rimasi imbambolato per un istante. Anche a me piaceva andare allo stadio, non lo nego, e vidi svanire in un istante i colori e i suoni di quella serata che sarebbe stata memorabile: l’Olimpico stracolmo di gente in ogni ordine di posti, una festa sugli spalti e sul campo e …

– Tutto fatto, Comandante. – mi disse trionfante il Capo – C’era un errore nel tabulato … questi computer fanno dei casini immondi! Fortuna che lei se n’è accorto … e l’ho corretto a penna. – aggiunse per giustificare il raggiro. Infine sentenziò: – L’equipaggio è formato.

E fu così che ci ritrovammo, due settimane più tardi, al caro prezzo di due biglietti della finale di Coppa dei Campioni, sul piazzale di Fiumicino, alla base della scaletta del A300.

Ci salutammo cordialmente io, l’assistente di volo Centani e la sua collega Ambrogini, la hostess in addestramento Filippi, il capo equipaggio Turchetti e, naturalmente il Comandante Johannson.

Nei suoi confronti, agli abituali saluti si aggiunsero delle affezionate pacche sulle spalle di noi maschietti e degli innocenti baci delle ragazze. Sulle guance, beninteso. Perché, tutti lo sapevamo, quello non sarebbe stato un volo qualsiasi, non per il comandante Johannson.

Wolfgang, così si chiamava il Comandante, era al suo ultimo volo poi, dopo un breve periodo di servizio a terra, sarebbe andato in pensione e avrebbe lasciato la Compagnia per sempre.

Era una vita che volava: aveva cominciato ragazzino appena dopo la guerra, come pilota militare nella rinata Luftwaffe e poi aveva proseguito, di società in società e di Compagnia in Compagnia a volare su un’infinità d’aeroplani in tutti gli aeroporti del mondo. I suoi occhi brillanti e il fisico asciutto, anzi atletico, ingannavano i suoi cinquantanove anni, ma non l’anagrafe della Compagnia che, anche per i migliori Comandanti, obbligava la messa in riposo a non più di sessant’anni. Wolfgang l’avrebbe compiuti fra una settimana e quella che doveva essere una semplice festa di compleanno s’era tramutata un addio alla carriera. Ma il Comandante Johannson non se ne faceva un cruccio. Contrariamente a quanto accadeva ai suoi colleghi non era per nulla rattristato. O almeno non lo dava a vedere. Forse perché era di papà tedesco (ma di mamma italiana), e buon sangue non mente, forse perché aveva sempre praticato il suo lavoro con passione unita ad una naturale giovialità che lo rendeva davvero unico nell’ambiente.

Diciamo la verità: il comandante Johannson era un vero scavezzacollo, un giocherellone matricolato che non perdeva occasione di organizzare scherzi ai suoi compagni di lavoro e, talvolta, anche ai passeggeri. Pur rimanendo nell’ambito della decenza, riusciva a mettere di buon umore tutti, compresi i passeggeri che immancabilmente salivano a bordo con una paura fottuta dipinta sul volto. Beh, lui riusciva a divertirli e a rilassarli. I suoi annunci non mancavano mai della barzelletta di rito e volare con lui era davvero un piacere, oltre che un lavoro. Per questo tutti i colleghi facevano a gara per formare l’equipaggio con lui … magari non proprio pagare due biglietti della finale di Coppa di Campioni.

In realtà, Wolf, come lo chiamavano tutti, era un professionista attento e scrupoloso, un gran manico per intenderci, tollerante con i suoi uomini – soprattutto se donne – e comprensivo con il personale della manutenzione o dell’assistenza a terra. Non avevo mai sentito un’hostess parlar male di lui – nonostante fosse manifesta la sua debolezza per il gentil sesso – Forse perché non s’era mia permesso di fare loro delle avance in pubblico o sul lavoro. Forse perché sapeva, col suo fascino dell’uomo nordico – alto, biondo, occhi azzurri e fare disinvolto – di planare sul morbido. Forse perché non era sposato né aveva legami affettivi stabili. In definitiva tutti lo consideravamo un bravo diavolo, generoso e garbato, per quanto deciso ed ironico.

Aveva però un unico vizio: il bere! Non che fosse un alcolizzato, per intenderci. Le rigorose visite mediche cui i piloti commerciali vengono sottoposti ogni sei mesi lo avrebbero condannato immediatamente, no, diciamo che la mancanza di una vita familiare e la carenza di un vero affetto lo inducevano talvolta a rifugiarsi in una bottiglia di buon vino. Veramente più di una e questa sua debolezza si riscontrava a tavola, quando non rinunciava mai ad un buon bicchiere, forse due, o ad un buon aperitivo a fine volo, al bar dell’aerostazione. Qualcuno aveva cominciato a dubitare che la sua insistenza nell’andare a prendere qualcosa prima del volo non fosse una sua forma di cordialità ma … una necessità. Di fatto, in tutte le centinaia di tratte che avevamo fatto assieme (io come secondo) non l’avevo mai visto bere niente di più alcolico di una coca-cola, e pure degassata.

Ma si sa: certe malelingue, purtroppo, si fanno strada facilmente in un ambiente in cui il pettegolezzo non è certo privo d’argomenti, nel caso di Wolf fu davvero devastante: nell’arco di qualche mese dal suo arrivo in Compagnia tutti i dipendenti, dai dirigenti ai meccanici di linea erano a conoscenza della piccola debolezza del Comandante. Tanto che era stato soprannominato “Whisky”.

Ovviamente lui ne era venuto a conoscenza, perché è risaputo che gli aeroporti hanno occhi, orecchi e soprattutto lingua, solo che lui, per nulla turbato della cosa s’era preso gioco della turpe insinuazione e, allora un giorno, c’aveva chiamati a raccolta, prima d’imbarcarci, dandoci convegno sotto il musone dell’A300.

– Camerata – esordì nel suo italiano volutamente intedescato – A partire da oggi, ja, vige nova d-i-s-p-o-s-i-z-i-o-n-e per mio equipagio, ja! –

Ci guardammo esterrefatti l’un l’altro, io e le assistenti di volo, fantasticando che il comandante fosse effettivamente brillo. Ma erano appena le nove del mattino! Una di loro, perfidamente, ammiccò portandosi un finto bicchiere alle labbra.

Wolf fece finta di non vederla ma poi con brutalità le chiese: – Tu dire me, prego, quale essere tuo nome? Frau …? –

L’hostess si nascose nella sua divisa, diventando più paonazza del tessuto amaranto scuro che aveva indosso. Poi, facendosi coraggio disse: – Ambrogini – e aggiunse con un filo di voce: – … assistente di volo Lorenza Ambrogini.

Il Comandante mise allora la mano in tasca e per un attimo temetti qualche atto sconsiderato … invece tirò fuori un innocuo gessetto bianco. Poi si girò verso l’enorme ruota del carrello anteriore e fece una tacca radiale sul copertone. Noi non credevamo ai nostri occhi. Quindi scrisse il nome “Ambrogini” accanto alla tacca.

– Pene – riprese austero il Comandante, poi rivolgendosi a me disse: – Ora tu dire me tuo nome, prego.-

Decisi di stare al gioco e risposi: – Secondo pilota Filippo Rossini, her command! –

– Rossini? – chiese incuriosito

– Affermativo, her command – risposi perentorio. Mi sembrava di vivere il personaggio di “Ufficiale e Gentiluomo”. Mancava solo che il sergente di colore, quello sempre arrabbiato, mi chiedesse da quale città provenissi e facesse la battuta che da quella città provengono solo tori e … invece il Comandante mi chiese di nuovo: – Rossini? … come aperitivo? Io conosco ja, molto puono, ja! –

I sorrisi cominciarono a serpeggiare sui nostri volti.

Lui, invece, si girò di nuovo e ripeté l’operazione della tacca e del nome. A farla breve, ci ritrovammo tutti nostri nomi sulla gomma nera del pneumatico, diviso abilmente come una torta da tante tacche ben distanziate. Ma ancora non capivamo dove il Comandante avesse intenzione di andare a parare. Ci tolse finalmente dall’angoscia.

– Io ora spiegare voi, ja! … quando aeroplano atterra su aeroporto io scenda e controllo p-o-s-i-z-i-o-n-e ja, di tacca con riferimento gamba carrelo. Voi capito, ja?

Facemmo un segno d’assenso … ma ancora non c’era chiaro nulla.

– Molto semplice, ja: chi indica tacca paca da bere a tutti equipagio! –

Scoppiamo in una risata liberatoria e lo mandammo amabilmente a quel paese. Wolf ce ne aveva fatta un’altra delle sue!

La prima a dover pagare l’aperitivo all’equipaggio, quella sera, fu proprio l’hostess Ambrogini.

******

Erano trascorsi più di undici anni da quel fatidico giorno, eppure, mai una volta, eravamo venuti meno a quel pittoresco rituale. All’inizio della tratta, il Comandante Wolf, munito di gessetto, segnava sul pneumatico il nome dei suoi uomini e donne per poi esigere, al termine della serie di tratte, il pagamento della buffa scommessa contro il caso. Praticamente faceva parte delle procedure pre-decollo.

Ovviamente questa strana pratica non era sfuggita al resto della Compagnia confermando l’aureola di pazzo scatenato del Comandante Johannson.

E così fece anche quella mattina. Quello che non poteva immaginare Wolf fu che ci ritrovammo esattamente con lo stesso equipaggio di undici anni prima. Un caso? No, due biglietti per la finale di Coppa dei Campioni, sic!

Quel giorno facemmo tre tratte Roma- Lisbona, Lisbona-Londra e Londra-Milano con rientro tecnico a Roma. Confesso che quando venne il momento di salutarci, una volta sbarcati i passeggeri e ultimate le procedure post volo, avevamo tutti gli occhi torbidi. Per l’ultima volta Wolf scese la scaletta e, secondo un rituale consumato, si avvicinò al pneumatico del carrello anteriore.

Solo che le tacche erano sparite e, insieme ai nostri nomi, c’era scritto: “Addio Wolf!”

Ci schierammo ordinatamente in silenzio, a mò di picchetto d’onore. Lui si girò all’improvviso e con gli occhi torbidi sbottò: “E mo’ chi paga da bere?”






NOTE: Un sincero ringraziamento ad Enrico Rossini per avermi accennato di questo Comandante, quello che tutti vorremmo nella cabina di pilotaggio




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§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§




Big Mark

I misteri della nebbia rosa



Non è possibile!

– Mezzanotte!

– Ma dico? Come m’è venuto in mente?

– Booh!

– E parlo pure solo!

