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Carrying the fire

titolo: Carrying the fire – [Portando il fuoco]

autore: Michael Collins

editore: Farrar, Strauss and Giroux, 120 Broadway, New York 10271

anno di pubblicazione:  1974 (prima edizione)

edizione ebook: 2019

eISBN: 9781466899261

Tutte le fotografie sono cortesia della NASA




Alla lettura di questo libro ho dedicato un tempo considerevolmente maggiore del solito. Non perché il libro fosse più lungo o più difficile da leggere ma perché, sin dalle prime pagine, si è rivelato straordinariamente interessante. L’autore, l’astronauta Michael Collins, è evidentemente dotato di una personalità insolita, accattivante, modesta, semplice, piacevole, sebbene si percepisca da subito la sua immensa preparazione, la sua profonda conoscenza tecnologica, unite, però, a un altrettanto immensa cultura umanistica.

La recensione di questo libro potrebbe essere scritta parlando solo dell’autore.

Il libro in sé stesso ricalca il classico percorso seguito da altri astronauti. Comincia dalla descrizione del periodo infantile, la vita familiare durante i primi anni di vita, le prime esperienze, non necessariamente relative al mondo aeronautico, ma che portano comunque a incontrare questo mondo, al primo volo etc.

A Roma, appesa alla facciata del civico numero 16 di via Tevere, c’è ancora oggi questa targa in marmo. Occorre aggiungere altro? Sì, c’è! In occasione del cinquantenario dell’evento che ha consegnato alla storia questo illustre romano – di nascita, s’intende – il Sindaco di Roma e la Giunta capitolina tutta hanno deciso di conferirgli la cittadinanza onoraria di Roma. Un po’ a scoppio ritardato – non c’è che dire – ma pur sempre un’onorificenza che Roma non concede così facilmente. Collins non l’ha ancora ritirata e temiamo  che, alla sua veneranda età, difficilmente la ritirerà di persona; diversamente da quanto fece in occasione dell’inaugurazione della sopracitata targa di via Tevere, numero 16. Le riprese conservate dall’Istituto Luce lo testimoniano ancora oggi al link: https://www.youtube.com/watch?v=dZ6YyLslLKM. La sindaca Raggi ha così commentato l’iniziativa: “Lo sbarco sulla Luna è uno di quei momenti in cui tutta l’umanità ha realizzato un grande salto in avanti. Un evento che tenne con il fiato sospeso il mondo e che si deve alla tenacia, alla preparazione tecnica, alla forza di volontà di tre leggendari astronauti. Nell’anno in cui si celebrano i 50 anni dallo sbarco sulla Luna, il conferimento della cittadinanza onoraria di Roma a Michael Collins, rappresenta il riconoscimento dovuto a quell’impresa e a uno dei suoi grandi protagonisti». Notizia ripresa dal Il Messaggero, edizione del 21 settembre 2019.

Collins è nato a Roma nel 1930. Il padre era un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti. In quell’anno si trovava a Roma in qualità di attaché militare presso l’ambasciata americana. Ma l’anno successivo tornò in patria, quindi il tempo vissuto da Michael in Italia è stato davvero minimo. Eppure, leggendo il suo libro si sarebbe tentati di dire che quel tempo minimo sia stato sufficiente a conferirgli una sorta di imprinting, un qualcosa di italiano che sembra venire spesso fuori nel suo modo di essere e nel modo di esprimere il suo pensiero. I concetti che esprime, in altre parole, sembrano  fin troppo riconoscibili come familiari, almeno per una mentalità italiana.

Non sempre, in verità, ma è quasi una costante in tutto il libro.

Per il resto la sua carriera ha avuto uno svolgimento tipicamente americano.

Una foto che ritrae Michael Collins di profilo, scafandrato e intutato, intento a svolgere l’intenso ciclo di addestramento propedeutico alla missione Apollo 11. A proposito dell’astronauta romano un giornalista italiano scrisse: «Non c’è, in fondo, qualcosa del carattere del vero romano, ironico e sprezzante, nell’arrivare fino a un passo dalla Luna, senza però metterci piede, come se non fosse importante?».

In estrema sintesi, il percorso della sua vita è caratterizzato da poche pietre miliari. L’accademia di West Point, dove ha incontrato altri personaggi divenuti poi protagonisti delle stesse vicende in ambito NASA; l’Air Force, appena divenuta una forza armata indipendente; il servizio come jet pilot, sia in patria che in Europa; l’entrata nella NASA; la prima missione spaziale con la Gemini 10 nel 1963 e la missione Apollo 11 del luglio 1969, nella quale rimase in orbita intorno alla Luna mentre i suoi due compagni, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, effettuavano il primo allunaggio della Storia.

In mezzo a queste poche pietre miliari, però, c’è un’intera vita, intensa e piena di avvenimenti. Ed è questa vita che il libro racconta.

La sequenza delle vicende che copre decenni di servizio attivo dell’autore sembrerebbe la stessa di tutti gli altri suoi colleghi che hanno, a loro volta scritto libri. Quasi tutti quelli che ho letto e recensito cominciano dall’infanzia, raccontano di come sono entrati nei corpi militari dai quali sono poi transitati nella NASA, delle selezioni, dei personaggi che hanno incontrato, delle difficoltà e di come le hanno superate, dell’addestramento. Proseguono la narrazione descrivendo il loro o i loro voli spaziali e poi le missioni Apollo alle quali hanno partecipato e infine parlano del dopo, quando l’ultima missione Apollo 17 ha segnato la fine di un’era e l’inizio di un’altra, quella delle stazioni spaziali e dello Shuttle.

Il 19 luglio 2019, nella Sala Ovale della Casa Bianca, residenza del Presidente degli Stati Uniti – all’epoca Donald J. Trump – si è tenuta una cerimonia di commemorazione in occasione dell’anniversario del cinquantenario della missione Apollo 11. Alla cerimonia erano presenti, oltre al vice presidente Mike Pence e al presidente Donald J. Trump – ovviamente – i due astronauti sopravvissuti – all’incedere inesorabile del tempo, s’intende – Buzz Aldrin e Michael Collins nonché i familiari del terzo astronauta Neil Armstrong che, lo ricordiamo, fu il primo uomo che toccò fisicamente il suolo del nostro satellite. Per inciso Neil Armstrong ci ha lasciato nel 2012. Questo scatto, peraltro fornito dal fotografo ufficiale della Casa Bianca (certo Andrea Hanks), mostra un presidente Trump seduto nella sua poltrona dello Studio Ovale che stringe la mano, in piedi, a quel monumento dell’astronautica che risponde al nome di Michael Collins. Ora … il presidente è il presidente, per carità, ma ci domandiamo … di fronte a un uomo che ha segnato la storia dell’umanità non sarebbe stato il caso di alzarsi in piedi e salutarlo da pari a pari – sempre ammesso che Trump possa competere alla pari con la statura morale e culturale di Collins! –

Questo libro segue lo stesso schema ma c’è già una differenza: per quasi tutti il dopo ha portato difficoltà a riprendere la vita normale e questo ha causato divorzi, disordini nella vita familiare e affettiva e altri problemi.

Per Collins no.

Lui è addirittura rimasto sempre con sua moglie Patricia, che ha amato per tutta la vita, fin quando lei è scomparsa a causa di una malattia. Infatti il libro è dedicato proprio ed esclusivamente a lei.

Collins non ha  avuto problemi a riadattarsi alla vita normale.

 

Aver fatto parte del primo equipaggio che aveva portato due uomini, per la prima volta, sulla superficie di un altro pianeta, gli avrebbe permesso di ottenere qualunque posizione sociale ai massimi livelli, raggiungere guadagni altissimi anche solo facendo conferenze in tutto il mondo, pubblicità, incarichi politici etc.

Ma Collins avrebbe potuto continuare con la NASA e tornare nello spazio, o magari dirigere settori chiave nella stessa organizzazione. Oppure in qualunque società industriale che con la NASA aveva rapporti di collaborazione.

Poteva aspirare a tutto.

Ma lui, ancor prima di partire per la Luna, aveva detto che con questa missione avrebbe finito. Infatti, appena tornato ha prestato fede alle sue dichiarazioni e ha lasciato il servizio.

Non proprio subito, perché, come tutti gli equipaggi, negli anni successivi, anche il suo equipaggio ha dovuto fare il giro del mondo, visitando tantissimi stati e facendo conferenze in molte città. Pubbliche relazioni. Ma nel frattempo maturava la sua decisione e alla fine ha lasciato la NASA.

Il 13 agosto 1969 fu una giornata letteralmente memorabile per la città di New York. La grande metropoli statunitense rese omaggio ai tre membri della missione Apollo 11 con una parata che attraversò Broadway e Park Avenue. Negli annali cittadini è annoverata come una delle più grandi e memorabili parate della sua storia, forse eguagliata solo da quella con la quale salutò l’impresa di Charles Lindbergh, “l’aquila solitaria”, o l’altra che celebrò il nostro Italo Balbo con i suoi Atlantici. Questo scatto, di cui è depositaria la NASA, mostra nell’auto di testa il comandante della missione Neil A. Armstrong, Michael Collins (comandante del Modulo di Comando) e Edwin E. Aldrin Jr, pilota del Modulo Lunare “Eagle”. A giudicare dalle date, Armstrong aveva toccato il suolo lunare neanche un mese prima. Questa sarà solo una delle numerosissime parate, celebrazioni, manifestazioni propagandistiche/pubblicitarie che si tennero negli Stati Uniti e anche negli altri quattro angoli del pianeta cui vennero coinvolti i tre astronauti, loro malgrado. Si trattava del “Goodwill Tour” che li trascinò per 23 paesi del mondo in soli 37 giorni, osannati da circa 100 milioni di persone. La missione sulla Luna risulto loro meno faticosa.

Dopo una breve esperienza in politica si è ritirato in una piccola università del suo paese, Cincinnati, come professore.

Poi la dolorosa scomparsa della moglie. E nella assolata Florida, dove intanto aveva stabilito la sua residenza, ha continuato a vivere dipingendo quadri con la tecnica dell’acquarello e andando a pesca, che è un’altra delle sue passioni.

Alcuni anni fa mi trovavo a Washington. Tra le altre visite ho ritagliato un po’ di tempo per vedere lo Smithsonian National Air and Space Museum.

Appena si entra l’attenzione è catturata da un grande disco liscio e splendente, posto quasi in verticale in fondo alla prima stanza, grandissima e piena di mezzi aerei e spaziali. Ci si trova subito smarriti, appena si entra. L’ambiente è enorme e c’è tanta gente in giro. Ma dopo poco, appena ci si avvicina a quel disco, si scopre che quella è la parte più larga di una capsula a forma di tronco di cono, un modulo di comando che appartenne ad una delle missioni Apollo. Ed è proprio l’Apollo 11, nel quale Armstrong, Aldrin e Collins sono rimasti per giorni nel viaggio di andata e ritorno per la Luna. E nel quale Collins è rimasto da solo a girare in attesa del ritorno dei due che erano scesi sulla superficie con il Modulo Lunare.

Ecco il Modulo di Comando della missione Apollo 11 così come la descrive il nostro recensore all’interno dell’enorme salone del Museo dell’aria e dello spazio dello Smithsonian Institut

Nella realizzazione di questo museo Collins ha avuto un ruolo chiave e ne è stato il direttore per parecchio tempo.

