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Il senso di Smilla per la neve

L’aliante è una macchina davvero molto strana. Tutti credono di conoscerla, ma in realtà sono pochi quelli che la conoscono davvero. E sono pochissimi a sapere come vola. Il problema sta nel fatto che l’umanità tende sempre a generalizzare, a racchiudere dentro schemi. Provate a chiedere cos’è un aliante e ne scoprirete delle belle. Molti vi descriveranno un deltaplano, altri vi parleranno di quegli aeroplanini di carta che facevamo da bambini. E che molti di noi, me compreso, fanno ancora da adulti. Oggi, grazie alla pubblicità, tanta gente risponderebbe in modo corretto, per aver visto lo spot di un noto amaro. L’aliante in questione è proprio quello che ho utilizzato per anni per fare scuola di volo a Lucca-Tassignano. Ma anche così, in realtà, sono pochi ad aver visto da vicino un club di volo a vela, ad aver toccato quelle macchine meravigliose dalle lunghe ali.

Inoltre, esistono tanti tipi di alianti e non sono certo tutti uguali. In Groenlandia c’è la neve. Tanta. Per tanti mesi dell’anno. Gli abitanti non dicono semplicemente “neve” come facciamo noi. Hanno una dozzina di termini diversi per designare altrettanti tipi di neve. Allo stesso modo, non si può dire semplicemente “uccelli” per designare un animale che vola o che ha le ali. Ciò che la gente non sa, a volte neanche coloro che si dedicano con passione all’osservazione degli uccelli, è che esistono due grandi categorie di uccelli: quelli veleggiatori e quelli non veleggiatori.

Che significa? Per semplificare il concetto al massimo, diciamo che gli uccelli non veleggiatori volano battendo sempre le ali, tranne quando planano per atterrare. Gli altri battono le ali occasionalmente, ma di solito volano ad ali spiegate, ferme, sfruttando le correnti ascendenti dell’atmosfera.

il senso di smilla per la neve - copertina
La copertina del thriller dal quale è stato tratto l’omonimo film in cui Smilla è impersonata dall’attrice britannica Julia Ormond

Ho appena fatto un accenno alla Groenlandia. Nel 1997 uscì nelle sale un film, tratto da un libro del 1992 scritto da Peter Hoeg. La storia, ambientata a Copenhagen, inizia con la scena di un ragazzino che sale su un tetto ricoperto di neve, si avvicina troppo al bordo e cade di sotto, uccidendosi nell’impatto con il suolo. La gente si raduna sul luogo dell’incidente e in quel momento arriva anche una ragazza che abita nella palazzina e conosce il ragazzo. Questa ragazza, Smilla, sale a vedere il tetto insieme ad altra gente, Tutti guardano le tracce sulla neve lasciate dal ragazzino e a tutti appare chiara la dinamica del fatto: il ragazzo è salito imprudentemente sul tetto, è scivolato per la neve ed è caduto. Tutti interpretano così gli scarni elementi che si trovano davanti, tutti tranne Smilla. Lei vede ben altro. Gli elementi che vede non sono solamente dei passi sulla neve. Lei vede un omicidio, non un incidente di gioco.

Perché?

Perché Smilla è una Innuit. E anche il ragazzino è Innuit come lei, sono nati in Groenlandia anche se ora vivono in Danimarca. E gli Innuit non hanno solo un termine per definire la neve, ne hanno moltissimi. Frazil, grease ice, pancake ice, hiku, hikuaq, puktaaq, ivuniq, maniilaq, apuhiniq, agiuppiniq, killaq, ghiaccio permanente, acqua di fusione, banchi blu e neri: per gli abitanti dell’estremo nord sono tanti i nomi del ghiaccio, tanti i suoi colori, tanti i modi di uccidere del freddo che gela il sangue nelle vene.

il senso di smilla per la neve - locandina
La locandina del film tratto dal romanzo dello scrittore danese Peter Hoeg

Quindi il ragazzino non sarebbe mai salito sul tetto per gioco. Mai si sarebbe avvicinato al bordo, con quel tipo di neve che ricopriva il tetto. Doveva esserci un’altra spiegazione, forse era inseguito e in grave pericolo di vita.

