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Racconti degli autori

Mio figlio, il pilota

La signora Redward era partita presto, quel mattino, perché aveva curato di pensare ad ogni cosa per tempo fin dalla sera prima. Si era preparata delle tartine, di quelle che piacevano a suo figlio John, che lei sapeva fare così bene fin da prima del suo matrimonio; aveva disposto, di fianco alla porta, per non dimenticarsene, la borsa con dentro l’impermeabile, perché di quella stagione non si sa mai, ed il termos pieno di tè, dissetante e senza zucchero; gli abiti che avrebbe indossato erano già pronti sulla poltrona in camera sua: la gonna scura e la camicetta pesante, lo scialle che le aveva portato suo marito da Boston e il cappotto, quello con le due ampie tasche che erano tanto comode quando si doveva spostare. Aveva anche fatto la sera prima quelle pulizie che poteva, giusto per evitare di trovare un disastro in casa al suo ritorno. Quel mattino, dunque, la signora Redward non perse tempo e fu alla stazione degli autobus un buon quarto d’ora prima della partenza. Non fu difficile, per lei tanto mattiniera, uscire così presto, benché le prime ore dei suoi giorni si svolgessero solitamente in casa, indaffarata alle faccende domestiche. Di solito usciva solo più tardi, per le spese. La signora Redward approfittò dell’attesa per annotare mentalmente i conti e gli acquisti che le sarebbe toccato fare l’indomani, perché quel giorno non avrebbe avuto tempo per altro che per John. D’altronde, da quando suo marito Arnold era morto, non aveva più molte cose di cui occuparsi nell’appartamento troppo grande. L’autobus non era affollato alla partenza, ma lei sapeva che si sarebbe riempito alle fermate successive. Quelle poche volte che aveva potuto recarsi alla base aerea, parecchi chilometri lontano, aveva sempre trovato qualche persona simpatica con cui passare il tempo del viaggio. Come montò fu salutato dall’autista, il figlio di una cara amica. “Buongiorno, signora Redward, andiamo alla base?” “Certo, caro Mick, però non sapevo se partire, questa mattina. Non vedo l’ora di arrivare, sapesse la gamba come mi ha dato fastidio ieri… Spero di non avere problemi durante il viaggio, sa com’è lungo.” “Non si preoccupi, signora, andrò tanto leggero che le sembrerà di stare seduta a casa davanti al televisore.” “Ma non è colpa sua, Mick, è che quando si diventa vecchi non va mai bene niente.” Mick sorrise, perché sua madre era piuttosto simile alla signora Redward, che nonostante la sua età parlava di vecchiaia solo per amore di dialogo. Era stata spesso malata, anche da giovane, ma non si era mai lamentata. Ora però… “A proposito di televisione, sa che oggi c’era una puntata che mi interessava, sul canale sei? – disse lei – stanno per prendere il colpevole della truffa all’agenzia di Rhoda News, e…” Mick trattenne a stento una risata. Quel giorno aveva accolto con piacere la notizia di un altro viaggio nel pomeriggio, proprio perché in tal modo non si sarebbe trovato a casa mentre trasmettevano quella robaccia. La signora Redward guardò fuori dal finestrino tutto quello che della cittadina era visibile. “Guarda, pensò, hanno affittato la vecchia casa di Mildred.” Continuò a rimuginare: “Il tetto sopra alla drogheria sarebbe ormai da rifare. Chissà cosa aspettano, una casa tanto bella.” L’autobus si avviò con moderata pigrizia verso il consueto viaggio, ed in breve arrivò alla fermata successiva, dove si riempì di pendolari. Erano tutte facce sconosciute, e vicino alla signora Redward si mise un signore assonnato e poco incline alla conversazione. “Buongiorno” fece alla donna, che lo guardava cordiale. “Buongiorno” rispose lei e, dopo un attimo: “Mi chiamo Clara Redward, sta andando al lavoro?” Senza attendere la conferma scontata aggiunse: “Io vado a trovare mio figlio alla base aerea.” Era orgogliosa di questo. “È lontano” commentò l’uomo. “Oh, ma non troppo. Sa, ho portato delle provviste, perché allo snack a metà strada alle volte le cose non sono preparate troppo bene. Comunque in una giornata vado e torno, e ho tempo di stare un poco con mio figlio. È pilota, sa?” “Pilota?” “Sì, pilota di quegli apparecchi che usano adesso, i jet da caccia. Ma mio figlio li collauda pure, quei cosi.” Il signore si limitò ad un sorriso e Clara Redward cambiò argomento. “Ha fatto colazione? Vuole una tartina?” e trasse rapidamente un pacchettino dalla sua borsa. “Le ho preparate io. Senta se non suono buone.” Il signore accettò perché non sapeva come rifiutare. “Buono” disse, un po’ sorpreso. “Sì, vero? Le preparo da anni sempre con la stessa ricetta, che ho imparato da ragazza. Ma ogni tanto ci aggiungo qualcosa di fantasia.” Il signore sorrise ancora e si accomodò più comodamente sul sedile. La signora Redward ricambiò il sorriso e si mise a guardare il paesaggio. Pensava che suo figlio, con la giornata che era, doveva essere uscito leggero, e ora che minacciava pioggia magari si trovava lontano dal suo alloggio. Glielo aveva detto fino alla nausea di stare attento al clima, prima di uscire, ma John non aveva mai fatto caso a niente, sempre perso nelle sue fantasie. Fin da ragazzo aveva avuto un carattere sognante, la testa fra le nuvole, e ora fra le nuvole ci stava davvero spesso. I chilometri si susseguirono rapidamente; il signore la salutò di fretta e scese. Due fermate dopo il posto venne preso da una donna ancora piuttosto giovane. Il suo aspetto era fresco, ma aveva un’espressione abbattuta. Salutò distrattamente la gentile anziana signora vicina al finestrino e si sedette rigida guardando avanti a sé. “Buongiorno” le fece Clara “sta andando in città?” “Sì, all’ospedale” rispose lei. “Lavora lì?” La donna scosse il capo. “Oh! C’è qualcuno? Suo marito?” “Sì” mormorò appena la donna. Clara non osò farle subito qualche altra domanda, perché si accorse che aveva gli occhi lucidi. Tirò fuori il termos e con noncuranza riempì due bicchierini. La signora Redward aveva sempre cura di portare diversi bicchierini con sé. Ne porse uno alla donna che lo prese senza parlare, con un fugace sorriso. Sul suo volto si dipinse un attimo di sorpresa. “No, non è caffè. Il tè è più dissetante e non fa così male. Mio figlio John non aveva mai bevuto caffè fino all’età di quindici anni, perché a casa non se ne parlava neppure. Infatti anche mio marito…” Si accorse che stava toccando un argomento penoso. “Coraggio cara” disse, con un gesto di familiarità che la sua età le permetteva “non so cosa sia, ma non può essere tanto grave.” “Oggi si opera, sa, non ha mai avuto nemmeno un raffreddore…” ma non sapeva continuare. “Oh, e mi dica: che operazione è?” chiese la signora Redward. “Si chiama ectasia, sì; è un danno all’aorta.” “Ah, ma ne ho sentito parlare!” disse allegra. La signora Redward era un’assidua ascoltatrice di trasmissioni mediche. Era solo in quelle circostanze che i dottori le davano un qualche affidamento. “Davvero?” fece la donna con interesse. “Certo: è un’operazione ormai comune, la fanno ovunque senza problemi.” “Spero che abbia ragione, signora.” disse la donna con un mezzo sorriso, e in un baleno si ritrovò il bicchierino pieno di tè. Familiarizzarono ancora un poco, finché la donna fu arrivata e scese. Da quel momento l’autobus, che aveva toccato i quartieri periferici della città, si avviava per un tragitto alquanto lungo, attraverso una campagna quasi interamente coltivata e due altri centri abitati. I passeggeri rimasti erano i pochi che quel mattino partivano per qualche destinazione lontana. Intanto il sole aveva preso il posto delle nubi, riscaldando la strada. Poco oltre, un bivio indirizzava fuori dallo Stato sulla sinistra, mentre a destra già si poteva intravedere la base militare. La signora Redward stette da sola a pensare. Ritornò alla volta in cui suo marito si era sottoposto a quell’operazione allo stomaco; alla preoccupazione che provava per lui. Ma suo marito aveva un carattere deciso, ed era seriamente intenzionato, così le disse: “Clara, sono seriamente intenzionato a non permettere ai miei guai di togliermi il buonumore.” Così le disse, la volta che lei aveva per un attimo rivelato la sua ansia. Non le era occorso molto tempo, dopo sposata, per imparare che con suo marito non si poteva nemmeno mostrare disagio; le sembrava che nel suo profondo fosse sicuro di poter conquistare il mondo solo perché così gli andava. Alle volte questo atteggiamento l’aveva infastidita, perché Arnold le ricordava quei politici alla televisione, tutti presi dall’impegno di sembrare la persona giusta, piena di risorse. Suo marito almeno non aveva la pretesa di essere onnipotente, ma lei l’aveva visto spesso interdetto di fronte alle difficoltà, solo per non averle prese in considerazione prima. E spesso lei si era dovuta impegnare per trovare rimedio a qualche guaio di troppo; una volta aveva davvero creduto che non ce l’avrebbero fatta: Arnold aveva deciso di comprare quella casa e aveva cambiato lavoro; si erano ritrovati con debiti da tutte le parti, un figlio piccolo e tanto lavoro per tirare avanti. Anche Clara aveva impedito ai problemi di deprimerla, ovvero ci aveva provato. Suo marito aveva passato la vita studiando il modo di mettersi in difficoltà, e sembrava che non riuscisse a stare tranquillo se tutto andava bene. Clara non capiva il perché di tanto affanno: gli aveva detto in più occasioni: “Stiamocene tranquilli, Arnold, abbiamo fatto la nostra parte, ora godiamoci i risultati.” Ma lui rispondeva: “Lo dobbiamo fare per noi stessi e per John. Voglio che nostro figlio possa dire che abbiamo fatto il meglio per migliorare la nostra posizione.” Non era stata una vita noiosa, con Arnold, e il vuoto improvviso dopo la sua morte le era parso addirittura incolmabile. D’altra parte, adesso la tranquillità le giungeva gradita, ad un’età in cui non si vorrebbe mai dover ricominciare daccapo, con un figlio grande e ormai autonomo. John… anche lui un conquistatore. Aveva un carattere al peperoncino, lo dicevano fin da piccolo; sempre ad arrabbiarsi ogni qualvolta il mondo non gli obbediva. Adesso la base era di fronte a lei, e le batté il cuore più forte al pensiero che stava andando a vedere quel suo figliolo, che ormai nessuno tranne lei ricordava piccolo. Quel giorno doveva essere libero, e solitamente l’aspettava fuori dai cancelli. C’erano spazi in abbondanza, nel parco interno, ma lui l’aspettava sempre fuori. Dov’era? La signora Redward si guardò in giro, appena scesa, ma non lo vide. Entrò nell’ufficio all’ingresso e vi trovò quel capitano, come si chiamava? “Buongiorno, signora!” Il capitano, che era amico di suo figlio, non ebbe difficoltà a riconoscerla, ma sembrava sorpreso di vederla. “Buongiorno, caro, hai visto John?” L’uomo guardò l’altro militare alla scrivania: “Non sapevo che oggi fosse libero.” “È Redward?” disse l’altro “Io so solo che non escono dall’hangar da ieri.” “L’hangar? Quale hangar? Che ci fa?” chiese Clara. “Stanno provando un aereo” disse il capitano “e hanno dei problemi per la messa a punto. Nulla di serio, ma sa com’è; credo che non sappia nemmeno che giorno è oggi. Venga.” Con esagerata gentilezza, il capitano le prese il braccio e la guidò all’interno della base. Clara si sentiva piuttosto delusa. Da settimane avevano progettato l’incontro di quel giorno, e adesso scopriva che suo figlio non se ne ricordava neppure. Seguì il capitano fino ad un palazzo, vicino alle aree riservate, e giunsero ad un ufficio la cui ampia finestra dava sulle piste più lontane. “Resti qui, signora; vedo se riesco a trovarlo” le disse l’uomo, e si allontanò dopo averla fatta accomodare. Clara era un poco perplessa. Rimase a guardarsi attorno, col pacchettino delle provviste che non sapeva dove mettere, in imbarazzo ogni volta che qualcuno, passando, metteva la testa dentro. All’improvviso, da lontano, le giunse il rombo di un aereo; non era il primo da quando era giunta, ma questo la fece avvicinare alla finestra e vide, sulla pista nello sfondo della base, quasi confusa col tremolio del calore che si alzava dal suolo, la forma di un sottile aereo che prendeva quota un po’ troppo rapidamente, così le parve, e che andava un po’ troppo veloce. Per qualche ragione, le venne in mente che avevano parlato di un nuovo caccia, e che suo figlio forse era proprio lì a bordo. Il suo precedente imbarazzo fu dimenticato, mentre lei seguiva le evoluzioni troppo elaborate dell’apparecchio. “Perché tutti quei rigiri?” si chiese Clara. L’aereo stava provando se stesso: provava la sua velocità, assaggiava il morso dell’aria contro le sue lamiere; si spostava di lato, all’improvviso, come per un’idea bizzarra che lo chiamasse altrove. “Non dovrebbe fare così”, pensava Clara, e l’aereo si alzò rapidamente, con l’urgenza di arrivare chissà dove, ma non in linea retta: cercava qui e là, un equilibrio o una sicurezza. Arrivò infatti, là dove doveva. Prese nuovamente l’assetto orizzontale, e cominciò un tragitto più calmo, come se l’altezza raggiunta non richiedesse più l’affanno di chissà quale ricerca, ma con un’aumentata velocità, quasi nella sicurezza della meta. Successe di schianto: Clara ebbe un sobbalzo, mentre qualcosa si staccava e rimaneva indietro, con uno scintillio presto svanito. L’aereo sbandò, si mise per un attimo di pancia, e iniziò una discesa, più lenta ma tanto, tanto più atroce della salita. Clara non poteva pensare ad altro che a quel giocattolo che si abbassava ondeggiando; pareva qualche persona indecisa sulla direzione da prendere, o uno che a letto non trovasse la posizione per dormire. Clara fu sorpresa di ridere alla strana associazione: quell’aereo non aveva nulla di ridicolo nella discesa. Fu con un sospiro di sollievo che lo vide rallentare la caduta, riprendersi. Si rimetteva in linea, ce la faceva! Fu appena ai limiti della sua consapevolezza che annotò l’accorrere di parecchia gente alla pista di arrivo, mentre l’aereo atterrava, dopo tutti i guai, tranquillamente; lo si sarebbe detto lieto di avere finito. Clara si rese conto di avere le mani indolenzite, strette come si erano al davanzale. Non poteva restare a guardare, e se John fosse stato lassù? Si mosse per uscire, ma la pista era troppo lontana. Rimase alla finestra e guardò in giro, cercando John fra quelli che accorrevano, ma non c’era. Dopo un tempo lunghissimo arrivò il capitano. “Tutto bene, signora. Non è successo niente.” “Ma cos’è stato? E John?” “Non è successo niente, signora, venga, la porto da suo figlio.” L’uomo l’accompagnò con un’auto fino ad un’altra palazzina. Lei era tanto stanca, emozionata e confusa; appena giunti si sedette. Nell’altra stanza voci concitate sembravano commentare i fatti. “Ti dico che era quello!” diceva qualcuno “La stabilità era compromessa nelle strutture dell’ala sinistra.” Clara riconobbe la voce di John, e proprio lui arrivò nella stanza insieme ad altre persone. “Succede tutto durante le accelerazioni” stava dicendo “Mamma! … oh!” Solo allora si ricordò di che giorno fosse; si avvicinò alla donna e l’abbracciò. Clara non sapeva cosa dire. “John, cosa succede? Credevo che oggi fossi libero. Cos’è capitato con quell’aereo?” “Niente di grave, mamma. Ci sono dei problemi ma li stiamo risolvendo.” “Ma c’eri tu lassù?” Clara non si era ancora ripresa dall’emozione. “Sì, certo, ma…” “John, è pericoloso!” “Andiamo, mamma, ne abbiamo già parlato.” entrò dell’altra gente “Ora ti devo lasciare con Fred, ma torno subito. Devo discutere qualcosa. Ci vediamo.” Mentre qualcuno lo chiamava e un altro gli prendeva il braccio dette un’occhiata al capitano, che lo guardava con disapprovazione. L’uomo aveva tenuto un atteggiamento protettivo fin da quando si erano incontrati. John e tutti gli altri sparirono in un turbinare di discussioni. Clara rimase con il capitano di prima, frastornata. Fred, ora si ricordava il suo nome, l’accompagnò su un’auto al bar della base. Fu solo dopo aver bevuto lentamente un altro tè che fece la domanda. “Fred?” “Sì, signora?” “John ha rischiato grosso, oggi, è vero?” Fred abbassò lo sguardo, non per evitare l’altro, ma per trovare le parole. “Vede, non è che sia successo qualcosa di grave. Alcune sovrastrutture, nemmeno complete, hanno ceduto, e così l’aereo si è trovato improvvisamente senza l’assetto giusto. John ha dovuto rimediare a naso, e ci è voluto il suo tempo.” “Ma come si fa, dico io. Non è mica il modo, questo. Salire con un aereo che non va ancora bene…” “È proprio per vedere cosa non va che si deve provare. Se nessuno lo usa, un aereo rimane un sogno ad occhi aperti.” Clara ebbe un gesto di fastidio. “Quando ero una ragazzina, feci a tempo a veder volare i biplani, e da allora ne hanno costruiti di tutti i tipi. Ma a che serve? Non ci sono già apparecchi abbastanza veloci? Cosa mai avrà questo nuovo, che non abbiano anche altri?” Fred sorrise, senza rispondere. Altri aerei si stavano alzando. Clara si domandò oziosamente dove andassero, e nel figurarselo si abbandonò alla fantasia. Pure a lei sarebbe piaciuto andare in qualche posto, se solo avesse avuto un aereo come quelli… magari indietro negli anni. La sera, ormai, era vicina. Tutti i fatti del giorno le avevano fatto volare la giornata, e Clara pensò che ormai non c’era molto tempo. Guardò il grosso orologio appeso al muro. “Fra poco ripassa l’autobus, signora. Vuole che l’accompagni all’uscita?” “Grazie, Fred. Non mi ero accorta di quanto fosse tardi. È stato molto gentile a tenermi compagnia. Certo, se quello svanito di mio figlio mi avesse almeno avvertita, si poteva rimandare.” “Io un po’ lo capisco;” disse lui avviandosi” ha visto com’era eccitato? Scoprire cosa non andava era il suo chiodo fisso da parecchio, ormai. Credo che gli sarebbe venuto un colpo se non avesse risolto i problemi.” “Vuol dire che è grazie a John se quell’aereo volerà?” Era difficile non farsi contagiare. “Non proprio. Si devono rifare alcuni calcoli, fare prove a terra, ma oggi hanno rotto il guscio della noce.” Clara rise al paragone, anche se in fondo sentiva, chissà perché, una certa tristezza. Erano giunti all’ingresso e si sentiva odore di erba; forse era per quello. “Mi spiace signora, ma fra poco dovrò andarmene.” “Non importa, caro Fred, sei stato proprio un tesoro.” “Vedrò se John potrà liberarsi un attimo.” Il capitano esitò ad allontanarsi; poi, con un cenno impacciato del braccio, si mosse e Clara si voltò a guardare la strada, nella direzione da cui doveva comparire l’autobus. La pianura le permetteva di vedere assai lontano, ma non si vedeva ancora. “Le mattine sono più allegre delle sere.” meditò fra sé. Le venne in mente quando da ragazzi suo marito la portava fuori la sera. I suoi tentativi di fare il romantico fallivano perché Clara non era mai dell’umore giusto. Lei in compenso ricopriva Arnold di moine quando si vedevano al mattino. Arnold… Una nuvoletta lontana attirò la sua attenzione, e con dispiacere capì che era l’autobus. Guardò indietro, ma John non si vedeva. C’era ancora l’altro soldato all’ingresso, e le dava fastidio che la vedesse in quella doppia attesa; non le era mai parso bello farsi vedere ansiosi. I colori della sera stavano cambiando, e Clara, che non aveva più la vista di una volta, doveva socchiudere gli occhi per seguire l’autobus; non voleva perderlo di vista, come quando al cinema c’erano scene paurose e non sapeva distogliere lo sguardo; come un daino che non perde di vista il puma che l’insegue; come di solito si tiene desta l’attenzione su quello che ci preoccupa. Le venne in mente che forse poteva rimanere senza benzina. Magari poteva forare, tanto su quella strada non c’era pericolo. “Mamma!” Clara si voltò. “John, che diamine. Ti pare bello sparire così? Credevo proprio di non vederti nemmeno per un attimo.” “Quel figlio di una vacca ha voluto rifare conti finché non l’ho mandato a quel paese.” “John! È questo il modo di parlare? Cosa ti hanno insegnato in Accademia?” “Scusa mamma… E scusa anche per il bidone.” Clara se lo guardò per benino. “Era così importante?” E gli occhi di lui furono un’esplosione di entusiasmo. “Mamma! Era la prima volta che guidavo le prove pratiche, a terra e in volo. Non poteva esserci una cosa più importante di questa. Cioè, non proprio, voglio dire…” Clara rise, perché se lo conosceva bene quel ragazzo. Lo baciò, mentre sentiva l’autobus fermare davanti alla base. John la seguì fin dentro, si accertò di procurarle un posto al finestrino, e si salutarono semplicemente. “Mamma, credo che dopo questa faccenda potrò essere libero per un po’. Se riesco, vedrai che riusciremo a stare insieme a casa.” Era piuttosto stanca, la signora che si apprestava al lungo tragitto verso casa. Casa… Non vedeva l’ora di mettersi a letto. Per quel giorno aveva fatto tanto e aveva combinato poco. Però, che testaccia di figliolo le doveva capitare. Quel ragazzo era tremendo alle volte. Si corresse: quell’uomo. Quanti anni aveva adesso; e quanti ne aveva lei? Le era sempre piaciuto guardare fuori dai finestrini, ma quella volta non continuò. Si abbandonò a ricordare tutte le volte che aveva guardato dai finestrini lungo la strada; le volte in macchina con suo marito, magari tenendo John in braccio; prima ancora, con suo padre alla guida della loro auto scura e suo fratello che le faceva i dispetti; più tardi, sugli autobus che aveva preso tante volte, prima verso l’Accademia Militare e poi verso la base. Una volta suo figlio aveva comprato un’auto e l’aveva portata un po’ in giro, ma era uno sfasciamacchine il suo John, che preferiva guidare quei cosi per aria. Cosa ci trovava, poi? Anzi, cosa andava cercando tutta quella gente che si dannava l’anima per cose di cui nessun’altro si occupava? Erano davvero soddisfatti quando ottenevano i loro scopi, o nemmeno a loro importava? Era sicura di non aver mai avuto negli occhi uno sguardo come quello di John quella sera. O che aveva visto negli occhi di suo marito tante volte. La signora Redward accolse con gratitudine l’ultima fermata. La gamba prese a dolerle un poco. Si affrettò verso casa, osservando la via illuminata, e riprese il filo dei pensieri interrotti quel mattino. Avrebbe dovuto fare altre spese, l’indomani. Pensò all’album delle fotografie, e si ripromise di dargli un’occhiata, qualche volta.