E sì che all’inizio m’era sembrato tutto “umanamente” possibile! Insomma cosa sarà mai montare l’antifurto all’automobile? Sarà stato l’entusiasmo della modica spesa? – da non credere: solo sessantaseimila lire -. Sarà stata la gioia di sapere finalmente impenetrabile la mia carriola a quattro ruote? … fatto sta che era già l’ora delle streghe – la chiamo così chissà per quale ricordo d’infanzia – … e stavo ancora lì, in officina, ad armeggiare con fili, filetti e cianfrusaglie varie … e per di più in un giorno di ferie!

E sì, perché quell’operazione delicatissima – non per l’automobile, beninteso, ma per la mia salute mentale – l’avrei potuta eseguire solo in un giorno di vacanza. E magari fosse stato uno solo!

Forse perché troppo impegnato, forse perché appassionato da quel lavoro – possibile? – insomma … non m’ero accorto dell’ora.

Ah, ecco: l’orologio da polso l’avevo tolto per evitargli pericolosi “virtuosismi articolari” … quello dell’automobile era fuori uso – isolato dall’alimentazione – e quello dell’officina … segnava – da un paio di giorni – un’improbabile quanto irremovibile: una e un quarto.

Fortunatamente c’era un orologio – quello biologico – che, per quanto senza lancette, era relativamente preciso. Peccato che andasse interpretato! In quel momento gli occhi intorpiditi, una serie sospetta di sbadigli – e non poteva essere il lavoro noioso, perché non lo era, anzi – e una stanchezza generale mi suggerivano in modo inequivocabile di “guadagnare” il letto, al più presto.

Mentre mi stavo giusto domandando se tutto fosse dovuto allo sconforto di non vedere la fine di quel “lavoretto”, le note del “Silenzio”, provenienti dalla caserma dell’Aeronautica, a duecento metri da me, appena oltre la rete dell’aeroporto militare, mi urlarono convincenti: “Vattene a dormire, disgraziato!”.

Insomma, dovevo riconoscerlo: ero cotto. Per quella sera, anzi mattina, non ce l’avrei mai fatta … e così feci!

Sistemare le mie infinite carabattole, spegnere tutto e chiudere le porte dell’hangar fu cosa insolitamente faticosa. Neanche l’aria gelida dicembrina giovò più di tanto alla mia penosa condizione psico-fisica. Mi ritrovai così a tirar fuori la bicicletta dall’altro hangar – per raggiungere il mio alloggio – senza che ne fossi cosciente. Ero così poco cosciente che infatti presi per mia quella che invece … era stata di Konstantino.

In verità avevano: stesso telaio, stesso colore, stessa marca … la differenza stava che la mia era un po’ più accessoriata – tachimetro, trombetta, luci di posizione, catarifrangenti – e un po’ meno dotata di cambio – solo tre velocità, purtroppo – … praticamente: quasi uguali. Era pure vero che ormai avevo preso l’abitudine di usarla ogni tanto per non lasciarla alla mercé delle ragnatele, della polvere e della ruggine. La mamma di Kostantino me l’aveva pregato. Aveva deciso di lasciare tutte le cose appartenute al figlio – l’automobile, la bicicletta, perfino l’aliante – lì in aeroporto dove lui le aveva usate e dove noi – me lo avevo chiesto tra le lacrime – le avremmo dovute continuare ad usare … in sua memoria . E dall’amicizia che gli volevamo.

Che terribile giorno … l’incidente!

Ormai era già passato diverso tempo … eppure spesso mi tornava alla mente con una tale vividezza che … quasi mi convincevo fosse capitato ieri.

Sembrerà assurdo, ma a volte avvertivo addirittura la presenza di Konstantino: niente spiritelli avvolti in lenzuoli bianchi o apparizioni bluastre no, niente di tutto questo ma … piuttosto una presenza discreta e silenziosa, eppure decisa quale era stata quella terrena.

Non so come … ma sentii la mia voce dire: “Scusa Kosta … hai ragione … questa è la tua … ora la rimetto dentro”.

Eh sì: ero proprio stanco!

Nel tirar fuori la bicicletta – giusta, stavolta – mi resi conto di uno spettacolo che raramente si verificava ma di cui anche altre volte ero stato testimone: la nebbia rosa.

Ora che un rude meccanico di aeroplani – tutto chiavi in pollici e grasso per cuscinetti oppure bollettini tecnici e computer – possa avere una seppur minima sensibilità d’animo … beh, sembrerà molto strano. Certo era che quello che avevo di fronte non mi lasciava del tutto indifferente.

In quella valle alluvionale, attraversata da ciò che non si può definire proprio un torrentello, e cinta da montagne – di duemila metri – la nebbia è di sicuro un evento meteorologico frequente. L’aeroporto, in particolare, ne è sovente assediato – praticamente dall’inverno fino ad inizio primavera -.

A volte, specie nei periodi con cielo sereno, ristagna per giorni interi, sollevandosi un poco – ma neanche poi tanto – nelle ore centrali della giornata. Va beh, ma allora?

La nebbia che c’era quella sera non era una vera e propria nebbia: era … era un morbido tappeto … candido che galleggiava a qualche centimetro da terra. Sembrava quasi che il terreno, zuppo per le copiose piogge dei giorni precedenti, avesse il fiatone … tanto che il suo respiro affannoso produceva il classico “fumetto”.

I lampioni che erano disseminati lungo il perimetro dell’aeroporto militare, emettevano invece, una calda luce arancione e completavano la magia. I fasci luminosi, che lambivano la coltre nebbiosa, assumevano dei riflessi dai toni del rosso, del rosa, dell’ocra. Tutto l’aeroporto era così coperto da un grande manto rosato.

C’era forse qualcosa di tetro e d’inquietante in tutto questo ma … io, che conoscevo bene i perché ed i per come del fenomeno fisico, ero solo affascinato dalla sua bellezza.

A volte la nebbiolina aveva delle repentine fluttuazioni, quasi che qualcosa la turbasse – forse un colpo di tosse del terreno? – A volte ondeggiava o tremolava timida, incerta se guadagnare altro cielo o rimanere lì, appena sopra i fili d’erba.

– Certo che sono proprio stanco, eh?!

– Io, un tecnocrate, che si mette a fare il romantico alla Byron.

– E continuo a parlare da solo … e non solo … t’ho, adesso c’ho pure le allucinazioni!

Stavolta, infatti, non era il solito ondeggiare, il ribollire casuale che conoscevo, sembrava piuttosto come se qualcuno camminasse nella nebbia. In realtà i riflessi della luna illuminavano un poco il buio ma riuscivo a scorgere appena un’ombra, o quello che la mia mente insonnolita assimilava ad un’ombra.

Stropicciarmi gli occhi fu la prima cosa che feci per svegliarmi, sbadigliare la seconda – non ero così masochista da rifilarmi uno schiaffone o il classico pizzicotto! – E infatti non ottenni granché risultati: la figura si avvicinava e non solo, ora distinguevo qualcos’altro in mezzo al campo, ma era troppo lontano e troppo poco illuminato. Certo che però poteva dare l’idea – ma solo l’idea, eh! – di un aliante.

Mi sembrava quasi che qualcuno fosse atterrato e che, lasciato l’aliante a bordo pista, venisse verso l’officina a sollecitare il recupero. Se quelle fossero state le cinque del pomeriggio non ci avrei trovato niente di strano, anzi mi sarei precipitato a svolgere nient’altro che uno dei miei compiti. Ma sapevo bene che non erano le cinque del pomeriggio!

Mi era capitato altre volte, rientrando la sera tardi, di trovarmi qualcuno davanti, all’improvviso. In genere erano persone che facevano una “sgambettata” serale o accompagnavano i loro cani a farne una. Che fosse uno di questi?

Magari poteva essere il solito tizio con i funghi nel cervello … cioè, intendo … che s’era messo alla ricerca di funghi. In aeroporto ce n’erano davvero tanti – di funghi e di malati per i funghi, anche – peccato che non li avrebbero potuti mai cogliere durante il giorno. Già, perché li avremmo “invitati” caldamente ad andarsene! Prima che qualche aeroplano o qualche aliante li avesse fatti a striscioline! Mica per i funghi!

Probabilmente era un recidivo: a quell’ora nessuno l’avrebbe colto sul fatto … volevo dire: nessun aeroplano avrebbe compromesso la sua incolumità. Inoltre era lo stesso gioco di luci, nebbia e riflessi che spesso creava strane sagome. Ma che nulla avevano di solido.

Nonostante le mie capacità intellettive fossero molto prossime allo zero, mi venne quasi spontaneo lanciare un ammiccante: – Ueilà! – straconvinto che nessuno mi avrebbe risposto e … che sarei rimasto stecchito dal terrore se qualcuno l’avesse fatto … – Sempre operativi, eh?

– … o per tutti i palloni aerostatici! … sto’ sognando o cosa? … non può essere! … qualcuno mi ha risposto! … ma no, ho sentito male! … eppure non posso aver sentito male: c’è un tale silenzio! Quasi di tomba! … vorrei vedere: è l’ora delle streghe … o Dio! Tomba, streghe, spiriti … fantasmi? … il fantasma di Konstantino? … solo lui potrebbe dirmi una cosa del genere! Quella era la nostra parola d’ordine durante lo stage di Grumento … la usavamo solo noi! Solo noi due sappiamo cosa significa! … che qualcuno ci abbia sentito e ora voglia farmi uno scherzo? … non è possibile! … nessuno se ne andrebbe in giro a quest’ora … e a far cosa poi? … no, ho pensato a voce alta e allora … sì, sì, dev’essere andata così: ho pensato a voce alta! Ormai dopo un momento di ragionevole sbandamento, m’ero costruito una spiegazione più che logica – no, è? – , beh, allora diciamo … abbastanza logica.

E proprio perché ispirato da questa logica che replicai verso la presunta voce con un timido:

“Operativi al massimo! Sempre!”

Non ottenni risposta – e per fortuna! – Ormai ne ero certo: era stata un’allucinazione! Certo che però … la sagoma a bordo pista doveva essere una bella allucinazione perché dava tutta l’idea di essere ancora lì!

– Sarà il caso d’andare a vedere?

Stavo di nuovo parlando da solo, stavolta però, non per sollecitare la risposta di qualcuno che – ormai ne ero certo – non c’era, ma per … dare conferma alla mia più che solida spiegazione – no è? – Va beh, comunque incominciai col muovere qualche incerto passo in quella direzione, trascinandomi dietro la bicicletta – la fuga è più veloce su due ruote -.

La nebbia mi nascondeva i piedi ma io mi muovevo con estrema circospezione: chi mi avesse visto in quei momenti mi avrebbe preso per un nottambulo pazzo furioso. Io invece, mi sentivo come chi attraversa un campo minato … ma la curiosità era troppa e dovevo andare a vedere …

Arrivato a metà strada, mi sentii soddisfatto di me stesso – e anche più sollevato, lo confesso -. La sagoma non era nient’altro che l’ombra della vecchia garitta di sorveglianza dell’aeroporto, allungata a dismisura dalla luce alogena che illuminava l’ingresso laterale dell’hangar militare.