Da qui si snoda il resto della trama del film, con le indagini di Smilla e le scoperte che fa. Ma ho preso ad esempio questo film per dire che si fa presto a dire “neve”. Qualcuno potrebbe avere tantissimi altri modi per definire una cosa, di neve possono esserci tantissimi tipi diversi, che noi non distinguiamo.

Si fa presto a dire aria. Si fa presto a dire vento. Noi diciamo “neve” e non sappiamo riconoscerne la dozzina di tipi diversi. Così diciamo “aria” e non ne riconosciamo le decine di caratteristiche diverse. Del vento sappiamo che è aria in movimento orizzontale, tutto qui.

Ma dovremmo avere una trentina di termini diversi per l’aria. E il vento non è sempre orizzontale, anzi. Spesso è obliquo e impatta la superficie delle acque, del mare o dei laghi, generando le onde. Se il vento scorresse parallelo alla superficie del mare, le onde non ci sarebbero.

A volte il vento è verticale. Spesso scende dritto dall’alto verso la terra, ma altre volte sale dalla terra surriscaldata dal sole e si spinge a quote alte, dove l’umidità contenuta al suo interno si condensa e diventa una nube. Allora gli uccelli veleggiatori volano al suo interno ad ali ferme e si fanno portare in alto senza sforzo. La papera non veleggia. Tranne che per brevissimi tratti, quasi per caso. Il gabbiano veleggia quasi sempre e così il condor, la poiana, il falco, il rondone, l’aquila. Il passero, il piccione, il merlo non veleggiano. Pur essendo formidabili volatori. Non conoscono le decine di termini diversi per designare i diversi tipi di aria e di vento. Il pilota di aereo o di elicottero, perfino loro potrebbero non conoscere quei tipi e quei termini. Difatti non veleggiano.

Il pilota di aliante è un veleggiatore puro. Se il pilota di aereo guarda verso l’alto, verso le cime dei monti, verso le nubi, vede aria. L’aliantista vede un gran numero di cose diverse. Vede la dinamica tutta dell’atmosfera, vede i raggi del sole impattare la superficie secondo angoli diversi a seconda dell’orografia del terreno, vede le rocce scaldarsi di più dei boschi, vede l’aria a contatto delle rocce riscaldarsi e dilatarsi per poi iniziare a salire. Vede l’aria calda andare su, quella fresca scorrere a prendere il posto di quella che se ne è andata e scaldarsi a sua volta e poi salire. Vede gli sbuffetti di condensazione apparire e sparire qua e là nel cielo, ad indicare il punto dove il vento ascendente ha portato la propria umidità. Vede i costoni sopravento e sottovento, vede i punti dove poter salire ad ali tese e la strada nel cielo, da un cumulo all’altro, da seguire. Vede anche le aree da evitare, dove sa che il vento verticale, in quei luoghi, sarebbe discendente. Il pilota di aliante, chiamato anche volovelista, conosce l’aria come lo scandinavo conosce la neve. Tanti tipi diversi. Tanti termini.

Non si vede solo con gli occhi fisici, ma anche con gli occhi della mente e la vista è tanto più lunga e nitida quanto maggiore e più accurata è la conoscenza.

Una guida turistica di un paese africano ha detto, una volta, ridendo: “I turisti, qui, vedono solo ciò che conoscono”…

Ho osservato le persone in visita nei vari club di volo a vela. Nel guardare da vicino un aliante rimangono stupiti. Molti lo trovano una macchina fragile, per via delle lunghe ali, goffa e poco maneggevole, perché ci vedono spostarlo a terra con una certa difficoltà. Alcuni lo trovano anche scomodo e stretto, da claustrofobia e si chiedono come si fa a volare dentro quel “coso”. Il paragone con l’aereo è inevitabile. L’aereo è lì, magari il nostro Robin da traino, tozzo e robusto, con le ali corte e forti, ampio, comodo e soprattutto, dotato di motore, simbolo di affidabilità e sicurezza. Le cose non stanno proprio così, ci sarebbero moltissime cose da dire al riguardo.

