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La guerra è sempre la stessa

aquila arrabbiataUn racconto che parla della paura. Come nasce, si mostra e di come si cerchi di neutralizzarla. Paure diverse vissute in una famiglia lambita da fatti di guerra. Fatti che provocano grossi ripensamenti sulle scelte di vita, senza cambiarle, solo dandone consapevolezza.

La storia di una donna ormai vedova che, dopo una vita passata ad aver paura di perdere un caro, si trova provvidenzialmente pronta a respingere la paura.



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”, 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Maria Grazia Cervelli

colibri marroneNata a Rieti nel ’62, scrive piccoli racconti per puro diletto. Nell’intento di raccontare, pur romanzata, un’avaria vissuta in volo, ricordo del suo compagno ex pilota dell’Aeronautica Militare e poi comandante dell’Alitalia, partecipa per la seconda volta al Pemio fotografico/letterario  “Racconti tra le nuvole”.



Per inviare impressioni, minaccie ed improperie all’autore:

graziacervelli(chiocciola)icluod.com


Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


La guerra è sempre la stessa

La guerra è sempre la stessa

Succede che, all’improvviso, quando meno te lo aspetti, il mondo ti crolli addosso. Un momento dopo, senti dentro di te una forza che non sapevi di avere, e più quella forza t’invade, più ti senti sciocco. Averlo saputo prima di averla quella forza! Quante vicende avresti potuto risolvere diversamente, quanti fatti non sarebbero accaduti!

Ma, sciocco è non capire che, ciò che siamo, lo siamo nel momento in cui giustamente abbiamo bisogno d’esserlo. Si dorme quando si ha sonno, si mangia quando si ha fame, si ha paura quando si rischia. Si reagisce quando ci si sente braccati.

Un urlo.

Mi sveglio, non sono sicura di essere proprio sveglia, mi guardo attorno cercando di capire se l’ho sentito veramente, o se l’ho solo sognato.

Da quando sono sola, la notte dormo poco, oramai riconosco ogni impercettibile rumore di casa.

Alzo un po’ la testa dal cuscino, adesso sento chiaramente un singhiozzare sommesso, mi alzo di scatto, un brivido marca tutta la mia paura, mi ricordo, corro verso il tuo letto. E ti vedo.

Raggomitolato, con le mani sopra la testa, piangi.

Ssssssssszzzzz … “Stai tranquillo sei a casa, ci sono solo io”, ti prendo le mani, le allontano dal tuo viso madido, me ne circondo la vita, ti accarezzo le spalle robuste, “era solo un incubo, è finito”, e tu, pian piano smetti di piangere, mi stringi sempre di più, alla fine ti riaddormenti.

Nessuna parola, nessun commento, niente. Solo paura, quella paura che silenziosamente sta destabilizzando il mio meraviglioso figliolo, me lo sta portando via.

***

Me lo ricordo ancora, quella volta, tuo padre.

Quella sera tornò un po’ prima del solito, eravamo ragazzi, io non ci feci neanche caso, stavo preparando la cena di spalle voltata verso il lavabo. Lo salutai. Scherzai sull’orario: “Volevi farmi una sorpresa?” gridai, ma lui non rispose, mi girai.

Era bianco e increspato come un cencio lavato, gli occhi abbassati, i capelli arruffati.

Si abbandonò su una sedia, mi guardò e mi disse: “Oggi mi sono spaventato, davvero”.

Davvero, erano i tempi della guerra fredda e per un pilota di caccia militari non erano certo bei tempi.

Piloti, ragazzi di appena vent’anni con una passione sfrenata per il volo, che per poterla inseguire non avevano altra scelta che entrare in Aeronautica Militare e, una volta lì, erano istruiti per salire su quei portenti della tecnologia.

Si sentivano onnipotenti sopra quei “mostri”, così li chiamavo benevolmente.

Venivamo da una guerra recente, con attaccata alle braghe la paura di una nuova guerra, tremenda, fatale.

Con quella paura io ho convissuto per anni. Vedevo tuo padre andare al lavoro ogni volta come se fosse l’ultima, non sono mai riuscita ad abituarmi, e lui mi leggeva quella paura negli occhi.

Non mi perdonerò mai questa colpa, perché so di aver offuscato tutta la bramosia che tuo padre metteva nella sua passione e, fortunatamente, suo lavoro per la vita.

– Oggi mi sono spaventato, davvero.

Non ho avuto paura di morire … è andata bene, non c’è stato tempo per avere paura.

Siamo partiti in formazione a tre, il leader era il Comandante del gruppo, in ala destra il capitano anziano, io in ala sinistra. Siamo decollati a 3 secondi. È partito il primo, il secondo, io per ultimo. Decollo normale, stacco da terra, carrello su, voliamo in fila indiana.

