La prima volta

– Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi trovai solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni l’odore “sintetizzato” di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero pronto.

Arrivando alla sezione ologrammi aeronautici, – Bella giornata – mi ero detto malinconico. Cielo azzurro, qualche cumulo, visibilità perfetta, calma di vento: – Come sempre!? – avevo aggiunto sarcastico. Era caldo, questo sì. Ma eravamo pure in pieno agosto! L’ideale per volare in aliante. – Tanto per fare il solito volo cielo campo?! – I miei compagni di corso erano già lì e stavano facendo i controlli giornalieri. In effetti ero arrivato un po’ in ritardo … ma non c’era stato motivo di affrettare il passo: – Anche oggi non farò niente … che non abbia fatto già ieri o due cicli fa – m’ero detto. – La sai la novità? – mi bruciò Matteo. – No. Che novità? – risposi secco. – Il generale?! … se ne è andato! – Ma che dici? – Eh, dico che il generale se n’è andato. Ha dato le dimissioni due giorni fa. Ancora incredulo, pensai a voce alta: – E ora?! – – Semplice! Hanno trovato un altro istruttore – incalzò Matteo. – E … chi sarebbe? – chiesi, ancora più stupito. Non ebbe il tempo di rispondermi: il nuovo istruttore era apparso dietro le mie spalle, quindi si era presentato a noi allievi con un breve discorsetto. Poi mi aveva pregato di prepararmi. Non ricordavo nulla del volo che avevo appena fatto … tranne i suoi “Uhmm”. Era stata la prima volta che volavo con qualcuno che non fosse il generale: il silenzio aveva regnato in cabina dal decollo fino all’atterraggio. Era stato un volo di addestramento breve come al solito. E come al solito avevo rullato fino all’area di parcheggio. Mi stavo preparando a scendere quando l’ennesimo “uhmm”, stavolta interlocutorio, aveva preannunciato la voce del mio nuovo istruttore: – Ora vai da solo. – Ero rimasto pietrificato.