La gente vede la neve, ma non ne riconosce la dozzina di tipi diversi.

Il traino si allinea, viene agganciato il cavo, tutto motore e si va, le due macchine in fila verso il cielo. Subito dopo la partenza, l’aliante si stacca leggero e si mette a pochi metri da terra, in attesa che anche l’aereo venga su. Poi lo segue con assoluta precisione, rivelando una maneggevolezza estrema. Dei due, il più penalizzato è l’aereo. Ad appena cinquanta metri da terra, se il motore del traino si fermasse, in nessun modo potrebbe riatterrare in pista. L’aliante sì, senza problemi. Potrebbe fare una virata perfetta di centottanta gradi e tornare al suolo in contropista, mentre l’aereo va a cercare fortuna nei campi vicini. Il traino ha circa quattro ore di autonomia, con la benzina contenuta nei suoi serbatoi. L’aliante non ha limiti di autonomia. La sua benzina sono le correnti ascensionali. Il traino può salire poco oltre i quattromila metri. L’aliante potrebbe anche superare i diciassettemila.

E la robustezza? Un aliante di categoria normale è robusto quanto un aereo di categoria acrobatica. Il nostro aliante ha una robustezza più che doppia rispetto al Robin da traino. A dispetto delle sue lunghe ali, dieci metri l’una, le cui punte potrebbero quasi toccarsi prima di rompersi. Il pilota di aereo teme la piantata di motore. L’aliantista no, lui vola sempre senza motore. Il pilota di aereo teme l’incendio. L’aliantista non porta in giro nessun serbatoio di benzina. Nella sua macchina fortissima, che non cade e non si rompe, il volovelista sale con le correnti, osservando il cielo più che la terra, senza rumore, senza paura. Ha tutto, anche il paracadute come estrema risorsa. Guadagna quota, preziosa energia da spendere per fare strada, verso altre ascendenze, altra quota e altra strada. Il suo pilotaggio è praticamente perfetto. Visto di fronte è un punto con due linee, le ali. La pulizia delle sue manovre non è valutata attraverso il rozzo viro-sbandometro dell’aereo, ma attraverso un filo di lana attaccato sopra la cappottina trasparente. Un filo che deve rimanere sempre allineato all’asse longitudinale della macchina, a pena di un terribile scadimento delle prestazioni aerodinamiche della macchina.

L’aliantista non vola mai basso. Motivo per cui l’aliante è meno visibile dell’aereo. A mille piedi, quota che gli aerei mantengono ordinariamente per lunghi tragitti, l’aliante è prossimo all’atterraggio. E alle alte quote, sopra le montagne, sopra le pianure, sotto i cumuli, vola in silenzio, in compagnia, a volte, di altri esseri che, come lui, vedono ben di più che della semplice “aria” intorno a loro: gli uccelli veleggiatori. I quali non si spaventano nel vedere l’aliante. Girano insieme nella termica, senza timore alcuno, anche per parecchio tempo, almeno quanto basta all’uccello veleggiatore, vero padrone degli spazi aerei, per guadagnare quota più in fretta, diventare un puntino, confondersi con il cielo e scomparire. Un aliante ha di solito un’efficienza di circa trentotto. Vale a dire che da mille metri potrebbe percorrere trentotto chilometri, in aria calma, prima di toccare terra. La tecnologia odierna è in grado di fornire macchine con efficienza sessanta, ma presto si raggiungerà quella di cento. Ho detto in aria calma, ma l’aria, abbiamo visto, non è quasi mai calma e contiene sempre, qua e là, le ascendenze che ci permettono di riguadagnare la quota persa in un trasferimento. Per cui, quando infine decide di scendere, il volovelista deve azionare dei dispositivi chiamati “diruttori di portanza”. Sono due “palette” che escono dalle ali per un certo tratto e oppongono al vento relativo la loro superficie. Non sono aerofreni, non servono a frenare, ma propriamente a rompere la forza di portanza di quel tratto di ali, come se le tagliassero letteralmente, accorciandole, riducendone drasticamente l’enorme efficienza, facendo sì che il peso riesca infine a riportare giù una macchina che per sua natura, altrimenti, non scenderebbe più a terra.