– Visto? Tutto ha una spiegazione razionale!

La serata con brivido poteva finire lì. Tornai verso gli hangar dell’Aeroclub, violentemente illuminati da una vivida luce bianca al neon – quant’era bella!

. Inforcai la mia bicicletta e me ne andai – con una certa sollecitudine – verso il mio alloggio.

Tempo dieci minuti ero a letto, tempo dodici ero già nel mondo dei sogni.

Mi aspettavo una notte di incubi, infatti fu tutto un ricordare, un rimuginare quanto mi era accaduto durante la permanenza a Grumento. Quella era stata già nella realtà un incubo, figuratevi riviverla pure in sogno! Naturalmente mi apparve anche Konstantino – niente numeri però -.

Al mattino non mi ricordai più di tanto quelle che erano state le mie avventure notturne.

Cominciai la giornata con la promessa solenne che avrei finito assolutamente il lavoretto che mi ero procurato. Anche perché l’indomani avrei partecipato ad una cerimonia di commemorazione – e nessun antifurto al mondo me lo avrebbe impedito – a sei mesi dalla scomparsa dell’amico Konstantino.

Inforcai la mia bicicletta e mi diressi verso l’officina per una seconda giornata di litigio con l’antifurto.

– Certo che combinazione, eh!

– Ieri sera ho creduto che mi parlasse … questa notte l’ho sognato … e domani vado alla messa di suffragio: eh, la mente umana è proprio un gran mistero!

Ero troppo preso nel fare queste considerazioni. Non mi accorsi che la sua bicicletta era lì – parcheggiata come sempre lui aveva fatto – davanti al suo alloggio.



A perenne ricordo di Konstantino … ed in fiduciosa attesa dei numeri






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Big Mark

17 dicembre 1903

Orville si svegliò d’improvviso.

Il vento, forte e teso con non mai, fischiava minaccioso attraverso le pareti e il tetto.

Si sollevò con i gomiti dalla scomoda brandina e di scatto si voltò verso il Flyer.

Nell’hangar regnava il buio più completo, eppure, del biplano, riusciva a vederne ogni singola travatura, ogni tirante ed ogni cavo di comando. Sentiva l’odore del legno di frassino e di abete con cui era costruito, sentiva nelle dita l’intelatura di mussola di cotone grezzo che l’inseparabile Katharine aveva cucito con infinita pazienza sulle ali sovrapposte. Poteva vedere le grandi eliche bipala, lo scontroso motore da quattro cilindri in linea realizzato appositamente per loro dal caro amico Charles Taylor e le piccole ali mobili orizzontali, appena riparate, che svettavano imperiose sul lungo traliccio a sbalzo.

Il Flyer riposava tranquillo.

Eppure non c’era una sola finestra dalla quale passasse la luce della luna: – A che scopo farla? -, s’erano chiesti due anni prima, lui e Wilbur quando avevano costruito il piccolo hangar, – Ci dovrà stare solo il Glider! – si dissero. Erano più che convinti che quella solida baracca di legno stagionato sarebbe stata sufficiente per il ricovero e la manutenzione della loro macchina volante. E non c’erano neanche lumi a petrolio: – Troppo pericoloso – avevano subito concordato all’unisono.

Eppure Orville, gli occhi puntati verso il buio, vedeva il Flyer davanti a sé, voglioso di spiccare il volo, ma non abbastanza leggero da farlo con quel soffio che passava impertinente tra le tavole.

Orville, rassicuratosi, si adagiò sulla brandina: – Devo dormire – disse tra sé e sé, – Domani è il grande giorno, lo sento, e non voglio rovinarlo per disattenzione o per stanchezza -.

Avevano lavorato trentasei ore ininterrotte, lui e Wilbur, per rimediare al piccolo danno che, due giorni prima, Wilbur aveva provocato in atterraggio. Atterraggio!? … sì, il Flyer aveva tentato di decollare: il motore al massimo dei giri, Wilbur aveva mollato il cavo di ritenzione, lui lo aveva accompagnato sostenendo l’estremità dell’ala fino a quando … il biplano aveva percorso tutto il binario ma, staccatosi improvvisamente dal carrello sul quale correva, non era riuscito a guadagnare il cielo ed era caduto quasi subito a terra. Un pattino anteriore s’era infilato nella sabbia e le alette orizzontali anteriori e si erano danneggiate non poco.

– Wilbur è stato solo sfortunato – pensò Orville, – la fortuna è così: ora ti sorride … ma tra un istante è già di un altro. –

A Wilbur, solo tre giorni prima, aveva davvero sorriso: avevano tirato a sorte lanciando in aria un nichelino ed aveva vinto. – Quello – si disse Orville – avrebbe potuto essere il primo volo nella storia di una macchina più pesante dell’aria e invece … –

Non c’era invidia in Orville: per lui, Wilbur, non era semplicemente il fratello maggiore o carne della sua carne. No, per Orville, Wilbur era la parte razionale di sé, quella riflessiva che non si lasciava andare di fronte all’insuccesso o alle difficoltà. Orville sapeva di essere un sognatore, un intuitivo, uno che aveva visioni folgoranti e che sapeva anche concretizzarle praticamente. Wilbur però, più maturo, era razionale e determinato, forte delle proprie ragioni e convinzioni. Un vero metodico. L’uno era la compensazione dell’altro. E non poteva esserci invidia tra loro. Erano i fratelli Wright e nient’altro.

– No – pensò Orville ad alta voce: – Il Signore ha voluto così. Ha fatto in modo che Wilbur non rimanesse ferito e che il Flyer non si danneggiasse troppo.-

Per un momento, sentì nella sua voce quella del padre, il reverendo Bishop Milton Wright: “la volontà del Signore” ricorreva continuamente nei suoi sermoni e nei testi che scriveva e poi pubblicava nel Religius Telescope. Ma non perché glielo imponesse il ruolo di vescovo della comunità religiosa della Chiesa Evangelica degli United Brethern in Christ, quanto perchè vi credeva fermamente. Così tanto che, di riflesso, anche lui e Wilbur ne erano altrettanto convinti.

– Se il Signore vorrà … e se avremo lavorato bene … il Flyer domani volerà – pregò Orville.

La volontà del Signore, sarebbe stata certo determinante … ma i due fratelli sapevano di aver lavorato davvero moltissimo.

Orville chiuse gli occhi. Prima di addormentarsi rivide sé stesso e suo fratello … bambinetti nella cantina della vecchia casa di Dayton, in Hawthorn Street, costruire per gioco, e anche per qualche spicciolo utile alla famiglia, piccoli giocattoli, congegni meccanici, e aquiloni in particolare. Rivide il modellino di elicottero di sughero e fil di ferro che, quando lui aveva solo sette anni … e quindi Wilbur undici, il reverendo Milton aveva regalato loro scatenando, forse, la curiosità per le macchine volanti. Anche mamma Susan li aveva stimolati: una donna colta e con una naturale predisposizione per le invenzioni. Rivide il suo viso sereno dalla carnagione chiara, i capelli quasi biondi, gli occhi intelligenti … e cadde in un sonno profondo.

L’alba era ancora lontana.

Il vento spazzava impetuoso la spiaggia di Kitty Hawk. Teso e gelido, sferzava con violenza la torretta costruita per le prime prove con il loro veleggiatore … erano passati già tre anni. Sibilava dispettoso attorno all’hangar dove Orville aveva insistito di dormire, quella notte, e non risparmiava, rumoreggiando, l’attigua casetta di legno che ospitava Wilbur. Non c’era altro accanto a loro: solo dune di sabbia e l’Oceano. E un oceano ancor più grande sopra di loro. La collina di Kill Devil Hill, qualche miglio più a sud, li guardava sorniona.

– Che diavolo di posto! – s’erano detti la prima volta che c’erano andati. Da casa loro, avevano dovuto percorrere diverse centinaia di miglia, in treno, attraversare l’Ohio e arrivare fin lì, nella North Carolina, nella parte più orientale del paese.

– Ringrazia l’U.S. Weather Bureau (Ufficio Meteorologico Federale, N.d.R.) – aveva detto sarcastico Orville. Ma non era certo colpa di Wilbur se, alla sua richiesta, quelli avevano risposto con indicazioni sbagliate: – Altro che venti tesi – aveva aggiunto bonario Orville, – altro che venti costanti e di piccola intensità: se va bene, qui ci saranno almeno trenta nodi di vento … con raffiche fino a cinquanta!? Chiamala brezza! – aveva infierito Orville. Wilbur aveva sorriso sconsolato: per l’ennesima volta aveva avuto la dimostrazione di quanto fossero fallaci le informazioni fornite dalla scienza del loro tempo e dai suoi depositari.

Orville si agitò nel sonno, scosso da brividi. Ma non erano dovuti al freddo: erano gli incubi. Incubi terribili che lo inseguivano, ormai, ogni notte. In uno di questi, l’elica destra schizzava via dal suo albero e rincorreva il Flyer, tranciandolo pezzo dopo pezzo, come un tritacarne per gli hamburger. In un altro, ancora più terrificante, lui era a terra e vedeva il Flyer salire in aria, salire, salire, salire … fino a scomparire alla vista per non riapparire più. Ma il più sconvolgente, era l’incubo che ricorreva, ormai con insistenza, già da qualche settimana … praticamente da quando avevano ricevuto la notizia del fallimento di Langley.

Come loro, anche Langley aveva tentato di far volare la sua macchina più pesante dell’aria. Si chiamava “aerodrome” ed aveva due bizzarre ali in tandem. Per alcuni mesi Orville e Wilbur, avevano lavorato incessantemente, preoccupati che egli potesse superarli nell’impresa … ma dopo un primo tentativo finito miseramente, al secondo, l’aerodrome si era sfracellato cadendo nelle acque del fiume Potomac. Purtroppo per Langley, nonostante il lancio a mezzo di catapulta a vapore ed un motore molto migliore rispetto a quello del Flyer, l’aerodrome non aveva neanche accennato a volare.

Orville e Wilbur, appresa la notizia, s’erano guardati l’un l’altro e, senza proferire una sillaba, s’erano complimentati a vicenda per aver preferito tutt’altre soluzioni aerodinamiche e costruttive. E, naturalmente, ringraziarono il Signore per averli preferiti a Langley: – Le nostre preghiere ed un’esistenza condotta nella grazia di Dio, ci hanno salvato – aveva commentato Wilbur.