Ho descritto solo la prima stanza alla quale si accede direttamente dall’ingresso principale. Ma il museo è immenso e dentro si trovano tantissime macchine, come il Flyer dei fratelli Wright e anche lo Spirit of Saint Louis di Charles A. Lindbergh, con il quale quest’ultimo ha attraversato l’Oceano Atlantico (ed è proprio di Lindbergh la prefazione alla prima edizione del 1974 del libro di Collins).

“Siamo cordiali estranei” ha dichiarato Michael Collins a proposito dei due colleghi della missione Apollo e, oggi, a distanza di cinquanta anni, sappiamo per certo che non rimasero amici dopo quella mirabile impresa che li vide condividere per giorni gli angusti spazi di quel budello – concedetecelo – che era il Modulo di Comando. E la foto che ritrae il cruscotto del Modulo e la il suo insieme esterno sono piuttosto eloquenti sulla questione.

Collins parla di tutto questo in “Carrying the fire

Allora dove sta la differenza tra questo libro e gli altri, scritti dai suoi colleghi astronauti?

Il Modulo di Comando della missione Apollo più famosa della storia dell’astronautica, in occasione di una radicale operazione di restauro, fu privata della copertura trasparente e rimossa da quella specie di ceppo su cui è collocata normalmente. Appoggiata viceversa su un apposito supporto in piano, il Modulo appare in tutta la sua bellezza

Sta nel modo di scrivere. Nella semplicità con la quale parla di cose complesse come se fossero facilissime. Sta nella modestia con la quale affronta ogni argomento. Parla come chiunque di noi parlerebbe con gli amici, di un volo in aliante (Collins è un volovelista, tra l’altro).

La sua voce non sembra provenire dall’alto, da uno che ha addirittura conquistato la Luna, ma proviene dal nostro stesso livello. Anzi, a volte sembra perfino provenire dal basso, come quando descrive la sensazione di inadeguatezza che lo coglieva in alcuni momenti particolari. Proprio come chiunque di noi.

Non dichiara mai di essere un valoroso, uno che ha straordinarie capacità, quasi al di fuori dell’umano.

Dice, invece, di essere fortunato. E cita tanti episodi che dimostrano quanto la fortuna lo abbia favorito nella vita. Alcuni di questi episodi sono anche molto divertenti.

Uno per tutti: quando era in Francia con il suo reparto di volo, un giorno si trovava nel sud del paese e volava in coppia con un altro pilota. Procedevano a bassa quota. L’aereo era un F86. Ad un tratto il suo gregario segnalò che l’aereo di Collins aveva preso fuoco e che vedeva le fiamme uscire dalla fusoliera. In quel caso l’unica cosa da fare era lanciarsi e pure alla svelta. Collins si servì del sedile eiettabile un attimo prima che l’aereo esplodesse.

L’F86 si schiantò al suolo.

Collins atterrò con il paracadute. Fu preso da alcuni contadini della zona e accompagnato all’ospedale.

Intervistato in occasione del cinquantenario dell’impresa lunare, Collins si è espresso con un riconoscente: “Noi tre eravamo solo la punta di un gigantesco iceberg tecnologico”. Certamente si riferiva alla enorme mole di investimenti, alla moltitudine di uomini e al loro sovrumano impegno. Tutto questo aveva reso possibile la missione. Inoltre Collins confidò ai giornalisti che, al decollo, oltre alla pressione causata dalla forza di gravità, l’equipaggio avvertì anche qualcos’altro: “Abbiamo sentito il peso del mondo sulle nostre spalle”. Poi l’astronauta aggiunse: “Tutti guardavano, eravamo preoccupati che avremmo rovinato qualcosa”. In effetti non aveva granché torto perché, a seguire il loro operato c’era infatti il mondo intero, collegato in diretta tv per seguire lo sbarco. Una sorta di Grande Fratello planetario.Questo scatto ritrae l’equipaggio dell’Apollo 11 in posa accanto al Modulo di Comando donato allo Smithsonian Institute

La violenza dell’espulsione, che all’epoca era ottenuta tramite una vera e propria carica esplosiva posta sotto il sedile, gli aveva provocato una piccola lesione alla colonna vertebrale, anche se sul momento questa sembrava poca cosa.

All’ospedale fu messo in anticamera e costretto ad aspettare per ore.

Quando la sua pazienza venne meno, Collins costrinse qualcuno a rendergli conto del perché di questa lunga attesa e gli fu risposto, con i problemi di comprensione di allora a causa delle diverse lingue, che non c’era nessuno che potesse visitarlo, perché c’era stato un incidente aereo nelle vicinanze e tutti erano andati nella zona a cercare il pilota che non si trovava.

Divertente.

Ma a parte questo, negli anni successivi, la lesione che aveva riportato in questo incidente produsse dei problemi quando Collins era in addestramento come astronauta alla NASA.

Confessiamo che, almeno all’inizio, non avevamo compreso il senso estetico di questa copertina . Per un istante l’avevamo scambiata per l’icona di un bagliore di luce dai toni mistici, il ritratto multicromatico di un bastone magico con alla sommità una sorgente di potere divino … poi, a guardarlo bene, abbiamo intravisto il razzo vettore Saturno V e la possente scia di fuoco e fumo che esso generava in fase di decollo. E abbiamo stabilito che questa è la copertina più infuocata tra quelle disponibili del libro di Michael Collins

Dovette essere operato e rischiò addirittura di essere messo a terra ed escluso dalle missioni. Non fu così, l’operazione andò bene. Ma produsse un ritardo e uno slittamento nell’assegnazione a un equipaggio.

La fortuna fu che in questo modo venne assegnato proprio all’Apollo 11.

Nel corso di questi ultimi 50 anni, il volume di Michael Collins ha avuto diverse edizioni e dunque diverse copertine. Eccone una carrellata

Benchè Michael Collins abbia dimostrato un’ottime capacità narrative e soprattutto divulgative, non è stato granchè prolifico nei suoi scritti. Onestamente ci avrebbe stupito il contrario.

La descrizione del lungo viaggio verso la Luna e il ritorno verso la Terra occupa una gran parte del libro. Prima ci sono altri capitoli, che parlano delle fasi precedenti, come la missione Gemini 10. In questo volo Collins rivela aspetti straordinari del lancio, delle sensazioni che ha provato, dell’assenza di gravità sperimentata per la prima volta. E lo fa con quel suo modo colloquiale, preciso e semplice allo stesso tempo. Come si descriverebbe una gita fuori porta di un pomeriggio qualsiasi.

A nostro parere questa è una delle copertine peggio riuscite tra quelle che ha  avuto “Carrying the fire” perchè mostra l’autore pensieroso, quasi annichilito dentro alla tuta spaziale con uno sfondo sbiadito (per non dire cinereo). Chi l’ha ideata possibile che non avesse a disposizione la miriade di fotografie che furono scattate dalla NASA o dai fotoreporter prima, durante e dopo l’impresa dell’Apollo 11? Bah … misteri dell’editoria

Allo stesso tempo, però rivela aspetti che altri hanno solo sfiorato. Spiega ogni cosa usando un insieme di modi che comportano una straordinaria vividezza di immagini, unica e personale. Il risultato è che i concetti riescono veramente a passare dalla sua mente a quella di chi legge.

Una grande efficacia di comunicazione.

Finalmente mi sono chiari aspetti che non avevo ben compreso leggendo altri libri.

Collins è un pilota, certo, anzi un test pilot, un pilota collaudatore, come si dice da noi. Ma è anche un ingegnere.

Ed ecco infine la retrocopertina dell’ultima edizione cartacea del libro “Carrying the fire”. Quella con la copertina inquietante

E deve essere sempre stato un ottimo insegnante, perché fa uso di molte tecniche della metodologia didattica. E il lettore capisce.

Sono passati più di 50 anni dalla missione Apollo 11. Ma il ritorno dell’interesse per lo spazio e la ripresa di progetti per nuove esplorazioni fa tornare attuali i fatti del passato.

La descrizione di Collins, riguardante l’intero viaggio, è talmente precisa che questi 50 anni svaniscono di colpo. E sembra di essere lì, ad osservare la Terra che diventa sempre più piccola nelle altrettanto piccole finestre del modulo di comando, intanto che questo si allontana ruotando lentamente su sé stesso. La lenta rotazione, proprio come quella di una fila di polli arrosto sopra un barbecue, si rende necessaria perché tra la Terra e la Luna c’è il giorno continuo. La notte non esiste e il Sole splende sempre. Perciò la parte di capsula esposta al Sole diventerebbe troppo arroventata, mentre la parte in ombra gelerebbe.

Per i tre giorni di viaggio i tre astronauti sono rimasti all’interno della capsula in lenta rotazione.

Collins descrive la vita a bordo, le operazioni, le lunghe check list da eseguire, l’allineamento della piattaforma inerziale, la posizione stabilita per mezzo di un sestante, i pranzi e le cene, le ore di riposo, le comunicazioni. Tutto.

Descrive le orbite da solo intorno alla Luna, il passaggio dietro la parte nascosta dove le comunicazioni con la Terra si interrompono, descrive il momento in cui la Luna è totalmente oscura perché non illuminata né dal Sole né dalla luce riflessa dalla Terra. Allora la Luna c’è, è lì, ma non si vede. Ed è totalmente solo.

Collins ha sempre detto di non aver mai avuto il minimo problema per questo, di non essersi mai sentito a disagio. Anzi.

“I like the feeling. Outside my window I can see stars – and that is all. Where I know the moon to be, there is simply a black void; the moon’s presence is defined solely by the absence of stars”.

“Mi piace la sensazione. Fuori dalla mia finestra posso vedere le stelle – e questo è tutto. Dove so che c’è la Luna, c’è semplicemente il nero vuoto; la presenza della Luna è definita soltanto dall’assenza delle stelle”.

Bellissima descrizione e bellissima immagine. Terrificante, però.

Collins descrive bene anche alcune cose meno belle, come gli odori. Tre uomini dentro una capsula chiusa per una settimana… ma questo è un aspetto che preferisco saltare, lasciandolo a chi leggerà “Carrying the fire“. Del resto, anche altri astronauti hanno scritto libri saltando, però, questa parte.

Il lettore troverà il piacere di leggere un libro bellissimo, dal quale non riuscirà a staccarsi neppure quando la fatica di leggere tante pagine in inglese arriverà a sopraffare la sua resistenza.

Nel quattordicesimo e ultimo capitolo troviamo una esauriente spiegazione dei motivi per i quali non ha avuto i problemi del dopo missione. O meglio, anche lui si è sentito disorientato, ma con pochi effetti.

Semmai, questi effetti, gli sono stati utili per migliorare. Non si innervosiva più per motivi futili. La soglia della misura di cosa è importante si era alzata di parecchio.

Il volo nello spazio ha cambiato tutti quelli che lo hanno compiuto, ognuno ha reagito in maniera personale. Tutti, però sono stati concordi su un aspetto: la Terra, vista da fuori della sua atmosfera, appare fragile. L’atmosfera stessa, un sottile velo di cipolla che la avvolge, appare fragile e vulnerabile. I politici dovrebbero essere tutti ben consci di ciò. Tutti i politici.

Collins dice:

“I really belive that if the political leaders of the world could see their planet from a distance of, let’s say, 100.000 miles, their outlook could be fundamentally changed”.

“Credo veramente che se i leaders politici del mondo potessero vedere il loro pianeta da una distanza, diciamo, di 100.000 miglia, la loro prospettiva cambierebbe in maniera fondamentale”.

