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Aeroporti

“Il tempo passa e le cose cambiano”, già e’ proprio vero, arrivi in aeroporto, scendi lentamente la scaletta dell’aereo, senti l’aria fresca sul viso e il sole caldo sulle mani. Non si direbbe di essere arrivati a Milano, sembra un altro posto. Questa volta non hai dentro un lieve senso di smarrimento come ti succedeva quando per lavoro lasciavi casa per andare in un posto che non era casa tua, o che non era ancora casa tua. In quelle occasioni avevi sempre la voglia di vedere posti nuovi, conoscere, curiosare, ma in fondo c’era sempre un senso di vago timore, legato al fatto di essere via, essere lontano dai tuoi, dalle tue cose e dal tuo ambiente. A volte ti era capitato di desiderare di non essere lì, di guardare attraverso i vetri dell’autobus che lentamente ti conduceva al terminal, con il vago pensiero di farti portare su un altro aereo e tornare indietro.

Arrivato all’aerostazione, vicino al nastro per i bagagli, l’attesa ti costringeva a guardarti intorno, a curiosare a paragonare le strutture di quel particolare aeroporto: “a quale terminal assomiglia questo posto? Forse a quello di Chicago, no, … no, a quello di Monaco, asettico, vetro e acciaio, freddo su freddo”. Poi, dopo le strutture, la tua attenzione passava sulla gente: il manager che aspetta i bagagli senza celare l’impazienza perché il suo, all’imbarco, non glielo hanno fatto più caricare in cabina. La signora anziana, elegante e distinta, che va a trovare i figli; l’inconfondibile famiglia di turisti con bambini che corrono qua e là mentre papà e mamma cercano di ricordare il nome dell’albergo e il modo di dirlo nella lingua del tassista; il commerciante che ha un braccio impegnato dal suo prezioso campionario e l’altro ormai diventato un prolungamento del suo cellulare. E poi ragazze sole, vestite in modo quasi sciatto, che sembrano capitate lì per caso: forse fanno del turismo o invece stanno per raggiungere qualcuno che le aspetta; uomini d’affari che tornano dalle famiglie o che arrivano, come te, in quella città per lavoro. E poi pensi: “ma io come sono? Impaziente come il manager, o simile a uno di quegli uomini d’affari?” “No, non sono così elegante, viaggio sempre comodo, o forse è meglio dire, mimetizzato.” “Chissà se chi mi guarda capisce che sono qui per lavoro? E chissà se la mia espressione tradisce i miei dubbi o se invece sembra assorta, come quella di uno sicuro di se che sa cosa fare e dove andare in questa città?”

Forse l’insicurezza viene dal fatto di non essere attesi lì dove si va. Di essere lì da “stranieri”, trovarsi a dover presentare se stessi a tutto ed a tutti. A non trovare un luogo o un volto familiare. A pensare alle persone care come distanti. “Pensa al lavoro” Ti senti dire a te stesso. “Pensa alla presentazione che dovrai fare domani. Hai preso tutto con te? Qual’e’ l’agenda?” Queste sono le cose che cerchi di forzarti in mente per fugare tutti i pensieri “strani”. Ma non basta… Le valigie tardano, le persone sempre più impazienti rendono l’atmosfera ancor meno accogliente. Il terminal si riempie di squilli di telefoni cellulari, di risposte canoniche in lingue diverse: “si sono arrivato, … tutto bene, … il volo era in orario, e voi come state …”.

Niente ti aiuta a superare quei momenti di freddo lieve, di incertezza latente. Ma ecco le valigie; scorrono lente davanti ad un pubblico impaziente, che non applaude. Un pubblico che rapisce una ad una le protagoniste di questa muta sfilata di bagagli variopinti. Le valigie passano, ma non le tue. Non si capisce mai come accada che i propri bagagli siano sempre in ritardo. Non escono mai per primi da quei sipari di gomma nera. Non accade mai che la propria valigia esca fiera, prima tra tutte. No, essa ti lascia aspettare. Prima di te la piccola suora prende la sua valigia spropositata che tu immagini piena di rosari e icone della Madonna. Poi un fiume di beautycase e valigie firmate; sono quelle degli immancabili turisti americani. Passa perfino il sombrero “tipo familiare” del turista reduce dalla vacanza in Messico, ma la tua valigia, pigra, non vuole venire fuori. Anche lei indugia, anche lei si trattiene sul carrello, nascosta tra le altre, nella speranza di essere reimbarcata per tornare a casa. Alla fine, eccola, non ultima, ma sempre attesa troppo a lungo. La guardi, la prendi la soppesi: “si è la mia” ti dici, e a questo punto niente più ti trattiene nell’aerostazione.