Accelero, il numero 1 vira a sinistra per permettere il ricongiungimento degli altri due, io a 250 nodi, disinserisco il postbruciatore e comincio ad avere la sensazione che l’aereo rallenti, sento la velocità ridursi. Guardo gli strumenti e vedo la temperatura del motore bassissima. La cosa non è normale, comincio a preoccuparmi. Contatto gli altri, dico che ho un problema e che rientro alla base. Intanto, il numero 2 mi si affianca, gli dico della temperatura bassa, delle ciglia (nozzles) che mi sono rimaste in apertura, che ho già provato inutilmente a chiuderle in manuale. “Riprova” risponde, “riprova ancora”. La velocità comincia a scendere, come non avessi più spinta, allerto la base, mi vengono fuori gli slats. Ma la base è ancora lontana. Comincio a capire che posso non farcela, sono troppo basso, non posso lanciarmi, il seggiolino eiettabile di quest’aeroplano non mi assicura la sopravvivenza sotto 1000 piedi. Decido di andare avanti, intanto continuo a lavorare sul pulsante delle ciglia. Funziona! Improvvisamente il pulsante ha funzionato, le ciglia si chiudono, solo che vanno in totale chiusura. La temperatura del motore comincia a salire velocemente, troppo, potrebbe scoppiare, riduco il motore, ma non ho spinta, penso di alleggerirmi sganciando le taniche piene di carburante, non è possibile sono su una zona fortemente abitata, sento il motore fluttuare, inserisco il sistema d’alimentazione d’emergenza. Non posso farcela, sono pesante, la velocità decresce e la pista è lontana, ma non ho altra scelta che tentare. Alla fine ci arrivo alla pista, ci vado con l’ala abbastanza pulita, do una prima tacca di flaps, tiro giù il carrello e atterro. Atterro veloce, a 160-165 nodi.

Sono salvo.

***

Mi disse: “Era solo una ricognizione, e potevo morire. Se ci fosse una guerra, io non mi tirerei mai indietro. Fosse accaduto lo stesso fatto in campo nemico, sarei potuto morire, o peggio, restare prigioniero.

Questo è il mio lavoro. Non mi è stato imposto, l’ho scelto, l’hai scelto anche tu sposandomi”.

Lui non aveva avuto paura di morire, ma paura di lasciarci: me, te così piccolino, e solo dopo che tutto era accaduto, aveva immaginato la nostra vita senza di lui e … si era sentito smarrito.

Mi disse: “Egoista, mi sono sentito egoista per aver rischiato la mia vita senza pensare a voi, alle vostre vite, al vostro futuro. Oggi mi sono spaventato, davvero.”

Appoggiai la parte sinistra del grembiule sul fianco destro, come faccio sempre, quando temo di sporcarlo con qualcosa che non sia cibo. Mi avvicinai a lui, mi sedetti sulle sue gambe e lo strinsi a me.

In silenzio, dentro di me promisi che non avrei mai più parlato della mia paura di perdervi, inutilmente promisi di imparare a gestirla. La mia paura andava taciuta. La sua, era l’aver sentito che la vita è un soffio, che a volte la sprechiamo senza rendercene conto, che se non fosse stato così determinato, forse non ce l’avrebbe fatta.

Così tanta voglia e bisogno d’esserci ancora e forse, inconsciamente, noi siamo stati lo stimolo per rimanere in vita. Ed io capii che la sua paura era utile per la sua e la nostra esistenza.

Il dolore non ha niente di saggio, ci tramuta in ciò che realmente non vorremmo mai essere, bisogna uscirne per salvaguardarsi.

“Ragazzo mio, quello che ti è successo deve spaventarti davvero”.

Alzi gli occhi dalla grande tazza che ti ho riempito di latte come quando eri bambino, mi guardi incredulo, allarghi le mani come per dire: “Che blateri? È così che mi conforti?

***

Ti vedo, tra le macerie. Sei sempre stato svelto nelle decisioni, correre dietro a quella ragazza, strapparle lo zaino, gettarlo lontano.

Solo dopo l’altro scoppio, sopra di lei, andare su tutte le furie per il suo sguardo beffardo, sollevarla, scuoterla, e indicarle tutte quelle vittime. Bel lavoro avevano fatto lei e il suo amico!

Poco prima della tragedia, costato la vita a ventiquattro persone, sbraitavi al microfono con un tuo collega, la stazione era piena di gente, troppo poco preavviso, voi eravate pochi, l’incarico era stato chiaro, trovare due giovani terroristi, l’informazione aveva dato per certo un attacco in quella stazione, in quella giornata.