I magnifici uomini della missione Apollo 11 posano per il fotografo ufficiale della NASA giusto ai piedi di quella scaletta del Modulo Lunare “Eagle” che il “nostro” Michael Collins non scenderà mai. Sempre a distanza di 50 anni, viene spontanea una considerazione a margine: Michael fu tra le poche persone del mondo occidentale a non assistere all’allunaggio. Egli ha confessato recentemente al New York Times: “Avevo questo piccolo spazio tutto per me. – intendendo quello del Modulo di Comando in cui orbitò in solitaria – Ero l’imperatore, il capitano. E avevo anche dell’ottimo caffè caldo”. Purtroppo l’inventiva giornalistica – a torto o a ragione – lo ha talvolta definito come: l’antieroe, l’uomo più solo di sempre, il tassista, l’astronauta dimenticato, il gregario, l’uomo ombra. Povero Collins … e pensare che se i suoi compagni avessero avuto dei problemi avrebbero potuto contare solo di lui.

La fragilità del nostro pianeta è apparsa talmente chiara ed evidente a tutti coloro che in qualche modo sono usciti dai limiti dell’atmosfera che tutti ne hanno parlato con enfasi, cercando di comunicare al resto del mondo la necessità di averne grande cura. Sono nati movimenti ovunque, organizzazioni ambientaliste, gruppi di scienziati e perfino partiti politici che hanno cercato di sostenere idee più conservative verso l’ambiente, ma, purtroppo con scarsi risultati. La società dei consumi e il mondo capitalista in generale, hanno inferto ferite profonde a questo fragile pianeta e le offese verso l’ambiente continuano.

Collins, con il suo linguaggio pacato e tranquillo, nel suo libro che risale al 1974, scrive:

“The Earth must become as it appears: blue and white, not Capitalist or Communist; blue and white, not rich or poor; blue and white, not envious or envied…”.

“La Terra dovrebbe divenire così come appare: blu e bianca, non Capitalista o Comunista; blu e bianca, non ricca o povera; blu e bianca, non invidiosa o invidiata…”

Sono perfettamente d’accordo con lui.

Dice anche, a proposito della sua fragilità:

“If I could use only one word to describe the Earth as seen from the moon, I would ignore both its size and color and search for a more elemental quality, that of fragility. The Earth appears “fragile”, above all else. I don’t know why, but it does. As we walk its surface, it seems solid and substanzial enaugh, almost infinite as it extends flatly in all directions. But from space there is not hint of ruggedness to it; smooth as a billiard ball, it seems delicately poised in its circolar journey around the sun, and above all it seems fragile”.

“Se potessi usare una sola parola per descrivere la Terra come si vede dalla Luna, ignorerei sia la grandezza che il colore e cercherei una qualità più elementare, quella di “fragilità”. La Terra appare “fragile”, sopra ogni altra cosa. Non so perché, ma così sembra. Quando camminiamo sulla sua superficie, sembra abbastanza solida e sostanziale, quasi infinita mentre si estende orizzontalmente in ogni direzione. Ma dallo spazio non c’è indizio di asprezza; liscia come una palla da biliardo, sembra delicatamente in bilico nel suo viaggio circolare intorno al sole, e soprattutto sembra fragile”.

Anche se questa immagine fu scattata nel corso della missione Apollo 15 – quindi ben dopo la 11 – , siamo certi che, agli occhi di Collins, la Terra apparve certamente così. Di fronte a una simile vista, come non essere attraversati dai pensieri e le riflessioni che Collins ci ha confidato nel suo libro?

Insomma, la Terra è fragile. E altrettanto lo sono i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti, animali e piante compresi.

E tanto fragili sono apparsi anche i pochi temerari che hanno avuto l’ardire di lasciare la fragilità del loro pianeta per dirigersi verso un altro, sorretti solo da una limitata conoscenza tecnologica e da una solida e incrollabile curiosità. E sete di esplorare.

Per un tempo interminabile sono rimasti all’interno di una fragile capsula che ha sfrecciato a velocità inimmaginabile attraverso il vuoto assoluto, circondati solo dal nero, altrettanto assoluto, ma punteggiato di stelle.

Il quattordicesimo capitolo di questo libro rappresenta la sintesi di tutto il libro. E’ come la conclusione di un racconto, quello della vita di un astronauta, un uomo che è stato tanto fortunato da vedere cose che tutto il resto dell’umanità, tranne pochissimi, neanche immagina.

Ma nonostante questo resta umile. Comprende la bellezza del mondo ed esorta ad averne cura.

L’umiltà, la mancanza di protagonismo, la semplicità, l’essere schivo e distaccato, qualità che lo hanno sempre fortemente caratterizzato, hanno prodotto l’effetto che, nei decenni successivi alla missione, il mondo lo dimenticasse. Soltanto oggi, con i social media, ha ritrovato un minimo di visibilità. Oggi Mike Collins è su Facebook. Se lo cercate, trovate il suo profilo, ed è anche piuttosto attivo. Chatta con tutti, apprezza i commenti con un like o risponde a chi gli chiede qualcosa. Ve lo garantisco per esperienza personale.

Ma solo oggi è così. Finora era stato per decenni “l’astronauta dimenticato”.

Il 16 settembre 1969, Collins parlò ad una riunione del Congresso, a Washington, la sua città.

“Mr President, members of Congress, and distinguished guests”…

così iniziò il discorso, che si snoda in diverse pagine.

“Signor Presidente, membri del Congresso e distinti ospiti”…

Ma poche righe prima, scriveva:

“For me, that date and these words marked the end of Apollo 11, and closed an extraordinary chapter in my life”.

“Per me quella data e quelle parole segnarono la fine dell’Apollo 11, e chiusero uno straordinario capitolo nella mia vita”.

Il discorso di cui parlo si trova facilmente su YouTube.

In questi anni, alcuni degli astronauti delle missioni Apollo ci hanno lasciato. John Young e Gene Cernan tra questi.

Si dice che, dichiarando erroneamente la morte di una persona, non si faccia altro che allungarle l’esistenza. Siamo certi che questo sia accaduto anche a Michael Collins. Realisticamente però,  prima o poi avverrà inevitabilmente la sua dipartita, ebbene è con questa immagine del 1969 che vorremmo ricordarlo. La foto ufficale NASA ce lo mostra alla vigilia dell’impresa lunare, avvolto nella sua divisa da lavoro. Non che la sua fisionomia sia completamente cambiata nel corso di questi ultimi 50 anni, certo che no, è che a noi piace ricordarlo come l’eroe senza tempo che non invecchia e rimane sempre uguale a sè stesso

Qualche giornalista deve aver fatto confusione con i nomi e riportato, per sbaglio, la morte di Collins (proprio in questi giorni, mentre mi accingo a chiudere questa recensione, ci ha lasciato per sempre anche Al Worden).

A questa notizia avevo creduto. Ma poi, per fortuna ho scoperto che Mike Collins è ancora vivo e vegeto. E continua a dipingere e pescare nel Sud della Florida. Sono sicuro che tante persone credono ancora che sia morto. Nessuno parla di lui, nessuna cronaca, nessun telegiornale. Armstrong non c’è più, ma se ne parla ad ogni occasione. Aldrin continua a spingere a tutta forza l’idea di andare alla conquista di Marte, senza nemmeno passare prima per il ritorno sulla Luna almeno per costruirci sopra una stazione intermedia. Tutti i media continuano a diffondere i suoi appelli, perché lui vende magliette e gadget online con la scritta;

get your ass to Mars“,

letteralmente; “porta il culo su Marte“….

Di Collins non si sente dire mai nulla.

Ma lui era anche chiamato “l’astronauta dimenticato”. Tutti conoscono Armstrong e Aldrin. Collins… se lo ricordano in pochi.

Se cercate Mike Collins su Google troverete molto probabilmente qualcun altro, che non è lui e che appare nei primi posti della lista.

Per trovare lui, dopo aver digitato il suo nome, dovete aggiungere un’altra parola: astronaut.




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR




Flying to the moon



The astronaut wives club

titolo: The astronaut wives club. A true story – [Il club delle mogli degliastronauti. Una storia vera]

autore: Lily Koppel

editore: Headline Publishing Group An Hachette UK Company

eISBN: 978 0 7553 6261 5

anno di pubblicazione:  2013





La dedica che troviamo subito nella prima pagina, dopo l’indice e una brevissima presentazione dell’autrice, è già di per sé illuminante. Nella sua essenzialità, otto parole in tutto, rivela l’intero contenuto del libro: –for the wives who have the “right stuff”- [Per le mogli che hanno la stoffa giusta].

Chi non ricorda il famoso film, a sua volta tratto dal famoso libro di Tom Wolfe, che aveva proprio il titolo di “The right stuff” – [La stoffa giusta]? In effetti in Italia la pellicola fu presentata con il titolo: “Uomini veri”.

Se qualcuno lo avesse dimenticato, o non lo avesse addirittura mai sentito nominare, consiglio di procurarselo con ogni mezzo. Non sarà certo difficile, dopo una rapida ricerca sul web. 

La copertina del libro di Lily Koppel nella sua versione cartacea. Purtroppo, ad oggi, non ne esiste una versione in lingua italiana, viceversa è  disponibile una versione digitale in un comodo e-book 

Sia il libro che il film riguardano, in estrema sintesi, le conquiste che nel ventesimo secolo si sono succedute a ritmo vertiginoso nel campo dell’aviazione, prima, e nel campo spaziale, poi.

E riguardano, soprattutto, i protagonisti che hanno fatto parte di questa straordinaria, lunga, ma per altri versi anche corta, storia umana. Un secolo o poco più di avvenimenti, scoperte, esperimenti, imprese, rischi, disastri e perdite di vite umane e di mezzi, ma anche di conquiste, come non si era mai visto nei millenni precedenti.

Gli uomini che questa storia hanno costruito un pezzo alla volta dovevano certamente avere la stoffa giusta per farlo.

E per uomini intendo proprio uomini, esseri umani di sesso maschile.

Il libro riguarda un periodo storico dove le donne, tranne qualche caso sporadico, restavano in disparte, dietro le quinte. Semmai se ne trovavano in maggior numero negli uffici, all’interno di strutture e servizi che quasi mai arrivavano agli onori della cronaca. In aviazione la maggioranza erano militari di sesso maschile. La struttura sociale era quella che era e la mentalità pure. Stiamo parlando degli Stati Uniti della fine degli anni ‘50

E’ fuori discussione che questi uomini, in pace come in guerra, dovessero avere la stoffa giusta per affrontare le prove alle quali erano chiamati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Gli aviatori in special modo e gli astronauti ancor di più.

E allora, le mogli degli aviatori e degli astronauti potevano mai fare eccezione?

La dedica in questo ebook, infatti, attribuisce subito anche a loro la stoffa giusta. Ma per fare cosa?

Diciamo subito che, almeno all’inizio, nella selezione degli astronauti, oltre ai requisiti e alle tremende e a volte stravaganti prove che i candidati dovevano superare, c’era anche la clausola, forse non scritta, che la loro situazione familiare dovesse essere irreprensibile e serena. Per gli scapoli, beh, c’era poco da pretendere, ma per gli sposati…

Niente diverbi familiari, separazioni e, men che mai, divorzi.