# proprietà letteraria riservata #


Evandro Detti

 

Avventure in punta di ali

titolo: Avventure in punta di ali

autore: Evandro Detti

editore: Logisma

anno di pubblicazione: 2016

nr pagine: 185

ISBN: 978-88-97530-72-5




Se pensate che non sia possibile provare l’esperienza del volo virtuale seduti in poltrona leggendo un libro … beh ricredetevi. Evandro Detti in “Avventure in punta di ali” vi porterà in volo nel fantastico scenario del lago di Garda.

L’autore, pilota di aereo e di aliante, istruttore di volo a vela, traspone tutta la sua esperienza e saggezza in questo racconto. Utilizzando il modulo narrativo della favola, vi farà veleggiare sotto le nubi e quando sarete un po’ più abili affronterete il volo di costone, per arrivare poi al volo … ma questo lo scoprirete leggendo. Continua la lettura di Avventure in punta di ali

Zingari del Cielo

titolo: Zingari del cielo

autore: Evandro Detti

editore: IBN

anno di pubblicazione: 1991

ISBN: non disponibile





 Non è un romanzo storico. Non è un diario nostalgico, né un sequela disordinata di racconti brevi. E neanche la cronistoria dei trascorsi volatori dell’autore. No, niente di tutto questo.

“Zingari del cielo” è invece paragonabile ad una splendida collana ove, tra una serie di perle di rara originalità, sono incastonati diamanti di una limpidezza inaspettata. Un gioiello di splendida fattura e di perfetta semplicità.

Continua la lettura di Zingari del Cielo

Tre ragazzini e un aereo

Negli ambienti aeronautici si dicono tante cose. Alcune sono cose serie, importanti, anche vitali. Altre sono spesso le solite chiacchiere, racconti dei propri voli, delle proprie o altrui prodezze, pettegolezzi, ma anche dei semplici luoghi comuni. E di questi ce ne sono moltissimi. Fanno parte della vita di tutti i giorni, dilagano per gli hangar, nei piazzali, negli uffici, fanno parte del brusio emesso da gruppetti di piloti riuniti qua e là per i campi di volo. Un luogo comune molto in voga suggerisce che la passione per il volo sia una sorta di “virus che si contrae negli aeroporti”. Molte persone che volano oggi (non solo piloti, ma anche specialisti, controllori, paracadutisti ecc), raccontano di quando erano piccoli e venivano accompagnati dal padre o da un altro membro della famiglia, ad osservare gli aerei nel vicino aeroporto. E lì restavano per ore, aggrappati alla rete di recinzione, a vedere decolli ed atterraggi, sognando di diventare, un giorno, un pilota. Altri ricordano di aver volato, da ragazzini, con qualcuno che aveva il brevetto e magari avevano potuto tenere i comandi per qualche minuto. Certo, per un ragazzino deve essere un’esperienza esaltante mettere le mani sul volantino di un aereo e vedere che questo obbedisce ai suoi comandi. Oppure muovere la manetta del gas e sentire il motore che cambia rumore. In verità non è detto che chi vola da piccolo o osserva le operazioni di volo di un aeroporto poi da grande diventi un pilota. Può succedere, ma non è una regola e neanche una garanzia. Diciamo che spesso è così, ma non sempre. Nel mio caso è stato un aereo tipo “cicogna”, monomotore ad ala alta, che è passato sopra la mia testa mentre giocavo sulla piazzetta davanti casa, a farmi scattare la molla. Quella visione mi ha segnato. Avevo forse quattro anni. Se chiedi a tanti piloti come sono arrivati alla passione per il volo ottieni tante risposte diverse, qualcuno ti dirà perfino che ci è arrivato per caso, senza neanche averlo desiderato. Ma tutti sembrano essere stati contagiati dal virus della passione per il volo, all’improvviso, in un momento della loro vita. Da piccoli, ma anche da grandi. Qualcuno si è “ammalato” in età ben avanzata. Nei miei decenni di attività aeronautica ho assistito parecchie volte, di persona, al contagio. Ecco qualche esempio emblematico.

