Il decollo

Abilitati a un Jumbo intercontinentale, oppure a un caccia supersonico dell’ultima generazione, piuttosto che a un leggero biposto da turismo con poche decine di cavalli di potenza o a un silenzioso aliante, tutti invariabilmente i piloti di aeromobili hanno avuto a che fare con “il decollo”. Si dà infatti il caso che, a un certo punto del processo di iniziazione al volo, colui che sa, vale a dire il Pilota istruttore, dopo un certo numero di voli a doppio comando, giudichi che chi (il minuscolo non è casuale) non sa, cioè l’allievo pilota, sia maturo per il suo primo volo da “solista”. Perciò, di norma senza alcun preavviso, giunge il giorno in cui il primo (l’aquila) dice al secondo (il pinguino): “Adesso vai …”, così, di botto, senza fronzoli né preamboli, magari con malsimulata noncuranza, se non addirittura con ostentata sicurezza; lasciando il pivello tutto solo a districarsi tra leve, pomelli, manette, pedali, interruttori, strumenti e tutte le altre diavolerie in cabina. I preliminari, i metodi didattici e le modalità specifiche possono variare, in ragione di fattori peculiari quali le personalità in gioco, le circostanze, gli aspetti ambientali, il materiale di volo, le condizioni meteorologiche, il traffico nell’ATZ. Ma in genere il decollo consiste in almeno un paio di giretti dell’apprendista pennuto intorno al campo, mentre il Docente se ne rimane a terra, con l’occhio attento a seguire ciascuna fase del volo e – dacché le radiocomunicazioni “TBT” (terra-bordo-terra, ndA) in fonia hanno sostituito le primitive segnalazioni ottiche con razzi, teli e bandierine (nonché i laboriosi messaggi radiotelegrafici in morse), finalmente debellando l’annosa incomunicabilità in tempo reale fra terra e bordo – l’ orecchio in ascolto sulla frequenza locale: pronto a rincuorare o sovvenire il solingo “pulcino” che nel frangente è di norma in più o meno accentuata apprensione. Molti piloti ricordano quell’evento anche a distanza di parecchi anni, e malgrado gli innumerevoli eventualmente interposti; i più anzi non avranno a scordarlo mai, in forza del contradditorio concentrato di ansia, orgoglio, velleitarismo, paura vera e propria, e quant’altro esso abbia a suo tempo rappresentato – in varia composizione – per ciascuno di loro. Dopo il mio giovanile avvio, purtroppo (sostanzialmente per motivi di ordine economico) non tosto seguito da un coerente sviluppo, che tarderà a concretizzarsi quasi una ventina d’anni, da pilota – sia pure ‘della domenica’ – ricordo a mia volta assai nitidamente quel fatidico mattino di una primavera, ahimè ormai lontana; i cui prodromi e stimoli risalivano ad anni ben addietro.

Superate le ultime remore specie grazie alla convincente insistenza dell’amico Erio – reincontrato giusto sul campo di volo dopo lustri di distacco – e superata nella metropoli regionale, sede del mio lavoro, la temuta visita psico-fisiologica preliminare, avevo iniziato a cavallo della Pasqua il corso di pilotaggio, presso l’Aeroclub della tranquilla cittadina natia. Ciò previa ingestione di una montagna di pubblicazioni, testi e manuali di volo, nonché (a titolo propedeutico) di memoriali di piloti di pace e di guerra, connazionali e non. Frequentavo soltanto il fine settimana, dato che nei giorni lavorativi ero incatenato alle mie responsabilità direttive presso un grande gruppo editoriale con sede nel capoluogo della regione. Al pari dell’amico (fin dall’inizio degli studi medi) e ora ritrovato collega nell’apprendimento dell’arte del volo, mi aggiravo nei dintorni del “mezzo del cammin”, senza pur tuttavia avere (almeno consapevolmente) smarrita la “diritta via”. Oltretutto, eravamo animati entrambi dalla più sentita propensione a un sensibile miglioramento delle statistiche demografiche, per quanto di spettanza e nelle modestissime nostre facoltà; e altresì accomunati dal non aver potuto appagare prima quell’antica brama condivisa che ci vedeva appassionati alla follia fin dalla più fresca stagione dei calzoncini corti: lo scrivente ferratissimo nelle nozioni teoriche e nella storia del volo, quanto nostro malgrado ambedue digiuni di esperienze concrete, eccezion fatta per quelle aeromodellistiche e gli sparuti voletti risalenti all’età degli studi medi. Istruttore pilota presso la locale scuola civile di pilotaggio era allora l’ottimo già maresciallo Elio C., purtroppo repentinamente rapito anzitempo da un male subdolo rivelatosi incurabile. Durante la guerra era stato bombardiere sul monomotore Caproni 111 e sui trimotori Caproni CA-133 e SIAI Marchetti SM-81 e SM-79, nell’Africa orientale italiana dov’era poi finito prigioniero degli inglesi; al rientro in patria aveva prestato servizio presso la base nella provincia limitrofa, fino al pensionamento volando su bimotori Beechcraft 18 e monomotori Stinson L-5 da collegamento.