Dopo una manciata di righe che descrivono le prove psico-fisiche previste dai medici della NASA per selezionare i piloti (inizialmente scelti solo tra i test-pilots, i piloti collaudatori), un altro paio di righe chiariscono i criteri di selezione del momento: “NASA looked into the backgrounds of not only the men but also their wives”. – [La NASA guardò dentro i trascorsi non solo degli uomini, ma anche delle loro mogli].

In questo scatto risalente al 1963 ecco le famose sette mogli del progetto Mercury. Le signore erano spesso coinvolte in celebrazioni, cerimonie e incontri dal chiaro scopo “vetrina” alla stregua delle ben più fotogeniche attrici di Hollywood.

Sembra incredibile, oggi, ma venivano poste domande come: quante volte alla settimana tua moglie cucina in casa? Beve troppo? Frequenta spesso persone di credo comunista?

E così via.

Inizialmente erano stati selezionati i primi sette neo-astronauti, che presero il nome di “the original seven”. Era l’Aprile del 1959.

A questi, nel settembre del 1962, seguirono altri nove.

E in ottobre 1963 fu annunciato il terzo gruppo di astronauti per coprire le esigenze delle missioni Gemini ed Apollo che sarebbero state sviluppate negli anni seguenti. Altri 14 elementi.

E, ovviamente, le loro mogli.

La NASA selezionò altri elementi anche nel 1966. I nuovi si auto-nominarono “the original nineteen”. E arrivarono le mogli anche di questi ultimi. Come è scritto sul libro, tutto ciò significò “another gang of gals” – un’altra banda di ragazze.

Se nella copertina del volume “The astronaut wives club” troviamo le moglie degli astronauti, nella retrocopertina non potevano mancare gli astronauti del progetto Mercury avvolti nella loro tuta argentata

La vita di queste famiglie, già molto prima che i piloti venissero scelti per le missioni spaziali, era quella tipica delle famiglie dei militari. Vivevano in alloggi di fortuna nei dintorni delle basi, o addirittura dentro le basi. Le comodità erano poche. I mariti erano fuori gran parte del giorno, rientravano dopo le cinque del pomeriggio, a volte stanchi, troppo affamati e sfiniti per giocare con i figli o prendersi cura delle faccende domestiche. Spesso partivano in aereo e stavano fuori giorni o settimane.

I piloti collaudatori convivevano con il rischio continuo. E le loro mogli lo sapevano. Si alzavano prima dell’alba per preparare le loro colazioni, salutavano il marito che andava in volo, coscienti che avrebbero anche potuto non vederlo rientrare. C’erano periodi in cui qualche squadriglia perdeva anche due uomini alla settimana. E le donne non potevano farci nulla se non andare al funerale, cantare l’inno della Navy e piangere quasi di nascosto, nascondendo gli occhi dietro il fazzoletto e il bianco dei loro guanti. Alla fine tutte si rassegnarono, continuando a condurre la loro vita fra innumerevoli difficoltà, occupandosi della casa, della logistica, dei figli e cercando di far quadrare il bilancio tra le spese e la modesta retribuzione dei loro mariti.

E conosciamole allora le famose “Mercury wives”! Da sinistra verso destra: Annie Glenn, Renè Carpenter, Louise Shepard, Betty Grissom, Trudy Cooper e infine Marjorie Slayton. Non è presente la la signora Josephine Schirra. Lo scatto le ritrae in gran spolvero in occasione del pranzo offerto in loro onore a Washington D.C. dal club delle donne giornalista statunitensi. Non stupitevi per gli abiti o il parrucco assolutamente desueto … era l’aprile 1962!

Facciamo un esempio per tutte. Marge Slayton, la moglie di Deke Slayton, ossia colui che sarebbe poi diventato il responsabile dei reclutamenti, delle assegnazioni dei piloti e della formazione degli equipaggi, ogni volta che sentiva il rumore delle pale di un elicottero in volo, aveva degli attacchi di paura e di nausea. Non perché temesse quel tipo di macchina, ma perché sapeva che se un elicottero si era levato in volo, probabilmente un jet era caduto e andavano a cercarlo. Lei usciva subito fuori a guardare l’orizzonte, alla ricerca di una eventuale colonna di fumo che salisse da un qualche punto del deserto del Mojave che circondava la base da un orizzonte all’altro. Ma anche se non c’era alcun fumo restava sempre in attesa nella più profonda preoccupazione. Si aspettava che il campanello della porta di casa suonasse e che il cappellano della base venisse ad annunciarle che ora era una vedova.

Queste mogli di aviatori conoscevano bene i disagi della vita militare. Venivano dislocate attraverso l’intera America, con le loro famiglie, sacrificando i migliori anni della loro vita facendo crescere i figli nei diversi angoli del mondo, supportando la carriera dei loro mariti. L’unica facilitazione loro concessa era il trasporto gratuito dei mobili e degli effetti personali ad ogni trasferimento.

Se nel numero in edicola il 12 settembre 1959 la prestigiosissima rivista statunitense Life aveva dedicato la copertina ai magnifici sette aspiranti astronauti del programma Mercury – quello che, dopo il volo del sovietico Yuri Gagarin, avrebbe riportato l’uomo nello spazio, ma stavolta un uomo di nazionalità statunitense – il numero successivo, pubblicato giusto una settimana dopo, rendeva onore alle rispettive magnifiche sette signore del progetto Mercury. Il primo caso editoriale di parità di genere? … macché! Un subdolo espediente per vendere copie? … probabile! … una maldestra risposta al alla curiosità morbosa dei lettori? … forse. Ad ogni modo questa copertina ha fatto la storia e noi siamo lieti di riproporvela a distanza di tanti anni, come se fosse stata appena stampata

L’era delle esplorazioni spaziali arrivò come un fulmine a ciel sereno con il lancio, da parte dell’ Unione Sovietica, del primo satellite artificiale, lo Sputnik. Gli americani si trovarono spiazzati e reagirono subito mettendo a punto la struttura che si sarebbe incaricata di fare di più e meglio di quanto avevano fatto i sovietici, quella che poi divenne la NASA.

E selezionarono i piloti che avrebbero dovuto diventare astronauti.

Perché ormai non si trattava più di lanciare in orbita un satellite che inviasse a terra un bip-bip.

Ora si pensava di mandare nello spazio degli esseri umani.

Improvvisamente le mogli degli aviatori si trovarono ad essere non più solo semplici mogli di aviatori, ma niente di meno che mogli di astronauti, sebbene inizialmente nessuno di loro avesse mai preso parte ad alcun volo spaziale. Per anni si dovevano addestrare e dovevano studiare una montagna di materie, prima di pensare soltanto ad entrare su una navicella posta in cima ad un razzo ed essere sparati fuori dall’atmosfera.

In quel periodo i razzi dei primi esperimenti avevano manifestato l’attitudine ad esplodere direttamente sulla rampa di lancio, prima di essersi alzati di più di qualche metro. Oppure subito dopo. Ormai di quei razzi si diceva che fossero i più grandi candelotti di dinamite del mondo …

Ma anche dopo, quando la tecnologia si era sviluppata al punto di fornire un buon grado di affidabilità, non mancarono gli incidenti. Alcuni di questi avvennero a bordo, non di razzi, ma di comuni aerei da caccia. E allora, di nuovo, funerali, cerimonie, mogli che da sole caricavano la loro macchina e si allontanavano dalla base, con i loro figli, verso un incerto e forse triste futuro.

C’è sempre, in ogni cosa, la cosiddetta altra faccia della medaglia. E arrivò anche per queste donne.

La nuova condizione di mogli di astronauti aveva portato una novità: la celebrità.

La televisione, dal 1945 in poi, si era andata sviluppando in maniera esponenziale. Aveva soppiantato la fotografia, perché la gente preferiva le immagini in movimento rispetto a quelle statiche, anche se in entrambi i casi erano in bianco e nero.

Non è certo il primo né sarà l’ultimo libro a essere oggetto di attenzioni da parte dell’industria cinematografica statunitense. In effetti anche “The astronaut wives club” ha ispirato una serie televisiva che porta lo stesso titolo e che ha come protagoniste, così come nel libro, le sette mogli dei Mercury Seven, ossia il primo gruppo di astronauti del progetto Mercury, antesignano del programma Apollo. Per intenderci, il famosissimo programma Apollo che, in occasione della sua undicesima missione, porterà l’uomo sulla Luna. La serie tv, prodotta dalla rete statunitense ABC, è stata messa in onda negli USA nel 2015 mentre è giunta in Italia nel 2019 con responsi appena tiepidi da parte della critica e addirittura pessimi da parte del pubblico televisivo. Così, se negli Stati Uniti le puntate sono state visionate da uno sparuto numero di spettatori (poco più di 5 milioni, per la prima puntata pilota e sempre peggio per le successive, praticamente una vera inezia per l’enorme platea televisiva statunitense), nel nostro paese è andata addirittura peggio. La rete televisiva La7, a fronte di una pubblico praticamente assente, ha rimodulato la messa in onda in prima serata spostandola al pomeriggio in quello che, in gergo, si dice un vero flop in termini di audiance. E dire che il 2019, complice il cinquantenario del primo allunaggio, una siffatta serie televisiva dedicata allo spazio, astronauti e relative moglie avrebbe potuto riscuotere l’attenzione del grande pubblico, invece … Ovviamente alla prima stagione non seguirà una seconda. Questa è la copertina dell’omonima serie tv, appunto, e questo il link al sito della serie statunitense

I reporters, sia fotografici che televisivi, di fronte a quella immensa novità che era la NASA e la corsa allo spazio, sciamavano a frotte lungo i viali che portavano alle case dove risiedevano le famiglie degli astronauti. Donne che prima se ne stavano in incognito nelle loro case, che uscivano per fare la spesa senza che quasi non si sapesse chi fossero, ora erano braccate ovunque, perfino all’interno delle loro stanze. In molti casi, infatti, si ritrovavano ad essere inquadrate nel mirino di un apparecchio da ripresa che qualche reporter più intraprendente era riuscito ad infilare tra le persiane della finestra. I giardini di cui ogni casa era dotata pullulavano di giornalisti e delle loro attrezzature, cavalletti e luci da ripresa.

La NASA non aveva fornito loro alcuna preparazione su come affrontare queste situazioni. All’inizio dovettero cavarsela da sole. E in breve tempo l’assedio dei media divenne estremamente fastidioso. Ci furono anche casi di crisi nervose e almeno un suicidio.

Ma era anche gratificante. Molte si lasciarono travolgere da quella improvvisa esplosione di popolarità. Indossavano i migliori capi di vestiario, si truccavano in modo da risultare al meglio nelle riprese, assumevano tutte le pose che i reporters richiedevano.

C’erano sempre party, feste di ogni tipo e per ogni occasione.

Negli anni, con il succedersi delle missioni, prima Mercury, poi Gemini e poi Apollo, gli astronauti cominciarono ad essere impegnati per moltissime ore. Lo studio delle materie specifiche, l’addestramento al simulatore, gli spostamenti per tutti gli Stati Uniti, ovunque ci fosse motivo di andare, li tenevano lontani da casa quasi sempre. Per raggiungere gli stabilimenti dove venivano costruiti i vari elementi che costituivano i razzi, le navicelle o i sistemi di ogni tipo, usavano un bel numero di jet militari, i T38, come se fossero aerotaxi privati. Ogni astronauta doveva seguire lo sviluppo di ogni tecnologia, non solo per sorvegliare la loro costruzione, ma soprattutto per fornire indicazioni, affinché tutto rispondesse alla massima adeguatezza possibile.