#proprietà letteraria riservata#


Riccardo Baldinotti

Icaro

Poche volte, dal mare, arrivavano i profumi che ne conosceva. Da quando era stato rinchiuso, con suo padre, nel palazzo del Minosse, solo il vento che viene da sud gli aveva talvolta fatto sentire quella fragranza, che le onde sempre portavano a casa sua. I suoi giorni erano innumerevoli, perché non sapeva contare se non quello che portava con sé una differenza mentre laggiù, nel buio della sua prigione, le differenze fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, i quali languono per l’eternità nel nulla e nel vago, erano state ridotte al puro battito del suo cuore, non parendogli i rari gemiti di scoramento di suo padre molto diversi da quelli che nell’Ade anime più vecchie già emettevano. Il suo cuore, dunque, era l’unico legame col vivente che era stato, e che si ostinava ad essere. Aveva già consunto i suoi calzari aggirandosi, come le belve si aggirano, per gli oscuri meandri che nemmeno suo padre, l’architetto Dedalo, poteva dir di conoscere davvero. La paura, che nei primi tempi aveva provato pensando al mostro, anch’essa l’aveva abbandonato. Pure quella, che insieme al dolore tanto distingue i morti dai viventi, al suo posto non rimanendo che l’abitudine, i gesti spontanei che rapidamente aveva appreso per sfuggire la bestia. Il dolore, dunque, era l’unico legame col mondo di un tempo. Il dolore di quando, non sapeva dir se di giorno o di notte, sussultando si svegliava e ricordava. Era un dolore duplice; quello che la natura infligge, giacché molto si vuole più di quanto s’abbia, e certe cose naturalmente si sente di desiderare; e quello che Icaro da sé a sé stesso dava, crudelmente, nel rigirar la lama nel ricordo che, come ferita improvvisa, gli s’apriva nel cuore. Ma qualche volta, si era domandato se quel dolore, trattando di cose che non eran più, non lo rendesse maggiormente simile agli spiriti la cui natura, lui di sangue e carne, con orrore guardava. E allora picchiava i pugni per terra, e si graffiava e si tirava i capelli, cose queste, sì, che nessuno spirito poteva. Suo padre Dedalo, vecchio di anni e d’esperienza, lo guardava con tristezza le volte in cui, non resistendo oltre, dava in grida incaute o picchiava contro i muri troppo solidi per essere abbattuti. Aveva accolto quietamente la notizia della condanna, senza proteste e senza lottare. Icaro capiva la mancanza di lotta: lui era giovane, e sbuffando, gridando, sbavando e lottando aveva fino all’ultimo opposto tutto il suo vigore, di una vita che non voleva finire, ai carcerieri che lo rinchiudevano; suo padre non avrebbe certo potuto. Ma opporre un grido, o un pianto, o una supplica, o meglio una maledizione ai suoi tiranni, era cosa che Dedalo ben poteva, lui esperto nelle parole come nel lavoro delle mani, così come in tutte quelle cose a metà fra il mondo degli uomini e il cielo degli dei. Da quando erano stati rinchiusi, Icaro così passava le sue giornate, o quello che credeva esser tali: imprecando il fato e rimpiangendo la sua vita. Dedalo invece, raccolto appena possibile ogni pezzo di legno, ogni brano di stoffa, grattati i dipinti sui muri, strappato tende e sollevate assi, aveva piano piano costruito qualcosa. Aveva anche lungamente osservato, dai pochi pertugi del soffitto, le mutevoli luci che ad Icaro parevano dettate da un cielo capriccioso al pari di chi l’aveva rinchiuso. Dedalo aveva spiegato al figlio le ragioni di luci maggiori in quella che doveva esser notte, rispetto a certe luci che del giorno non avevano sembianza eppur lo erano. I corpi celesti, che Icaro non conosceva, davano al padre notizie abbondanti. Così, come certi vecchi che passavano i giorni, sulla porta di casa, a lamentar le occasioni perdute, il giovane Icaro lamentava di non saper conoscere un po’ più delle cose, mentre il vecchio Dedalo, che le cose aveva imparato, alle volte levava lo sguardo, tendeva l’orecchio, o assorto considerava qualcosa che solo lui sapeva, anche nella prigionia traendo ricca fonte di esperienza. Icaro, piuttosto, dedicava il suo tempo a studiare percorsi, e inganni, e atti di forza da intraprendere contro le guardie, quelle che ogni tanto aprivano l’unica entrata per gettar dentro gli sventurati giovani Ateniesi. Questi rimanevano a lungo contro la porta ormai chiusa a spander lamenti e dannazioni, così attirando l’orrido mostro che li avrebbe divorati. Anch’egli, nel furore della nuova prigionia, avrebbe subito tale sorte, se non che Dedalo, con un tono di urgenza che il figlio sapeva intendere, gli aveva detto di muoversi, e lui s’era mosso, alla cieca nell’oscurità, verso il solo posto che suo padre sapeva sicuro. Del mostro, non avrebbe saputo descrivere che i rumori. Quando chiese a suo padre se davvero fosse figlio di una donna e d’un toro, se davvero avesse testa cornuta, Dedalo, che rideva poco, era scoppiato fragorosamente e fra le risa aveva rimbrottato il figlio. “Figlio mio – gli aveva detto – se crederai all’impossibile, non saprai mai scoprire le cose possibili.” Volendosi giustificare, Icaro aveva chiesto: “E cosa, padre, è possibile, e come faccio a saper che lo è?” “Hai un servo che te lo può dire, – gli disse il padre nuovamente serio – anche se talvolta s’inganna. Ma per fortuna c’è un sapiente e quello, se è fedele servitore, non sbaglia quasi mai. Infine c’è un giudice che giudica l’operato dei due, e se non tarda le sentenze, raddrizza quasi tutti gli ultimi errori.” “E qual è il mio servo, che non lo conosco, o padre? E qual è quel sapiente che non avrebbe di meglio che servire il mio servo? E qual è quel giudice che perderebbe tempo a giudicare il lavoro d’un servo e d’un sapiente scriteriato?” “Oh scriteriato che sei tu, figlio mio! Se tu sapessi di che sto parlando, avresti capito, ma la tua giovinezza finora t’ha portato altrove, e converrà che ti parli come si parla ad un bambino.” Quei modi, che da nessun altro anziano avrebbe tollerato, Icaro accoglieva volentieri dal padre, perché sapeva che erano l’inizio d’una spie­gazione. Disse dunque Dedalo: “Il tuo primo servitore è il cuore, figlio, e come i servitori un tantino intraprendenti, se non lo tieni a bada diventerà padrone della casa. Tu lascerai a lui, come si conviene, tutti i lavori, ma se non veglierai comincerà a fare a modo suo, e una casa comandata da un servo non ha mai fatto buona fine. Però, siccome è un servo di buona cervice, sarà contento di darti consigli, se gliene chiederai, e ti guiderà per le strade migliori.” “E il sapiente, padre?” “Se qualcuno venisse a dirti qualcosa, con che giudicheresti, altro che col tuo senno? Infatti non conosciamo ancora una sapienza, per quanto misteriosa, che rifiuti il consiglio d’un umano. Questo sapiente sa cose che il cuore dimentica, e allora serve che te le ricordi.” “Devo dunque valutare col senno quanto il cuore suggerisce?” “Certo, e dirimere le controversie che sorgessero fra i due.” “Il giudice, infine?” “Il giudice, che nel tuo caso manca, è l’esperienza. Tante volte capita che i servi ignorino, e che i sapienti sbaglino. Dunque c’è bisogno di qualcuno che ricordi se già una volta certe cose sono accadute, e dica come fu meglio comportarsi.” “Ma che razza d’esperienza può dirmi se il mostro è quello che di­cono?” “Hai mai visto un toro? E un uomo, l’hai mai visto? E quando è accaduto a te, che nascite ne hai pur vedute, di assistere alla nascita di un mostro?” “Se dunque non ho mai visto una cosa, quella cosa non esiste, padre?” “Se non hai mai visto una cosa, e viene uno e ti dice: “ho visto questo e quello”, allora è lì che puoi utilizzare servo, sapiente e giudice. Il servo decide se quella cosa è desiderabile, il sapiente decide se è possibile, il giudice decide se assomiglia a qualcos’altro. Quale cosa, nella tua breve vita, sembra un Minotauro?” “Nulla di mia conoscenza. Ho sentito però di molte strane creature che popolano paesi lontani, e perciò posso credere che esistano minotauri.” “Così risponde il servo. E come farebbe a vivere un mostro simile?” “In realtà non lo so. La testa d’un toro è tanto pesante che non si può sollevare. E poi i tori mangiano l’erba e non la carne umana.” “Questo dice il sapiente. E come risolvi il problema?” Icaro stette, il capo chino, privo di ogni idea. Come risolvere il mistero di un fatto che non si conosce, era cosa che non aveva ancora imparato. “Potrei, padre, avvicinarmi di più al mostro, tanto da vederlo, e giu­dicare da me se un tal fatto sia possibile.” Dedalo sorrise. “Correresti il pericolo?” “E perché non correrlo? Se voglio sapere qualcosa, è inutile che me ne stia a porre domande al vuoto. E in questa oscurità, la vita non vale più di una risposta.” “E fuori, Icaro figlio mio, quanto vale una risposta?” Ancora una volta, Icaro pensò, giacché il vigore della sua giovinezza non gli impediva, contrariamente a molti, di fermarsi a pensare. “Credo – disse lentamente – che ogni risposta conduca da qualche parte. Se dunque voglio arrivare ad una meta, una risposta val quanto la meta.” “E se non sai dove la risposta conduca?” “Come qui, padre: sapere che sia il mostro, non mi condurrebbe da nessuna parte, tranne forse tra le sue fauci. Ma per credere che anche qui, morto a tutti tranne che a me, posso far qualcosa dei giorni che passano, immagino che lo farei.” “Allora anche fuori potresti decidere che un rischio si possa correre.” “Non rischiamo forse ogni atrocità solo nascendo?” La risposta era piaciuta a Dedalo, e l’argomento era terminato così. Icaro continuava a smaniare, Dedalo raccoglieva tutto il possibile, sottraendo al mostro le offerte e il cibo che veniva introdotto nel palazzo con le vittime umane. In questo, suo figlio era solerte aiutante, giacché si trattava di sfidare la causa prima della loro prigionia. “Padre, – aveva chiesto un giorno – se noi uccidessimo il mostro, potremmo uscire?” “Probabilmente sì, figlio, – aveva risposto Dedalo, mentre come sempre era intento alla costruzione di qualcosa – ma solo per morire a nostra volta.” “Ma la nostra morte a che servirebbe?” “A far che non si dicesse: il terribile mostro, a cui i figli ateniesi era­no dati in pasto, è morto miseramente. Sarebbe una cosa in meno da temere, e chi governa con la paura non lo permetterebbe.” “In fondo non è la cosa peggiore. La flotta ateniese non è stata distrutta da un mostro, ma da una flotta più forte. Lo so bene, dal momento che ho partecipato alla battaglia decisiva, fra i primi a metter piede sulla nave nemica.” “Chiedi ad un uomo qualunque se preferirebbe finire ucciso in combattimento tra i flutti, trafitto dalla spada di Icaro, oppure essere fatto a brandelli dalle mandibole di un mostro in un palazzo oscuro.” “Nella battaglia c’è almeno onore.” “Questo dice il servo, – aveva risposto Dedalo, sogghignando – che dice il sapiente?” “Che in battaglia si può anche vincere.” Dedalo aveva storto la bocca. “Che è morte meno atroce” aveva aggiunto Icaro. Dedalo aveva fatto un gesto, come per dire: va meglio, ma non è tutto. Icaro aveva pensato. Cosa può dire il proprio senno di ciò che non conosce? “Ecco, padre! Nessun uomo di senno affronta una morte ignota.” “Così va bene, figlio. E ciò spiega anche perché il mostro sia rinchiuso.” “Non per il suo terrificante aspetto?” “Solo in parte. Se il mostro si aggirasse in un qualche luogo della terra, lo vedrebbero in molti, e dopo averlo visto, smetterebbe di far così paura. Chi si spaventa di cosa vista a lungo?” “Dunque, la paura del mostro sarebbe anche peggiore del mostro stesso?” “È così” aveva risposto Dedalo, piuttosto soddisfatto di avere un figlio che non solo poneva domande, ma che pure cercava le risposte. Icaro, però, non si contentava di parole. Il palazzo che abitavano era abbastanza vasto, da suggerire in lui qualcosa di somigliante a quando, libero e vivo, amava aggirarsi fuori dalle mura, in luoghi che i cittadini evitavano. Anche allora i luoghi più impervi, o quelli meno noti, lo richiamavano maggiormente, dandogli come la speranza che in un anfratto, dietro un cespuglio, oltre una collina, ci fosse la risposta a domande che non aveva ancora saputo porre. Andava solitario, perché non aveva trovato, fra gli amici, alcuno che volesse come lui sondare l’ignoto. Già in città ne parlavano, dandosi di gomito mentre passava, come di un originale, che per qualche ragione voleva farsi notare. Non bastava che avesse combattuto per terra e per mare, che fosse stato fra i migliori atleti, né che avesse sempre partecipato ai riti propiziatori, lanciandosi contro i tori senza paura per un salto oltre le corna che era puntualmente fra i più alti. Ma questo ad Icaro non bastava, mentre avrebbe fatto la felicità di tanti suoi concittadini. Aveva disprezzato tutto quello che faceva, perché altri avrebbero potuto farlo, e perché, ancor prima che fosse finito, sapeva esattamente cosa sarebbe successo: qualcuno sarebbe vissuto e altri sarebbero morti; un atleta avrebbe vinto e gli altri perso; oppure quel giorno il toro avrebbe ancora inutilmente levato le corna al cielo, senza voler raggiungere altro che le membra giovani mentre lo scavalcavano. Icaro, che credeva alla grandezza degli dei, non riusciva a vedere in quegli animali, furiosi e impotenti, un’immagine adeguata della divinità. Gli aveva detto suo padre Dedalo che forse erano immagine degli umani, dagli dei scavalcati senza problemi. Ma neppure gli umani si comportavano come un toro sacro. La maggior parte non alzava il capo, e gli dei non avevano difficoltà a passar sopra le loro teste. Chi lo faceva, era per forare il cielo. Ma il cielo, beffardo, non mostrava segno di essere stato ferito. Icaro, dunque, aveva spesso visitato luoghi deserti. Non era la sfida dei briganti, anche se spesso ponevano maggior impeto nell’assalire soldati, la cui sconfitta li inebriava di gloria, che viandanti inermi capaci solo di fornire poche monete e poco cibo. Non era il bisogno di scalare un dirupo, per vedere se le sue mani erano ancora forti o le sue gambe spingevano ancora, o soltanto per il piacere che dà la percezione della propria forza. Non era mosso, Icaro, neppure dalla curiosità di sapere una cosa di più. Dedalo lo avrebbe fatto. Suo padre avrebbe speso molte vite per sape­re cosa ci fosse dietro una curva della strada. Icaro, che aveva avuto tutto ciò che comunemente era ritenuto dono degli dei, sapeva anche che gli dei non regalavano nulla di utile, e andava cercando cose utili in un mondo di cui nessuno aveva la chiave. Così nel palazzo. Icaro ne conosceva già gran parte, aveva imparato a sfuggire il mostro quando lo sentiva avvicinare. Sperava invece che l’oscurità, come una notte eterna, e l’assurdità del suo stato, lo portassero a capire qualcosa di quello che non si capisce in vita e, come raccontavano le favole, potesse acquisire quello sguardo che hanno le anime di chi, ogni lotta passata, poteva meglio considerare il mondo che aveva abbandonato. Ma, se mistero doveva svelarsi, non era fra quelle tenebre che si sarebbe svelato: Icaro ormai lo sapeva. Chiese un giorno a Dedalo: “Padre, se fuggissimo di qua…” “Vorresti tornare alla nostra città, figlio, o fuggire oltre Atene, nella terra dei lupi, o ancora più a nord, dove vivono popoli sconosciuti?” rispose Dedalo, scherzando, senza abbandonare il suo lavoro. “No, padre, non è questo che m’importa: ovunque possa vivere un altro uomo, lì potrei vivere anch’io.” “E cosa allora ti attrae, nell’idea di una fuga?” “Pensavo: come il sole potrebbe abbagliare i nostri occhi, abituati all’oscurità, così le nostre menti: non saremo abituati a pensieri diversi, non vedremmo le cose in altro modo?” “Penso che l’analogia degli occhi sia bene studiata, e vada approfondita. Vediamo: quanto tempo pensi che ci vorrebbe perché i tuoi occhi si abituassero alla luce?” “Una volta, con amici, scesi in una grotta. Ci restammo fino al tramonto, tanto che, all’uscita, la prima cosa che vedemmo fu proprio il sole che calava di fronte a noi. Restammo piuttosto a lungo, gli occhi chiusi, perché non ci riusciva di guardare. Quando li riaprii, il sole era del tutto sceso. Forse questo mi aiutò.” “Allora ti ci è voluto il tempo che abbiamo passato finora chiacchierando, più o meno.” “È così.” “Siamo qui da parecchio. Forse i nostri occhi vorranno più tempo. Diciamo un intero pomeriggio?” “Per quanto ne so, è possibile.” “E in tutto il periodo trascorso in questo luogo, hanno mai contemplato, quegli occhi, la luce di fuori?” “Padre, ti burli? Da quando siamo stati rinchiusi credi che avrei dato alla vista del sole il modo di essere nuovamente interrotta? Ho con me una spada, e l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stato uccidere un nemico alla luce del sole, piuttosto che risparmiare una vita perdendo di nuovo la mia.” “La tua l’avresti persa comunque, ma non è questo il punto. Dunque non hanno mai più contemplato la luce del sole, eppure entrambi pensia­mo che potrebbero riabituarsi ad essa.” “E anche con gioia, ritengo, in quanto ciò discende dalla stessa ragione per cui furon fatti.” “E io ritengo, Icaro caro, che anche senza di me ora potresti giungere alla risposta. Ma per il gusto di sentirmi utile, vi ti condurrò: quante volte hai pensato alla vita di là fuori?” “Tante, oh, tante volte!” “E non ti pare perciò che la tua mente sia abituata a ben minori periodi d’oscurità che non la tua vista?” “Ora capisco cosa intendi! Non ho abbandonato il pensare di laggiù!” “Esatto. Per tutto il tempo della nostra prigionia, non hai pensato mai da prigioniero, ma da libero, e questo va a tuo onore, ma per ciò stesso è poco probabile che il tuo pensiero sia stato modificato in modo tale da renderti diverso, una volta uscito. Non basta la varietà delle esperienze per dare varietà allo spirito, giacché lo spirito assai più si nutre delle proprie abitudini, e tanta è l’abitudine ai soliti pensieri, che alle volte si vive una vita pensando di viverne un’altra, e si aspetta solo un’occasione per essere quello che non si smette mai di volere. E questo spiega anche molta insistenza nei medesimi errori, che non si spiegherebbe