Gran navigatore d’istinto (a base della terna occhio, bussola e orologio), tramite il bonario Macchi MC-416 in dotazione al sodalizio, aveva insegnato ad alcuni di noi discepoli talune manovre addizionali a quelle di stretta prassi: quali virare in cabrata accentuata, scivolare d’ala, simulare la virata “d’attacco” dei cacciabombardieri, raccomandandoci di non praticarle se non a quota di sicurezza e in condizioni di buona visibilità; nonché a entrare in nube (accuratamente scelta, entro una ristretta tipologia di cumuletti di ridotte dimensioni e altezza adeguata), con susseguente immediata fuoriuscita tramite inversione di rotta, controllata tramite orizzonte giroscopico, variometro, bussola, altimetro e virosbandometro. Ci aveva pure ammaestrato a destreggiarci nelle dense foschie frequenti nella natia piana settentrionale, teatro di quelle vicende; nonché in presenza di vento sostenuto. Era un autentico galantuomo, vero signore non per censo bensì nell’animo, ben lungi dalla iattanza e supponenza peculiari a certe frange dell’ambiente militare, tanto che aveva ricusato la prospettiva offertagli di adire al ruolo ufficiali. Pacato e paziente oltre ogni dire, valido alla cloche quanto impacciato tra le scartoffie e infastidito dalle pastoie burocratiche, rifuggiva dalle circonlocuzioni sia verbali e sia scritte, ancorché eventualmente finalizzate a diplomatica edulcorazione o tattico smusso di punte spinose. Insomma, inderogabile la loquela, essenziale e lineare, quale regola istintiva naturale: pane al pane, come si usa dire, condito da scarni complimenti giusto quando affatto ineludibili; energici richiami ogni qualvolta reputati viceversa utili a noi discenti. Di umile famiglia toscana – aveva raccontato a pochissimi di noi allievi – prima di arruolarsi volontario nell’Arma, sotto la spinta sia della passione aviatoria e sia del bisogno, aveva dovuto sbarcare il lunario alla giornata: tra l’altro perfino improvvisandosi … generatore umano di corrente, presso la fabbrichetta piemontese che lo aveva ingaggiato per farlo pedalare da mane a sera in sella a una bicicletta vincolata al terreno, ad azionare la dinamo atta a fornire energia ai reparti. Giovanissimo, si era poi brevettato sul “Caproncino” grazie alle provvidenze governative allora vigenti, per essere indi destinato al bombardamento. Talvolta ci ricordava di quel suo maresciallo istruttore – probabile emblema-nemesi di buona parte del sottufficialato volante all’epoca – dal nome di un diffuso cereale, che lo aveva “abilitato” al bombardiere Fiat BR-2 mandandolo per aria da “solista” dopo due soli giri campo in “doppio comando” su quel potente biplanone bizzoso; durante i quali gli aveva consentito di saggiare (con gran cautela) la sola manetta del gas, esclusivamente in volo livellato, senza avergli lasciato neppure sfiorare una volta il volantino!