Erano tutti piloti sperimentali, abbiamo detto.

Ma la loro assenza non poteva lasciare la situazione della famiglia senza conseguenze.

Una volta rientrati felicemente sulla Terra, nell’incertezza che potessero recare un qualche virus non meglio definito o un agente patogeno sconosciuto contratto nello spazio o sulla superficie lunare – con effetti imprevedibili quanto devastanti per l’intero genere umano – , i tre astronauti della missione Apollo 11 furono posti dalla NASA in rigorosa quarantena all’interno del Mobile Quarantine Facility. Furono lì segregati per 21 giorni dopo il volo che, i primi nella storia dell’umanità, aveva permesso loro (in realtà a solo due dei tre) di toccare il suolo incontaminato della Luna. Gli astronauti Neil A. Armstrong, Edwin E. Aldrin Jr., and Michael Collins in questo famoso scatto del 27 luglio 1969, si mostrano attraverso la grande finestra del modulo di quarantena per salutare – le vediamo di spalle – le loro rispettive consorti che sono (partendo da sinistra verso destra): Mrs. Pat Collins, Mrs. Jan Armstrong, and Mrs. Joan Aldrin. Sono sicuramente le “astronaut wives” più celebri di questo singolare club per sole donne. Foto proveniente dall’archivio NASA presente all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/nasa2explore/9352707408/

Le mogli, lasciate da sole con il peso della conduzione della casa, dove l’elemento mancante non poteva apportare alcun aiuto, resistettero a lungo. Passarono parecchi anni, ma le prime avvisaglie di disagio cominciarono a manifestarsi nelle famiglie. Molte si sarebbero separate e divorziate già da tempo, ma resistettero per non provocare problemi tra i loro mariti e la NASA, visto che non sarebbero stati tollerati disordini familiari.

Poi, dapprima in sordina, in gran segreto, ma inesorabilmente, la disgregazione delle famiglie divenne un fatto frequente, quasi normale. Tanto che anche la NASA finì per accettare tacitamente l’andamento di certe dinamiche.

La serie delle separazioni e divorzi continuò per tutto il periodo delle missioni spaziali.

Ma bisogna comprendere che la pressione alla quale le mogli degli astronauti si trovarono esposte era davvero immensa.

Furono costrette per anni a mostrare in pubblico una vita di perfezione. Ma i loro uomini erano impegnati nel programma spaziale anche per 18 ore al giorno. O per periodi lunghissimi di giorni, anche di settimane.

Molte mogli aspettarono la fine del programma spaziale per chiedere finalmente il divorzio e nel frattempo sostennero la parte della moglie perfetta con stoica rassegnazione.

Gli astronauti erano molto famosi, all’epoca. Specialmente quelli che avevano volato nello spazio almeno una volta. Erano più richiesti dalle donne di quanto lo siano oggi le rock star. Venivano “assediati” da un gran numero di ragazze, impazienti di poter avere una storia con loro. Lontano dalle famiglie, molti di loro, forse tutti, approfittarono della situazione. Le mogli, a casa, sapevano anche questo. I tradimenti coniugali erano frequenti.

Dopo ogni missione Apollo, che aveva impegnato nel modo suddetto i membri degli equipaggi, fino al loro ritorno sulla Terra, quando ormai si sarebbe potuto pensare che gli uomini potessero finalmente riprendere la normale vita familiare, cominciarono invece gli interminabili viaggi per esigenze di pubbliche relazioni. Altri mesi e mesi lontani da casa, stavolta gli astronauti potevano portare con loro anche la famiglia. Ma neppure in viaggio c’era l’opportunità e il tempo per alcuna intimità.

Il ritratto dell’affascinante autrice del libro “The astronaut wives club”, al secolo Lily Kopp, ripresa dalla pagina che l’editore Hachette le dedica. In effetti nel web sono presenti numerose foto della giornalista statunitense che, in età matura, ha cambiato notevolmente il suo aspetto.

Molte mogli abbandonarono l’impresa e se ne tornarono a casa. Di nuovo sole, come erano sempre state.

Ecco di cosa parla questo libro. Della vita di donne semplici, travolte per anni dai danni collaterali che anche i loro mariti hanno subito durante lo stesso periodo storico. Del sacrificio degli uomini si era abbondantemente parlato. Di quello, immenso, delle mogli, invece no.

Per questo fondarono l’Astronaut Wives Club. Per avere una valvola di scarico alle loro frustrazioni e avere un’opportunità di evadere dalle occupazioni familiari.

L’Astronaut Wives Club le mostra come eroine. Un onore che si meritano.

Secondo Lily Koppel, l’autrice di questo libro, queste mogli sono state le pioniere del Movimento delle Mogli che cominciò nel 1960.

Lily Koppel ha dovuto viaggiare attraverso l’intera America per riuscire ad intervistare queste donne prima ancora di cominciare a scrivere The Astronaut Wives Club.

Una di loro, alla domanda di cosa provasse ad essere la moglie di un astronauta, rispose: “se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a rimanere a casa”. Dopo aver letto questo libro non stentiamo a crederle.



 


Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

 





Astronaut Oral Histories

titolo: Astronaut Oral Histories, Group 1 and 2 (Apollo and America’s Moon Landing Program)

autore: National Aeronautics and Space Administration (NASA), World Spaceflight News, Johnson Space Center

editore: Smashwords Edition

anno di pubblicazione: 2013

ISBN: 978-1521152140





L’opera editoriale è composta da due volumi. Il primo include le interviste agli astronauti:

  • Anders,
  • Armstrong,
  • Bean,
  • Borman,
  • Cernan,
  • Collins,
  • Cunningham,
  • Evans,
  • Gordon,
  • Haise.

Il secondo include le interviste a: 

  • Lovell,
  • McDivitt,
  • Mitchell,
  • Schirra,
  • Schmitt,
  • Schweickart,
  • Shepard,
  • Stafford,
  • Worden.

Queste interviste furono raccolte a beneficio del Johnson Space Center Oral History Project della NASA.

Nel corso degli anni successivi al periodo delle missioni Apollo, da subito dopo fino a qualche anno fa, diversi intervistatori hanno incontrato i protagonisti di quelle missioni. Le registrazioni sono state trascritte ed oggi finalmente possiamo trovarle online, scaricarle e leggerle.

La fotografia della Luna vista dalla Terra è quanto di più banale si possa scattare, tuttavia se consideriamo che la Luna è stato l’oggetto del desiderio di una moltitudine di uomini, astronauti del programma Apollo in testa, beh …assume un fascino particolare che va al di là del semplice satellite del nostro pianeta.

Si tratta di colloqui piuttosto informali, il linguaggio è quello parlato, che fa uso di espressioni idiomatiche tipiche della regione di provenienza degli intervistati. E per scelta ben precisa le trascrizioni sono state lasciate in forma integrale, senza “abbellirle” con opportune correzioni.

La lingua è l’anglese, anzi, diciamo meglio, l’americano. E questo comporta una certa difficoltà in più per il lettore che non sia di madre lingua. Ma, allo stesso tempo, rende la lettura ancor più interessante e, se vogliamo, più formativa.

Ho letto tanti libri scritti dagli astronauti e continuo a leggerne di nuovi, man mano che si rendono disponibili. Non tutti gli astronauti si sono cimentati nell’impresa di immortalare le loro esperienze in un libro, certo, ma coloro che lo hanno fatto, hanno parlato anche degli altri colleghi, di tutti i componenti degli equipaggi. Alla fine si finisce per conoscerli tutti. Si conosce la loro vita, la carriera, la storia che è seguita al loro ritorno.

Ora questa raccolta di interviste non fa altro che ribadire gli stessi eventi. Chi aveva letto i loro libri si trova a fare quasi un ripasso della stessa storia, che già conosce. Ma per chi legge solo queste interviste è un’occasione per conoscere qualcosa di cui, probabilmente, ha solo sentito parlare di sfuggita. Specialmente i giovanissimi.

Se c’è una copertina emblematica che riguarda le missioni destinate a raggiungere il suolo della Luna beh … sicuramente ricordiamo quella della rivista scientifica National Geographic e di Life. Ritrae Buzz Aldrin. E’ il nr 5, vol 136 del dicembre 1969.

A parte questo, cosa si ricava dalla lettura di queste trascrizioni?

Beh, dipende da chi legge e da quanto conosce di tutta la storia della conquista dello spazio.

Per quanto mi riguarda, ci sono alcuni elementi, alcune sensazioni e diverse considerazioni che vorrei mettere in evidenza.

Prima di tutto, dalle interviste, avvenute, come ho detto in anni successivi e a volte anche parecchi anni dopo, viene fuori un fatto straordinario: spesso gli astronauti dichiarano di non ricordare con chiarezza molti particolari. E questo sorprende, perché non stiamo parlando di qualcosa di banale, ripetitivo, comune. Ci si aspetterebbe, da chi ha vissuto esperienze così straordinarie, eccezionali e al limite, quasi, delle possibilità umane e tecnologiche, che ricordi tutto, ma proprio tutto, senza dimenticare neanche un singolo particolare.

Invece no. A fronte di alcune parti che ricordano molto vividamente, ci sono pezzi della Storia che non sanno dire con precisione come si sono svolti.

Anche se parzialmente nascosto all’interno della sua tuta spaziale, è possibile riconoscere i lineamenti del viso dell’astronauta Buzz Aldrin, classe 1930, che è ricordato negli annali dell’astronautica per essere stato il secondo uomo a mettere piede sulla Luna, appena dopo il comandante della missione Apollo 11, Neil Armstrong. Inoltre, dopo una carriera costellata da alcoolismo e da una profonda depressione, ci ha regalato diversi volumi che testimoniano la sua esperienza di vita nonchè di astronata proiettato al futuro oltre che al passato. Li abbiamo recensiti:  Return to Earth, (1973),  Magnificent Desolation (2009), “Mission to Mars” del 2013 , e l’ultimissimo “No dream is too high” del 2016. Buzz non ha mai smesso di sostenere le missioni spaziali statunitensi e, non a caso, è il più fervente promotore dell’esplorazione su Marte. A questo scopo non si è risparmiato nel partecipare a convegni, scrivere altri libri divulgativi e a prestare la sua immagine per le future missioni marziane. Chissà che un vecchio “lunatico” non riesca nell’ultima sua impresa “marziana”!?

Strano fatto davvero.

Altro elemento di rilievo, che avevo già scoperto leggendo i libri, ma che qui è ribadito ovunque, è l’immenso senso di competizione che riguardava tutti, ma specialmente gli astronauti.

Aldrin, ad esempio, si è rovinato l’esistenza per non essere stato il primo a scendere dal Modulo Lunare e posare il piede sulla superficie polverosa del nostro satellite. Nella sequenza di fotogrammi della videocamera che lo riprende mentre scende la scaletta del LM (Lunar Module – modulo lunare), quando già Armstrong lo aspettava sul suolo lunare, si vede che sull’ultimo piolo si arresta e rimane fermo per un certo tempo. A chi gli chiede il motivo risponde che si era fermato per… fare pipì! Si, esatto, proprio per fare pipì. Aveva un sistema studiato appositamente per permettere agli astronauti di svolgere questa funzione attraverso un tubicino che portava la pipì in una sacca fissata più in basso. La gravità della Luna, un sesto di quella della Terra, faceva sì che il sistema funzionasse bene. Ma non era per questo che aveva scelto quel momento. Piuttosto voleva essere il primo, se non a mettere piede sulla Luna, a farci la pipì.