Il fratello assentì con un cenno della testa ma, sapeva bene, e Wilbur lo sapeva meglio di lui, che il loro Flyer non avrebbe volato solo per intercessione dell’Onnipotente.

Orville prese a dimenarsi nel suo letto improvvisato, perseguitato dal suo incubo. Egli vedeva Wilbur ai comandi del Flyer, lo vedeva staccarsi da terra, guadagnare qualche decina di metri di quota e poi … frantumarsi sulle dune di Kitty Hawk, sollevando una gran nuvola di sabbia.

– E’ stato un incubo premonitore – aveva confessato a Wilbur. Quando aveva abortito il decollo, tre giorni prima, Orville era rimasto pietrificato, incapace di correre dal fratello che, incolume, scivolava giù dall’ala del biplano, preoccupato più per piani orizzontali che per sè.

– Ho vissuto il mio incubo peggiore – gli aveva spiegato Orville. Wilbur lo rassicurò: – Non temere, fratello mio – poi, con pacatezza, aggiunse – … non farò la fine di Lilienthal.-

Orville allora, gli occhi persi al cielo, tornò con la memoria a quel lontano giorno dell’ottocentonovantasei in cui avevano appreso, dai giornali, della morte del grande pioniere Otto Lilienthal. L’uomo che, secondo loro, per primo, si era cimentato con metodo e rigore scientifico nella grande sfida all’aria.

Orville, rammentò che anche Wilbur era rimasto letteralmente sconvolto dalla notizia, forse anche più di lui. Sinceramente, non riusciva a ricordare altre occasioni in cui aveva visto il fratello così scosso. Però, né lui né Wilbur, ricordò ancora Orville, avevano accettato con rassegnazione le ultime parole del pioniere tedesco: – Qualcuno dovrà pur sacrificarsi -. Erano state pronunciate sul letto di morte, è vero, ma erano state riportate dai giornali, più per enfatizzarne la teutonica follia che la pervicacia del geniale ricercatore.

Orville allora capì il vero senso delle parole di Wilbur: non voleva semplicemente rassicurarlo, no, intendeva ricordargli che il loro approccio al mondo del volo era stato ancor più rigorosamente scientifico e ancor più spietatamente sperimentale di quanto avesse tentato di essere quello dello sfortunato ingegnere tedesco. Così facendo, non avrebbero mai rischiato la loro vita … semmai il successo della loro impresa.

– Lo so, Wilbur- rispose Orville fiducioso – noi faremo solo la fine … dei fratelli Wright -.

Orville fu preso da un fremito improvviso: il Flyer stava precipitando e lui era impotente. Nel sonno urlò. Fu allora che si svegliò, bagnato di sudore, nonostante la temperatura glaciale. Nella mente, l’ultima scena ancora vivida.

Gli ci volle un poco per rendersi conto di dove si trovasse. Ascoltò il vento: era calato. C’erano circa quindici nodi, ora: – Se si mantiene così – disse a voce alta – …. possiamo ancora farcela –

Il Flyer era piuttosto leggero, circa 750 libbre (340 kg, N.d.A.) con tutto il pilota e sarebbe stato difficile governarlo con un vento superiore ai venti nodi. Non potevano certo permettersi di sottovalutare il vento. Anche e soprattutto in considerazione del motore di cui disponevano. Wilbur però, al termine del suo tentativo sfortunato, se ne era dichiarato ampiamente soddisfatto e aveva così dissipato uno dei maggiori motivi di preoccupazione di Orville. Anzi, aveva addirittura insistito con lui affinché il lungo binario, ove correva il carrello di supporto del Flyer, fosse portato dal fianco della collina di Kill Devil Hill ad un tratto di spiaggia completamente piano: – Possiamo fare a meno della pendenza – gli aveva detto Wilbur, e aveva aggiunto:- Vedrai … la macchina volerà stupendamente! –

Orville, non dubitò neanche un istante delle parole del fratello: non era abitudine di Wilbur fare previsioni … a meno che non fossero ampiamente meditate. Tuttavia, Orville non poté fare a meno di mostrare una smorfia di scetticismo: non più tardi di venti giorni prima, era dovuto correre a Dayton per far ricostruire, con materiale più resistente, l’albero di supporto dell’elica destra … senza parlare poi, dell’infinità di problemi che l’installazione del motore, sulla cellula del Flyer, aveva creato loro: – E poi ho gli incubi!? – aveva detto scherzosamente al fratello.

D’altra parte, lo stesso Wilbur, analizzando nei dettagli il suo decollo abortito, aveva riconosciuto apertamente di preferire il vecchio libratore al nuovo biplano: il Flyer era assai diverso dai loro vecchi Glider, benché ne derivasse in tutto e per tutto, salvo che per la presenza del motore.

Sia lui che Orville, su quelli avevano consumato migliaia di voli, con quelli avevano imparato a volare: l’incomodo del motore li avrebbe disorientati non poco. Almeno all’inizio.

– Dovremo abituarci all’idea – commentò Orville – e cambiare metodo di pilotaggio rispetto a quello che abbiamo adottato fino ad ora –

– Certo! – riconobbe sconsolato Wilbur – Non c’è altro da fare – poi, con il viso rassegnato disse: – il volo degli alianti, oggi, è fin troppo breve … – e lanciandosi in un’altra previsione che non suonò affatto azzardata alle orecchie di Orville, neanche in quell’occasione, aggiunse: – ma in un prossimo futuro gli alianti voleranno ininterrottamente per ore e percorreranno centinaia di miglia … ma la storia dell’aviazione la faranno gli aeroplani a motore … purtroppo! –

Anche Orville la pensava allo stesso modo. Era vero: nel corso dei loro studi preliminari, avevano calcolato che Otto Lilienthal aveva volato per un totale di sole cinque ore, nonostante migliaia di lanci effettuati. E anche loro, nonostante tre anni di prove e altrettante migliaia di lanci con tre diversi libratori, vincolati e non … erano riusciti a coprire solo brevi distanze rimanendo in aria per una manciata di secondi ogni volta. Era pur vero che questi brevi voli avevano permesso loro di mettere a punto le macchine e di migliorarle notevolmente, di sperimentare nuove soluzioni e, non ultimo, di prepararli al grande giorno in cui … avrebbero solcato, finalmente, il grande oceano dell’aria.

– Un pilota di aliante fa presto a diventare un pilota di aeroplano – aveva detto scherzando Orville.

Del tutto serio, Wilbur gli rispose: – Chissà se sarà altrettanto vero il contrario? –

– E’ tipico di Wilbur -, si disse tra sé e sé Orville. Quando lui si concedeva qualche provocazione o qualche fantasticheria, Wilbur lo riportava immediatamente alla realtà con affermazioni brutalmente ponderate quanto profonde. Orville non era perfetto, e lo dichiarava candidamente, ma anche Wilbur … Orville, ad esempio, riusciva con grande difficoltà a seguire la rigidissima metodologia del fratello. Affermare che Wilbur fosse disciplinato era poco, secondo Orville. Spesso lo trovava eccessivo se non, addirittura, insopportabile: non c’era motivo, a detta di Orville, di controllare e poi ancora ricontrollare una seconda volta ogni singolo componente del loro libratore prima di ogni volo: – L’hai già fatto nel volo precedente – gli diceva contrariato Orville. Ma Wilbur non sentiva ragioni: – La sicurezza dei nostri mezzi è la nostra sicurezza!- rispondeva laconico. Orville riusciva a malapena a dominarsi: non voleva infierire sul fratello, anche perchè, in fondo, aveva ragione. Una sola volta l’aveva criticato apertamente: quando, due anni prima, Wilbur s’era lasciato strappare una dichiarazione lapidaria da un sedicente giornalista, giunto fin lì a curiosare. Suonava più o meno così: “Per almeno altri cinquanta anni l’uomo non volerà”. Orville non gliela aveva mai perdonata. Non volendo, Wilbur aveva alimentato proprio quel certo tipo di stampa che era sempre alla sola ricerca di notizie sensazionalistiche ed inattendibili. “La peggiore stampa” la chiamava Orville, dalla quale avrebbero dovuto sempre ben guardarsi perché non avrebbe certo giovato loro, a chi, come loro, stava rincorrendo un sogno millenario e, soprattutto, ai lettori che non venivano affatto informati ma, al massimo, “impressionati”. Ma ciò che più aveva amareggiato Orville era il comportamento di Wilbur che, in quella occasione, s’era lasciato prendere dallo scoramento e non solo: l’aveva esternato. Il loro secondo aliante, proprio in quei giorni, stava rivelandosi un vero fallimento: avevano applicato con eccessiva fiducia i dati sui profili curvi raccolti da Lilienthal. Per un istante, presi entrambe dallo sconforto, avevano addirittura pensato di mollare tutto … ed era stato in quei momenti di debolezza che quel “satanasso” di giornalista aveva avvicinato Wilbur. Da allora in poi, i rapporti con la stampa s’erano fatti difficili. Orville ne era consapevole, e talvolta, anche compiaciuto. La stessa vicenda di Langley poi, era stata significativa: non avevano nessuna intenzione di essere lapidati pubblicamente dalla stampa dopo aver vissuto il dramma dell’insuccesso, già di per sé enormemente traumatico. Sarebbe stato davvero troppo. Anche per loro. L’insuccesso del giorno prima aveva perciò ridestato il sopito dissapore in Orville ma fortunatamente, pensò, non avevano vissuto la stessa triste esperienza con la stampa: la notizia non aveva avuto eco sui giornali. E sì che ce n’erano stati di spettatori. – Non c’erano giornalisti tra loro – aveva detto giocoso a Wilbur. Il quale aveva risposto con un mugugno di assenso. I rapporti con la stampa preoccupavano comunque Orville. Avevano discusso più volte sulla necessità di divulgare il risultato delle loro ricerche e delle loro esperienze ma, erano sempre giunti alla stessa decisione: – Vedrai che, quando arriverà il giorno fatidico … ci prenderanno per stregoni sioux! – disse stizzoso Orville. Ma Wilbur era stato irremovibile. Il loro carattere riservato e la mentalità imprenditoriale fecero il resto. Orville dunque, non biasimò la scelta di Wilbur: convocare per quella mattina i soli addetti alla Life Saving Station (Stazione di salvataggio, N.d.R.) di Kitty Hawk. Uno di loro, John T. Daniels, avrebbe provveduto, all’occorrenza, a scattare anche delle foto. Era un appassionato di fotografia e se la sarebbe cavata egregiamente con l’obiettivo, il diaframma le lastre e gli altri ammennicoli. – Sarà oggi il giorno fatidico? – si chiese Orville scendendo dalla brandina . L’incertezza li avrebbe tormentati fino all’ultimo istante, anche se erano certi di aver superato brillantemente tutti i problemi che, fino ad allora, avevano impedito il volo con il motore di una macchina più pesante dell’aria. Erano certi di aver letteralmente prosciugato tutte le conoscenze tecniche disponibili all’epoca, e di aver progettato, realizzato e poi sperimentato ogni singolo componente del Flyer con grande scientificità. Certo, avevano goduto dell’appoggio e dell’incoraggiamento di Chanute, avevano adottato la travatura reticolare di Pratt, avevano preso spunto dalle esperienze di Lilienthal, si erano ispirati al planoforo di Penaud e all’ariel di Henson, … ma quanti problemi e vuoti scientifico-tecnologici avevano superato grazie alla loro sagacia e perseveranza!? S’erano costruiti una piccola galleria del vento con la quale avevano sperimentato centinaia di profili confermando che i dati forniti da Lilienthal erano davvero sovrastimati. Avevano progettato e costruito le due eliche: le prime con un rendimento sufficiente per il decollo di un velivolo. Avevano realizzato il loro motore: piccolo, leggero e abbastanza affidabile. Avevano reso finalmente governabile, su tutti gli assi, la loro macchina volante. Come? Installando, per primi: i timoni di direzione, di profondità (stabilatori, N.d.R.) ed un originalissimo sistema di svergolamento delle estremità alari (precursore dei moderni alettoni, N.d.R.). E poi: avevano centrato e bilanciato la loro macchina disponendo il motore lateralmente, in posizione opposta a quella pilota. Pilota che, per ridurre la resistenza all’avanzamento, era letteralmente disteso sul dorso dell’ala. Con grande disappunto di Wilbur. Avevano montato le due eliche spingenti sul bordo d’uscita alare, nello spazio tra le due ali e, a mezzo di trasmissione a catena, avevano dato loro un senso di rotazione opposto l’una all’altra per evitarne la controrotazione. E ancora: i pattini, il sistema di lancio su carrello sganciabile, il radiatore sul montante alare … – Niente male per due costruttori di biciclette! – esclamò Orville. Finì di vestirsi e indossò la pesante giacca di lana. Sfilò dal taschino l’orologio e s’incamminò verso la porta dell’hangar. Aprì lo sportellino del suo orologio da tasca … ma non per conoscere che ora fosse. Albeggiava. Il mare in burrasca. Il vento da nord, gelido, teso, sui trenta nodi. Il chiarore illuminò il minuscolo ritratto della madre e la fotografia del padre. Insieme a Wilbur, erano tutta la sua famiglia. Né lui, né il fratello avevano una moglie e dei figli. Neanche una fidanzata: – Nè mai l’avremo – sosteneva Wilbur: – Nessuna donna – diceva – che sia abbastanza sana di mente, riuscirebbe a condividere un’esistenza con me o con te, caro Orville. – All’esortazione di spiegarsi meglio, Wilbur aveva aggiunto: – E’ molto semplice. Noi siamo dei missionari, o se vuoi, degli invasati: dipende dai punti di vista. La nostra mente, il nostro cuore e il nostro corpo perseguono un solo grande sogno … e in questo grande sogno, lo sai bene, non c’è posto per una donna. Non esiste donna in terra che accetterebbe di esserne semplice cornice – Wilbur aveva ragione: non c’era moglie che avrebbe rinunciato al marito, ai figli, alla tranquillità economica, ad una casa e ad una vita normale … per cosa? Non avrebbe mai capito. – C’è un prezzo anche per i sogni – disse, rivolto alla madre. Orville alzò gli occhi torbidi e si girò verso la piccola baracca: Wilbur era sulla porta. Come lui, era già vestito, come lui guardava l’alba, come lui valutava il vento. Il loro sguardo s’incrociò. Un sorriso solcò il viso austero di Wilbur, Orville aggrottò i baffi sorridendo a sua volta. Entrambe erano svegli … eppure, entrambe stavano sognando. Era l’alba del 17 dicembre 1903.