se l’esperienza davve­ro cambiasse la gente.” “Ma non fosti tu ad insegnarmi che si deve imparare dall’esperien­za?” “Appunto, si deve imparare. Tu, dacché sei qui, e coi toni che qualche volta t’ho udito, di persona come morta, tanto che alle volte mi sono sentito davvero di piangere la morte di un figlio, così accorato pareva il tuo lamento, e so bene che non era solo la tua loquacità ben nota a darti le pa­role, cosicché io più la tua che la mia reclusione soffrivo, tu dunque, sei forse morto per davvero? No, aspetta, non mi rispondere, poiché ci sono domande che si fanno al solo scopo di far capire che la risposta è nota: no, tu non sei morto, né lo potresti, fino a che nei tuoi polmoni, l’aria con tanta forza è tratta. Né fino a che una lacrima saprai cavare dalla situazione. Tu, dunque, irrimediabilmente vivo, le cui narici fremono, le cui mem­bra si dibattono in mille modi, dando parvenza di lottare contro i muri come un tempo lottavi contro gli uomini; credi tu di avere acquisito anche un solo pensiero che sia simile a quello di un defunto? Vedi allora: non sei diventato quello che temi, pur condividendone le sorti. Pensavi che, uscito che fossi, saresti apparso a quelli di laggiù come un antenato, di quelli che risorgono nelle storie per narrare di avvenimenti passati o futuri? Pallido certo saresti, ma questo e nient’altro ti rassomiglierebbe a quanto temi.” “Padre, non so cosa provo. Se dici questo, e del tuo giudizio mi fido, significa che la morte, e l’oscurità, e l’isolamento, e l’impotenza, non m’hanno piegato. E che per questo, almeno, posso cantar vittoria su chi ci rinchiuse innocenti. È misera consolazione, temo, ma ho appreso a far della miseria una ricchezza, allo stesso modo degli occhi, che hanno imparato a far luce dell’oscurità. E nell’umido di queste pareti, per le tue parole sento un calore, dentro, qual poche volte il sole di Creta mi diede. Ma, e non so se è dubbio lecito o se le tenebre hanno preso un posto nel mio senno, nel contempo mi giunge improvvisa sensazione d’esser povero, se del mio stato non posso coglier frutti. Mentre, l’hai detto, temo le conse­guenze d’una vita così, pure vorrei trarne qualcosa, come dalle cose di fuori si trae. È solo sopravvivere, il nostro? O non abbiamo la speranza di imparare? Un perverso piacere sarebbe, lo capisco, dire d’aver appreso il pensiero dei morti, ma nel mio stesso apprendere vedrei il divenire che solo l’esser vivi concede, giacché, è opinione comune, chi è morto più non diventa.” Dedalo sorrise, e chiese, con aria più allegra: “Hai mai visto una pecora, Icaro?” “Padre, non ne avevamo tante, fuori di qui?” rispose Icaro stupito. “E ritieni di sapere qualcosa sulle pecore?” “Se non fosse così, direi d’avere sprecato molto del mio tempo.” “E ti è mai venuta la paura, stando loro dietro, che a forza di guardare pecore ti saresti trasformato in una di loro?” Fu Icaro, allora, a ridere. “Ti burli di me, dunque, ma cosa c’entrano le pecore?” “Vedi perciò che hai imparato qualcosa senza diventare una pecora. Chissà mai che tu non abbia appreso alcuna cosa sul mondo delle ombre, pur non essendo ombra tu stesso. Quanto si guarda in qualche modo si impara.” “Adesso ci sono. Le cose che ho pensato, e quel che mi sono detto in tutti questi giorni; tutto ho imparato, e tutto potrei riportare all’esterno. Se c’è qualcuno che può dire come sia l’Ade, questi sono io!” “E io, benché l’Ade paia più brutto a chi più da lungi lo teme. E questo, dunque, come lo chiami se non la tua esperienza? E come hai capito, non serve trasformarsi in alcunché per apprenderne i segreti.” Icaro, da quel giorno, o quella notte, o qualsiasi tempo fosse, poiché poteva anche essere che il sole avesse smesso di illuminare il mondo tanto ne era lontano il bagliore, visse la prigionia diversamente. Per la prima volta dacché era lì, vide il palazzo come un luogo e come il vero limite della sua prigione, mentre prima le mura lo stringevano nella mente sua prima ancora che nella loro solidità. E fu così che, meglio di prima, imparò a riconoscerne i luoghi riposti, i passaggi segreti, i collegamenti imprevisti: fu da quel momento, quel giorno o quella notte, che iniziò a sentirsi libero. “Padre – esclamò dopo giorni – credo di poter disegnare una mappa tanto precisa del palazzo, che se altri vi fosse racchiuso potrebbe sentirsi come a casa sua.” “In ciò superando tuo padre, visto che, una volta terminata l’opera, non mi curai di domandarmi se esistesse un motivo per ricordarne la forma.” “E credo anche che ci sia qualcosa che devi vedere. Troppe volte mi sono torturato in vane speranze, e prima di cedere a quest’ultima, voglio almeno sapere da te se la ritieni sensata.” “Icaro caro, non ti riconosco. Per anni la mia voce ti ha inseguito inutilmente mentre tu ti lanciavi per ogni direzione, e adesso chiedi il mio parere prima di muoverti? Vedi allora che neppure qui si vive inutilmente.” “Sì, padre, ma ora vieni con me, ché dobbiamo andare al piano superiore, in un quartiere di solito abitato dal mostro.” “E come facciamo? Hai forse trovato un modo per distrarlo?” “Non io, ma i nostri carcerieri. Se ho ben tenuto conto del tempo, e se quanto mi insegnasti sulla luce di fuori, io l’ho capito, oggi ci sarà un banchetto. E se il mostro si attarderà come di solito fra le spoglie delle vittime, avremo tutto il tempo di vedere e tornare.” “Troppi ‘se’ farebbero credere che il cuore sia divenuto il tuo tiranno, ma le condizioni che citi, anch’io le conosco, e sono del tuo avviso. Aspet­tiamo i soliti rumori di quando aprono il pertugio maledetto per cui passano le vittime. Sarà il momento buono per muoversi.” Non dovettero aspettare molto, e dopo i suoni della botola che si apriva, giunsero i lamenti dei condannati, tali che non si era dovuto studiare altro segnale per il mostro. Icaro aveva appreso da suo padre che quello, per meglio sorprendere i morituri, scendeva da una piccola scala, non unico passaggio alla loro meta. Si avviarono perciò lungo corridoi poco frequentati, in cui più acre era il sentore della bestia; v’era sporcizia più che altrove, e segno di rovina là dove s’era sfogata la sua ira. Icaro proce­deva innanzi, tra l’irruenza e la paura, siccome la rapidità dava al contem­po di addentrarsi nel maggior pericolo e di uscire da esso tempestivamente. Giunsero ad una stanza che pareva essere stata, nel volere degli arredatori, una camera da letto, ma che il tempo e la bestia avevan reso una stalla. “Icaro, è proprio questo il luogo?” “No, perché, inutilizzata, c’è una stanzetta vuota, in cui però noi due staremmo comodi e larghi. Lì ho sentito qualcosa, e voglio che tu lo senta con me.” C’era infatti uno strano passaggio, basso la metà d’un uomo, e per esso entrarono in quel locale. “È strano, figlio. La stanza non pare frequentata dalla bestia.” C’era infatti meno sozzura che altrove, in apparenza data solo dall’abbandono, senza le tracce animali di cui erano ampiamente ripieni i circostanti ambienti. “Anche questa è una combinazione favorevole per noi che dobbiamo rimanere qui.” “Eccoci, dunque, Cosa dobbiamo sentire?” chiese Dedalo, tendendo l’orecchio. “Non così, padre, ma con le nari. Annusa.” disse Icaro, e prese a respirare vigorosamente, mentre una luce balenò per un istante nei suoi oc­chi. Icaro non permise però che l’entusiasmo in lui salisse oltre il livello di una vaga aspettativa. Anche Dedalo annusò, e rimase ad occhi spalancati. “Mare!” disse, ed annusò più forte. “È così. Ora che pure tu me lo confermi, poiché credevo di scambiarlo con qualche sentore di qui, dobbiamo capire donde viene, e se l’odo­re significa che da questo lato è più vicino il mondo.” “Aspetta, ora ricordo. Avevo avuto…” disse Dedalo, ma fu interrotto, angosciosamente, dalle urla di almeno due persone, due giovani sembrava, che dovevano allora avere visto per la prima volta il Minotauro. Stettero i due in silenzio per un attimo, in quanto la pietà per le misere sorti non s’era attenuata coll’abitudine, ma poi Dedalo riprese, ché bisognava far presto. “Avevo avuto molte difficoltà, me lo rammento, perché nella zona su cui costruire c’era un terrapieno naturale, e sotto il mare che saliva con ogni sua onda, tutte le volte che c’era tempesta. Le prime pietre posate sulle rocce franarono, e dovemmo a lungo rinforzare. Ma può essere che la forza del mare, e il vento, che spira in questa direzione, insieme abbiamo ripreso la demolizione. E se qualche benedetto operaio avesse malamente posato alcune pietre, potremmo sperare in un punto di cedimento.” “Dunque è proprio come speravo: di qui una breccia è possibile!” disse Icaro, al massimo dell’eccitazione, ma in quel momento sentirono un suono che li agghiacciò. Il mostro, presto sazio o forse incontentato e furente, si stava avvicinando: lo capirono dalla vicinanza del rumore. “Presto – fece Dedalo – allontaniamoci.” Si gettarono verso la bassa porta, poi attraversarono la maggiore che dava su di un corridoio; si voltarono per la via donde erano giunti, ma l’ombra del mostro li precedette alla curva. Subito diedero indietro, e non potendo giungere all’altra estremità, si tuffarono nello stanzone da cui erano usciti. “Padre – bisbigliò Icaro – qui dentro il mostro riposa. Sta venendo.” Senza che fosse necessaria risposta, i due si gettarono verso la porta bassa, ma neppure così pensavano di essere sicuri. Icaro fece un salto e si aggrappò ad un trave, fra due colonne basse e tozze. A cavalcioni, si abbassò tendendo un braccio a Dedalo che, non troppo malandato, riuscì a sollevarsi. In quel momento capirono che il Minotauro era entrato nel luogo del suo giaciglio. I due rimasero, senza fiatare e nemmeno respirando, a spiare i rumori provenienti dall’altro locale. Due volte ci fu un urlo altissimo, come già ne avevano uditi ma sempre in lontananza. In quel buio, in quella po­sizione, Icaro temeva il suo cuore, rumoroso com’era. Pensava, Icaro, e pensava ai troppi giovani cui aveva voltato le spalle, sapendone la sorte. Pensava che, se morte doveva essere, si dovesse precedere con qualcosa, qualcosa di speciale, come quando, terminando un discorso, se ne dice la sentenza più importante, frutto e meta d’ogni altra parola. Pensava a quale fosse, della sua vita, ciò che la concludeva, e se cruccio dovesse provare non avendola. “Padre – pensava Icaro – a che pensi? Qual cosa lasci tu che non vuoi lasciare?” E la sua mente andò al­lora al luogo sicuro in cui Dedalo, da parecchio, aveva ammassato oggetti e costruitone altri. Ma i suoi pensieri tornarono subito a sé, alla sua vita, di cui non sapeva che fare mentre, pareva, qualcosa ne aveva pur fatto. Cosa avrebbe voluto, lui, non lasciare di quanto stava lasciando? Poiché la morte gli pareva solo questione di momenti. E fu allora che ebbe come un fremito, troppo forte l’impressione che provava: non c’era nulla, in tutta la sua vita, che avrebbe voluto riavere. Certo, le molte soddisfazioni e i tanti piaceri, erano cose a lui care. Ma di tutti i fatti che il suo cuore avevano scaldato, ogni cosa contenuta nella sua mente, era nulla paragonato al contenitore stesso. Gli vennero in mente le battaglie, in questo simili allo stato presente nell’eccitazione e nello spavento del destino imminente. Ebbene, anche in battaglia, se poi si celebravan gli eroismi e le vittorie, non per queste si combatteva, ma per la propria vita, e prova ne era che quella fosse, per vincitori e vinti, fino all’ultimo duello, la maggior preoccupazione. Chi vinceva, aveva solo pensato ad uccidere chi la sua vita minacciava. Chi perdeva, ugualmente si riteneva fortunato per il fatto di tornare a casa. E se veniva catturato, dava volentieri la sua spada per vivere da schiavo un certo tempo, piuttosto che morire combattendo. Ma qui fu brutalmente Icaro ricondotto al presente, datosi che proprio l’esistenza del mostro aveva certo cambiato il modo di pensare, almeno da parte ateniese. Chi avrebbe rinunciato a combattere per incontrare le atroci fauci? Passò un lungo tempo. Il mostro s’era addormentato, e Dedalo az­zardò una parola. “Dobbiamo uscire, Icaro.” La cosa riprecipitò suo figlio nel timore. Uscire significava passare di fianco ad una belva affamata. Strinse l’elsa del lungo pugnale che, amaramente, aveva raccolto da terra chissà dove, un giorno: poteva mai bastare? “Sì, – rispose – dobbiamo uscire, e uccidere il mostro.” Dedalo gli batté piano sulla spalla. “Dobbiamo uscire, e sarà meglio mettere la maggiore distanza tra noi e il mostro.” disse, poi cominciò, aiutato da Icaro, a scendere. Icaro lo seguì e per primo, cautamente, azzardò la testa fuori dalla porta. Il mostro stava davvero dormendo, poiché il suo respiro non era mai così regolare quando vegliava. Icaro e Dedalo passarono vicinissimi all’e­norme forma accucciata, nuda e confusa nel buio, senza il coraggio di attardare lo sguardo su di essa. Fu un coccio a tradirli. Un piede vi strascicò sopra producendo un forte stridìo. I due uomini si trasformarono in statue, ma la loro immobilità fu tragicamente scossa dall’urlo selvaggio del mostro, che si levò, voltandosi verso di loro. Icaro pure si volse, ormai rassegnato, piuttosto che deciso, a lottare, ma ciò che vide lo paralizzò di nuovo. Se almeno avesse avuto testa di toro! Ma era troppo umana per rigettarla come bestiale, e troppo abnorme per accettarne lo spavento. La testa enorme si allargava in quello che solo un gioco crudele aveva rassomigliato a corna, e la bocca non era d’erbivoro, larga e pronta a colpire dall’alto di una mole gigantesca. Fu solo per caso che Icaro avesse in mano il lungo pugnale, e fu solo l’istinto di un gesto altrimenti inutile, mentre il mostro assaliva, a fargli levare le braccia. Il Minotauro, colpito alla gola, si inarcò e cadde all’indietro, mentre anche le grida di Icaro e Dedalo si spegnevano fra gli echi. Rimasero entrambi fermi, mentre si consumava la breve agonia. Poi, muti, contemplarono il misero spettacolo di quella forma, un istante prima minacciosa nella sua sola presenza, ora tristemente esposta in una non più terribile difformità, quasi penosa. L’essere, visibilmente giovane, da morto aveva mutato ogni specie del suo aspetto terribile in immagine di indifesa impotenza. Il sudiciume che lo ricopriva era adesso segno di debolezza, nei propri confronti, quanto prima era parso di spregio, nei confronti altrui. I muscoli, che ancora sembravano tesi a colpire, non suscitavano ormai che un senso di eccesso, lungi dallo spaventare, ma come cosa ingombrante e fuor di misura. I due guardarono, ora senza timore, la testa esagerata e, senza più ravvisarne alcunché di orrendo, furono mossi a compassione per l’incongruità, la scomoda forma, e forse anche il peso eccessivo che l’essere ne doveva sopportare. Con un senso di vergogna, padre e figlio uscirono rapidamente, trovando in tutta fretta la strada del loro nascondiglio, ormai non più neces­sario come tale, ma familiare per il gran tempo trascorsovi. Come chiunque avesse colpito l’opera degli dei, se ne stavano increduli, timorosi che il forte spavento fosse stato troppo breve, che non avesse un seguito. Eppure pareva loro che un fatto del genere, unico, sovrumano, non potesse re­tare così, senza epilogo, un segno che ne sancisse la natura e a proclamare ch’era davvero avvenuto. Era anche il senso d’incompletezza, che si prova sovente alle cose che avvengono senza preavviso, come se, non essendovi preparati, un rito iniziatorio fosse mancato. Come se si fosse entrati in un luogo sacro senza dovuta preparazione, i due sentivano che non c’era stata adeguata introduzione all’avvenimento, pur esso di una brevità eccessiva. Icaro poi, che aveva sempre vantato il suo valore, si trovava ad aver compiuto il massimo gesto della vita sua in un modo addirittura casuale, di cui nessuno avrebbe potuto, in onestà, vantarsi. Dedalo che, se mancava ormai di forza muscolare, non era privo di spirito combattivo, fu il primo a riaversi, forte anche del fatto che aveva qualcosa da fare, e che adesso sapeva come. “Icaro, figlio mio, non possiamo perdere altro tempo. Se dovessero aprire la porta, e accorgersi di quello ch’è successo, le nostre vite sarebbero perdute. Ma, grazie alla tua scoperta, penso che il mio lavoro qua dentro possa dare frutto. Vieni.” Dedalo precedette suo figlio in un canto, e ne trasse degli oggetti di forma lunga, ricoperti di stoffa e dal complicato meccanismo di legno. “Queste, vedi, sono ali.” “Ali? E di che uccello sarebbero mai?” “Siamo noi gli uccelli. E queste ali ci permetteranno di andarcene.” “Padre! – esclamo Icaro al colmo dello stupore – hai costruito ali per degli umani? A tanto ti portava il pensiero della prigionia? Ma un essere umano non può volare.” “È quello che sapremo se ti deciderai ad indossarle.” rispose Dedalo, e raccolse il suo paio. “Vedi come si mettono, e vedi come funziona? Muovi le braccia, e il tuo movimento è accresciuto dal meccanismo, fino a darti la potenza di ali vere. Sono di legno le ossa, di stoffa le piume, il tutto legato con solide fu­ni.” “Padre, non sarebbe stato meglio disporre di cera per incollare tutto? Sarebbero state più leggere.” “Oh, imprudente figlio! Non sai tu che la cera fonde facilmente? Se, dopo aver superato l’altezza degli alberi, il sole troppo vicino la scaldasse, rapido precipiteresti. Adesso aiutami: dobbiamo tornare nella stanza lag­giù a vedere se davvero sia possibile farsi un’apertura sul mare.” Icaro, che tutto avrebbe fatto men che tornare laggiù, chiese: “Non potremmo arrampicarci per uno di quei condotti che portano sul tetto? Se da lì ci lanciamo, è la stessa cosa.” “No, perché terminano tutti dal lato rivolto alla città, e sono bassi, sulla parete. Abbiamo bisogno di lanciarci dall’alto, sfruttare il vento che sale e ci porta in su. Solo così si potrà volare, e questo problema aveva reso insonni molte delle mie notti. Eppure, nella speranza di una soluzione, ho costruito le ali, che ora vengono a proposito.” Si avviarono dunque ancora una volta verso la stanza del Minotauro, ma l’assenza del rischio, e il ricordo dei fatti precedenti, rendevano