Sebbene Eugene Cernan abbia partecipato a ben tre missioni spaziali per conto della NASA (Gemini 9 nel1966, Apollo 10 nel 1969 e il famoso Apollo 17 del 1972), viene ricordato principalmente come l’ultimo uomo ad aver lasciato la superficie lunare il 14 dicembre 1972, il dodicesmo membro del genere umano ad averlo fatto. Anche lui ci ha regalato uno splendido libro in cui racconta la sua esperienza di astronauta che abbiamo recensito in questa pagina: “The Last Man on the Moon” e nella sua versione in ligua italiana “L’ultimo uomo sulla Luna”. Ci ha lasciato all’età di 82 anni nel 2017. E’ qui ritratto nella foto di rito che veniva scattata dalla NASA a beneficio della stampa

E Cernan, l’ultimo a togliere il piede dal suolo lunare nel corso della missione Apollo 17, ha portato per tutta la vita l’etichetta di ultimo… anche se non credo che a lui, questo, abbia dato particolarmente fastidio.

Ma Cernan aveva aperto la strada all’Apollo 11. Con la missione precedente, l’Apollo 10, Cernan era sceso a bordo del modulo lunare fino ad una quindicina di chilometri dalla superficie. La sua poteva essere la missione destinata ad atterrare, ma il modello di Lunar Module che stava utilizzando era ancora troppo pesante. Perciò, meglio non rischiare. Una catastrofe avrebbe fermato tutta la corsa alla conquista della Luna, che doveva avvenire prima della fine del decennio, come Kennedy aveva promesso.

Anche l’URSS era interessata ad essere la prima a scendere sul suolo lunare e l’URSS andava assolutamente battuta. Non si poteva rischiare.

Antesisgnana delle moderne auto elettrice terrestri, il Lunar Rover Vehicle (Rover Lunare) fu utilizzato durante le missioni lunari per consentire agli astronuati di spostarsi anche a notevole distanza rispetto al punto di allunaggio del Modulo Lunare. Aveva un motore elettrico alimentato da batterie chimiche (36-volt argento-zinco non ricaricabili) con autonomia di cento chilometri percorsi a piena potenza ma, in realtà, causa la ridotta attrazione della Luna, marciò sempre a 1/3 della sua velocità massima terreste di circa 15 km/h. Chissà se per guidare sulla Luna gli astronauti conseguirono una speciale patente “lunare”, appunto.

Cernan dovette arrestare l’avvicinamento a quella quota, circa quindici, sedici chilometri. Infatti comandò l’abort e tornò al rendez-vous con il Modulo di Comando (e il Modulo di Servizio, uniti) che intanto stava orbitando intorno alla Luna. Poi tornarono indietro.

E questo, credo, deve avergli dato veramente fastidio, perché poteva essere stato lui il primo.

La retrocopertina del libro alquanto originale redatto dalla NASA contenente i racconti di tutti i sui astronauti delle missioni Apollo

Nell’intervista a Cernan, alla seconda pagina, traspare questo fastidio:

But we only came close. We came within about 47.000 feet but did not land. That’s the way it was planned, although originally one time early on in the program the fourth Apollo flight was going to be the first attempt at landing. That would have been Apollo 10”.

(Ci siamo andati vicino. Siamo arrivati intorno ai 47.000 piedi ma non siamo atterrati. Così era stato pianificato, sebbene originariamente nel programma il quarto volo Apollo avrebbe dovuto essere quello del primo tentativo di atterraggio. Avrebbe dovuto essere l’Apollo 10).

E quello che dice dopo è ancora più illuminante:

“But anyway, I keep telling Neil Armstrong that we painted that white line in the sky all the way to the Moon down to 47.000 feet so he wouldn’t get lost, and all he had to do was land”.

(Ma comunque, io continuo a dire a Neil Armstrong che noi abbiamo disegnato quella linea bianca nel cielo fino alla Luna e giù fino a 47.000 piedi così che lui non si perdesse, e tutto quello che gli rimanesse da fare fosse l’atterraggio).

Come dire: non sarò stato il primo, ma se non fosse stato per me… ti ho tracciato la strada fin quasi al suolo lunare…

Ecco, grande senso di competizione. Ma anche grandissimo senso di collaborazione.

Tornando ai due libri, ogni intervista rivela la linea degli avvenimenti che sono quelli noti, ma dal punto di vista del personaggio di turno. Ogni personaggio ci regala la sua personale visione dei fatti.

L’equipaggio della missione Apollo 17 è quello cui apparteneva l’astronauta Eugene Cernan (qui ritratto seduto a bordo del Rover utilizzato per scorrazzare sul suolo lunare). La foto risale al dicembre 1972 e ha come sfondo il glorioso razzo ettore Saturno V che fu lanciato da Cape Canaveral, l’attuale Space Center intitolato a John F. Kennedy, durante l’unico decollo in notturna di tutto il programma Apollo. Questo è l’ultimo equipaggio che ha effetuato un volo nello spazio extraterreste in quanto tutte le successive missioni spaziali si sono limitate a raggiungere orbite basse prossime alla Terra.

Ma c’è un altro elemento che tutti hanno, in qualche modo, menzionato, o lasciato intendere: il rammarico per l’improvviso arresto delle successive missioni Apollo già pianificate. Dopo l’Apollo 17 tutto si è fermato, molti sono stati licenziati e il budget è stato dirottato nelle missioni di un nuovo veicolo spaziale che stava prendendo forma in quegli anni: lo Shuttle. E la costruzione di quella che oggi è la Stazione Spaziale Internazionale.

Con questo è finita l’era dell’esplorazione dello Spazio profondo e ci si è, per così dire, ritirati in un guscetto che gira intorno alla Terra, appena fuori dalla porta di casa.

C’è molto altro in queste interviste. Si trovano online e chiunque le può scaricare.

Consiglio tutti di leggerle. Qualcuna è più difficile da comprendere, per via delle troppe frasi idiomatiche e parole strane che, a volte, neanche il vocabolario insito nell’applicazione Kobo conosce. Ma si rimedia facilmente con lo smartphone, che trova quasi tutto con facilità.

E in questo modo, ripeto, si impara.

Con questi due libri possiamo conoscere i fatti che hanno riguardato il passato.

Quest’anno, 2019, ricorre il cinquantesimo anniversario del primo sbarco sulla Luna.

L’astronauta Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortala accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – fu utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia “Forever Young” che abbiamo recensito.

Ma proprio in questo periodo riprende con forza l’interesse per l’esplorazione spaziale. Non solo è previsto il ritorno sulla Luna, ormai lo sguardo umano è rivolto verso Marte e le sue lune e verso altri asteroidi lontani.

Si ritorna nello spazio profondo, con tutto ciò che comporta.

E questa è l’alba di una nuova era che potrebbe portare l’Umanità ad essere una razza multi planetaria. Come forse era già stata. Uno degli intervistati, Al Worden, lo sostiene.

Questa, però, è Storia futura.





Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer).

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Falling to Earth

titolo: Falling to Earth – an Apollo 15 astronaut’s journey [Cadendo sulla Terra – un viaggio dell’astronauta dell’Apollo 15 ] 

autore: Al Worden with Francis Franch

editore: Smithsonian Books – Washington

(2011, edizione digitale, prima edizione)

eISBN: 978-1-58834-310-9





 

Questo è davvero un libro speciale.

Tutti i libri possono esserlo, ma alcuni sono più speciali di altri. Già l’argomento, le missioni spaziali, le prime in assoluto da quando esiste l’essere umano sulla Terra, è di un interesse travolgente. Queste missioni si sono svolte in un periodo di pochi decenni. Un tempo insignificante, se messo in confronto con i millenni che l’umanità aveva già alle spalle. E considerato anche che la conquista dell’aria, cominciata si nel 1800, ma realmente perfezionata solo nei primi anni del 1900, aveva avuto anche questa uno sviluppo esponenziale che ha del prodigioso.

L’astronauta James B. Irwin, pilota del modulo lunare denominato “Falcon” porge il saluto militare all’obiettivo della fotocamera posta tra le mani del suo collega David R. Scott, comandante della missione. Sullo sfondo, immancabile, la bandiera statunitense e il Lunar Roving Vehicle (LRV). Quella dell’Apollo 15 fu una missione del tutto militare in quanto che tutti e tre i suoi membri erano ufficiali piloti dell’USAF (Unites States Air Force)

Nessuno si sarebbe mai immaginato di poter camminare sul suolo lunare così presto.

Sulla scia della rivalità e della competizione con l’Unione Sovietica, il presidente Kennedy aveva promesso di portare l’Uomo sulla Luna prima della fine del decennio. Erano gli anni sessanta.

Per mantenere la promessa, gli Stati Uniti avevano posto in atto uno sforzo immenso, sia dal punto di vista tecnologico che economico. E anche di risorse umane. Gli equipaggi erano stati selezionati tra i migliori piloti del momento, quasi tutti piloti sperimentali, super qualificati e provenienti da tutte le aviazioni, sia dell’Aeronautica che dell’Esercito, della Marina e dei Marines.

L’unico segno di italianità lasciato nell’ambito della missione Apollo 15 è costituito dal logo di missione realizzato a cura dello stilista (nonché ingegnere aeronautico) Emilio Pucci, a cui venne commissionato direttamente dagli ingegneri della NASA. Nell’idea di base del suo ideatore, egli immaginò di far volare tre uccelli (forse rondini) stilizzati sulla superficie lunare con i colori della bandiera statunitense. Probabilmente il numero tre era legato al numero tre dei membri dell’equipaggio ma, sappiamo che, purtroppo, uno dei tre orbitò abbastanza lontano dalla superficie terrestre mentre solo i due pù fortunati misero davvero piede sulla superficie della Luna.

Lo spazio, però, è un ambiente diverso rispetto all’atmosfera. Dal 1969, l’anno del primo allunaggio ad opera dell’Apollo 11, fino al 1972, anno dell’ultimo allunaggio portato a termine dall’Apollo 17, possiamo contare tre meri anni durante i quali 12 uomini hanno passeggiato sulla Luna e sei sono rimasti ad orbitare velocemente sopra di loro, soli a bordo e con una miriade di compiti da svolgere.

Poi tutto è finito. Le missioni Apollo hanno lasciato il posto all’epoca dello Shuttle, alla costruzione delle stazioni spaziali, una russa (la MIR) e una americana, ma più che altro internazionale, la I.S.S. (International Space Station).

Immortalati dell’occhio della fotocamera uffciale della NASA, ecco tutti i protagonisti della missione Apollo 15: l’equipaggio, il Modulo Lunare e il Rover.

Solo in questo periodo, un paio di decenni dopo il 2000, si sente di nuovo parlare di ritorno nello spazio profondo, lontano dall’orbita terrestre, addirittura si parla di Marte e di alcuni asteroidi lontani.

Il libro di cui parliamo riguarda la vita di uno dei membri dell’equipaggio dell’Apollo 15. E precisamente di colui che non era destinato a scendere sul suolo lunare, ma a restare in orbita, solo e con tantissime cose da fare.

E già qui la storia comincia a farsi interessante. Perché Alfred Worden è un tipo speciale e tutta la sua storia lo è, a cominciare dalla sua infanzia fino ai giorni nostri.