Soprannominato “democristiano” per il carrello biciclo “inginocchiato”, il “Sedici”, in gentile concessione vitalizia dall’Aeronautica Militare, era dal canto suo un gran buon bestione. Declassato a biposto generoso e tranquillo, efficace come strumento didattico qual’era stato espressamente progettato, incline a un perdono generalizzato – forse sa solo Dio quanti peccati sia naturalmente portato a compiere l’allievo pilota alle sue prime armi – offriva una comoda abitabilità, nell’arcaica rudezza funzionale dell’insieme. Dei centonovantadue originari cavalli, quell’esemplare di costruzione Aerfer dietro sub-licenza Fokker via Aermacchi, residuava ormai modesta porzione, dopo la quasi ventennale intensa attività consumata presso le scuole militari di primo periodo, cioè di iniziazione delle reclute all’ABC del volo. Tuttavia il suo stanco ruggito in pronta risposta alla manetta spinta a fondo corsa suonava ancora di tutto rispetto, così come una certa qual soggezione la incuteva (quantomeno a noi neofiti) quel suo vibrare da cima a fondo a ogni sensibile variazione del numero dei giri, al pari degli scoppi fragorosi che si liberavano dai suoi scarichi ossidati ogni qualvolta si arretrasse bruscamente la manetta al regime minimo. E, in tema di ciclismo, nel rullaggio pre-decollo erano richiesti quasi più polpacci alla Moser che non potenza sull’albero motore, data la necessità di spedalare in continuazione per contrastare – ancor meglio prevenire – la sua inguaribile tendenza a imbardare ora a dritta e ora (assai più frequente e pronunciata) a manca, in conformità alla caparbia renitenza al procedere rettilineo sull’asse longitudinale della pista. Quel caracollare spontaneo si reiterava poi, ingentilito solo di poco, nella corsa susseguente all’atterraggio, allorquando la congenita vocazione anserina del macchinone tendeva di nuovo al volteggio, alternativamente facendogli volgere il muso di qua e di là come fosse un ronzino bolso ma ancor animato da orgogliose velleità battagliere. Il caro bonario “Macchino” – “Maccone”, per chi aveva sott’occhio l’ancora svolazzante minuscolo “308” ligneo della medesima storica casa varesina – imponente e grintoso nella sua livrea argentea da gran guerriero, un poco smunta e qua e là segnata dalla vetustà, era giusto alla soglia delle ultime ore di volo ancora gentilmente concessegli dopo qualche indulgente reiterata proroga, posto che di fatto non l’avesse già abbondantemente oltrepassata (come noi ipotizzavamo, senza neppur soverchia malizia). E di lì a poco avrebbe mestamente figurato comparsa statica in una pellicola di ambientazione storica, debitamente imbellettato a chiazze mimetiche e fregiato di truci svastiche nere, ma (per le stesse inesorabili ragioni di copione) miseramente finendovi in fiamme non posticce. La mia istruzione ai segreti dell’arte di Dedalo era appunto iniziata quasi all’insegna di un allenamento … ciclistico, con i ripetuti monotoni lenti giretti nel circuito standard intorno al caro vecchio nostro campetto erboso delle adolescenziali saghe aeromodellistiche e i correlati decolli e atterraggi dal problematico mantenimento della linearità lungo la mezzeria della pista. Rullaggio, allineamento, tutta manetta, pedalate a non finire, decollo, via i flap, larga virata di novanta gradi a sinistra – “Pallina al centro, non derapi!” -, in affannosa salita al massimo dei giri – “Piano, che va in stallo …” -, quindi sopravvento, livellando a seicento piedi sul QFE – “Perché lo lascia salire? Se vuole andar dritto punti quel ponte, laggiù …” -, poi controbase – “Ora miri allo stadio, come se dovesse bombardarlo …” – seguita dal sottovento – “Vede il campanile di quel paese, là in fondo? Lo mantenga in prua e vedrà che andrà bene, mantenga la quota …” -, virata base: ipersostentatori, motore a discrezione; poscia il finale – “Tenga su … non troppo … non lo lasci scadere … non abbia fretta di toccare … controlli la velocità … punti il muso verso quegli alberi là in fondo alla pista … si regoli con l’altezza … mantenga l’allineamento … su, ora lo sieda per bene, piano … su il muso …” – e finalmente il sudato atterraggio, di nuovo accompagnato da alterne energiche pedalate al timone di direzione e conseguente sculettamento del mansueto paperozzo ritornato terricolo. Il tutto in circa nove minuti, dato che la velocità di crociera dell’esausto I-AENK superava di appena qualche nodo quella di stallo, e che il nostro aeroportino non consentiva il touch and go: involo e atterraggio erano infatti obbligati nel verso rispettivamente opposto, a causa della linea ad alta tensione corrente in fregio alla soglia nord. Ostacolo che uno dei precedenti istruttori, l’ex maresciallo del mio “battesimo” di lustri addietro, aveva una volta malaccortamente saggiato, riducendo il robusto Saiman 202 a un mesto mucchietto di listelli e schegge di legno ammonticchiati sulla parallela strada ferrata sottostante, per fortuna senza neppure un graffio agli occupanti.