Era luglio, mese di vacanze, di fine studio per gli studenti. La stazione era piena di giovani carichi di zaini, valigie e trolley. Come riconoscerli? Avete studi e metodi, ma tu lo sai, l’istinto, è solo l’istinto che ti permette di riconoscere una persona tra migliaia di persone, e tu fiutavi come un cane, ma non hai sentito altro odore che quello maleodorante di una stazione di treni in piena estate.

Poi uno scoppio violento, hai visto il collega rimbalzare contro la parete, urla, crolli, ti sei guardato bene intorno e hai capito, tutti che correvano, lei no, lei si era voltata verso l’origine del boato come a cercare qualcosa, qualcuno, la mano attaccata alla cinta. Era lei.

***

Ti hanno dato una medaglia per questo, ma io lo sapevo che non saresti andato a ritirarla, aver salvato altre vite non ti ha mai fatto dimenticare le persone che tu e la tua squadra avreste dovuto difendere e che invece sono morte, non per mano vostra, ma per colpa vostra, almeno è quello che credi.

Dici che era prevedibile, che un terrorista determinato trova sempre il modo di operare, ma voi siete addestrati a questo, e dovete capire, intervenire, inficiare, precludere ogni azione di guerriglia.

Eppure figlio mio, non è così. Almeno non proprio. E avere paura di non farcela non è abbastanza per abbandonare.

Ricorda la fiducia che avevi in te stesso e pensa all’albero al quale hanno potato i rami “a corto”, diceva papà, ma il cui tronco è ben radicato, e presto, a primavera butterà nuovi getti.

Un uomo forte, fisico da atleta, tuo padre ha tentato tutta la vita di metterti su un areoplano, ma tu niente, non ti piaceva, volevi fare il carabiniere, giustizia per tutti, stare in trincea, volevi essere un paladino della legge, giocando alla guerra gridavi “io impavido eroe vincerò”.

C’era voluto un po’ per farti capire il significato d’impavido, ma poi l’avevi fatta tua questa parola, e la mettevi dappertutto. Non hai più smesso da allora, solo adesso, da quando sei tornato dall’ultima missione, non l’ho udita più.

Non era una cosa di bambini, ci hai lavorato da sempre, nello studio, in palestra, nelle poche iniziative politiche, persino quando tuo padre ti portava in cielo, tu stavi lì a domandarti e domandargli dell’Aeronautica Militare, come si difende il mondo da lassù.

Ci hai lavorato così tanto che, quando hai fatto domanda per entrare nei Carabinieri, ci era sembrata una logica conseguenza, incontestabile, persino per me che dicevo sempre: “Meglio un figlio prete che militare”. Che no, non lo dicevo mica perché avessi di che dire su preti o militari, no, lo dicevo perché entrambe le scelte mi sembravano tribolate, difficili, pericolose, perché avevo paura.

Per me la guerra fredda non era mai passata, mi aveva freddato, anzi gelato il cuore, tante erano le notti che ho passato pregando che non volevo più saperne di soldati, di guerre o simili. E invece tu sei diventato un carabiniere, troppo presto nei corpi speciali, “antiterrorismo”, pure la parola spaventa.

Io sì, posso essere spaventata, sono tua madre, è logico così, ma tu no, caro mio. Tu sei l’impavido eroe che vincerà, sei quello che da anni predica che la vita non è niente se non è libera, che il male va combattuto e che non bisogna mai smettere di lottare.

Com’è che urlate nelle vostre riunioni? Non ricordo la frase ma il senso sì: “Siamo i migliori e vinceremo!”. E vincerai. Vincerai il tuo dolore, la paura di non riconoscerti ora che sei cambiato, vincerai per continuare a fare ciò che non hai mai smesso di pensare giusto.

***

Qualcuno ha detto: “Si ricorda con il cuore e si dimentica con la mente”.

L’impulso naturale di sopravvivenza, questa rabbiosa sensazione che contraddistingue ogni genere vivente esistente sulla terra, l’istinto che ci modifica e ci adatta ad ogni nuova evenienza, che fa vivere microrganismi per secoli nel ghiaccio, che modifica, incrocia specie diverse generandone alcune del tutto nuove, che ci ha tradotti fino ad essere ciò che siamo, questo nostro istinto che ci trasmette il pericolo affinché ogni più piccola parte del nostro essere si muova per combatterlo.

L’istinto muove la forza, la forza vince la paura ed è così che si lotta, ogni momento senza pensare a ciò che sarà. Quello che c’è da vincere sta nell’oggi, nel non sentirsi umiliati, persi dentro una prospettiva che non ci appartiene.

Dentro un mare di melma, se non si riesce a nuotare si arranca sino all’appiglio, sino a una mano che viene ad aiutare. A volte quella mano è la nostra, sporta istintivamente ad altri rischiando di cadere nel fango.

Il coraggio è altra cosa.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Maria Grazia Cervelli