Ha scritto solo questo libro, ma che libro!

Le prime pagine cominciano con la prefazione del Capitano Dick Gordon, astronauta e pilota della Gemini 11, poi pilota del modulo di comando dell’Apollo 12 (anche lui destinato ad orbitare la luna senza scendere al suolo) e poi comandante di riserva dell’Apollo 15. Ogni equipaggio in addestramento per una missione aveva un altro equipaggio che si addestrava in parallelo ed ogni membro di backup era immediatamente pronto e disponibile a sostituire il titolare per qualunque ragione che gli avesse impedito di partire, fosse pure un banale raffreddore.

Ecco la famosa fotografia che immortala Alfred Worden mentre fluttua nello spazio, appena fuori il modulo di comando dell’Apollo 15, intento a recuperare la pellicola della fotocamera panoramica e a verificare l’esito gli otto esperimenti scientifici effettuati durante le orbite del Modulo di Comando

Poiché una recensione è essenzialmente una presentazione, destinata a chi, venuto a conoscenza dell’esistenza di un libro, vorrebbe conoscerne il tipo di contenuto per decidere se leggerlo o meno, non esito a consigliare chiunque abbia un Kobo a comprare “Falling to Earth” subito e cominciare a leggerlo. E’ in inglese. Purtroppo non esiste, per quanto ne so, la versione italiana. Ma di questo problema ho già parlato nelle altre recensioni, qui su VOCI DI HANGAR.

Per chi ha letto le mie precedenti recensioni di libri sullo stesso argomento e scritti da altri astronauti, diciamo subito che anche questo traccia un po’ la vita dell’autore, dall’infanzia fino alle scuole iniziali, al periodo dell’Accademia militare, in questo caso West Point (forse la più prestigiosa), fino ad arrivare alla scuola di volo.

Worden  opta per l’Air Force. Molti suoi colleghi vennero arruolati invece dalla Navy, la Marina americana. Altri scelsero i Marines.

Alcuni, molti, finirono a combattere in Vietnam.

Erano molti i reparti di volo dove tutti questi piloti prestavano servizio e dove furono raggiunti dalla notizia che la NASA, l’ente spaziale americano, ricercava piloti da avviare alla carriera di astronauti. Anche se, all’inizio, li cercava solo nei reparti sperimentali di volo.

Per i detrattori delle missioni spaziali o per i complottisti che, ancora oggi, sostengono che le missioni lunari furono tutta una montatura della NASA, ecco una foto panoramica che attesta il gran movimento di uomini e mezzo nell’area di allunaggio del modulo Lunare dell’Apollo 15. E’ facile distinguere le tracce dell’automobile lunare e le orme degli astronauti sulla superficie .

Infatti, tutti i primi neo-astronauti, tranne qualche eccezione come Buzz Aldrin, erano test-pilots, i piloti sperimentali, il meglio in assoluto per esperienza e capacità. In altre parole i più indicati per entrare a far parte di un settore nuovo come l’astronautica, dove ogni cosa sarebbe stata essenzialmente sperimentale. Con tutte le incognite e i rischi associati.

Molti piloti mandarono il proprio curriculum e furono inviati alle visite mediche e ai colloqui necessari. Worden si trovava in Inghilterra, presso il Centro sperimentale inglese. Fu fatto rimpatriare, superò i test ed entrò a far parte della NASA come membro di equipaggio.

Gli anni che seguirono furono anni durissimi, come si può immaginare. La disponibilità degli equipaggi doveva essere totale, il lavoro andava ben oltre le canoniche otto ore, spesso durava giorni e notti con appena qualche ora di sonno. Si lavorava anche nei fine settimana. Inoltre i centri della NASA e le sedi dove venivano costruiti i veicoli spaziali, i centri di addestramento e i simulatori di ogni tipo erano sparsi per tutto il paese. Gli astronauti dovevano attraversare gli Stati Uniti in lungo e largo, migliaia di chilometri che percorrevano a bordo del caccia biposto T38. Questo meraviglioso addestratore veniva usato come aereo executive personale. Ogni astronauta ne aveva uno e lo usava per andare dove serviva, quasi come un’automobile.

Allo scopo di estendere il raggio d’azione degli astronauti, la missione Apollo 15 ebbe in dotazione il Rover lunare che è ritratto nella foto accanto al Modulo Lunare con a bordo l’astronauta Irwin.

Worden era sposato con Pamela. Avevano una figlia e poi ne ebbero un’altra. Ovviamente la moglie restava da sola per periodi lunghissimi e aveva sulle proprie spalle la responsabilità della famiglia della quale mancava sempre un elemento importante. I trasferimenti erano molto frequenti, bisognava cambiare stato, città, casa. Una vita dura.

Tutti questi disagi non andavano certo a favore di una serena unione familiare.

Dopo alcuni anni anche Worden si trova ad affrontare un divorzio. Come quasi tutti i suoi colleghi.

Ci furono almeno due incidenti terribili, in quegli anni. Sapevo già, dalla lettura dei libri di altri astronauti, dell’incendio della navicella sulla piazzola di lancio, di quella che doveva essere la missione Apollo 1 (che per questo cambiò anche nome, anzi, numero), dove persero la vita tutti i tre membri di equipaggio e dell’incidente di volo di due colleghi di Worden, mentre cercavano di atterrare in condizioni di scarsissima visibilità, a bordo di un T38. Morti entrambi.

Ma Worden rivela in questo libro anche altri incidenti di cui non sapevo nulla.

La moglie Pamela, però, sapeva eccome. E aveva cominciato a capire che il lavoro del marito era estremamente pericoloso. E non stava mai tranquilla. Aveva visto come altre mogli di astronauti avevano ricevuto la notizia della morte dei loro mariti e si aspettava anche lei, in ogni momento, una visita del genere. Non ce la faceva più.

Durante una cerimonia tenutasi il 30 luglio 2009 al Kennedy Space Center in Florida (USA), Al Worden prese la parola in qualità di ambasciatore del Exploration Award in virtù del notevole contributo che egli fornì al programma spaziale statunitense, in particolare in occasione della missione Apollo 15

In questo libro, Worden mette bene in evidenza tanti elementi, compresi i rischi inerenti al suo lavoro. Diciamo che, leggendo i capitoli, si viene ad avere, via via, una idea molto più chiara di tanti episodi già letti in altri libri.

L’autore è un tipo deciso, caparbio, meticoloso. Sa scrivere in modo molto vivido ed ha le idee chiare su ogni cosa. Si percepisce dalla lettura, ma oggi si può anche fare riferimento ai tanti video di Youtube. Andate a vedere il tipo, come è oggi, come parla e come si muove. Ha una simpatia innata, modi amichevoli e tranquilli, ma si vede la decisione in ogni suo gesto.

Negli anni che hanno preceduto il suo divorzio da Pam, tanto per fare un esempio, sperimentava i voli sub-orbitali, utilizzando un velivolo F104 modificato. Decollava, saliva ad un livello altissimo, accelerava al massimo, poi tirava su il muso in una ripida cabrata che lo portava oltre il limite dell’atmosfera, intorno ai cento chilometri di quota. Il motore veniva spento e l’aereo entrava in una traiettoria balistica che per alcuni momenti avveniva in uno strato basso dello spazio. Poi ricadeva nell’atmosfera, il motore veniva riacceso e si tornava a terra, spesso atterrando sulla superficie dura e liscia di un lago asciutto della California.

Chuck Yeager, il famoso pilota sperimentale, aveva già perso un velivolo in questo modo e si era dovuto lanciare. Nel lancio, il canottino gonfiabile che aveva addosso, aveva preso fuoco e per spegnerlo e sganciarlo si era ustionato le mani.

Come dare torto a Pamela?

Alla fine, sia pure in condizioni di massima civiltà e senza liti, i due si separano.

Al Worden ne parla nel libro.

Although I will always regret that my marriage to Pam did not work out, once it ended I saw I never could give her what she needed in life. She wanted stability and comfort. That wasn’t me”.

“Sebbene sarò sempre rammaricato che il mio matrimonio con Pam non abbia funzionato, una volta finito mi sono accorto che non avrei mai potuto darle ciò di cui lei aveva bisogno nella sua vita. Lei voleva stabilità e comodità. Quello non ero io”.

E dice che solo due mesi dopo il divorzio Pam venne a trovarlo a casa insieme al suo nuovo compagno. Il suo nome era Jim e a lui piaceva lavorare dalle nove alle diciassette, tornare a casa mettere le pantofole e fumare la pipa.

Beh, certo, era tutto un altro tipo di uomo. Dice Worden:

Pam had found happiness, at last”. “Pamela aveva trovato la felicità, alla fine”.

A testimoniare il grande lavoro svolto dagli astronauti della missione Apollo 15 questa foto ritrae Irwin mentre svolge la perforazione della superficie lunare nel corso delle innumerevoli prospezioni geologiche che gli furono affidate. Sulla Luna non si andava solo a passeggio ma anche a lavorare. Da notare la tuta alquanto sporca. All’indomani dell’annullamento della missione Apollo 20 e, subito dopo, anche delle 19 e della 18, l’Apollo 15 divenne una missione del tipo “J”, con attività scientifica avanzata e dunque, in particolare, fu curato l’addestramento geologico degli astronauti 

Gli scienziati che contribuivano a preparare le missioni lunari erano interessati soprattutto a scoprire l’origine geologica del suolo lunare e delle rocce che erano presenti intorno ai crateri. Pensavano che i crateri fossero originati dall’impatto di meteoriti, ma volevano scoprire se fossero anche il risultato di eruzioni vulcaniche.

Negli anni, prima della missione Apollo 15, Worden fece tanto addestramento in giro per l’America, per essere in grado di riconoscere e distinguere l’origine di ogni roccia, se era vulcanica o no.

Divenne quasi un geologo lui stesso, ma nell’ultima missione, Apollo 17, la NASA mandò sulla luna un geologo vero, come ho scritto nella recensione del libro di Gene Cernan.

I capitoli si susseguono, il racconto della vita operativa di Worden contiene tanti aspetti che altri, nei loro libri, non hanno neppure sfiorato. Si impara, da questo libro. Devo dire che la missione Apollo 15 ha avuto molti più compiti delle precedenti, molti più esperimenti da portare a termine. Una delle pareti del modulo di servizio, quello che contiene il motore e resta in orbita lunare insieme al modulo di comando, in un tutt’uno che si separerà solo poco prima del rientro nell’atmosfera terrestre, era letteralmente zeppa di strumenti, sensori e macchine fotografiche.

Le pellicole impressionate, gli archivi con le registrazioni di tutti questi strumenti dovevano essere recuperati nel volo di rientro perché il modulo di servizio non era destinato a tornare a terra. Worden portò a termine questa operazione (E.V.A. Extra vehicular activity) nel primo terzo di percorso tra la Luna e la Terra. Nessuno aveva mai fatto questo. E’ la passeggiata spaziale più lontana dalla Terra di sempre. E da lì poteva vedere Terra e Luna contemporaneamente.

Worden rimase in orbita lunare da solo per sei giorni, mentre i suoi due colleghi scendevano al suolo a bordo del LM (Lunar Module). Ad ogni giro intorno alla Luna fotografava e mappava la superficie con strumenti di ogni tipo. Un lavoro enorme. Gli strumenti erano in grado di rilevare la presenza di qualunque elemento chimico, gas o particella, specialmente di origine vulcanica.