ad Icaro curiosa la strada, come fosse il sogno di un fatto avvenuto, che nel so­gno si trasforma in altre cose e perde il suo significato. Tutto quanto in­contrava, ora che aveva tempo e spirito per guardare, sembrava quasi nor­male, e avrebbe detto di trovarsi in un palazzo come tanti, simile a quello in cui il Minosse teneva la sua corte. Era perfino accogliente; ridicolo, in questo, al pensiero dell’inutilità di tanto sforzo. Giunti alla stanza dove il Minotauro giaceva, Icaro non poté a lungo guardarne il cadavere, preso da una malinconia per l’essere che con tanta rapidità aveva mostrato la sua debolezza, privo del suo maggior potere che era la paura. Entrarono nella stanzetta, e cominciarono a cercare se ci fosse una crepa più grande. Fu una ricerca breve, perché da un angolo in alto videro una forte lama di luce, segno che la vicenda s’era svolta di notte, e che adesso era l’alba inoltrata. “Questa stanza guarda ad est. Non è la direzione giusta – disse Dedalo – ma le ali dovrebbero permetterci di girare senza sforzo.” S’erano messi a far leva tra le pietre visibilmente sconnesse, per la prima volta lavorando senza timore di farsi sentire. La novità della cosa dava loro energia, e Icaro con un bastone s’aiutava a spingere. Vennero giù rapidamente alcuni grossi blocchi, e la stanza fu inondata di luce. Icaro, che era davanti, ebbe un gemito e si voltò. “Forse questo temeva il Minotauro, e perciò non frequentava la stanza. – disse Dedalo pensieroso – Forza dunque – aggiunse dopo aver guardato fuori – questo è un punto ideale per lanciarsi.” Rapidamente, quasi di furia, indossarono le ali. Fecero alcune prove per controllare che funzionassero, e si trattò, a quel punto, solo di provare. “Qual dio dovremo invocare, – disse Dedalo esitando – dato che abbiamo violato un fenomeno divino?” “Padre, se c’è un dio che amava il Minotauro, ce n’è senz’altro uno che lo odiava in ispregio a quello. Invocheremo dunque il dio sconosciuto che c’ha tenuti in vita fino ad ora, e quelli che vorranno salvarci d’ora in poi. Io non conosco altra via d’uscita, e questa prendo.” E così detto, si lanciò. -°0°- Passò un secolo, poi un altro secolo, poi finalmente Icaro sentì frenare, e dette d’ali, e rovesciò la testa indietro per riprender quota, mentre lentamente planava verso il mare. Temendo di toccare, mosse di nuovo le braccia, alzandosi, e poi non capì più nulla. Stordito dalla velocità, come di cavallo veloce, privo d’altro appoggio che le sue braccia incastellate nel vuoto, ebbe un riso disordinato. Non sapeva smettere, per la paura adesso e per divertimento dopo, mentre pigliava coraggio e pigliava velocità. Quando si fu ripreso, e fu difficile, volle provare una curva, e con molta cautela, poiché sempre era stato temerario, ma sempre aveva avuto i piedi a terra e sempre aveva saputo cosa aspettarsi, abbassò un braccio a mo’ di remo, mentre con l’altro dava più spinta. In un entusiasmo crescente, scoprì che la manovra riusciva, e gli sovvenne di gridare a suo padre. Lo cercò verso il mare, poi verso il palazzo, ma non lo vide. Notò infine un puntolino diretto alla città, e si spaventò: era il vento che lo trasci­nava, o privo di forze per l’età non arrischiava il supero del mare? Volle raggiungerlo, e mentre Dedalo andava lentamente lui, dando di braccia con forza, lo raggiunse in breve tempo. “Padre, dove corri? Là c’è la città, là sono i nemici nostri.” gridò con quanto fiato aveva. La voce affaticata di suo padre gli rispose. “Quella è la nostra città, e non possono esserci nemici. Abbiamo ucciso il loro mostro, quel Minotauro che fu causa della nostra prigionia, ed ora ce ne torniamo in volo, come dei, e neppure il Minosse potrà pensare che tutto ciò sia male.” Detto questo si abbassò, dove già una quantità di gente s’era riunita. C’era clamore, sotto, alla vista dei due uomini volanti. Dedalo, con tutto il fiato che aveva in gola, chiamò: “Uomini di Creta, il Minotauro è morto, e noi siamo usciti in volo dal palazzo.” La gente di sotto uscì in un gran fragore, altri si avvicinarono e in breve, sotto i piedi dei due volatori, era stipata l’intera città. Dedalo discese, fu inghiottito dalla folla e accompagnato entro le mura. Icaro rimase, indeciso se scendere ponendo fine al volo che lo aveva inebriato. Ancora una volta, i fatti lo avevano sorpreso con la loro imprevedibilità. Trovò una guglia di roccia brulla e si posò, come se abbassarsi ancora significasse capitolare agli eventi. Cos’era successo? D’un tratto, uno dei due volatori, colpevoli di fronte agli dei di aver ucciso un essere sovrumano, e fuggiaschi di fronte agli uomini, era diventato a sua volta un sovrumano fenomeno celeste, e anziché ricevere punizioni era stato accolto e anzi prelevato in pieno entusiasmo da una folla festante. Quale doveva essere il peso che quel palazzo sigillato, quell’essere rinchiuso, quei prigionieri sacrificati, facevano sopportare alla loro città! Ma Icaro, questa volta, non sapeva accettare la fretta degli eventi. Guardo giù, dove suo padre era disceso, e nella piana ormai deserta scorse i rottami delle ali, ormai inutili e dimenticate. Sentì in lui un indicibile rimpianto: questo e non altro era il destino delle straordinarie invenzioni umane, di essere abbandonate non appena altro di più allettante si presentasse. Non avevano valore per sé, prova di ingegno che nessun altro animale possedeva e che pure molti dei potevano invidiare; erano solo il modo che un umano escogitava per rientrare fra i suoi simili, e come Icaro stesso, una volta, non s’era mai posto altro problema che quello di primeggiare, per ottenerne il plauso, così adesso il vecchio saggio Dedalo aveva perfino scordato di magnificare al popolo entusiasta lo straordinario mezzo che l’aveva salvato. Ma Icaro era vissuto fra le tenebre, lamentando la lontananza degli uomini e il freddo di mura chiuse al sole. Icaro aveva contemplato da lontano il sorriso degli amici e gli occhi delle più belle ragazze di Creta, che un tempo l’avevano amato. Aveva a lungo ricordato l’eccitazione delle battaglie, la gioia delle gare vinte, la solennità dei riti. Aveva speso le sue la­crime nel rimpianto di quel che non aveva più, e delle molte cose che pensava di non poter mai ottenere. Quanta vita sentiva che gli era ancor mancata! Ora, tutto ciò appariva in colori smorti, sotto il sole nuovo che anco­ra l’abbagliava. D’un tratto, sentì molte voci chiamarlo. Sulle mura, in una gran folla, c’era suo padre Dedalo, a fianco nientemeno del Minosse in mezzo alla sua corte. C’erano bandiere bianche e multicolori, che dall’avvento del mostro erano state bandite. Lo chiamavano tutti, pronti a far festa insieme a lui. Era l’uccisore del Minotauro, uno degli eroi da festeggiare. Ma venne in mente ad Icaro, che anche Atene avrebbe avuto di che festeggiare: nell’entusiasmo, avrebbero di corsa allestito una flotta, sarebbero corsi sull’isola, per fare scempio di chi senza cuore aveva sacrificato i loro giovani. E che sarebbe stato della gloria d’oggi? Icaro allargò le ali, sicuro così di far tacere il clamore. “Uomini di Creta, – gridò forte – Dedalo, padre mio, e tu, Minosse, ascoltate. Non di eroi stiamo parlando, neppure di un’avventura straordinaria, ma, a parte queste ali che il più abile fra i cretesi seppe fare, tutta questa storia altro non è che una serie di casi fortuiti, in cui nessun uomo sulla terra può dire d’avere avuto iniziativa. Siamo stati tutti vittime dei fatti, e io, come mio padre e la città intera, mi sono trovato a fare quello che non sapevo e a vivere come non volevo. Uomini di Creta, quanto da voi stimato una forza, si era trasformato in incubo, e il terrore che il Minotauro doveva incutere sui nemici si è rivoltato contro di voi, precipitando la città nel lutto. Così, avete tratto il male che non sapevate, nel tentativo di trarre a vostro vantaggio le stranezze della natura, ignorando la pietà. Tu, Minosse, che salisti sul trono proprio quando il Minotauro spandeva la sua ombra: il tuo nome era stato nelle generazioni associato all’isola dei colori, e il tuo regno, ricco e felice, era come una luce lontana per i barbari del continente. Oggi, quando si fa il tuo nome, si pensa ad un tenebroso tiranno, quale ti sei dovuto trasformare tuo malgrado. Cretesi, la vostra forza risiedeva nel valore, ed io ben lo so, avendo accompagnato tutti voi nelle vittorie. Oggi non uscite più in cerca di bottino, per il timore dell’odio altrui coalizzato, e i commerci ne soffrono. Dedalo, padre mio, tu hai appena riacquistato la libertà, e l’hai conquistata volando, come nessuno prima aveva saputo fare, e che ne è delle tue ali? Giacciono sotto di me, abbandonate e rotte. Quando, fra alcuni anni, racconterai ad un passante di essere l’uomo che per primo spiccò il volo come un uccello, e questo ben prima ch’io mi lanciassi, ma già quando nel chiuso della cella concepivi l’ardita invenzione, quel passante se ne andrà ridendo, e dirà che i Cretesi le raccontano grosse.” Lo stupore aveva preso quelli della città, più per l’ardire che per il senso delle parole. Icaro riprese. “Che sarà di me, o cretesi, verrò anch’io fra di voi tra le mura, a bere e ridere con chi mi aveva sepolto? E rideremo insieme della mia risurrezione, tentando di dimenticare? Sarebbe dunque tutto accaduto invano, solo un inciampo nel corso di tempi altrimenti quieti e allegri? Ma potranno mai essere allegri i tempi di chi è morto e sa che di nuovo dovrà morire?” Detto questo, e poiché non aveva più voglia di indugiare, nuovamente si lanciò nel vuoto, accompagnato dall’urlo della folla e da un sobbalzo del suo cuore. La prima volta, lanciandosi, Icaro aveva fatto seguire al proposito il gesto: meglio morti, aveva detto, che ancora prigionieri delle ombre. Sta­volta, se era sicuro del meccanismo, l’aspettativa del turbamento già provato lo prese alla sprovvista. Non attese come l’altra volta, ma subito diede d’ala per aggrapparsi al vento, e prima dell’altra volta trovò l’assetto e la direzione. Rapido scavalcò le mura, più per stupire che per necessità; ricordando la partenza del primo volo, cercò la direzione del mare a nord, a fa­tica riconoscendo i tratti di un terreno che da sotto gli era stato familiare. Dimenticata la città coi suoi affanni, passati e futuri, improvvisamente fu conscio delle meraviglie che sotto di lui si dispiegavano. Ebbe gli occhi affamati di vedere, spalancati sopra campi, boschi e fiumi, tutto troppo piccolo, tutto rapidamente scomparso per lasciare il posto a nuova vista. Dava vigorose bracciate, per l’entusiasmo di correre come mai nessuno era corso, e una bracciata più forte lo innalzò di poco, dandogli a vedere il cielo. Quella vista, se già era inebriato, lo annichilì. Il cielo era sopra di lui, ma più vicino a lui che a chiunque altro. Non ebbe dubbi sulla direzione da seguire, e se laggiù qualche dio l’aveva aiutato, sarebbe andato direttamente a rendergli grazie. -°0°- Il padre, vedendo da lontano la direzione presa da Icaro, uscì in un lamento. “Figlio mio! Dove vuoi andare? Troppo in alto ti levi, e le ali non sono fatte per questo. Che vuoi dunque, toccare il cielo, e a che scopo? O vuoi trovare il senso delle cose di quaggiù, tu che tanto t’interroghi? Scendi, ché tu non abbia a pentirtene: sai quanto è alto il cielo, o che direzione prendere lassù? Dovrai salire almeno fino al tramonto, prima di toccare la volta, e allora, troverai un appiglio, o pensi di trapassarla? Oh, di questo ti ritengo capace, so che trapasseresti anche queste mura, se lo credessi utile; ma non tentare la grandezza degli dei, che sono gelosi e ridono degli umani. Hai detto bene, qui nessuno fu protagonista della vita sua, ma vuoi esserlo tu della tua rovina? Scendi, finché sei in tempo!” Così diceva Dedalo, le braccia tese avanti, gridando, mentre i cretesi, uno ad uno, si allontanavano turbati. Ma Icaro non sentiva, e già il puntolino ch’era diventato scompariva, dietro una nuvola o dietro un lembo di cielo aperto. Icaro, follemente, correva incontro a quell’azzurro che, nella sua grandezza, non gli dava a capire quanto lontano fosse. Cominciò a sentire freddo, raggiungendo le prime nuvole. Smise di vedere il terreno, e per un attimo provò lo stesso panico provato di quando, da ragazzo, s’era allontanato a nuoto e s’era perso in mare, conscio dell’infinito abisso sotto di lui. Abisso di sopra, abisso di sotto, un uomo stava cercando di sondarne almeno uno, il più luminoso, nel tentativo di capire il senso delle cose; o forse per l’illusione giovanile che vedere fosse possedere. Icaro non sapeva qual fosse il motore che lo agiva, ma solo spingeva d’ali, per arrivare lassù, ovunque fosse. Quando arrivò al di sopra delle nubi, Icaro prese a sentire più caldo, alzò lo sguardo e si accorse che il sole splendeva subito dietro di lui. Ebbe un altro moto di timore, al pensiero che il carro di fuoco potesse raggiungerlo e bruciarlo. “Se ho caldo, il sole è già molto vicino.” si disse, ma non riuscì a distinguere nel bagliore alcuna forma di carro o di cavalli; fece per alzarsi ancora, ma i suoi occhi, inesausti, s’erano posati su un’altra meraviglia di quel viaggio. Le nuvole, bianche, enormi, erano sotto di lui, quasi del tutto simili a quelle che si vedevano da terra, tanto che per un po’, fino a che non eb­be le vertigini, Icaro si dilettò ad immaginarle di sopra, e lui che volava ro­vesciato. Guardò con attenzione, per vedere se potesse scorgere alcuna forma umana o divina su di esse, ma non ne vide. Si rammentò di poco prima quando, inconsapevole, ne aveva attraversato la struttura eterea, come di fumo. “Le nuvole sono di fumo, le nuvole sono di fumo!” Ecco qualcosa per cui fosse valso il viaggio. Lui solo le aveva viste da vicino, le favolose nuvole, che apparivano e scomparivano sopra le teste degli umani, ed erano solo fumo! Oh, se la sua mamma avesse immaginato, quando scoperchiava il pentolone! Non c’era bisogno di vedere esseri celesti perché il fiato si mozzasse in gola: a perdita d’occhio, in tutte le forme, si stendeva la meraviglia di quel tappeto, che avresti detto soffice e invece era nulla. Il sole traeva ombre curiose dai picchi maggiori sulle piane circostanti, e spiaceva ad Icaro non vedere esseri celesti, tanto quel panorama gliene sembrava adatto. Icaro si sentiva più libero che mai. Passò un bel tempo, lassù, perché aveva imparato a sfruttare la sua velocità in discesa per salire ancora. Ma quando si sentì stanco, pensò con sgomento che non sapeva come scendere! Vero, aveva planato, ma erano stati voli brevi e brevi discese aveva fatto. Adesso, l’idea di quello spazio da attraversare lo spaventava più dell’idea dell’abisso marino l’altra volta. Si diresse senza indugio verso il prato bianco, ma prima ancora di averlo raggiunto sentì che la pesantezza alle braccia gli impediva altri movimenti. Pensò di ripiegare le ali, ma acquisì all’improvviso una gran velocità, ebbe paura e le ridistese. Così planando, riuscì a riveder la terra, ma ebbe in tal modo più netta l’impressione di esser troppo alto, troppo lontano dalla salvezza. “Ancora, ancora” si ripeteva, dandosi coraggio da sé visto che era troppo lontano perché altri gliene desse. I muscoli gli dolevano, gli scendevano lacrime di rabbia. Il terreno però si avvicinava, dando ad Icaro la speranza di farcela. Nel timore di precipitare, Icaro aveva anche lo scorno di non essere andato più in su. Era tutto così vuoto, il cielo degli dei! E avrebbe voluto sapere se sopra a quegli dei tanto evanescenti fosse qualcosa di più solido, ma non aveva potuto. Discese dunque Icaro, tanto più velocemente di quanto avrebbe voluto, e non potendo scegliere la direzione. Sotto di lui, si distinguevano ora boschi e colline che non conosceva, d’aspetto straniero. Di mare, del mare che aveva sempre visto, nessuna traccia. Icaro cominciò a sudare, tendendo muscoli che più non si muovevano. Gridava per gettare anche il suo cuore nella lotta, e il grido gli ritornava spossato in gola. Quando giunse ad una distanza da terra pari all’altezza che la prima volta aveva sfidato, le ali a brandelli non lo sostenevano e i muscoli a pezzi non lo seguivano più. Cercò ancora di diriger la caduta, verso un prato che intravedeva di tra il sudore e le lacrime, ma fu tra una selva di rami d’albero che andò a sbattere, impotente e rassegnato. -°0°- La donna che sola, del gruppo, ebbe il coraggio di avvicinarsi, aveva sempre avuto per prima il coraggio di fare le cose. Non avrebbe temuto nessun messaggero celeste, o almeno non ne avrebbe dato l’impressione. Siccome era rimasta sola nel muovere verso la visione, poté rallentare il passo senza testimoni che ne commentassero l’esitazione. Il cuore le batteva forte, ma volle ignorarlo, almeno finché non vide, riverso su un cumulo di foglie, un essere di aspetto umano, ma curiosamente addobbato di stecchi e brandelli di stoffa, da parere le ali intraviste lassù. Il cuore allora le batté più forte, perché dava l’impressione di essere robusto, e fiero, e recava sul viso, dietro la maschera di un forte dolore, il segno di una passione inquieta. Era stranamente bruno per essere venuto dal cielo, scuri i capelli e scura la pelle, neri gli occhi aperti in un’espressione di doloroso stupore, tanto da parer più un essere degli inferi di sotto. Giaceva riverso, appena in grado di respirare, vivo e sveglio ma inebetito dalla caduta. Col poco fiato che gli rimaneva, mormorava qualcosa in una lingua straniera. La donna prese il suo capo fra le mani, pulì i mol­ti graffi e le ferite, le bagnò e ricoprì d’unguento, finché l’uomo non si riprese. Icaro, dopo lo sbalordimento d’esser vivo, tentò di mettere a fuoco la bianca visione. Era come una donna, ma i capelli chiari, raccolti in molte onde, gli ricordarono le nuvole viste lassù; cercò di carezzarli ma dovette rilasciare il braccio, dolorante. Allora guardò di nuovo, e vide che aveva una pelle bianca, più chiara anche di quella delle donne di Atene. Gli sor­rideva, e parlava una lingua strana, che suonò gutturale alle orecchie di Icaro. Disse qualcosa, ma non seppe cosa e svenne.