Il reverendo Milton Bishop Wright aprì il telegramma e lesse: “Fatti con successo quattro voli giovedì mattina tutti contro ventuno miglia di vento partendo in piano con potenza del motore solo media attraverso aria trentuno miglia il più lungo 57 secondi informa la stampa a casa a Natale. Orville Wright”

Il volo a motore era nato: il volo a vela l’aveva partorito.

Note: 1) il telegramma riportato è quello che, completo di errori, fu ricevuto veramente da Bishop Wright, il pomeriggio del 17 dicembre 1903 a Dayton. Alle 10.23 del mattino, Orville aveva volato per 12 secondi coprendo 120 piedi (37 metri) ma, nel volo più lungo di quella giornata, Wilbur riuscì a volare per 59 secondi e 852 piedi (260 metri) di distanza. 2) un ringraziamento particolare al mio insegnante di tecnologia aeronautica, prof. G. Ciampaglia, che ci ha regalato, forse, l’unico libro in lingua italiana sull’argomento: “I fratelli Wright e le loro macchine volanti” – 1993 – Istituto Bibliografico Napoleone 3) le vicende narrate hanno fondamento storico, i dialoghi e le considerazioni espresse dai personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. In buona parte. 4) Orville e Wilbur Wright non si sposarono mai … ma coronarono il loro grande sogno!


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Big Mark

La gita scolastica



– Pronto, Eva?

– Sì? … pronto!

– Ah ciao, carissima. Sono Carmen.

– Ciao, Carmen.

– Beh, come stai?

– Abbastanza bene … grazie.

– E Alfredo? E Sara?

– Sì, bene anche loro … grazie … come mai questa telefonata?

– Mah, era un po’ che non ci sentivamo, poi giusto ieri ti ho incrociato di sfuggita al parcheggio in piazza, ti ho salutato ma tu – probabilmente – non mi hai vista.

– No … mi dispiace … non ti ho proprio vista …

– Ma dai, figurati! Beh, allora ho pensato che avessi portato Sara dal professore, quello che ti ho consigliato io. E’ così?

– Sì … in effetti … è così …– Me lo immaginavo, sai. Tutto bene? Le ha passato una bella visita?

– Sì … direi … di sì.

– Ah, mi fa, piacere. E che cosa t’ha detto?

– Beh … io non è che capisca molto i termini clinici …

– D’accordo: ma t’avrà pure spiegato di che cosa si tratta, o no?

– Sì … più o meno …

– E allora?

– Mi ha detto … che … non c’è niente di grave …

– Tutto qua?

– No … che … Sara attraversa un’età critica …

– E basta?

– No … che non è una malattia vera e propria …

– Davvero?

– Sì … è solo una questione nervosa … che non bisogna forzarla e che le passerà con lo “sviluppo”.

– Ma perché, Sarà non ce l’ha ancora le sue “cose”?

– Beh … da poco … ha solo dodici anni!

– Perciò non le ha prescritto nessuna cura?

– Beh … non precisamente.

– Ecco dicevo io: possibile che non le avesse dato qualche medicina, poverina!? Almeno per tenerla un po’ su!

– Beh … in realtà non è proprio una medicina …

– Ah no? E allora cos’è?

– Il professore l’ha chiamata … “terapia introspettiva”.

– Cioè?

– Bah … non te lo so spiegare bene … neanch’io ho capito granché …

– Prova! Cos’è, t’ha consigliato di andare da uno psicanalista? A me puoi dirlo. Non c’è niente di male, sai. Ne conosco uno bravissimo. E poi sono o non sono tua amica?

– Ma sì … certo.

– E allora?

– Deve scrivere un diario.

– Un diario?

– Eh!

– Un diario?! Certo che è piuttosto strana come terapia. Sarà una nuova metodologia. Va beh, ma che ci deve scrivere su ‘sto diario?

– Mah … da quello che ho capito … le sue impressioni, i suoi pensieri … i suoi piccoli segreti …

– Ah, un diario!?

– Appunto …

– No, è che pensavo che non intendessi il classico diario, quello che scrivono tutte le ragazzine. Ma è sicuro che è la cura giusta? Da quello che so io, Sara è molto introversa, quasi apatica, indifferente a tutto, non ha interessi, non le piace niente, non ha quasi emozioni. Ora – dico io – come fa a curarla un semplice diario? Comunque se te l’ha detto il professore … sai, lui è un luminare. Sarà di sicuro la cura migliore. Ma almeno, Sara l’ha cominciata?

– Sì, credo di sì … ah, scusami … suonano alla porta: deve essere proprio lei!

– Ah va bene, allora: ti saluto. Oh mi raccomando: se dovessi aver bisogno dello psicanalista non fare complimenti perché ne conosco uno davvero bravo.

– Sì … grazie … arrivederci …

– Arrivederci, e fammi sapere eh?

– Sì, sì … certo … grazie.

– Ciao, Sara!

– Ciao, mamma.

– Cambiati, svelta: è pronto in tavola. Ti ho preparato un piatto speciale per pranzo.

– Grazie … magari dopo … non ho fame … vado in camera mia.

– Ma Sara! E il pranzo? Devi pur mangiare qualcosa … e va bene … ma promettimi che dopo farai una bella merenda, eh?

– Sì, certo certo …

******

Raggiunta la sua stanza, Sara, agguanta il suo diario che profuma ancora di nuovo e, recuperata la sua biro preferita, comincia a scrivere … 



Caro diario,

il dottore che mi ha visitato ieri vuole che io scriva un diario. Io non l’ho mai scritto e quindi non so se lo faccio bene o male. Però il dottore mi ha detto che se lo faccio bene, sicuramente guarirò.

Io non mi sento malata e infatti anche lui, dopo che mi ha fatto un sacco di domande stupide, ha detto che non sono malata. Però, anche se non sono davvero malata, mi ha pregato di raccontarti ugualmente tutto quello che mi da’ un’emozione e che mi lascia impressionata.

Mi ha detto anche che mi devo immaginare come se mi confidassi alla mia migliore amica, alla mamma o alla sorella maggiore, e che invece di raccontarlo a voce lo devo scrivere su un quadernetto solo mio.

Per me non è un problema scrivere: a scuola vado bene, purtroppo non ho una sorella maggiore e neanche un’amica del cuore mentre la mamma certe cose non le può capire perché è troppo adulta. Allora ho pensato che farò finta di parlare con un vecchio amico che si chiama Diario.

Inoltre, mi ha detto il dottore, queste mie confidenze le devo fare per bene, con calma e dall’inizio, altrimenti tu non capiresti. Perché tu non le puoi sapere le mie cose.

Il dottore ha tanto insistito che alla fine ho promesso a lui e anche alla mamma che ci proverò, perché io voglio guarire.

Perciò ecco qui!  

  Rieti, 12 Aprile 1996   Caro diario,

oggi non c’è stata scuola perché la scuola ha organizzato una gita in aeroporto. Capirai che gita: io abito lì vicino!