Un mio amico aveva un bel Piper, un PA 24, potente e veloce, con quattro comodi posti. Abbiamo fatto dei bei voli insieme, tanti anni fa. Molte avventure che ogni tanto ricordiamo volentieri, quando ci incontriamo nei vari aeroporti, dalle nostre parti. Uno dei suoi figli veniva spesso con noi. Di solito non faceva una piega, restando tranquillamente seduto dietro, sprofondato sul sedile tanto grande per lui che aveva sei anni e a malapena riusciva a vedere fuori. Durante un volo, una volta, ma solo una, si sporse in avanti, toccò la spalla del padre e gli disse: “papà, ma quando atterriamo”? Si era annoiato, sotto di noi scorreva una campagna piatta, coperta di neve, bellissima per noi, ma per lui era forse un tantino monotona. Quel ragazzino è cresciuto, ha frequentato l’Accademia dell’Aeronautica, è diventato un ufficiale pilota, poi ha fatto l’istruttore e oggi pilota un Boeing in giro per il mondo. In quei voli deve essersi “contagiato” e non è ancora guarito.

Un altro caso riguarda il “contagio” di un signore che aveva da poco superato i sessant’anni, a dimostrazione che questo virus non risparmia proprio nessuno. Se deve colpire colpisce, senza riguardi per l’età anagrafica. Era un amico di mio padre, sapeva che volavo con gli aeroplanetti a elica e in aliante. Sapeva anche dove, così chiese a mio padre di organizzare un incontro perché voleva che lo invitassi a volare con me. Naturalmente lo accontentai, ben lieto di fargli fare questa splendida esperienza. Venne all’aviosuperficie, gli mostrai i nostri mezzi, gli spiegai tutto quello che doveva sapere sulle operazioni di volo alle quali avrebbe di lì a poco partecipato e poi andammo in volo in aliante. Ero un po’ preoccupato per lui, non volevo che si spaventasse, così durante la salita presi ad illustrargli ogni cosa, avvisandolo prima dello sgancio dall’aereo trainatore. Una volta in volo, dal momento che sembrava tranquillo, gli feci provare i comandi. Fece qualche virata, guardandosi intorno. Altro che spaventarsi, era letteralmente estasiato. Gli piaceva e dimostrava tutta la sua felicità di essere in aria con commenti di apprezzamento. Prima del rientro, mentre ci avvicinavamo al campo per entrare in circuito, mi disse che era stato un volo bellissimo, aggiungendo alla fine, varie volte, la parola “peccato!” come ad esprimere un triste rimpianto. “Peccato di cosa?” gli chiesi. Lui esitò a rispondere, poi disse, mestamente: “Peccato per i miei sessant’anni”. A terra parlammo e gli assicurai che anche a sessant’anni si può incominciare a volare, se davvero si è sostenuti da genuina passione. Passò del tempo, non so quanto. Ma un giorno mio padre mi disse che quel signore aveva sorvolato la nostra casa pilotando un deltaplano a motore e lo aveva salutato agitando il braccio nel vento. C’era un campo di volo ad una trentina di chilometri di distanza dove quel signore aveva fatto un corso di delta-motore. Poi si era comprato un mezzo suo e volava spesso anche sopra casa dei miei, mentre andava a fare un giro sopra il suo paese poco distante. Credo che avesse contratto il virus del volo durante la sua visita all’aviosuperficie, quel giorno.