Nel tempo che l’uomo del cielo stette dormendo, la donna aveva continuato a guardarlo. Lo aveva liberato, cautamente, dei resti di legno che lo cingevano, e temendo fossero cosa non buona, aveva bruciato ogni pezzo. Moriva dalla curiosità di sapere chi fosse, timorosa però che al risveglio si rivelasse spirito cattivo. Le storie della sua gente pullulavano di ostili divinità recanti il terrore negli accampamenti, durante i lunghi e bui inverni. Ma se era una divinità, s’era talmente bene camuffato da recare sul volto tracce della passione umana, e questo, si diceva lei, non poteva succedere, perché cosa muova un essere umano nella sua inquietudine, potevano fa­ticare a capirlo gli stessi suoi simili. Quando Icaro si svegliò, vide ancora la donna del suo sogno, ma questa volta reale. Aveva strani occhi chiari, color del cielo, e i capelli era­no come li aveva sognati, simili alle nuvole viste dall’alto. E la pelle chiara gli ricordava il colore della nebbia quando, d’inverno, si faticava a vedere l’orizzonte. Rise tra sé, pensando che fosse lei, e non Icaro, discesa dal cielo. Esitò: era dunque finito davvero in quel mondo al di sopra delle nubi che gli pareva giusto esistesse? Ma l’odore forte di un fuoco di sterpi, il ruvido del suo giaciglio, erano troppo terreni per mantenere l’illusione. Ancora una volta, nulla dal cielo era apparso al questuante Icaro. Ma la donna poggiò una mano sulla sua fronte, disse qualcosa e gli sorrise. Il cuore di Icaro si infiammò per la prima cosa veramente bella che vedeva da tempo. Il cielo al di sopra era bello, si disse, ma non era luogo da viverci. Negli occhi di lei, invece, poteva trovare riposo un uomo stanco. Abbassò il capo e rifletté. Che fine avevano fatto le sue ali. Egli non avrebbe saputo ricostruirle. D’altronde non sapeva che direzione prendere per tornare a casa, e infine: era proprio necessario tornare? Quando un uomo ha volato fin sopra le nubi, scoprendo che il cielo non si lascia perforare tanto facilmente, non è giusto che torni a terra per riprendere contatto coi viventi? Icaro, l’uomo che dell’Ade aveva condiviso il destino, che era giunto tanto in alto da perdere la sua gente e la sua terra, non aveva il diritto di scoprire questo nuovo angolo di terra, accogliente e pacifico? Almeno finché le forze non gli avessero permesso di osare maggiormente. Ma per ora si sentiva stanco, e desiderava il conforto di dolci carezze. Si voltò verso il viso sconosciuto. Da dove poteva essere mai giunta una figura come quella? Sembrava che gli dei, fin allora silenziosi ed ostili, avessero donato ad Icaro qualcosa della loro bellezza nella forma di una mortale. O che nel suo viaggio avesse trascinato a terra l’aspetto di lassù. S’ingannava? Nel cuore sentiva che non era così ma il cuore, gli avevano insegnato, talvolta segue il desiderio e non la verità che pur conosce. Pensò, cercando di essere lucido, che un umano subiva terribile sorte se rifiutato dagli dei, mentre lui era ancor vivo. E se gli dei non l’avevano ucciso, c’era speranza che ne avessero gradito l’ardire. Solo la saggezza di Dedalo suo padre, forse, avrebbe detto se era un dono, e privo di tranelli. Ma per l’esperienza c’era un tempo lungo quanto la vita, ed era troppo stanco anche per porre domande. Guardò negli occhi la donna e la salutò, come si conviene alle visioni: “Salve, donna fatta di cielo.” Lei non rispose che col sorriso. Anche lui sorrise, depose il capo e si riaddormentò.