Io pensavo che sarebbe stata la solita gita un sacco lagnosa. Ho sempre pensato che in aeroporto non c’è niente da vedere: solo un grande prato, qualche capannone, aeroplanetti che ronzano e alianti che fischiano. E invece mi sbagliavo.

Oggi ho visto il mondo da un’altra vista perché ho volato!

Il mondo è completamente diverso visto da lassù: sembra come un grande presepio con le casine, i campicelli, le straduzze, le macchinine.

La terra è tutto quadrati, rettangoli e altri disegni che non conosco e comunque tutti colorati. Delle case si vedono praticamente solo i tetti. Alcuni sono più chiari e altri più scuri. Le strade sono tutte grigie, le automobili piccine piccine vanno pianissimo e le persone si distinguono appena, talmente sono piccole.

Da lassù si vede per moltissima distanza e non c’è rumore, a parte il vento.

La sensazione che ho provato è così strana che quasi non riesco a spiegarti. Mi sembrava di essere al centro di un burrone profondissimo però non riuscivo a vedere i bordi, oppure come se fossi stata al mare all’acqua alta e non riuscivo a vedere la riva.

Io però non avevo paura. Anche perché il pilota che mi ha portato in volo mi ha detto che noi eravamo nelle braccia del vento e che il vento è sempre buono con i suoi figli.

Io sono figlia solo di mamma e papà: che c’entra il vento?

Io non capivo che voleva dire e allora mi ha spiegato che quello era il mio battesimo dell’aria, che lui era il mio padrino, e che l’aliante (Victor Alfa si chiamava) era la mia madrina. E alla fine lo spumante sarebbe stata la mia acqua benedetta.

Che forza! Questo sì che è un bel battesimo!

“Veramente io dovrei fare la Cresima”, ho detto al pilota.

Lui prima s’è messo a ridere e poi mi ha risposto: “Mi dispiace, ma dopo il Battesimo c’è subito il Matrimonio!”, e io:

No, si sbaglia: c’è la Comunione”. Ma lui niente, mi ha zittito dicendo:

“Mia cara, il volo è come l’amore: se è a prima vista è subito Matrimonio, altrimenti beh … rimane una semplice amicizia!”.

Caro diario, io il senso di questa frase non l’ho capito proprio tutto, però una cosa l’ho capita: che mi sposerò presto!

Volare è troppo bello ed io mi sono sentita troppo bene lassù, come un’altra persona. Quando sono a terra non mi va di parlare con nessuno perché nessuno mi capisce, dicono che sono … introversa (credo che si dica così) ma io non ho niente di traverso: io sto bene, è solo che non mi va di stare con gli altri bambini perché sono troppo bambini (pensano solo a giocare e a divertirsi). Anche coi grandi non sto bene perché pensano sempre ai fatti loro e non t’ascoltano mai. In aeroporto invece no.

Ad esempio il volo che ho fatto con l’aliante, l’ho fatto perché il pilota ha prima chiesto se avevamo paura e poi chi fosse l’alunno più timido e sognatore della scolaresca. Io non ho detto niente: di cosa dovevo avere paura se non sapevo di cosa? Poi, quando le mie insegnanti hanno indicato:

“E’ quella bambina lì “, il pilota è venuto vicino a me e mi ha chiesto in un orecchio:

“Signorina, la prego, sarebbe così cortese di accompagnare un vecchio lupo del cielo in una delle sue avventure? E, non ultimo, di dimostrare a tutti i suoi compagni che sono dei grandissimi cacasotto?”.

Io gli ho risposto:”Va bene: se vuole l’accompagno. Solo che io non so’ guidare, eh!”.

Quando sei in cielo non conta chi sei o come sei, sei solo un figlio dell’aria. E lì non c’è bisogno di parlare perché il tuo pensiero già parla da solo. E’ davvero bello guardare fuori perché si può vedere sia cioè che è grande e sia cioè che è piccolo: sta solo a te decidere come guardare.

Potevo andare da un capo all’altro della città senza il minimo sforzo. Potevo percorrere strade diverse, lunghe o corte che fossero, con un semplice sguardo. E poi la mia scuola, i giardini pubblici, toh! … il parcheggio, il centro commerciale e … caspita quella era casa mia! Cavolo che spettacolo!

Però l’emozione più grande è stata quando il pilota mi ha detto: “Vai piccola: prova a guidarlo tu!”.

Io mi ricordavo bene quello che dovevo fare perché ce l’aveva spiegato al brifing  e perché l’avevo già fatto l’altra estate al mare. Ma non era la stessa cosa! Mica ero dentro la sala giochi! Io spostavo la cloche a destra e lui girava a destra come e meglio che nel videogioco, mettevo la cloche avanti e il fischio del vento aumentava, la tiravo a me e subito dopo sentivo l’aliante rallentare.

“Ora prova a termicare”, mi diceva il pilota, e allora io giravo e giravo. Era facile: bastava mantenere lo stesso sibilo del vento e girare in tondo rispetto ad un piccolo gruppetto di case.

“Brava: guarda come sale l’altimetro! Stai guadagnando quota, lo sai signorina!?”. Eh, certo mica volevo scendere io!

“Ora andiamo verso quella nuvoletta laggiù”.

Allora puntavo l’orizzonte e cloche in giù fino a che la voce del vento non si faceva forte forte.

Era bello anche guidarlo l’aliante. In quel momento ho capito perché i piloti vogliono stare sempre per aria.

Poi però piano piano la terra s’era fatta più grande e tutto è tornato lentamente alla solita grandezza.

Il pilota mi ha detto: “Okkei piccola, si torna a casa”.

Allora io gli ho proposto: “Ma non si può mettere un altro gettone?”.

Lui serio, mi ha risposto: “No, mi spiace … ma sei vuoi, tra un paio d’anni, ce lo metterai da sola!”.

Non ho capito subito cosa volesse dire, invece avevo capito che la mia gita in aeroporto era finita lì.

Tornando a scuola, sul pulmino, ho letto il piccolo libricino che ci hanno regalato alla fine della visita e allora ho compreso quale sarà il mio futuro: farò la pilota!

Dovrò aspettare due anni, cinque mesi e dodici giorni (l’ho calcolati) che saranno lunghissimi da passare ma ora almeno so cosa fare, a parte mamma, papà, la scuola e i miei parenti.

L’unico dispiacere è che non conosco il nome del mio padrino, peccato: non lo potrò invitare al mio matrimonio. Addio per sempre, diario!  




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Big Mark

Una domenica particolare



Una domenica così non me la scorderò mai più!

Di una cosa sono sicuro: nel corso della mia lunga vita … uhm, vediamo un po’: sono “uscito al secco” già da … eh sì … sette mesi – un’eternità, non è vero? -, eppure quello che mi è capitato domenica, non mi era mai successo e credo che non mi succederà neanche mai più – giuro -.

Uno pensa: oggi è domenica. Dopo una settimana di lavoro – oh, fare il neonato è una faticaccia mica da niente – avrò pure diritto a dormire un po’ di più? Mi sarò meritato una doppia razione di pappa e coccole? O no? E infatti mi sono svegliato tardissimo – verso le cinque e mezzo del mattino – con il mio consueto appetito: non c’era che lanciare il solito “richiamo” alla mamma. Probabilmente era domenica anche per lei perché subito dopo mi venne a prelevare dalla culla per portarmi nel “lettone” e per offrirmi – finalmente – la colazione. Ah! … nel lettone c’era anche il mio papà! Fatto strano perché in genere, a quell’ora, era già in fermento da un bel po’. Evidentemente era domenica pure per lui: tutti gli altri giorni, ma più tardi, la mamma, mezza addormentata, mi prendeva la manina, l’agitava a destra e a sinistra, poi mi diceva: “Saluta papà, che va al lavoro” … – come se potessi già parlare – . Alla fine si toccavano tra loro con la bocca, papà mi faceva dei versacci in chissà quale lingua e, finalmente, ci lasciava in pace per tutta la giornata. Ma non prima di averci urlato: “Ci vediamo stasera! Ciao, famiglia!”

Eh già, quella doveva essere proprio domenica perché il mio papà se ne stava lì a sonnecchiare nel lettone e l’unica cosa che sentii pronunciargli in modo sbiascicato fu: “Sta’ buono, bello a papà … che oggi andiamo in aeroporto”.

E’ probabile che qualsiasi altro mio “collega” avrebbe reagito protestando sonoramente ma, un po’ perché mi stavo succhiando il mio solito mezzo litro, un po’ perché non sapevo cosa fosse di preciso “aeroporto” … beh … non me ne curai più di tanto. La cosa però puzzava … eh sì, puzzava più della mia cacca più caccosa!

Da quando ero uscito al secco, c’erano state molte cose che non avevo compreso e ora, quella parola … “a e r o p o r t o”.

Ora, me lo immagino, sapete … penserete che io sia il classico pargoletto paranoico con la classica “sindrome da crescita” … e invece no! Io non ho paura di crescere! E neanche di finire nel buffo mondo degli adulti! Non ci credete, eh? Non volete sentire neanche le mie ragioni? Peggio per voi!

Tanto per dirne una, sopra la mia culla, non c’erano appesi i soliti oggetti ameni: gli angioletti, le pecorelle, le farfalline, i cavallucci. No. Sopra la mia c’erano tutti gabbiani multicolori – come se esistessero i gabbiani verdi o a palline bordeaux -. Io li avevo visti i gabbiani! Quella volta che eravamo andati al mare: non erano così! Ne sono sicuro.

Ad esempio, tornando alla culla, la coperta che la mamma aveva aggiunto ai primi freddi, non era una classica copertina – ne avevo viste diverse nei lettini dei miei amici -. No. La mia aveva disegnato sopra tutti aeroplanini. Deformi – è vero – ma erano aeroplanini. Oh, dico “deformi” perché quelli “sani”, credo che fossero invece nelle fotografie giganti che erano disseminate ovunque … nelle pareti della mia stanza. Ora che ci penso, anche le pareti della mia stanza erano parecchio strane: foderate di carta con su tutti … aeroplanini, e ti pareva? Quante stranezze, non è vero?

E pure il mio papà era assai strano. Forse perché faceva il pilota. La mamma mi chiedeva sempre: “Da grande, farai il pilota come papà, vero?”.

“E che ne so?!” le avrei risposto, ammesso che avessi potuto parlare … e anche se avessi potuto, che pretese! Gli adulti non lo sanno che a quest’età si vive alla giornata? Che diavoletto ne so cosa farò quando sarò “lungo” come papà? Intanto, io faccio colazione, beccati questa, tieh!