Poi via daccapo. La lezione tipo durava poco meno di mezz’ora, per i tre canonici decolli e atterraggi, senza diversivi né varianti di sorta. Attenti a quota e velocità, mantenere la prua, controllare i giri, periodica occhiata a pressioni, temperature e livelli, ecco là il ponte della tratta sopravvento, indi lo stadio e la piscina pubblica in controbase – ma perché mai la capricciosa pallina scappa sempre di qua e di là? – poi il campanile della virata base – “Perché inclina così? Lo sostenga … attento alla velocità … non si lasci portare dall’aeroplano, cerchi di farlo andare dove lei vuole …” – e fuori i flap – il ligneo bottone in capo alla tubolare leva metallica si gonfiava per l’umidità (perciò quasi ogni volta), talché sarebbe occorsa la mano notoriamente d’acciaio di Sandokan per sbloccarlo quando l’atmosfera non fosse ben secca, cioè assai spesso – giù il muso, ruotino di coda bloccato – “Abbiamo vento da destra, vede la manica? Abbassi l’ala …”, seconda tacca – “Richiami … bene così, un po’ di piede … adesso su … troppo, tenga il muso allineato … – bum! (oddio, qui si spacca tutto …) -, “Fermo lì! … manetta … piede contrario, ora attenzione … pazienza, tiri tutto, ora si ritocca …” – e di nuovo ogni cosa da rifare, ancora una volta ricominciando con calma dall’inizio. Per fortuna, delle scarne comunicazioni radio si occupava l’istruttore, lasciando così noi allievi liberi di concentrarci sulle manovre, che era già un impegno esaustivo di per sé.

Accumulai in breve una decina di ore, alla media di una la settimana: mezzora il sabato, altrettanto la domenica e gli altri giorni festivi, capricci del tempo maggiolino permettendo. E appresi lo stallo con relativa rimessa, nonché la riattaccata e la simulata emergenza motore sia da millecinquecento e sia da tremila piedi di quota sul campo. Non senza qualche tribolo, imparai alfine a eseguire correttamente la richiamata dopo il plané finale: il resto andava abbastanza bene, nel competente giudizio del Maestro. Ma la mia paura permaneva elevata, specialmente durante la fase di decollo, con il motore urlante a pieno regime. Mi rendevo tuttavia conto che con il procedere delle lezioni a doppio comando andavano gradualmente diradandosi gli interventi del paziente insegnante, dapprima manuali (e pure … pedestri), in seguito soltanto verbali. Finché, quella domenica mattina di mezzo giugno radioso …