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Riccardo Baldinotti

Favola della nuvola e del vento

C’era una volta una nuvola che vagava senza una meta precisa e nessun passato da portare con sé. Essendo una nuvola, lei semplicemente esisteva, con noncurante incostanza, sicura dello spazio e della sua libertà. Come tutte le nuvole, non conosceva ostacoli. Leggera e incorporea, era certa che avrebbe continuato a fluttuare per sempre. Era convinta di avere il dono di sottrarre la luce alle stelle, di poter rubare i raggi del sole e di essere in grado di costringere la luna a vestirla del suo pallore. Nessuno le aveva detto che per brillare aveva bisogno di farsi trasportare dal vento; ma quando lui arrivò, lei percepì chiaramente la sua forza e capì che nulla avrebbe potuto distoglierlo dal suo cammino. Lui era saldo e incrollabile, aveva un compito e una direzione, e si girò appena a guardarla, considerando distrattamente la possibilità di afferrarla. “Portami con te”, disse la nuvola al vento, esitando solo il tempo di un sospiro. Lui si fermò ad osservarla, considerandola stavolta con più attenzione, e sembrò che un refolo di dolcezza, un respiro appena, lo attraversasse. “Lo farò”, rispose, “ma sappi che da questo viaggio non c’è ritorno: lungo il cammino ti scioglierai e sarai pioggia, oppure, semplicemente, ti dissolverai nel cielo”. Ma la nuvola ormai aveva deciso. Quando il vento la avvolse nel suo vorticante abbraccio, la nuvola capì davvero che non poteva essere per sempre. Il vento aveva il compito di creare la pioggia, di trasportare i semi e di far crescere le foreste. Il vento, inesorabilmente, avrebbe dovuto continuare a soffiare. E le nuvole non possono sperare di fermare il vento. Però la nuvola pensò che non poteva permettersi di preoccuparsi del futuro perché le nuvole, a volte, vivono un attimo appena. Lei sapeva soltanto che lui l’avrebbe fatta volare, che l’avrebbe fatta danzare vicino alla luna e l’avrebbe fatta scintillare di milioni di stelle. Per le nuvole, a volte, l’eternità è nel momento. Loro non si preoccupano troppo del futuro e quando incontrano il vento, si sorprendono a pensare che nulla sia impossibile. Alla fine, sfiorata dai raggi del sole, la nuvola si abbandonò all’impeto del vento.

Alzando gli occhi, se si è molto fortunati, a volte si possono scorgere ancora, la piccola nuvola che brilla ed il vento che la fa correre e danzare. Di certo sanno entrambi che nulla dura per sempre. Ma stanotte, nonostante tutto, sono ancora insieme lì in alto, prossimi a sfiorare le stelle, la piccola nuvola che brilla ed il vento.