In effetti parecchie cose erano strane: i giocattoli che avevo – oh, tutti aeroplani! -, i vestiti che indossavo – pure quelli con gli aeroplani -, le storie – di aeroplani e grandi piloti – che ogni volta mi raccontavano per farmi dormire, e perfino il mio nome – Francesco – a volte mi suonava strano: vuoi vedere che s’erano ispirati a qualche personaggio famoso? Chissà?

Pensavo: sarà così proprio il mondo dei grandi, o forse sono io che non lo capisco ancora bene? Comunque ora c’era un’altra parola strana da aggiungere alla lista delle stranezze.

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Una domenica terribilmente particolare

Dopo colazione, non poteva mancare un po’ di riposo, così schiacciai un pisolino, tanto per favorire la digestione. Durò poco: mi risvegliai all’improvviso mentre quei due “vigliacchi” tentavano di abusare di me: mi avevano già tutto lustrato e lucidato – o quasi – ed erano pronti a vestirmi con l’abito che più odiavo: una tuta integrale felpata con un cappuccio di pelliccia pungente.

Ripensandoci anche la mia tuta sembrava la copia in piccolo di quella che portava papà quando andava al lavoro: l’ennesima stranezza.

Naturalmente non potevo lasciar correre un affronto del genere, così … non volendo … mi liberai dei liquidi e dei solidi superflui. Non vi dico la reazione dei miei amabili genitori: mio padre incominciò a pronunciare parole insensate – credo che gli adulti le chiamino bestemmie – e mia madre con l’aria stizzita, prese ad urlare: “E ma che cagone che sei figlio mio! Che cagone! Ma cos’hai mangiato? Un campo di prugne?”

Purtroppo, dopo un primo momento di smarrimento, i miei si ripresero alla svelta tanto che mi ritrovai addosso quattro mani indiavolate che mi sottoposero di nuovo alla tortura del bagnetto, della talcatura, della incrematura e infine della vestizione. Me l’ero proprio voluta io. Ma giuro che quando sarò lungo, mi prenderò la soddisfazione di fare a loro, quello che loro hanno fatto a me da piccolo. Brutti maniaci!

Ad ogni modo, mi portarono sull’automobile di papà – la riconoscevo subito perché anche quella, guarda caso, era pure assai strana: aveva tutti i sedili pieni di aeroplanini, e pure aeroplanini erano attaccati alle pareti trasparenti -.

Mah … davvero molto strano anche il mio papà!

Comunque partimmo per non so per dove e … che volete? … sistemato nel seggiolone, si ondeggiava quel poco per … farmi ricadere in catalessi!

Non saprei dire quanto viaggiammo: forse mezz’ora, forse un’ora, sta di fatto che quando mi risvegliai, mi ritrovai in braccio alla mamma sul bordo di un enorme campo di cui potevo vedere solo un lato perché c’era come rete … sì, credo che fosse una rete, mentre per il resto non se ne vedeva la fine. Allora era questo “aeroporto”?

Ed ecco che papà assunse la classica faccia di “pesce lesso” sprecandosi in una sua personalissima quanto sconclusionata esibizione di rara erudizione: svolse una dotta dissertazione, prima circa l’aeroporto, poi riguardo la zona, poi attorno le splendide condizioni mete … re, meteorologiche, o come caspita si chiamano, e poi … non so di cos’altro diavolaccio perché – non potete immaginare – era una tale sproloquio … che quasi mi stavo riaddormentando. Quando … ad un tratto un tizio urlò a squarciagola: “Via dalle pale!”.

Pensai subito: “Eh, ma quanto è arrabbiato questo! Chissà che gli avranno mai fatto per farlo diventare così cattivo?”.

A volte la mamma, quando litigava con papà mi prendeva da parte e mi diceva: “Non parlarci con quello, che oggi gli girano, le pale!”, oppure quando, solo per la decima volta – nel corso della giornata – mi bagnavo un “pochino” addosso, sempre la mamma, mi minacciava con: “Ah regazzì, attento che m’incominciano a girà le pale, eh?”.

Anche papà, se aspettava più di dieci minuti che io facessi il ruttino, dopo aver preso la poppata delle tre – del mattino -, si metteva a dire sdegnato: “Eh, ma che pale ‘sto bambino!”.

A volte, invece, mi sussurrava trionfante nell’orecchio: “Lo sai? Tua madre è proprio una donna con le pale!”

Tutte le volte però, la cosa finiva lì: o le pale erano nascoste chissà dove e non si vedevano quando giravano, oppure me lo dicevano solo per mettermi paura. Chissà? Insomma queste terribili “pale” io non le avevo mai viste, tanto che alla fine, quasi non ci credevo … che i grandi le avessero davvero.

Mi dovetti ricredere quando, da dove avevo sentito urlare il tipo, da quella specie di aeroplano … eh sì, credo che quello fosse un aeroplano … si scatenò un tale putiferio, un tale rumore, e poi fumo e pure un po’ di puzza, che pensai: “Accidenti come gli girano le pale! Almeno c’ha avvertiti in tempo!”

Allora mi domandai: “Chissà se i miei genitori le hanno uguali?” Comunque ero stato fortunato perché fino a quel momento non le avevano mai usate contro di me: giravano talmente veloci che non avrei mai resistito – il pannolone non mi avrebbe protetto! –

Quelle del tipo inviperito erano così grandi e potenti, che dopo qualche secondo, ci arrivò un ventata micidiale di aria ghiacciata! Perché, quando la mamma doveva freddarmi la minestrina, invece di soffiare a perdifiato non faceva così, eh? Perché? Perché quando d’estate faceva tanto caldo non le facevano girare, invece di sventolare certi aggeggi di carta a striscioline sovrapposte, eh?

Comunque bisogna ammettere che i grandi sono veramente bravi a tenersi addosso quel popò di pale! Soprattutto a portarle in giro! Ah … ecco: forse le smontano e le lasciano a casa! … boh? Altra cosa strana!

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Una domenica decisamente particolare

Assorto in questi insolubili misteri della vita, m’ero completamente dimenticato che s’era fatta, anzi, s’era bella che sfatta, l’ora della colazione. Non è che la mamma fosse mai stata particolarmente attenta agli orari dei miei pasti: se non c’ero io a fare la “sirena” … beh, potevo anche morire di fame. In quell’occasione no. Con fare furtivo e deciso, tornammo all’automobile. Sembrava come se le si fosse messo a trillare il campanello del forno elettrico che usava per scaldarmi le pappine. Lì finalmente, mi concessi il meritato mezzo litro di latte. Anzi di più … visto che era domenica … eh, sì, mi spettava anche il dolce!

Il mio papà era sparito, naturalmente. Allo sproloquio iniziale, la mamma aveva subìto impassibile e io – anche se avrei voluto tanto, e non potete immaginare quanto – non potevo certo sculacciarlo sul sederino, come faceva con me. Insomma subito dopo ci aveva lasciati in pace … aveva attaccato a parlare fitto fitto e a gesticolare in direzione del cielo con un’altro tizio che era già lì sul prato.

C’era qualcosa che non andava: tutto sembrava studiato nei minimi dettagli … e sentivo pure una terribile puzza di cacca … eh no, non poteva essere la mia: finita la colazione la mamma si era preoccupata pure di cambiarmi il pannolone, perciò non ero io. Ero convinto: doveva essere una congiura!

E infatti ne ebbi la conferma quando mi legò sul seggiolone con tutte le cinture disponibili dentro l’automobile e, messo in moto, ci trasferimmo davanti ad una strana casa tutta di metallo . A quel punto cominciò a mettersi addosso una tuta del tutto simile a quella che … eh già, anche papà aveva indosso. Insomma a che gioco giocavano quei due? Sicuramente non a: “l’aeroplano smontatutto” o a “l’aeroplano impazzito” oppure a “scontro di aeroplani”, che erano poi i giochi che facevo a casa con loro. Bah? La risposta comunque venne a breve. La mamma si mise a parlottare con uno strano figuro, indicando, contemporaneamente me o l’automobile – non so -. Sicuramente parlavano di me perché sentii:

“Non si preoccupi signò, che ce penso io ar pupo”.

Oh, dico! Pupo ci sarai! E poi io già penso da solo! Non ho mai capito quale fosse il nome del tipo: mentre mia madre stava dicendo: “Grazie, Mar…”, un altro arrabbiato urlò:

“Via dalle pale!” e a seguire altro rumore e altra ventata fredda. Fatto sta, che quell’immonda di mia madre ebbe il coraggio di affidarmi a quel bruto … e anche brutto, va bene? E questa è un’altra delle nefandezze che non le perdonerò mai, madre snaturata!

Mentre prendevo nota dell’affronto nel “Libro delle vendette”, il campo intanto … andava animandosi. Da una stradina, che fino a quel momento non avevo notato, incominciavano, a sfilare delle strane automobili: erano uguali a quella del mio papà ma erano legate con una corda a uno strano coso a forma … di supposta, eh sì … di supposta – lo sapevo bene com’erano fatte perché avevano cercato, senza riuscirci, di metterle anche a me quando m’era venuta la tosse -.

Non so per quale motivo … ma a vederli, mi venne in mente una strana parola che avevo sentito tante volte quando ancora ero dentro la mamma … ah quelli sì ch’erano stati bei tempi! Giocare nell’acqua, dormire e mangiare. Peccato ch’era durata poco: tutt’a un tratto m’ero ritrovato “al secco” in mezzo ad un sacco di gente tutta vestita di verde, mah …

Qual’era la parola? Ah, sì: “a” … “alli”, no … “allian” … “alliande”, ah ecco … “aliante”. Ma sì, era aliante perché a forza di sentire da dentro la mamma: “Quando mi porti in aliante?” e poi ancora “Quando mi porti in aliante?”, alla fine ne avevo fatta una cantilena che ripetevo durante i miei giochi: “Quando quando mi porti in aliante – e via un calcio – quando quando mi porti in aliante – e giù una gomitata – quando quando mi porti in aliante – sotto con una testata – …” e così via. Quanto mi divertivo!

In quel momento, invece, non mi divertivo per niente: avevo freddo – e fortuna che quei due infamoni dei miei genitori m’avevano vestito con la famosa tuta felpata spinosa – perché nonostante ci fosse un pallido sole, s’era alzato un vento davvero forte. Forse qualcuno in cielo s’era così arrabbiato, ma così arrabbiato che gli dovevano girare terribilmente. Cosa? Le pale, no?

Comunque, tornando alle supposte … cioè, agli alianti … ormai sul prato ce n’erano davvero parecchi. Tutti colorati di bianco – a parte qualche grosso segnaccio – e tutti in fila … come se fossero stati lì ad aspettare qualcosa. Bah, vallo a capire il mondo degli adulti!