Questi due episodi riguardano un bambino ed un adulto e sono rappresentativi del fatto che l’età non conta. I miei colleghi di lavoro, controllori del traffico aereo come me, sapevano della mia attività di istruttore. Uno venne a Guidonia con il figlio affinché lo facessi volare. Era un giorno di vento forte. A terra lasciai passare qualche ora e intanto spiegai diverse cose al ragazzo, sperando che il vento, nel frattempo, calasse. Non volevo correre il rischio che una volta in volo si spaventasse per la turbolenza dell’aria. Alla fine dissi che era meglio rinunciare e volare un altro giorno perché il vento era ancora troppo forte ma il ragazzo, e anche il padre, insistettero. Così andammo ugualmente. Fu un volo molto agitato. Il vento rinforzò e la turbolenza pure. Si saliva alla grande e feci un po’ di quota per allontanarmi dal suolo, nella speranza che il vento fosse più teso, meno influenzato dai rilievi sottostanti che provocavano l’agitazione dell’aria. Infatti fu così, ma quando scendemmo trovammo raffiche continue fino a pochi metri dalla pista. Pensavo di aver fatto un bel danno, già era stato un miracolo che il figlio del mio collega non si fosse sentito male. Lui sembrava godersela un mondo, ma si sa, all’inizio i passeggeri fanno così e poi ammutoliscono di colpo e … dopo un poco è fatta: stanno male. Al parcheggio il ragazzo era estasiato. Disse che gli era piaciuto un sacco. Peccato che non avessimo fatto anche un po’ di capriole. Oggi è pilota di linea e quando incontro il padre mi porta i suoi saluti e parliamo ancora di quel giorno. Giorno di “contagio”.

Anche un altro collega venne con suo figlio, a Rieti, per farlo volare con me, nella speranza che prendesse la passione per il volo. La prese. Negli anni successivi andò negli Stati Uniti a conseguire le licenze e oggi anche lui è pilota di linea. Alle riunioni dell’associazione Arma Aeronautica, dove ci incontriamo qualche volta all’anno, suo padre mi viene vicino, telefona al figlio e mi passa il telefono. Così lo saluto e spesso ricordiamo quel primo volo di Rieti.

Ma devo anche dire che alcuni sono, o sembrano, immuni dal “virus degli aeroporti”. Avevo portato un nipotino durante il traino di un aliante con un Robin sperando che un giorno diventasse un pilota. Gli piacque molto, ma oggi ha diciassette anni e tutto pensa tranne al volo. Lui vuole fare l’avvocato, come sua madre. E forse è anche una buona idea. Suo fratello più piccolo ha potuto volare con me su un aereo e provare i comandi. Entusiasta. Gli avevo scattato delle foto mentre teneva la cloche e la manetta del gas. Per il momento credo che abbia usato quelle immagini soltanto per impressionare i suoi amici e le sue compagne di scuola. Se il “virus degli aeroporti” lo ha contagiato, ancora non se ne vedono i segni. Ma ancora non è detta l’ultima parola. Potrebbe essere semplicemente un portatore sano, suscettibile di iscriversi a qualche aero-club tra breve, oppure di fare domanda per uno dei corpi militari che hanno un’aviazione, subito dopo aver conseguito il diploma.

Se la leggenda del “virus degli aeroporti” è vera, allora è probabile che il contagio debba necessariamente avvenire per caso. In altre parole, non può essere provocato. Infatti, mi viene alla mente che, tanti anni fa, avevo portato in volo una mia nipotina, nella speranza di averla come mia allieva alcuni anni più tardi. Ma non è andata così. Oggi mia nipote si occupa di cose che non hanno nulla a che fare con il mondo aeronautico. Lei preferisce occuparsi di arte, ma quella classica, non certo l’arte del volo.