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Arethusa

Imprese inutili

Giovedì 10 giugno alle ore 16.00 arriviamo ad Angers. Io, Pram, Aldo Pianella e Vittorio Valesio. Insomma i quattro del raid Svezia-Italia (Walter Galli si è separato consensualmente da noi il giorno prima a Parigi). Abbiamo attraversato. Svezia, Danimarca, Germania e Francia percorrendo in volo distanze modeste a causa delle condizioni meteo sfavorevoli. La perfomance più lunga è stata di 280 km, ma in compenso abbiamo familiarizzato con molti piloti, parlando a lungo dell’Italia e di Rieti. Inoltre Valesio, come era negli obiettivi dell’iniziativa, ha effettuato delle buone riprese cinematografiche sul volo a vela europeo e sulle strutture didattiche e organizzative. La giornata è calda, grigia ed umidiccia. Aldo Pianella me lo fa notare per l’ennesima volta ed io comincio a pensare seriamente che, in questo inizio d’estate, i tropici si sono spostati, chissà per quanto, alle latitudini europee. Infatti lo stesso clima ci perseguita dalla partenza del Raid da Alkistuna, nel cuore della Svezia avvenuta circa due settimane prima. Comunque l’entusiasmo e la curiosità per questa eccezionale competizione volovelistica che parte da Angers, non mancano. Molto tempo prima, quando non lo so, avevo scoperto che volare liberamente più in là che si può, in funzione delle capacità del pilota e delle condizioni meteo giornaliere, dà emozioni superiori ad ogni altro tipo di volo. Comunque non si tratta di una preferenza insolita visto che in America e in Francia un buon numero di volovelisti ha deciso di organizzare competizioni interamente impostate sulla “distanza libera”. La Transeuropea, oggi alla V edizione, è una di queste. Le regole di gara sono molto semplici, ci dichiara soddisfatto l’ottimo Jean Claude Penaud, ideatore della competizione. Si tratta cioè di partire da Angers e di tornarci dopo aver percorso un quadrilatero di circa 3000 km con tre punti fissi di virata: St Auban (Francia meridionale), Neederoblan (Austria) e Gelnhausen (Germania). Vince chi arriva primo o più vicino ad Angers entro il 2 luglio, dopo una partenza simultanea fissata per il 13 giugno alle ore 12.00. Entrando nei particolari, Jean Claude aggiunge che un carnet di viaggio distribuito ai vari concorrenti ha la funzione di attestare tutti i voli effettuati dal pilota. Infine, precisa Jean Claude, nell’eventualità che il concorrente non possa o non voglia partire dal luogo dove è atterrato, vengono accreditati 400 km, percorribili via terra con la macchina e carrello; da spendere di volta in volta (o in ipotesi insieme) a seconda delle necessità o della tattica di gara. Il credito, tuttavia, si riferisce soltanto ai kilometri percorsi via terra in avvicinamento ad altri punti fissi di virata (dèpannage positivo), non a quelli eventualmente percorsi per spostarsi indietro (dèpannage negativo). L’arrivo con anticipo di tre giorni sulla data fissata per l’inizio della competizione, consente a me a Pram di effettuare alcuni voli locali e di conoscere gli altri concorrenti. Intanto le condizioni meteo cambiano: viene preannunciato, per la prima settimana di gara, il passaggio di fronti freddi e caldi in rapida successione “Pas des problemes” ci dice Jean calude, sempre sereno e disponibilissimo a fornire tutte le informazioni che vengono richieste. Neppure domenica mattina, quando due ore prima della partenza ci troviamo ad osservare scetticamente, sotto la protezione di un hangar, i nostri alianti tempestati da vento e pioggia, Jean Claude perde la sua carica di ottimismo. Il cielo è plumbeo, nubi basse, scure e sfilacciate provenienti da W attraversano diagonalmente il campo di Angers, veloci, molto veloci, sotto altre meno tetre e apparentemente più lente. “Bien on y va”, esordisce soddisfatto Jean Claude. “Quoi?” (che cosa?) faccio io di rimando, preoccupato non tanto per le possibilità volovelistiche della giornata che, per la verità, mi sembrano assai scarse, quanto per la difficoltà che il forte vento laterale può creare al decollo del nostro “velo-bombardiere” Calif A21, tenuto conto anche della potenza non certo rassicurante dell’aereo trainatore (un Morane 180 cv). Comunque, visto che siamo in ballo, ci rassegniamo a portare in linea il “Califfone”. Per ragioni di sicurezza la direzione di gara ci fa dirottare sulla pista in asfalto. Mentre gli altri alianti vengono schierati circa duecento metri davanti a noi, di lato nella pista in erba, ci prende un vago senso di emarginazione. Nel frattempo il motoaliante addetto all’osservazione aerea della linea di partenza, stabilita a 700 m QFE, decolla sussultante e di sbieco come un granchio in stato di ebbrezza. A 500 m, il pilota comunica di trovarsi alla base delle nubi. Manca circa un’ora all’apertura della partenza simultanea. Iniziamo i decolli. Dovremmo partire per terzi come imposto dal sorteggio ma ci avvaliamo della facoltà di rinunciare: non ci va di correre i rischi del decollo senza la prospettiva ragionevole di effettuare un volo di distanza in situazione post-frontale. In altre parole, crediamo che il fronte sta passando, come si rileva dalle informazioni meteo, è meglio attendere di tagliare il traguardo il tempo necessario per consentire alla perturbazione di portarsi il più distante possibile verso sud-est, ossia dove siamo diretti, in modo di evitare di raggiungerla in volo. Ma evidentemente gli altri concorrenti non la pensano così. Infatti decollano tutti e, all’ora stabilita, tagliano il traguardo non senza difficoltà. Mi viene in mente un suggerimento di Jean Claude: le probabilità di vincere la Transeuropea aumentano quanto più km si percorrono in un giorno sommandosi a quelli precedenti . Trenta km fatti in più oggi fanno trenta km in meno domani. Ma neppure la logica del signor Lapalisse può spuntarla sugli scettici. Così l’equipaggio italiano resta a terra, mentre trasportati dal vento favorevole di Nord-Ovest, tenuti sù in cielo a mala pena tra i 300 e i 600 metri, gli altri alianti si spostano verso Sud-Est. Dopo circa tre ore, verso le 16 e 30, le basi delle nubi si sono alzate a 1000 m, il sole è comparso, il vento è ruotato a Nord-Ovest e la “siesta” degli italiani, come verrà definita scherzosamente in seguito, si interrompe. Avvertiamo la direzione di gara e, mentre veniamo agganciati al traino, diamo le ultime disposizioni ad Aldo Pianella e a Vittorio Valesio per il nostro recupero, nel caso assai probabile di interruzione dei contatti terra-aria. I primi istanti del traino non ci divertono affatto, ma ci consoliamo pensando che il pilota che ci sta rimorchiando non deve stare meglio di noi. A fine pista siamo appena sopra agli alberi che circondano il campo, dopo un rullaggio a tutto piede destro per diminuire l’effetto bandiera che tende a disporre il Caproni nel letto del vento da sinistra. In compenso, dopo lo sgancio, troviamo termiche turbolente , ma bene organizzate, disposte in strade di cumuli nella direzione verso cui dobbiamo andare. Inoltre il vento in coda ci spinge velocemente in avanti lungo la rotta. Presto perdiamo il contatto radio con Pianella e Valesio ma non ci preoccupiamo. Infatti abbiamo concordato che l’inseguimento su strada della squadra di recupero faccia una sosta a 60 km circa dal campo per telefonare ad Angers, dove potrebbe ricevere informazioni sulla nostra posizione. Dopo circa 40 km, in prossimità dell’aeroporto di Saumur, dobbiamo prendere una decisione, se cioè mantenerci con prua Est oppure seguire una rotta che ci porti verso il sud della Francia. Quest’ultima soluzione offre il vantaggio di una maggiore componente di vento in coda, ma non ci sembra la più opportuna per alcuni motivi. Primo: l’aeroporto successivo sulla rotta (Chateauroux) si trova a più di 130 km, distanza che non ci sentiamo sicuri di percorrere tenuto conto dell’ora del decollo e dell’eventualità di raggiungere il fronte passato da non molto tempo. Inutile dire che la prospettiva di un fuoricampo con il Calif, in zone agricole coltivate soprattutto a grano e granoturco, già alti più di mezzo metro, non ci alletta per niente, anche in considerazione del forte vento al suolo. Secondo. La navigazione più incerta, per il fatto che tra Saumur e Chateauroux non vi sono tanti punti cospicui di riferimento come seguendo la rotta Est, dove è più facile orizzontarsi mantenendo a vista l’inconfondibile alveo della Loira e dei suoi affluenti. Terzo: la previsione indica per le prossime quarantotto ore una disposizione delle isobare nel senso NW-SE lungo le quali dovranno passare i fronti successivi a breve scadenza. Pertanto, anticipando la discesa a Sud rischiamo di trovarci continuamente sulla traiettoria delle perturbazioni associate ai sistemi frontali, mentre, spostandoci ad Est, potremmo sfruttare l’opportunità di volare in zone interessate solo marginalmente dal passaggio dei fronti. Purtroppo nei giorni seguenti scopriremo che la traiettoria dei sistemi frontali si svilupperà, contrariamente al previsto, da SW verso NE interferendo con la rotta da noi scelta. Intanto alle 18.00 del giorno 13, dopo un’ora e mezza di volo abbiamo già percorso 150 km circa, sorvolando una pianura sconfinata resa particolarmente attraente da boschi, castelli e cittadine pittoresche. Il volo fila liscio sotto la strada di cumuli le cui basi, intanto, si sono alzate fino a 1400 metri. Inutile dire che io e Pram siamo euforici, anche perché il contatto radio con gli altri concorrenti, partiti più di 4 ore prima di noi, ci rivela che il distacco si è ridotto di circa 60 km. Tuttavia la nostra gioia non dura a lungo. A smorzarla interviene dapprima un’ampia zona di sereno che rallenta notevolmente la nostra corsa facendoci toccare un primo punto basso proprio in una località piena di boschi. Poi incontriamo un grosso cumulo nembo in via di degenerazione che crea tra noi e la nostra ignota destinazione una fitta barriera di pioggia. Tentiamo di aggirare l’ostacolo portandoci più a Sud in una zona dove il temporale non è ancora arrivato, ma la quota che perdiamo in pochi km ci costringe ad attendere, in uno zerino a malapena conquistato, il passaggio della cellula temporalesca; speriamo che con il forte vento e l’instabilità dell’aria si ricostituisca in breve tempo il fenomeno termico, nonostante siano ormai le sette pomeridiane. Abbiamo ancora 1000 m di quota e distiamo circa 30 km dall’aeroporto militare di Romorantin. Senza esitazioni facciamo rotta in quella direzione, intanto ci accorgiamo che il vento è girato verso Sud. Continuiamo a scendere; il Calif ogni tanto sussulta centrato da qualche bolla disorganizzata. Siamo a 400 m, ma non riusciamo a vedere l’aeroporto militare. Davanti a noi si stende ora un fitto bosco. Dall’altra parte, secondo le indicazioni della carta, dovrebbero trovarsi il campo e la cittadina di Romorantin. Per la verità, ci sembra di scorgere in lontananza a circa 10 km alcune costruzioni. Sarà Romorantin? Deve essere Romorantin. Fino ad ora in altri voli, in Svezia, in condizioni di visibilità ben peggiori non abbiamo sbagliato la rotta; e poi il bosco, la ferrovia, le case con quell’orientamento, tutto coincide. Decidiamo di avventurarci per coprire quest’ultima distanza che, con la quota che abbiamo – se fossimo a Rieti e se fossimo in finale a sud di Piediluco non ci darebbe preoccupazioni -. Ma non siamo a Rieti, e sappiamo che, in caso di errore, attraverso il bosco, saremmo troppo bassi per scegliere un campo dove posare senza danni l’aliante. Ci imponiamo di avanzare sui 100-120 km/h, resistendo alla tentazione di accelerare per superare più velocemente la distanza di verde che scorre sotto di noi. A metà percorso, l’altitudine è a 280 m, ma abbiamo l’impressione che la nostra altezza sia inferiore. Infatti, uno sguardo alla carta mi conferma che l’aeroporto di Romorantin è più alto di circa 40 m rispetto a quello di Angers. Bel colpo. Restano ancora 5 km da percorrere. In assenza di vento per attraversare questo tratto sarebbero sufficienti 120 m alla massima efficienza, ma il vento, purtroppo contrario, c’è (se no perché si agiterebbero in quel modo le fronde degli alberi?). Ormai le costruzioni della città, che dovrebbe essere Romorantin, si vedono chiaramente. Un’occhiata alla bussola, che indica 100 gradi, mi dà un fuggevole senso di sicurezza perché, se è vero che con quella prua non potremmo non arrivare sulla verticale del campo di volo, è altrettanto vero che le cime degli alberi cominceranno tra non molto a solleticare fastidiosamente il pancione del Calif. Non resisto alla tentazione di confidare a Pram questa specie di battuta, con il risultato d risvegliare anche in lui, benché di teutonica discendenza, un sorta di umorismo tipicamente latino. Tant’è che, di rimando, forse costretto dalla tensione a parlare per infiniti, mi risponde “zagagliando”: “Pe …, pe … pensa quando cime di albero solleticare pancia di aliante, subito dopo noi prenderlo nel cu … cu …” E di colpo il contatto delle mie natiche con l’aliante comincia a cagionarmi un fastidioso disagio. Ora la cittadina è alla nostra sinistra, mentre l’aeroporto seguita a giocare a nascondino. 130 metri di altimetro, 90 m sul QFE locale. Proprio davanti a noi, distante circa mezzo km vediamo un prato. Non abbiamo scelta: atterraggio in diretta e speriamo che non ci sino trabocchetti. Superati gli ultimi alberi, fuori il carrello, fuori tutto e piombiamo inattesi nel bel mezzo del campo di volo di Romorantin sotto gli sguardi probabilmente sorpresi di quello che tra breve sapremo essere il fior fiore del volovelismo militare francese. Sono le 19 circa, poco più o poco meno, del 13 giugno 1982. Ci troviamo a circa 180 km da Angers. La brezza, che ci rinfresca il viso, in mezzo all’erba più verde del verde, restituisce di colpo entusiasmo ed ottimismo a due piloti che, pochi attimi prima, avrebbero giurato e spergiurato di appendere le ali al chiodo. Dunque siamo davvero nel bel mezzo dell’aeroporto militare di Romorantin. E dove altro dovremmo essere? Tutto, dalla bussola alla carta dava per certo che eravamo a Romorantin. Perché tanta insicurezza? Mah, penso perché un pilota, a differenza di un autopilota, ipotizza l’eventualità dell’errore, anche quando i dati a sua disposizione escludono l’errore e resta insicuro fin quando non si verifica l’evento che egli attendeva. Già, deve essere così ed è bello che sia così; perché in fin dei conti, se il volo a vela fosse fatto di scelte costantemente radicate su certezze, sarebbe, a tutti i livelli di preparazione e di capacità, molto ma molto meno affascinante Ovviamente il volo a vela in “distanza libera” accentua certi aspetti, come dire, avventurosi, del volo in generale, anche dal punto di vista dei rapporti umani. Per esempio mi chiedo come mi accoglieranno i piloti di Romorantin, mentre con un sorriso a salvadanaio io e Pram apriamo la cappottina ed iniziamo le operazioni di sbarco. “D’ou venez-vous?” Prima ci qualifichiamo: “Siamo dei piloti italiani che partecipano alla Transeuropea. Savez-vous? Veniamo da Angers” “Ah! La Transeur!” “Oui, oui” fa di rimando Pram in perfetto francese. “Et les autres?”domandano. Già, gli altri concorrenti dove saranno? Un’ora prima erano davanti a noi più a Sud ad una distanza variabile tra i 60 e i 100 km. “Più avanti, più avanti” rispondo non senza pensare che ciò, oltre ad essere vero, costituisce il tipo di risposta che a loro piaceva sentire da concorrenti italiani in gara con i francesi. Purtroppo, mi attendo anche l’immancabile domanda sul perché del distacco, così gioco di anticipo cercando di cavarmela con una battuta tipo: “Sapete, è per la siesta!” alludendo ad un’usanza italiana, forse non più molto attuale e diffusa per l’intera penisola, ma che all’estero continua a caratterizzarci non meno di quella degli “spaghetti e mandolino”. L’ilarità è generale, residue possibili diffidenze sono fugate e veniamo accompagnati in tripudio ad una bevuta collettiva. Poi la telefonata d’obbligo ad Angers ci informa che due concorrenti sono riusciti a percorre 300 km, mentre gli altri si trovano a distanze variabili di 200-250 da Angers; alcuni in campo, altri in fuori campo. Per la notte siamo ricoverati gratis in una delle stanze con letti a castello del club privato di volo a vela. Non sarà la nostra sola esperienza di questo tipo in Francia, dove molti club sistemano gratuitamente per la notte i piloti pellegrini. A causa delle condizioni proibitive del tempo resteremo a Romorantin quattro giorni. Passiamo le ore conversando con alcuni soci assidui del club privato di Romorantin e con i piloti militari. In tal modo apprendiamo che il volo a vela è molto diffuso nell’aviazione militare francese. Le competizioni sono frequenti, la disponibilità di alianti enorme (numerosi Nimbus, ASW20, LS4) e soprattutto la mentalità è quella del volovelista sportivo, a differenza di quello che accade in Italia. Una mattina, il cielo ancora piovoso solito vento da est, le basi dei cumuli raso terra, i nostri amici sono effervescenti, pare che ci sia la possibilità di fare gara. “Hei, piloti italiani, se partite per primi vi diamo un traino gratis, ma è top secret!” L’orgoglio nazionale ci fa cadere nella trappola. Evidentemente i militari francesi non credono nella giornata, ma serve un “volo civetta” per prendere la decisione definitiva. Così, in men che non si dica, ci troviamo agganciati ad un Robin militare a guardarci, io e Pram, come due fessi. Le condizioni non sono mutate, ad eccezione del vento che ora è tornato a soffiare forte da Ovest. Eh va bè, andiamo. Il pilota del traino si esibisce in una partenza con campo in salita destinata ad essere tramandata da padre in figlio. Infine decolliamo. Pensiamo di dover seguire il traino in un lungo circuito rotatorio di sicurezza, invece il pilota procede dritto finchè a quota 500 m si mette ad agitare le ali peggio di una cornacchia in amore. Sganciamo, per disciplina di volo, ma siamo a circa 10 km sottovento al campo in un’aria che, in assenza di ostacoli e di irraggiamento, si muove solo in senso longitudinale. Di ascendenze neppure l’ombra eccetto qualche pacca sonora. “Che famo?” domanda in perfetto romanesco Pram. Penso che dobbiamo stare al gioco, ma è dura. Per fortuna una specie di boschetto su un collinozzo alto sì e no una ventina di metri sulla pianura,opponendosi al vento, genera una specie di ascendenza sbilenca alla quale ci aggrappiamo. Da terra Pianella ci comunica che i concorrenti e la direzione di gara sono in grande attesa. Vogliono sapere posizione, quota e condizioni. Ci riserviamo una frequenza su cui possiamo parlare a volontà. La tentazione di ricambiare lo scherzo dello sgancio, a distanza limite per il rientro in campo, ci induce a comunicare: “Qui è Charlie Papa a circa 40 km SE dal campo, in salita più due, 800 m”. Ovviamene abbiamo raddoppiato tutto, salvo i valori di salita che, in eccesso di megalomania, abbiamo addirittura quadruplicato. In un batter d’occhio il cielo si riempie di alianti e di voci. Poco dopo molte, moltissime ci sembrano su di giri. “Nous sommes fottus (siamo fottuti)” esclama qualcuno. “Dove sono gli italiani?” chiedono i soliti curiosi. Ma noi ci siamo imposti il silenzio radio. Intanto tentiamo di andare avanti, finché dopo cinque ore con soli trenta km percorsi, un campetto nei pressi di Vierzon ci sembra sufficientemente anonimo per sfuggire l’incontro con qualche concorrente che ha trovato sgradevole il nostro scherzo. Purtroppo, dopo un’oretta, un orda di concorrenti prende terra sullo stesso campo. La rissa ci pare inevitabile. Comunque, a mani alzate, punto sui piloti che hanno trascinato gli alianti ai bordi della pista e con il sorriso più candido esclamo: “Salveee!” ricevendo in risposta corale: “Oh, merde!!!!” Il giorno successivo, perdurando temporali e cielo coperto, agganciamo il carrello e partiamo per Roanne. Ormai il tempo stringe, tutti dobbiamo essere in Italia per impegni di lavoro entro i prossimi 5 giorni. Arriviamo all’aeroporto verso le 22.00, giusto il tempo per partecipare ad una festa del locale AeroClub ed incontrarci con uno dei concorrenti delle Transeuropea, l’olandese Vander Velde. Beviamo, ridiamo e scherziamo fino a notte fonda, anche perché le condizioni meteo continuano ad essere proibitive. Finalmente alle quattro andiamo a letto nella solita sistemazione a castello. Prevediamo di farci una bella dormita ed invece ci siamo appena addormentati quando l’olandese, come un energumeno, entra nella stanza urlando in un italiano stentato: “L’onda, l’onda!!!” Il primo a svegliarsi di soprassalto è Pianella. Mi fissa allarmato perché ha capito che c’è una bomba. Mi precipito alla finestra e vedo uno spettacolo mozzafiato. Sulle colline, al di là della pista di atterraggio, si staglia netta nell’azzurro del cielo, illuminata dai primi raggi solari, una lenticolare dai contorni perfetti, piatta allungata a tremendamente invitante. In mezz’ora l’aliante è montato e portato sulla pista. Decolliamo, digiuni e insonnoliti alle 7.00, circa. Subito dopo lo sgancio, a 800 m QFE, entriamo in laminare. La media di salita è bassa, 1,50 m/sec, ma la magia della salita silenziosa e senza scosse nel primo mattino ci dà sensazioni che non si possono comunicare. Poco a poco la valle della Roanne si fa piccola, l’orizzonte si allarga e ci troviamo sopra un mare sconfinato di nubi. Percorreremo sul fronte dell’onda (generata da un vento di SW) circa 100 km con prua 180°, poi saremo costretti a tornare indietro una trentina di km a causa della sottostante copertura, alla ricerca di un po’ di sereno dove effettuare con sicurezza la discesa. Nell’atterrare nella piccola avio superficie di Saint Chamond, non sappiamo che sarà il nostro ultimo exploit nell’ambito della V edizione della Transeuropea. Le Alpi sono vicine, tira aria di casa e speriamo ancora di attraversare le nostre montagne in volo, ma non avremo fortuna. Peccato, del resto, prima di affrontare il raid Svezia-Rieti, comprendendovi anche una tratta della Transeuropea per arricchire le nostre esperienze, non ci eravamo illusi, ben sapendo che la meteo è bizzarra e che un periodo normalmente favorevole per i voli di distanza sul territorio europeo può, a seconda degli anni, rivelarsi negativo. Non per nulla ci eravamo prefissati, oltre allo scopo sportivo, quello documentaristico (film Valesio) e pubblicitario (Rieti volovelistica). L’altro interrogativo riguardava come ci avrebbero accolto i volovelisti svedesi, danesi, tedeschi e francesi. Beh, scherzi a parte, il calore, la cordialità e lo spirito di collaborazione che hanno animato tutti i nostri incontri con i piloti europei, ci hanno fatto sentire partecipi di una grande famiglia. Non fosse che per questo, la nostra impresa, che qualcuno si è subito affrettato a definire inutile, non è stata no, un’impresa inutile!