Mentre il traino ancheggiava tirandosi dietro il cavo, ripensai a quello che il generale mi aveva insegnato: “il pilota è un automa”. “Egli svolge le manovre di pilotaggio con inconsapevole meccanicità”. “Non può e non deve sbagliare: il pilota”. “Egli non vola per puro divertimento: egli è aria nell’aria, è perfezione nella perfezione”. Io dovevo far bene: volevo essere un pilota. Mi concentrai allora su ciò che avrei dovuto fare: il rullare ritmato delle manovre cominciò a vibrare nella mia mente. Lo strattone del cavo teso mi riportò alla realtà. Il vecchio K13 cominciò macilento la sua corsa, accennò ad abbassare la semiala sinistra verso terra ma io, che conoscevo il suo umore, lo pregai con decisione affinché livellasse l’ala. Poi lo scorrere sull’erba diventò lo scivolare vibrato nell’aria e … ero in volo! Fu allora che mi sentii scoppiare un urlo. Tutt’assieme esplose fuori la tensione, la preoccupazione di non riuscire, ed ora, ad ogni respiro, entrava solo contentezza. Ero solo in aria: pilotavo! Ero l’aliante e lui era me. C’era voluto molto tempo ma ora ci capivamo. Io rispettavo lui e lui rispettava me. Non gli chiedevo l’impossibile e lui non faceva ciò che non volessi anch’io. Ora sapevo come chiedergli ciò che volevo e lui lo faceva come io pensavo avrebbe fatto. Il traino aereo mi era stato sempre difficile: il generale mi tuonava manovre e contromanovre, eppure riuscivo a malapena a star dietro la coda dell’aereo. Io eseguivo … ma troppo in ritardo o in eccesso: lui tuonava ancora più forte correzioni e controcorrezioni; quando neanche quelle avevano effetto, sentivo pistare sui comandi: la cloche partiva di lato e la pedaliera schizzava a fine corsa. Il K13 eseguiva servile. Da subito il nuovo istruttore aveva capito il mio dramma: con parole pacate mi aveva spiegato e ora … ero appeso a quel filo invisibile che lega il pulcino alla chioccia. Ero la sua ombra. D’improvviso l’aliante sussultò: mi trovai a tirare la leva di sgancio e a guardare l’altimetro – settecento metri -. Anch’io sussultai: ero libero! Libero di volare senza vincoli … finalmente! Il cielo era davanti a me ed io potevo solcarlo all’infinito. Per la prima volta, dopo tanto tempo, riassaporai il gusto del volo: il suonare sordo del vento, i sobbalzi dell’aria, la terra vista dal cielo … Solo all’inizio – da passeggero – avevo gustato quel sapore dolce ma poi – da allievo pilota – era diventato tutto amaro. Quando scendevo dall’aliante – la testa perforata dai tuoni del generale, la schiena fradicia (e non per via del paracadute), i muscoli irrigiditi dalla tensione – sapevo di non aver volato: avevo cercato di domare un masso riottoso di tela, legno e acciaio. E non c’ero riuscito. Io ne ero cosciente, né il generale – con i suoi apprezzamenti – si tratteneva dal ricordarmelo. Ma ora, potevo dire davvero che tutta quella fatica aveva avuto un senso: il momento che stavo vivendo era inimmaginabile. Avevo fantastico su cosa sarebbero stati quegli istanti … ma non avrei potuto mai immaginare i mille sentimenti che provavo. Un sogno impossibile era diventato realtà possibile. Forse perché era stata una liberazione: da una vita sognavo di volare e quando ormai, quasi dubitavo di esserne capace, il generale s’era fatto scappare qualcosa. Poi però, il giorno fatidico del mio volo solista non s’era presentato in aeroporto – per la prima volta da che lo conoscevo – .”Motivi di salute” ci avevan detto in Aeroclub. E poi la notizia delle dimissioni, infine il nuovo istruttore. Già pensavo di buttare in un polverizzatore per rifiuti quelle dieci ore di tormenti a doppio comando, quand’ecco che il momento magico aveva avuto inizio. Un’altro sussulto violento mi scosse: l’aliante aveva sentito qualcosa e mi suggeriva di sfruttarne la spinta. – Non può essere turbolenza – pensai: ero a centro valle – E non può essere neanche una semplice bolla – conclusi: la mattinata era già piuttosto avanzata e quella doveva essere proprio una termica. Per un momento pensai di tentare l’aggancio, poi, toccando il cruscotto, confidai al K13: – Ora pretendi un po’ troppo da me!? -. Lui mi rispose comprensivo accennando una leggera picchiata. Bighellonare in aria non mi era familiare: in me scattò una molla e cominciai a manovrare come avessi avuto un programma di missione da svolgere. Non ricordavo che quello non era un volo addestrativo: a bordo non c’era più l’istruttore che mi avrebbe suggerito la successione delle manovre, eppure nella mia testa echeggiavano cadenzate le manovre da impostare. Virata a destra … virata a sinistra … planata con prua costante … mi veniva tutto naturale. Allora capii che nello stesso attimo in cui decidevo di virare … tutto me stesso virava, nello stesso attimo in cui decidevo di planare veloce … tutto me stesso planava. Se volevo mantenere una direzione, “io aliante” mettevo il muso in quella direzione: non era più una questione di bussola, piede e cloche. L’ala era il prolungamento delle mie braccia e la fusoliera del mio ventre. Non ero più il pilota di una macchina ma l’uno e l’altro contemporaneamente. L’ebbrezza del volo mi aveva preso fino al midollo e speravo che non finisse mai più: – Non ora … – dissi, – Non ora che sono “aria nell’aria” e “perfezione nella perfezione” -. Ma l’altimetro, impietoso segnava duecento metri. Già ero sotto la quota di ingresso in circuito e non potevo indugiare di più. Fortunatamente ero sul cielo campo – questione di inconsapevole meccanicità? Bah, a saperlo! -. Avviai alla svelta la procedura di atterraggio. A mie spese avevo imparato che il decollo e l’atterraggio erano fasi critiche, ma il rullare mentale dei parametri e la vista dei punti di riferimento mi dissero che stavo facendo bene. Al suolo, non c’era praticamente vento: chiesi alla torre se potevo atterrare per la pista uno-sette. – Affermativo: la pista in uso è la uno-sette. Calma di vento. Nessun traffico. – D’accordo … andiamo giù – mi dissi fiducioso. Il gracchiare improvviso della radio interruppe la nenia dei controlli pre-atterraggio: – Atterra per tre-cinque! – ordinò