… siamo impegnati nel solito circuito standard intorno al campo, inanellando uno dopo l’altro tre giri stretti nella familiare piccola ATZ, con altrettanti decolli e atterraggi. Il taciturno maresciallo appare distratto, guarda fuori dal suo lato senza parlare; l’aria è calma e il sole comincia a farsi sentire. Dopo il terzo atterraggio, che al pari dei primi due riuscì discretamente, il brav’uomo si slaccia cintura e bretelle; e mentre sto riallineando il pacifico bestione borbottante, apre il tettuccio e mi apostrofa senza preamboli: “Io vado a prendermi un caffè; lasci pure in moto, e si faccia un altro giretto intorno al campo …” Pausa. Il cruscotto vibra vistosamente mentre la massiccia elica lignea seguita a girare al minimo (ptc-ptc-ptc …). “ … no, signor C. (guai a chiamarlo con il grado da militare!) … ci vengo anch’io, al bar …” Il granitico sottufficiale di terza classe non riesce a trattenere un batter di ciglia e a mascherare un impercettibile serrar di mascelle, per qualche attimo restandosene impalato con mezzo busto fuori dall’abitacolo, massaggiato dal flusso dell’elica che continua a macinare aria fresca, a rompere quella fattasi greve in cabina e ritmare quel nostro silenzio denso di pathos …

Fu così che il mio decollo andò ignominiosamente buco. Da parte mia sgomento, più che perplessità. Pur tralasciando l’apprensione, in realtà non mi sentivo affatto in piena salute: forse avvertivo già i primi sintomi della faringite che mi avrebbe costretto a letto per la mezza settimana susseguente, o – chissà – forse il mal di gola mi avrebbe viceversa assalito giusto in conseguenza di quello shock, mah … Sta di fatto che la vista della poltroncina di destra d’un tratto libera, seppur implicitamente in preventivo fin dall’inizio del corso, mi aveva messo addosso i tremori. E l’incontrollabile Io intimo aveva preso a martellarmi insistente: “Aspetta, non andare, non sei maturo …”, in sincronia con i giri dell’elica e le palpitazioni del cuore, prostrandomi in un vuoto mentale del pari mai conosciuto prima. Il paziente buon uomo ci era rimasto palesemente maluccio dal canto suo, dissimulando a stento il proprio disappunto sincero. Non me lo fece pesare allora, né avrà a ricordarmelo in seguito, ma con tutta probabilità non gli era mai capitato un siffatto imprevedibile quanto determinato rifiuto irrazionale: caso forse addirittura unico negli annali della storia universale dell’uomo che vola, comunque più singolare del celebre diniego che a suo tempo aveva guadagnato fama tuttora viva all’emblematico pontefice Celestino V.

Andammo insieme al bar attiguo all’aula didattica del piccolo aeroporto domestico: lui a sorseggiarsi l’usuale bicchiere di latte tiepido, io pleonasticamente farfugliando che non mi sentivo in forma, che ancora non mi ritenevo pronto nello spirito, se non quanto agli aspetti teorici della preparazione. Mi sentivo invero la gola secca e la mente confusa; goffamente, mi scusai come meglio mi riuscì (deve essere stata una scenetta penosa), trangugiando un brandy nostrano di pessima qualità; che non apportò alcun sollievo né allo spirito né alla condizione fisica. Da quella squisita persona sensibile che era, egli comprese … al volo; non rincarò la dose, anzi minimizzando l’accaduto. Fumai tre sigarette di seguito, prive di filtro e parimenti di produzione nazionale a prezzo popolare, mentre andavo rimuginando il paradossale episodio. Codardo era l’epiteto più mite che mentalmente mi venisse da affibbiarmi. Egli non mi mise il muso; almeno in apparenza i nostri ottimi rapporti non parevano essersi guastati. Eppure, riflettevo in silenzio, non era stato il medesimo valente istruttore a inculcare in tutti noi allievi che ciascun pilota deve fare solo e nulla più di quanto non si senta di volta in volta di fare? Bene, io non me l’ero proprio sentita, di decollare quella mattina di domenica. E ciò, nonostante il mio lunghissimo vagheggiamento dell’ intera materia, oltreché il connaturato desiderio ardente di dominare i cieli senza tutori-pedagoghi di sorta al fianco. Semplice, no? Almeno a dirsi.