Avrei tanti altri aneddoti da raccontare, e mentre scrivo di uno me ne vengono alla mente di nuovi. Potrei riempire pagine e pagine. Ma ne aggiungerò solo un altro, perché anche questo è emblematico e da quando è successo non me lo sono più dimenticato. Ancora oggi ci penso, ogni tanto. Un giorno all’aviosuperficie venne un signore con tre ragazzini. Due erano suoi nipoti e uno era un loro amichetto, tutti di età compresa tra i sette e i dieci anni. Il nonno si avvicinò e chiese informazioni, ma i tre ragazzini avevano già le idee ben chiare: volevano volare. Qualcuno mi chiamò per fare quel volo. Il nonno sarebbe rimasto a terra e avrei portato in aereo solo i tre piccoli. Uno dei nipotini salì davanti. Il fratellino e l’amichetto salirono dietro. Spiegai loro tutto, perché sapessero cosa stava succedendo e stessero più a loro agio. A quello davanti feci tenere la manina sulla cloche perché, come gli dissi, al momento opportuno l’avremmo tirata un po’ indietro per far staccare le ruote da terra. In volo, addirittura, feci fare qualche virata a lui, mettendo le mie mani ben lontane dalla cloche per fargli vedere che era proprio lui a far muovere l’aereo. E perché lo vedessero anche i due che stavano dietro. Dieci minuti, poi tornammo a terra. I ragazzi scesero felici e andarono dal nonno. Ma il fratellino che era stato dietro e aveva visto quello davanti pilotare l’aereo piantò subito una grana al nonno perché anche lui voleva stare davanti e provare i comandi. Il nonno fece resistenza. Forse non voleva pagare un altro volo, in fondo avevano già volato. Ma il nipotino cominciò a piangere disperato. Il nonno provò a portare via i ragazzi, ma non ce la fece. Dovette tornare indietro, pagò un altro volo e si ripeté la storia di prima. Stavolta con l’altro fratellino “ai comandi”. Tornammo a terra e scendemmo dall’aereo. I fratellini erano soddisfatti e si scambiavano animati commenti su come si era mosso l’aereo pilotato da loro. Il nonno ringraziò e si avviò verso la macchina. A questo punto, l’amichetto che aveva volato due volte, ma era stato sempre dietro, cominciò a protestare. Anche lui voleva stare davanti. Il nonno, che non era suo nonno, stavolta non cedette. Il ragazzino pianse e puntò i piedi. Voleva volare anche lui davanti a tutti i costi. Non voleva andare via. Ma dovette andare. Ho ancora l’immagine di lui che piange disperato mentre entra nell’automobile. Andarono via, ma il suo pianto si sentiva ancora attraverso i finestrini aperti mentre si allontanavano. Non so chi fosse quel nonno e non conoscevo i ragazzini. Nei giorni successivi non tornarono più all’aviosuperficie. Chissà cosa hanno fatto da allora in tutti questi anni. Ma ricordo che quel giorno, mentre se ne andavano, provavo pena per il piccolo che aveva volato sempre dietro. Lui non era stato protagonista. Aveva osservato gli altri due volare da protagonisti e forse, nei giorni successivi, a scuola, avrà dovuto sentirli raccontare le loro avventure senza poter fare altrettanto. Anzi, nella crudeltà tipica di quell’età, chissà che non lo abbiano addirittura preso in giro davanti ai compagni, rimarcando impietosi che lui non aveva mai toccato i comandi. Chissà. Certamente quel giorno si era consumata una brutale ingiustizia. Mentre sentivo senza poterci fare niente quel pianto accorato pensai: “Quello da grande farà il pilota”. Se qualcuno quel giorno doveva contrarre la malattia del volo, era lui. Non saprò mai se è andata così, ma forse oggi, in qualche aereo che sento passare nel cielo, ci potrebbe essere un adulto che tanti anni fa, da piccolo, rimase contagiato dal virus del volo, non per aver volato, ma per non aver potuto sedere nel posto anteriore di un aereo.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”


Evandro Detti

 

Tre ragazzini e un aereo

jet in avariaIl racconto è basato su un fatto realmente accaduto. Anche se opportunamente sintetizzati, tutti gli accadimenti della storia sono veri. L’elemento fondamentale qui è l’emergenza improvvisa, il riconoscimento rapido della situazione e la risoluzione del problema nei tempi più rapidi. Ma anche la presenza di un pensiero preconcetto, che falsa per un attimo la percezione corretta di ciò che sta accadendo. Portare a conoscenza di tutti gli addetti ai lavori, ma anche a chi è semplicemente appassionato di cose aeronautiche, un episodio che si è verificato, come è stato percepito e come è stato risolto, costituisce una forma di esperienza che può, volendo, essere traslata in ogni altro campo dello scibile umano.

Lo scopo malcelato è che l’episodio non si verifichi più e, soprattutto, che, qualora si verifichi di nuovo, trovi una semplice e felice soluzione. Della serie: le brutte esperienze vanno vissute una volta, evitate spesso, risolte sempre.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”