C’era una frenesia, un’agitazione in … aeroporto che prima non avevo notato: gente che andava e veniva, alianti che correvano dietro alle automobili, persone che seguivano alianti … e la fila sempre più lunga. E poi un rumore generale, come un ronzio di moscone in cielo e un fracasso a tratti anche sul prato. Ma non solo: c’era una malefica scatola gialla ad un “tiro di ciuccio” da me: beh, sembrava che dentro ci fossero cento persone che parlassero una dopo l’altra, senza pausa, a parte qualche fischio o brontolio. Era simile alla scatola che era a casa, ma da quella uscivano tutti suoni melodiosi tanto che mamma dopo un po’ si metteva a cantare!

All’inizio non capivo niente di quello che diceva quella gente … beh, mi ci misi d’impegno … da non credere! … capii ancora meno! Cosa può mai significare: “Ho due metri in laminare!” Lami … che? Oppure: “Ho preso un rotore di sottovento in testata nord”. Un rotone … disotto a vento … capocciata sul nord? … eh sì, parlavano proprio un’altra lingua … chissà di quale paese? Mah! In ogni caso, qualunque cosa significassero quei bofonchi, dovevano essere di estrema importanza perché scatenarono un’ulteriore frenesia, aggiunta a quella che c’era già …

… oh, per tutte le pappe frullate! E questo cos’è? Un mostro venuto dallo spazio! O forse … un animale … che vive solo in aeroporto? Me la facessi tutta addosso … vuoi scommettere che questo è un “lungo”? Ma com’è vestito? Certo che da quando sono “uscito al secco”, ne ho viste di persone strane … ma quelli che sono su questi prati verdi … devono essere davvero strane strane!

Che volete che vi descriva? Era talmente assurdo! … va beh, ora vi spiego: doveva essere un’adulto. Come dire … che aveva smesso di prendere il latte da un bel po’ … Veramente il mio papà al mattino lo prende ancora, anche se è già abbastanza lungo, cioè … Allora, diciamo … ah, ecco: era parecchio tempo che non se la faceva addosso … Oddio la mia mamma, che pure lei è adulta, ogni tanto si mette ancora i pannolini – eh, sì … l’ho vista io, con i miei occhi! Che volete fare? Anche questo mi doveva capitare! –

Comunque, tornando al marziano … beh, forse si capisce di più se vi dico che: era più lungo del mio papà, poi era più largo del mio papà, era più brutto del mio papà, aveva più peli sul viso del mio papà, non parlava come il mio papà … fortuna, che non era il mio papà!

Aveva addosso … come il rotolo di alluminio che usava la mamma per mettere le pappine in frigorifero, proprio quello: era tutto metallico, frusciava e cigolava a ogni passo. Vestiva una tuta, dalla testa ai piedi e si riusciva a vedere solo il viso – e anche se avesse avuto coperto pure quello, non ci saremmo persi niente, vero? -.

Ai piedi aveva delle strane scarpe che arrivavano fino al ginocchio: sembravano simili a quelle che la mamma indossava quando pioveva a dirotto. Ma oggi, per tutte le cacche, non pioveva! Cosa doveva mai fare ‘sto soggetto?

– Ti sei equipaggiato bene, eh? – gli diceva un tizio tutto intirizzito che stava vicino alla scatola gialla. – Certo! E’ dall’anno scorso che mi preparo – Ecco perché s’era messo la tuta di metallo: per conservarsi meglio, no?!

– Ma … – diceva il tizio con aria furtiva, – ce l’hai l’ossigeno? – Sì. – E … quanto ce ne hai? – continuava il tizio con aria ancora più furbetta. – Quattro – rispose il mostro, facendo cenno con le dita. – Quattro litri? Ma è roba buona? – Tranquillo: con quello vai in paradiso!

Il discorso s’era fatto troppo losco e, sdegnato, preferii non ascoltare una parola di più: il marcio era arrivato fino in aeroporto! E io che pensavo che fosse un posto sano e pulito?! Mah …

Decisi allora di buttare uno sguardo in direzione del prato. Ecco cosa ci facevano tutte in fila le supposte … pardon, gli alianti: aspettavano l’arrivo dell’aeroplano – quello cui giravano le pale, e quale sennò? -. Però ancora non capivo! Ah, ecco … c’era un omino buffo che correva a destra e a sinistra: raccoglieva un filo, legava l’aliante all’aeroplano, aiutava un secondo omino – che fosse il pilota? – a entrare nell’aliante, chiudeva il coperchio trasparente e alla fine teneva in mano l’aliante. Va be’, ma io ancora non capivo! Ah … ecco, ecco: il primo omino si sbracciava in chissà quali segnali in codice, le pale si mettevano a girare forte forte e sia l’aeroplano, sia l’aliante che il povero disgraziato si mettevano a correre sul prato. Poi … miracolo!! Non so come si chiamasse quello strano gioco, ma era davvero impressionante: l’aeroplano e l’aliante si sollevavano dall’erba e incominciavano a salire nell’aria, sempre più alti e sempre più lontani verso il fondo della pista.

Veramente … come gioco … non è che dovesse riuscire molto bene perché il poveretto – oh, ce l’aveva messa tutta a correre – rimaneva sempre a terra con la faccia stravolta. Comunque non si perdeva d’animo: ricominciava a legare, poi a chiudere, e ancora a correre … macché, niente da fare … e allora dagli a legare, a chiudere, e a correre … forza, su … che prima o poi ci riuscirai a rimanere attaccato all’aliante e a volare con lui! Mica ti scapperà sempre di mano, no?

*****

Una domenica particolarmente particolare

A questo punto qualcuno della scatola gialla urlò che si trovava a “cinque” … “cinquemila”? – ma che poteva mai significare? – e che c’erano “trenta” … sì, sì, “trenta gradi” sotto a qualcosa. Forse sotto ad un certo zero? Boh … Comunque quella voce continuava dicendo – e questo l’avevo capito subito – che aveva i piedi congelati e il ghiaccio tutt’intorno. Vuoi vedere che era rimasto chiuso dentro un frigorifero? Magari ancora più freddo di quello che c’era a casa e che faceva i cubetti di ghiaccio – me li mettevano in testa quando davo qualche craniata qua e là: oh non ti lasciano neanche divertire questi adulti! –

Ma non è possibile! … c’era qualcuno dentro alla scatola gialla che s’era messo a ridere! Ve lo dico io: adulti adulti e poi sono peggio dei neonati!

Comunque il tipo che era vicino alla scatola non aveva certo gradito lo scherzo dell’altro e anzi aveva cominciato ad urlare dentro ad una specie di gelato legato con un filo alla scatola gialla: “Quanto fa due più due?”

Ma dico?! … vogliamo essere seri? Lo so’ perfino io – anche se non ho la più pallidissimissima idea di quello che possa significare – che due più due fa quattro! – il papà lo diceva sempre alla mamma quando andavamo a far la spesa al supermercato – … beh, incredibile … quell’altro non ti va a rispondere: “T t … r r e e e!”

Sembrava la voce di un ubriaco … secondo me s’era fatto qualche bicchieretto di troppo e ora … che volete … dava i numeri! Posso capire che facesse un gran freddo ma … sgomitare il gomito a quel modo!? – così si dice, vero? –

Il tizio vicino a me, comunque, non era assolutamente deciso a sospendere l’interrogazione e continuava: “Come ti chiami?”, oppure: “Fa’ una serie di numeri” e ancora: “Adesso falla al contrario”.

Ma dico? Siamo in aeroporto o ad un quiz televisivo? La mia mamma ne andava pazza e obbligava anche me a vederli … nonostante le mie “sonore” proteste.

L’altro, più bevuto che mai, rispondeva: “Giovan … Giona … tan”, poi: “U… no, du…e, qua…ttro, set…te” e per finire: “Die… ci, nove, se…i, ot…to” Insomma, a farla breve: era arrivato in paradiso.

– Scendi subito, disgraziato! – Ma … tu … chi sei? – Vieni giù, te lo ordino! – Va’ be …ne, A … dolf, hi hi hi.

Che cartone animato! Neanche Mimì e Willy il Coyote erano così divertenti – me li faceva vedere papà nella scatola delle immagini. Chissà se piacevano anche a lui? Magari soffriva in silenzio per farmi contento! Mah!? –

Preso da questo scambio di cordialità, non mi ero reso conto del tempo che passava e che ormai l’aeroporto era ritornato un semplice prato verde: degli alianti neanche l’ombra. Anzi, no! Guardando bene, qualcuno ne appariva all’improvviso nel cielo sempre più scuro – andava velocemente a far notte – e scivolava nell’erba fermandosi in mezzo al prato.

Da dov’ero io vedevo benissimo che il tizio che era dentro l’aliante, apriva furtivamente il coperchio trasparente e con ancora addosso una strano sacco blu, si nascondeva dietro l’aliante per fare pipì.

Oh, dico! Già passi il fatto che negli alianti non ci sia il bagno – papà e mamma fanno lì i loro liquidi e solidi – passi che si mettano a spargere acqua in pubblico, ma non si può certo ammettere che allaghino l’aeroporto: oh, ne avrà fatta … un litro! Apposta l’erba è così verde!

Comunque non ne potevo più: ero insonnolito, infreddolito, affamato, assetato, incaccato e pure “incazzato”! – doveva essere una parolaccia e non so’ cosa significasse, ma la diceva spesso papà … e ci stava bene, tieh! –

Passare una domenica in aeroporto può essere pure interessante ma non ci vedo niente di divertente ad essere, nell’ordine: abbandonato dai propri genitori, affidato ad un orco, stordito dalle scatole gialle, spaventato dai marziani, e infine corrotto da piloti ubriachi che fanno uso di ossigeno. E lasciamo stare tutte quelle odiose persone che s’erano dilettate in melense tiritere del tipo: “Oh ma che bel pupo, pucci pucci bubu settete!” A quelle ormai m’ero abituato.

Così, quando i miei genitori ricomparvero all’improvviso davanti ai miei occhi, beh … mi lasciai andare ad un pianto liberatorio di gioia e di rabbia nello stesso tempo.

In compenso non avevo mai visto mamma e papà così felici, così vicini tra loro. E’ vero che avevano il naso rosso e le dita fredde – la mamma me l’aveva messe addosso per … cambiarmi il solito pannolone – ma mai come quella domenica di volo in aliante – perché quello avevanofatto, vero? – m’erano sembrati così … innamorati.

Per conto mio, e vi ho raccontato tutto perché voi possiate comprendere e perché io me lo possa ricordare nei giorni futuri, pronuncio questa promessa solenne: dopo l’esperienza di questa domenica, giuro … che non tornerò mai più in aeroporto.




A Peter Coppola e a tutti i neonati di oggi, domani e dopodomani: che possiate avere molte domeniche particolari!

(quello con la mano scivolosa)




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