la voce ferma dell’istruttore. Con la coda dell’occhio guardai di nuovo la manica: una bava di vento in coda. – Accidenti! Non c’è motivo di atterrare per la tre-cinque! – urlai inviperito. L’altimetro girava crudele verso lo zero e già avevo percorso un quarto di sottovento. Ma l’ordine era stato perentorio: non lasciava spazio a repliche, né avrei avuto il tempo di farne. Diedi il ricevuto e sconsolato guardai il cruscotto: – Se riusciamo a toccare la pista siamo proprio bravi, eh!? – Gli operatori dell’assistenza al volo, testimoni benevoli, mi accordarono l’uso della pista e confermarono l’assenza di traffico. Il vento al suolo era sempre insignificante. Senza accorgemene diedi loro il ricevuto: ero troppo preso dall’invertire il circuito. Feci una doppia virata stretta: l’aliante era insolitamente rapido nella rimessa, quasi che anche lui avesse capito la gravità del momento e volesse dare il meglio di sé. Non avevo granché riferimenti: sì e no, nel corso di tutte le missioni avevo fatto cinque o sei atterraggi da quel lato e ora scontavo quell’unica leggerezza del generale. Ma dovevamo farcela: dovevamo andare giù! Sentii un brivido lungo la schiena e vidi tremare la mano sulla cloche. Che fosse paura? Forse. “Concentrazione!” echeggiò il generale. Non avevo più quota da spendere per fare il sottovento: dovevo lasciarmene un po’ per la virata in base e la virata finale. Decisi di tagliarlo a metà. – Ora! Virare! – Mi sentii centrifugare stretto come mai m’era capitato prima dall’ora. – Ecco la pista! Non eravamo affatto bassi: estrassi a tre quarti i diruttori. L’aliante tremò tutto … ed io con lui. Sotto la sferza dell’aria scendemmo decisi verso terra. Sapevo che l’asfalto era duro – sarà per il colore grigiastro o per la grattata del pneumatico quando lo tocca? – ma quel primo atterraggio fu particolarmente duro. In tutti i sensi. La pista continuava ad avvicinarsi e a scorrere: ero troppo picchiato, dovevo raccordare. Lo strattone finale ci fece sprofondare ancora di più. Rimanemmo immobili per un istante lunghissimo: scendemmo inesorabili verso terra, sicuri che il contatto sarebbe stato violento. Il tonfo arrivò fortissimo e ci rimbombò nelle ossa … ma non subimmo danni: il K13 mi aveva già perdonato. Rullammo verso l’area di parcheggio e rimasi in cabina con la cappottina chiusa, nonostante il caldo torrido. Ma io non lo sentivo tale il gelo che provavo. – Ce l’abbiamo fatta! – urlammo all’unisono. Avevamo fatto tutto quello che potevamo fare e l’avevamo fatto bene – a parte l’atterraggio, forse -. Ero di nuovo a terra, eppure il cielo non era più lo stesso cielo: ero entrato in un quel nuovo mondo e quello terrestre non mi era più congeniale. – Ti senti bene? – urlarono i miei compagni, paonazzi per la paura. – Sì, sì, tutto bene – risposi loro, aprendo la cappottina. Mi riempirono di complimenti sinceri. La loro opinione era prevedibilmente benigna ma lo sarebbe stata quella dell’istruttore? Così mi avvicinai a lui, seduto accanto alla biga, che compilava un rapporto di volo. Volevo scusarmi … per l’atterraggio duro, per la procedura affrettata. Appena mi vide si alzò, guardò l’aliante riallineato pronto al volo e con distacco sentenziò: – Quello che hai fatto oggi ti servirà per i voli futuri – , poi si allontanò con impassibile noncuranza, seguito da un allievo. Le sue parole mi trapassarono veloci come il raggio di uno smaterializzatore: per un attimo sentii fluttuare nello spazio tutte le mie molecole … e poi riunirsi. Mentre i miei compagni davano inizio ai festeggiamenti, il primo pensiero corse ai miei genitori. Fuori della sezione ologrammi aeronautici, c’era un videotelefono: non potevo tenere solo per me la notizia. E poi ero certo che ne sarebbero stati felici. Certo avrebbero preferito sapere che avevo ottenuto qualche buon risultato negli studi – non ero brillante, dovevo ammetterlo – ma era pur vero che non era da tutti avere un figlio dodicenne, nato e cresciuto in una stazione spaziale da esplorazione, che sapesse pilotare un aliante!? Certo, all’inizio avevano mostrato un po’ di contrarietà – eccome – quando avevo detto loro che mi sarei iscritto al corso di volo a vela: – Non potevi scegliere uno sport un po’ più moderno? – avevano obiettato. – No – , avevo risposto deciso, – Il volo in aliante è modernissimo perché “è stato” ed “è tuttora” la base del volo terrestre.- Poi avevo aggiunto: – Tra dieci cicli saremo nel Sistema Solare e calcolando la quarantena, saremo sulla Terra tra quindici cicli al massimo. Se comincio subito il corso di pilotaggio, potrei fare il volo solista su un “aliante vero” e in un “cielo vero”! Ero riuscito addirittura ad anticipare le previsioni: che volevano di più?! Pronunciando il codice di accesso telefonico guardai attraverso l’oblò accanto al videotelefono: il cielo della Terra là sotto mi aspettava azzurro e sconfinato. Ed io ero pronto per solcarlo.

Rullai fino all’area di parcheggio. Mi preparai a scendere ma il ronzare del traduttore fonetico, dietro di me, preannunciò la voce sintetizzata del mio istruttore: – Ora vai da solo. – Rimasi pietrificato, ancora una volta. Poi, fissandomi con i suoi enormi occhi gialli, affossati tra le squame della testa, aggiunse: – Ricordati che qui siamo sulla Terra: questo non è un simulatore!? – – Giusto! – ripetei, per convincerlo di aver capito, – Questa non è la stanza ologrammi della navetta spaziale: è la Terra … e questo non è un simulatore di volo: è un “aliante vero” in un “cielo vero”! – Okay – rispose. E si allontanò con uno strano ghigno in viso: probabilmente un sorriso di approvazione … se solo avesse avuto una bocca umana per mostrarlo.   – Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi ritrovai di nuovo solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni il “vero” odore di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero davvero pronto.

A Daniele e a quel pilota che, probabilmente, non sarò mai.


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Big Mark

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