Devi cominciare a muoverti verso la città e cercare. Cercare un taxi, cercare l’albergo, cercare un ristorante per la cena, cercare di capire a quale zona corrisponda l’indirizzo del posto che dovrai raggiungere per il meeting, cercare di ambientarti in camera, cercare di prendere sonno. Devi solo cercare, non trovi nulla già pronto in un posto nuovo. Non trovi nessuno ad aspettarti. E’ vero, non e’ la prima volta. Sai già che l’indomani il lavoro da un lato e la tua curiosità dall’altro ti faranno passare tutti questi vaghi timori. Sai già che ti basta poco per poi farti prendere dall’interesse per i luoghi e per tirarti fuori da quella palude di blanda tristezza. Ma deve ancora passare … ancora un piccolo sforzo.

Invece, tutto è diverso quando arrivi in un posto in cui sai che troverai qualcuno che ti aspetta e che non vedi l’ora di rivedere. Il viaggio ti ha portato via da qualcosa, ma ciò che ti aspetta e’ ciò che tu desideri di più. Il sole sulle mani, il vento sul viso, sensazioni piacevoli fuori dall’aereo e che ti accompagnano fino alla navetta che lentamente, troppo lentamente ti porterà al terminal.

Ed ora lì nell’attesa delle valigie sei come il manager, impaziente di veder arrivare il tuo bagaglio. L’attesa ti mette in tensione, cerchi con lo sguardo la toilette, la trovi e la raggiungi come faresti con un’oasi a lungo cercata nel deserto. Ti trattieni lì il più possibile, guardandoti nello specchio, sciacquando e risciacquando le mani per poter usare tutto il tempo necessario a che le tue valigie arrivino sul nastro. E questa volta il trucco funziona: sei riuscito a farle arrivare! Eccole lì spuntare e tu rapido a rincorrerle. Così valigie alla mano, te ne vai verso l’uscita seguendo le inutili indicazioni gialle: “So la strada, so benissimo dove andare, oggi qui, non ho nulla da cercare!” Uno sguardo distratto al terminal, un ricordo vago di quella sensazione spiacevole, ma solo un ricordo; oggi sai che non e’ così. Oggi l’impazienza è dolce, l’aeroporto è amico, niente può metterti di cattivo umore. Oggi rivedrai qualcuno che conosci. Oggi finalmente rivedrai qualcuno che ti stava aspettando. Oggi rivedrai qualcuno che ami e che ti ama. Oggi potrai baciarla di nuovo. Oggi rivedrai Eleonora.

 


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Claudio Palmieri

Aeroporti

elicottero jet rangerTutto il mondo è paese. No, non ci siamo lasciati andare ad una di quelle affermazioni logore e qualunquiste … semplicemente dobbiamo ammettere che, e siamo certi che lo farete anche voi, ci sono luoghi (anche se agli antipodi del globo terrestre) che si somigliamo in modo a dir poco impressionante. Gli aeroporti, per antonomasia, rientrano in questo genere di posti. Qui, a qualunque latitudine e longitudine siano posizionati, si consumano le stesse ritualità e le stesse emozioni, sono animati da un’umanità varia eppure simile … tanto che un osservatore esterno vedrebbe ripetersi all’infinito le medesime situazioni a Londra come a Città del Capo. Perché questo, in fin dei conti sono gli aeroporti: un’ampolla dove si ripetono sempre gli stessi fenomeni a prescindere dalle coordinate geografiche. Ed è quello che il protagonista di questo racconto vede e, soprattutto, sente. Un testo diretto ed asciutto venato da un sentimento che solo nell’epilogo si manifesta in tutta la sua enormità. Quello stesso sentimento che, come gli aeroporti, troverete in ogni angolo del pianeta.


Narrativa / Medio-Breve