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A Hug

La Daunia brucia

Il 30 luglio di quest’anno, giorno in cui ho sfiorato i novecento chilometri di distanza con il mio Nimbus 2B, non era destinato ad un volo impegnativo. Si era infatti a ridosso della Coppa del Mediterraneo nella quale, come tutti gli iscritti, sapevo di dover affrontare per diversi giorni consecutivi l’esperienza di una stressante gara internazionale di velocità. Ma la sera precedente avevo incontrato un Luciano Avanzini euforico che mi aveva proposto di volare nel profondo sud, consapevole del mio debole per i voli di distanza e particolarmente per quelli nell’Italia meridionale, dove cielo e terra conservano il fascino dell’inesplorato per ampi tratti. In realtà, l’alta pressione ormai consolidatasi da parecchi giorni sulla nostra penisola ed un temuto afflusso di aria calda nelle zone centro meridionali, sconsigliavano i voli di distanza. D’altra parte, l’opportunità offertami da Luciano non poteva essere trascurata soprattutto considerando che nel Campionato Italiano di Distanza mi trovavo in testa alla classifica a pochi punti da un concorrente del calibro di Luca Monti. Inoltre non potevo ignorare che, con la CIM alle porte, i voli di distanza sarebbero stati preclusi fino a un periodo in cui, con l’accorciarsi delle giornate e con il probabile mutamento della meteo, sarebbe stato difficile portare a termine temi importanti. Per farla breve, alle 9 e 30 del 30 luglio 1993, sul campo di Rieti più polveroso che mai, mi trovo affiancato con il vecchio Nimbus 2 al ben più recente e bellissimo Discus di Luciano, intento a discutere su dove sganciare, dove andare e sulla rotta da seguire. Alla fine ci troviamo d’accordo su tutto salvo che sul tema: Luciano tenterà un record sulla distanza prefissata di 700 chilometri; io tenterò un volo di distanza libera con tre punti prefissati: un pilone a sud, Grumento aeroporto in Basilicata (lo stesso scelto la Luciano) uno a nord, scheggia in Umbria e uno al centro, Arrone in Val Nerina. Lo sgancio avviene a Poggio Bustone a 1300 metri QFE. Senza perdere tempo planiamo nella valle di Leonessa dove, sui costoni esposti ad est, contiamo di imbatterci in qualche termica discreta intorno alle 10 e 30. La prima termica in cui ci troviamo a spiralare, naso coda, coda naso, io e Luciano in quel di Leonessa, pare promettere, a patto di stare incollato al costone. Termicando mi accorgo che il maggior carico alare del Discus, zavorrato con circa 120 litri di acqua, rende più lenta la salita di Luciano. Io ho preferito un carico alare basso (circa 34 kg/cm2) per poter lavorare meglio nelle termiche prevedibilmente incerte del mattino, ma so che, se e quando l’attività termica rinforzerà nelle ore centrali della giornata, pagherò interessi molto alti per non aver riempito fino al massimo consentito i miei ballast. Mi consola il fatto che con un (aliante classe) Libera tra le mani, benché vecchiotto, non dovrei essere troppo penalizzato nei traversoni rispetto ad uno standard per quanto caricato; consolazione che sfuma e si trasforma in disappunto quando, nel lasciare la prima termica, il Discus plana via con un’accelerazione sorprendente. In questa parte del volo, fino a Campobasso, Luciano zig-zaga senza pause alla ricerca della termica migliore, mentre io mi accontento di un volo più lineare lungo l’ortografia restando sempre a contatto visivo col Discus. Mi rendo conto che in questo modo non si fa il volo in coppia, nel senso in cui lo eseguono i cecoslovacchi rigorosamente incollati l’uno all’altro ma, in compenso, si può sondare per una maggiore ampiezza la massa d’aria, pronti a trasferirsi nella termica in cui uno dei due piloti ha trovato il valore di salita più alto. Nella seconda fase del volo, tra Campobasso e Grumento, la situazione termica iniziata decentemente e sviluppatasi in maniera alterna fino a Campobasso, dove arriviamo verso le 13 e 30, diventa fumante. Siamo pronti, quindi, a sfrecciare verso sud per nulla preoccupati della media piuttosto bassa di 80 chilometri orari tenuta fino a quel momento. Psicologicamente mi consola il pensiero che, se fossimo partiti alle 12.00 come si fa abitualmente a Rieti anziché alle 10 e 30 e fossimo giunti a Campobasso alle 13 e 30, avremmo volato alla bella media di 120 km/h. In fin dei conti, rifletto, la validità delle partenze anticipate al mattino è costituita proprio dalla possibilità di macinare molti chilometri, anche a medie basse, contando sul maggior tempo a disposizione. Da Campobasso in poi fino a Grumento, dove alle 14 e 55 giriamo il pilone alla non trascurabile media di circa 130 km/h, le condizioni sono più che soddisfacenti: i cumuli non solo non mancano ma li vediamo organizzati a comporre una bellissima strada senza interruzioni che ci porta tra i 2400 e i 2800 metri QFE dritti in rotta sul primo pilone e che prosegue a perdita d’occhio verso sud ovest, oltre la barriera del Pollino tra la Basilicata e la Calabria ormai vicinissima. Il paesaggio scorre sotto di noi a velocità sorprendente; tornando Potenza, Melfi, Ariano Irpino ci appaiono inconfondibili, intervallate da grandiose distese di campi di stoppia ed immensi roghi che mandano al cielo colonne vorticose di fumo. “La Daunia brucia!”, comunica Luciano non senza una punta di eccitata ammirazione, correndo il rischio che qualcuno in ascolto lo scambi per un incendiario in versione volante. Uno degli aspetti positivi del volo con Luciano deriva dall’uso del GPS, strumento che io non ho e che invece si rileva utilissimo, non tanto per la navigazione in senso stretto, trovandomi a mio agio ormai da tempo con bussola, cronometro e carte varie, quanto perché ci fornisce costantemente la media del volo e soprattutto i dati necessari per decidere tempestivamente sull’opportunità delle deviazioni dalla rotta prefissata. Per esempio, al ritorno dal primo pilone, in prossimità di Campobasso, circa trenta chilometri a sud est, stiamo volando lungo un fronte di brezza con i suoi caratteristici “baffetti”, visto e preso Melfi ed Ariano Irpino. Sappiamo entrambi che il fenomeno, pur migliorando la nostra velocità di trasferimento, potrebbe ridurre la media del volo se nel seguire il fronte dovessimo percorre una deviazione eccessiva dalla rotta diretta . Sappiamo anche che il fronte di brezza, spostandosi, nel nostro caso da est verso ovest, taglierà ogni impulso termico a partire da est, con il rischio che, arrivati a nord di Campobasso e dovendo risalire l’orografia verso Rivisondoli, il fronte sia già passato costringendoci a planare in aria morta fino all’inevitabile fuori campo. Si pone, dunque, il problema di scegliere il punto più opportuno in cui abbandonare il fronte per portarsi ad ovest di quel tanto che ci consenta di non trovarci prima o poi dietro di esso. Bene, io in merito ho qualche dubbio, tenderei anzi a sfruttare ancora un po’ le ottime condizioni frontali verso est, nord-est, ma Luciano, consultato il GPS, non ha esitazioni e mi avverte che occorre subito portarsi ad ovest di Campobasso pur essendovi in quella direzione un lungo tratto di cielo, non meno di 40 chilometri, privo assolutamente di cumuli. Quasi superfluo dire che la decisione si rivelerà provvidenziale consentendoci di passare nella piana di Rivisondoli di stretta misura, mentre un Walter Vergani, ottimista, incontrato al traverso di Campobasso sul suo splendido ASH25 e diretto ancora a sud, verso Ariano Irpino si troverà al ritorno tagliato fuori da ogni possibilità di rientro, proprio in seguito all’irruzione lungo la valle del Sangro dell’aria adriatica taglia-termiche frequente nella zona tra Isernia e Castel di Sangro. Verso le 17 e 30, dopo circa sette ore di volo, io e Luciano ci troviamo al traverso di Sulmona. A questo punto dovrei proseguire in rotta verso il secondo pilone via Morrone, Gran Sasso, Gorzano, Vettore. Ma il sopraggiungere di aria marittima attraverso la Gola di Popoli, chiaramente visibile dalle condensazioni a bassa quota, mi induce a proseguire con Luciano puntando sul Sirente. Ho ancora davanti a me quasi quattro ore di luce che intendo sfruttare al meglio. Pertanto dovrò volare attaccato ai costoni nelle parti termicamente più attive che, a quell’ora, essendo il sole ad una discreta altezza sull’orizzonte, si identificano con i versanti ovest della catena appenninica e sotto le creste di quel tanto che basta per avere un “appoggio” costante sull’orografia. Dunque, un saluto affettuoso a Luciano che ha ormai in tasca il suo record e via lungo i costoni senza mai fermarsi. Attacco il Sirente con 1300 metri di quota che mantengo fino alle “Autostrade”, in corrispondenza di Monte S. Rocco, poi mi abbasso seguendo la minore altezza dell’orografia tra la piana di Borgorose e il Nuria, quindi riprendo quota 1300 in una termica da due metri al secondo, nel tratto Terminillo- Poggio Bustone; scendo nuovamente a quota 1000 lungo i costoni della Val Nerina e del Serano fino all’ingresso del val Topina dove, alla quota di 700 metri, alla quale decido di volare, mi da il giusto appoggio sulla bassa orografia tra Nocera Umbra e Gualdo Tadino. Superata la cava di Gualdo, alla media di 105 km/h, tutt’altro che disprezzabile considerato il tardo pomeriggio, ritengo più prudente rallentare il volo lungo i costoni per riacquistare quota, sfruttando in salita anziché in velocità l’attività termica diffusa ovunque sull’intera orografia. Intorno alle 19 e 30 fotografo il secondo pilone, Scheggia con 1000 metri sul QFE di Rieti. Purtroppo nel riprendere la via del ritorno verso il terzo pilone, l’attività termica sui costoni è scesa arrestandosi sì e no su uno zero positivo. Spero in una termica che mi consenta di raggiungere una quota maggiore ma non trovo valori che valga la pena di sfruttare. Perciò vado avanti molto lentamente contando sull’efficienza del Nimbus 2. Alle 20 e 30 circa arrivo sotto l’antenna del Serano con 500 metri. La tentazione di atterrare a Foligno è forte. Ma i raggi del sole, che illuminano ancora il costone, mi inducono a cercare un valore di salita anche modestissimo che mi faccia guadagnare la quota sufficiente per planare almeno fino ad Arrone, terzo e ultimo pilone, dove, male che vada si può sempre atterrare in un discreto campo di erba medica. Mi imbatto in un +20 cm/sec segnalato da un movimento quasi impercettibile del variometro elettrico. Comincia così una delle salite più lente e serali della mia esperienza volovelistica; calcolo: più di 20 cm/sec per 60 secondi fanno 12 m ogni 10 minuti e, volendo, 1200 metri in un’ora e quaranta minuti. Già, ma alle 20 e 30 di sera ho a disposizione, prima della planata finale, solo una manciata di minuti, se voglio evitare che la mia impresa si trasformi in un volo di notte. Debbo considerare, infatti che, raggiunta dai 500 metri iniziali la quota ipotetica di 750 metri, prevedibilmente verso le 21, mi occorreranno almeno altri venti minuti per planare su Arrone alla massima efficienza. E a proposito di voli notturni, mentre salgo in spirali lente e quasi piatte, mi viene in mente un’esperienza di circa vent’anni fa. Mi trovavo anche quella volta dalle parti di Foligno ma sui Martani, verso sera a 1500 metri QFE di Rieti, in una specie di flusso laminare innescato dal vento di nord est. Si trattava di un volo in area prescritta, al termine del quale, in quella gara, ero arrivato primo con un aliante monotipo in legno denominato “Crib”. Attratto dalla magia del volo in onda e da una luna arancione tonda più che mai che andava salendo dietro al Subasio, mentre il sole si immergeva nel Trasimeno tingendo l’acqua di riflessi stupendi, non mi decidevo a scendere quando, nel silenzio dell’abitacolo rimbombò una voce che, con apparente accento straniero chiedeva, non senza tradire una certa apprensione: “Dove essere aeroporto di Perugia?”. Mi sembrò di identificare nel pilota un amico volovelista che, conosciuto l’istruttore polacco Wielgus, aveva preso ad imitarne spesso e volentieri l’uso dei verbi all’infinito, evidentemente magnetizzato dalla personalità del volovelista straniero. “Il pilota che cerca Perugia, stia calmo!”, sentii rispondere da qualcuno che aggiunge: “Sono appena atterrato anch’io a Perugia!”. Confesso che, al momento, nonostante la gravità della situazione in cui versava il pilota smarriti nella notte incombente, mi venne da ridere trovando incongruente e al limite del paradosso il modo in cui era stato formulato l’invito a tenere i nervi saldi. Perché mai, infatti, un pilota, perso nelle tenebre, avrebbe potuto calmarsi all’annuncio che un altro pilota era atterrato in un aeroporto di cui egli ignorava la posizione? Mentre aprivo i diruttori, puntando verso i capannoni della pista dell’aeroporto di Foligno rischiarati dalla luna, sentii ancora, disturbata a tratti, la voce del pilota che chiedeva di razzi e altri effetti pirotecnici. Seppi poi che il pilota era atterrato nei pressi di Assisi ricevendo le congratulazioni di un tale che durante la cena aveva sentito un sibilo sul tetto e, precipitandosi fuori casa, un gran botto. Congratulazioni che avevano lasciato stupefatto il pilota quando ne aveva appreso la ragione, Infatti era riuscito ad atterrare con perizia irripetibile nel cantiere in allestimento di una centrale ENEL circondato da una gran ragnatela di cavi elettrici. Il bello è che, come mi confidò più tardi il pilota, il punto di atterraggio scelto, si fa per dire, avrebbe potuto essere il tetto della casa del soccorritore, scambiato nell’oscurità per il campo dove mettere l’aliante. Perciò, memore dei brutti scherzi che possono giocare gli atterraggi notturni, lascio dopo un quarto d’ora di salita la termichina del Serano. Ho 700 metri di altimetro e sono le 20 e 45 circa. Entro in Val Nerina superando la Forca di Cerro con 500 metri e, quando sono su Arrone, ho ancora 300 metri. Lì per lì mi sembrano troppi per andare subito all’atterraggio perché i miei 300 metri sul QFE di Rieti sono su per giù 450 metri sul campo di Arrone e poi perché, alle 21 e 10, ora in cui sto transitando da quelle parti, il mese estivo mi regala ancora un po’ di luce. Intanto decido di fotografare il pilone da me scelto non solo per il buon appoggio orografico ma anche nella previsione fatta a tavolino di proseguire il volo in distanza libera a nord o a sud, a seconda delle circostanza e tempo permettendo. Scatto quindi le foto. La quasi certezza che non si vedrà un bel niente, perché il flash automatico delle mie macchine, riflesso dalla cappottina, sbiancherà i fotogrammi, aumenta la tentazione di proseguire verso Piediluco, nel tentativo di accumulare più punti possibile. D’altra parte riesco ancora a razionalizzare che avventurarsi con un margine di sicurezza accettabile verso Piediluco, dalla quota non certo esaltante alla quale sto volando, comporta necessariamente un’operazione di carteggio semplicissima qual è il calcolo della distanza tra due punti, ma a condizione che io riesca a leggere la carta 1.200’000 che mi accompagna sempre, ben riposta in una delle tasche dell’abitacolo. Prendo quindi la carta, traffico un pochino per aprirla sulla zona che mi interessa e quando mi accingo alla misura delle distanze mi accorgo che sarei pronto a pagare qualsiasi prezzo se, poco sopra agli occhi, mi impiantassero subito da uno a due fanali. A questa riflessione segue, immediatamente, la decisione di tornare indietro per atterrare alla svelta in quel campo di Arrone. Incredibile come, stando tante ore a contatto con i comandi, si crei con il tuo aliante un affiatamento così forte da sentirsi in grado di padroneggiare qualunque situazione, perfino la prospettiva di atterrare in un campo di cui, ormai, scorgi a malapena i contorni. Per fortuna il mio Nimbus è dotato di un efficiente parafreno di coda di cui non esito a servirmi per evitare un finale davvero indecoroso che, nonostante i diruttori più aperti che mai, mi porterebbe in mezzo ad un guazzabuglio vegetale, non meglio identificato nel buio. Uscendo un po’ rattrappito dall’abitacolo, si materializza nell’oscurità una voce umana: “Tutto bene?” “Mica male”, rispondo, “Anzi, venga, venga che le faccio vedere come è facile a smontarsi, anche di notte, questa macchinetta”.


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