Guarito che fui almeno nella gola e un poco rilassato, il secondo sabato successivo mi risolsi a ripresentarmi sul campo di volo. Non senza previo travaglio decisionale, ben conscio com’ero di ciò che colà mi avrebbe atteso senza più scappatoie percorribili. I tre canonici giretti in doppio comando filarono infatti lisci come olio; quindi via: “Se la sente, adesso? …”, seguito dal mio ritardato sibilo afono che stava per un sì senza calore né convinzione, seppur non improvvisato, tantomeno estorto. Due circuiti stretti stretti intorno al campetto, come al solito ma evitando accuratamente di lasciar cascare l’occhio sul desolatamente vuoto sedile di destra: due decolli da manuale, stacco dolce, direzioni e quote precise, pallina al centro, virate impeccabili, l’aereo sensibilmente più leggero dell’usuale; e due atterraggi pennellati alla vaselina, il secondo bagnato da uno spruzzo di pioggia capricciosa. “Decollo bagnato, volo fortunato”, non mancheranno di chiosare poi a terra. E, confortante, inusitata la serenità goduta fin dal primo istante del “tutto gas” per l’abbrivio sullo scorrevole manto erboso, subentrata alla propedeutica tensione che sempre aveva presieduto ai decolli istruzionali. Indi subito le felicitazioni degli astanti, con il rituale brindisi al neo aquilotto ma, soprattutto, il largo sorriso del buon signor C., a gratificazione sopra ogni altro apprezzamento.

A distanza di tanto tempo, tuttora palpita la viva memoria di quei sedici eterni minuti del volo forse più bello di tutti, a bordo dell’aeroplano più fascinoso del mondo sull’aeroporto più delizioso, nel giorno più intenso della mia vita di aspirante aviatore. E pensare che qualche anno dopo il mio secondogenito – il primo era pilota civile già da qualche anno – è “decollato” all’età di diciassette anni appena fatti, dopo sole sei ore di doppi comandi su un “Cessnino” da cento cavalli, almeno in apparenza senza alcun patema (lui)! E’ pur tuttavia vero che quell’indovinato aeroplanino ha il più facile carrello triciclo anteriore e che la pista bitumata dell’ aeroporto sul quale ha fatto la scuola è libera da ostacoli presso ambo le testate, perciò esente da vincoli, per cui vi è consentito il “tocca e riparti” che comporta soltanto un mezzo giro intorno al campo in luogo dell’intero circuito che noi dovevamo invece compiere, con conseguente più che raddoppio dei tempi. Ma altrettanto vero è che a distanza di una buona mezza generazione i metodi didattici sono cambiati, contemplando una pratica che anziché anteporre l’apprendimento di decollo e atterraggio privilegia l’esecuzione di altre manovre in volo, per cui i tempi dell’istruzione a doppio comando tornano ad allungarsi. E non è meno vero che il ragazzo è ancor più riservato e introverso del genitore, e sa simulare con naturalezza la più fredda indifferenza anche in situazioni delicate. Buon per me che, diversamente dal solito, quel giorno non l’avevo accompagnato io all’aeroporto, bensì il fratello maggiore. Tanto che, appresa l’inaspettata notizia al mio rientro serale, mi dibatterò a lungo fra l’incredulità e un’apprensione a posteriori, nel rimuginare in silenzio lo scansato accoramento e, insieme al primogenito, meditare intorno a certe differenze generazionali, oltreché di ordine anagrafico. Come del resto già provato anche dal decollo e dal brillante superamento delle tappe ulteriori da parte del primogenito stesso, nello storico aeroporto non lontano dal capoluogo sede del mio lavoro.

In seguito superai altri “decolli”, durante le successive abilitazioni a specifiche macchine, sempre della categoria monomotori da turismo e sport, fino alla potenza di duecentosessanta cavalli: analoghi i preliminari voletti in doppio comando, ma – nonostante la novità del mezzo – di volta in volta incomparabilmente più disteso il primo involo da “solista” a bordo di ciascuna di esse.


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Carlo Alberto Ferandini

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