La recopertina del bel libro di Warden

Una cosa curiosa che Worden riporta nell’ambito di questa ricerca è abbastanza impensabile e non mi sarebbe mai venuta in mente, se lui non l’avesse detta.

Ad un certo punto, mentre orbitava e faceva rilevamenti con i suoi sensori, questi hanno scoperto la presenza di particelle di origine terrestre e che… non dovevano essere lì. Ma subito il fatto aveva trovato la sua spiegazione.

Durante il viaggio verso la Luna, in tre giorni e mezzo, è umano che si debbano espletare le tipiche funzioni fisiologiche. Sia la pipì che il resto veniva messo in apposite buste, sulle quali veniva segnato il nome, l’ora etc. Questi reperti sarebbero stati studiati al rientro. Ma a volte il contenuto veniva inserito in uno scomparto che lo sparava fuori nel vuoto spaziale. Però nello spazio ci sono altre leggi fisiche. La nuvola di scorie non si disperdeva, ma seguiva la navicella, anche quando questa entrava in orbita intorno alla Luna. In una di quelle orbite, i sensori ne avevano rilevato la presenza, con una certa sorpresa per l’astronauta che operava quei sistemi.

Bene. Fin qui, a parte la meticolosità e l’abbondanza delle descrizioni e la vividezza del modo di narrare dell’autore, potrei quasi dire che si tratta di un normale libro scritto da un astronauta.

Worden era al suo primo volo spaziale, a differenza di altri che avevano partecipato alle missioni Gemini. Veniva da anni di addestramento, da studi di tutti i tipi, corsi di geologia e voli parabolici per simulare la condizione di assenza di gravità. E da lunghe sessioni subacquee per simulare la cosiddetta attività extra veicolare (E.V.A. o extra vehicular activity).

Era entusiasta e aveva un gran rispetto gerarchico per i superiori, compreso il suo comandante Dave Scott. Ed era animato da un grande senso di cameratismo e amicizia per l’altro membro di equipaggio, James Irwin.

E forse proprio per questo, poco prima del lancio, avvenne qualcosa di sconcertante, di banale e allo stesso tempo di gravissimo. Qualcosa che avrebbe rovinato la carriera di questo grande pilota e grande uomo. E dopo aver portato a termine la missione in maniera tanto perfetta. Dopo aver fatto molto di più di altri astronauti. E dopo aver ricevuto continui elogi e riconoscimenti per la perfezione della sua opera, sia dai colleghi, che da tutto l’apparato di controllo a terra e sia dai membri del congresso e dalla Casa Bianca.

Cosa era successo?

Il lettore lo scopre sin dalle prime parole della prefazione, scritta da Worden stesso.

It was the worst day in my life. I’d had low points before. A failed marriage. Friends dead in car wrecks, aircraft, and spacecraft. This day was almost worse than death. Everything I had worked towards over a lifetime of service was ruined, and I was all alone. Yust a few months before, heads of state had onored me. Congress asked me to address them. I was called a hero. Now I was clearing out my rented apartment, loading boxes into a trailer, and preparing to leave Houston forever. I’d been fired in disgrace and frozen out by my colleagues. I had lost everything: My career, and the respect and trust of those for whom I would have given my life”.

Sono poche le fotografie che sono rimaste nella storia dell’astronautica. Ebbene una di queste è proprio quella scattata dalla missione Apollo 15 in fase di allontanamento dalla superficie terrestre e in viaggio verso la Luna

Era il giorno peggiore della mia vita. Avevo già avuto punti bassi prima. Un matrimonio fallito. Amici morti nei rottami di un’auto, aereo e veicolo spaziale. Questo giorno era quasi peggio della morte. Tutto ciò per il quale avevo lavorato attraverso una vita di servizio era rovinato, ed ero solo. Pochi mesi prima, capi di stato mi avevano onorato. Il congresso mi aveva invitato a fare un discorso. Ero stato chiamato eroe. Ora stavo pulendo il mio appartamento in affitto, caricando scatole in una roulotte e mi preparavo a lasciare Houston per sempre. Ero stato scacciato e scaricato dai miei colleghi. Avevo perso tutto: la mia carriera ed il rispetto e la fiducia di coloro per i quali avrei dato la vita”.

Parole terribili. Specialmente se le leggiamo già all’inizio di un libro.

Il giorno di cui Worden parla si riferisce all’estate de 1972. La missione Apollo di cui aveva tanto onorevolmente fatto parte risaliva al 1971. Pochi mesi erano passati, ma un grande guaio era scoppiato, come una bomba ad orologeria.

A questo argomento sono dedicate tante pagine, perché si tratta di una cosa complessa. Ma per sintetizzarla al massimo, diciamo che si era trattato di qualcosa di molto banale. Tutti gli equipaggi, ad ogni volo, portavano con sé alcuni gadget che poi, una volta tornati, avevano acquistato valore per essere stati nello spazio. Figuriamoci se erano stati addirittura sulla luna.

La missione Apollo 15 ebbe inizio il 26 luglio 1971 dal complesso di lancio 39 A del Kennedy Space Center in Florida. C’erano a bordo l’astronauta David R. Scott, comandante di missione, Alfred M. Worden, pilota del modulo di comando e servizio(CSM) e James B. Irwin, pilota del modulo lunare (LM)

Nel corso delle missioni ai semplici gadget si erano aggiunte certe buste affrancate, con annulli che ogni filatelico avrebbe pagato a peso d’oro. Il comandante Dave  Scott, nella missione Apollo 15, ne aveva portate centinaia, un po’ per l’equipaggio stesso, quindi anche per Worden, e un po’ per alcuni  personaggi estranei. Questi faccendieri, alla fine della missione avevano subito messo in vendita le buste, facendo scoprire un illecito che la NASA si era trovata a dover giustificare, con grande imbarazzo, verso l’opinione pubblica e verso il governo degli Stati Uniti.

Ovviamente non era consentito trarre vantaggi economici da una professione per la quale si era già pagati.

La vicenda entra in una spirale perversa, passano decenni prima che se ne venga a capo. Alla fine la colpa si riduce ad un illecito di scarso valore e tutti sono riabilitati, ma intanto la rovina era fatta.

In età già avanzata, ecco l’autore del libro che lo presenta alla stampa. Gli fanno da sfondo il Modulo Lunare e due manichini debitamente attrezzati che simulano la discesa sul suolo lunare

Jim Irwin si ritirò subito e andò in pensione, Dave Scott rimase, ma ebbe comunque gravi ripercussioni nella carriera.

Worden, invitato a lasciare la NASA e a rientrare nei ranghi dell’Aeronautica, dove la sua carriera sarebbe stata comunque compromessa, ci pensò sopra per alcuni giorni. Poi, il suo carattere indomito si rifiutò di subire la conseguenza di una stupida leggerezza indotta più che altro dall’intraprendenza del suo comandante. Lui aveva solo acconsentito per rispetto gerarchico, ma non aveva mai pensato di lucrare su una cosa del genere.

Perciò decide di rifiutare l’invito e di passare al contrattacco.

Chi leggerà questo libro vedrà come si svolgono i fatti negli anni successivi.

Il danno era fatto, ma…

Giusto per la cronaca, in questa missione c’è stato anche un altro elemento di rilievo che Worden mette bene in risalto. Dave Scott e Jim Irwin, durante i giorni passati sul suolo lunare, si sottoposero ad un lavoro estenuante. Il loro cuore si era talmente affaticato da preoccupare gli scienziati a terra già durante il volo di rientro. Infatti richiesero loro di indossare sempre un sensore per tenerli sotto controllo continuo. Senza comunque rivelare che almeno Jim rischiava una attacco di cuore in ogni momento.

Dave Scott si riprese abbastanza bene. Irwin no. Ebbe problemi, subì interventi chirurgici e alla fine, nel 1991, solo venti anni dopo essere tornato, morì di infarto. Nella sua vita successiva alla missione Apollo e al pensionamento si era dedicato interamente alla religione. Della quale non aveva mai parlato prima. Strani effetti della Luna.

Senza dubbio l’Apollo 15 ha tante cose particolari che lo caratterizzano. Al Worden ne parla diffusamente.

Ma ce ne è anche una che riguarda l’ultima parte della fase di rientro, quando si devono aprire i paracadute che frenano la caduta della navicella fino al cosiddetto splashdown sull’oceano.

Prima che la capsula tocchi l’acqua è necessario scaricare il carburante rimanente, quello che alimenta i piccoli getti di stabilizzazione. Si tratta di un elemento chimico tossico. Meglio non rischiare che una eventuale perdita contamini l’acqua. Di solito si scarica nell’atmosfera, dove i forti venti di alta quota disperdono tutto.

Stavolta i venti non ci sono e l’elemento tossico e corrosivo finisce sui paracadute. Uno di questi si deteriora. Grandi buchi si allargano sulla calotta, che si affloscia.

Ecco la famosa foto che ritrae lo splash-down con l’apertura di solo due paracadute su tre disponibili. Era il 7 agosto del 1971 e la navicella si trovava più o meno al centro dell’Oceano Pacifico, 330 miglia a Nord di Honolulu, nell’arcipelago delle Hawaii. Ad attenderli c’era un elicottero lanciato dalla nave USS Okinawa

Anche un secondo paracadute incomincia a bucarsi, ma per fortuna la navicella ammara prima che succeda il peggio.

Su Youtube si trovano i video sulla discesa della navicella. Uno dei paracadute è quasi chiuso.

Oppure, per chi volesse approfondire l’argomento, ci sono tante foto, filmati e articoli sul sito www.alworden.com.

Una frase conclusiva che sintetizzi tutto quanto esposto sopra?

Un gran bel libro.

Vale la pena cercarlo e scaricarlo sul Kobo. Anche se per farlo dovesse essere necessario comprare anche il Kobo.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)



Didascalia della Redazione di VOCI DI HANGAR

 

Nota della Redazione

Tutte le fotografie presenti in questa recensione sono state prelevate gratuitamente dallo splendido sito web Apollo archive che vi invitiamo a visitare in lungo e largo. Troverete centinaia di scatti a colori e in bianco e nero che ripercorrono le missioni Apollo nonchè le pre e post Apollo. Ricco di didascalie e di ulteriore materiale collaterale, è un sito divulgativo cui non smetteremmo mai ti attingere. Perchè se è vero che la storia, per essere viva,  deve essere vissuta, ebbene siamo certi che questa è la migliore opportunità offerta a coloro che vogliano farlo davvero



 

Forever young

titolo: Forever Young.  A life of adventure in air and space –  [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]

autore: John W. Young e James R. Hansen

Prefazione di: Michael Collins

editore: University Press of Florida

ISBN: 978-0-8130-4209-1

Anno di pubblicazione: 2012





Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.

Una fase molto delicata del decollo dello Space Shuttle quando, raggiunta una quota già elevata e una fortissima accelerazione, i due booster (i razzi laterali che forniscono la mostruosa spinta necessaria per sfuggire alla gravità terrestre) si sganciano dal sebatoio centrale. Da notare i fumetti posti sulla sommità dei razzi laterali che consentono loro di divaricarsi allontanandosi rispetto alla traiettoria in vertiginosa salita dello Shuttle.

John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.

Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.

 

 

Gli Space Shuttle o STS (Space Transportation System, come piace tanto agli statunitensi, maniaci degli acronimi) furono lanciati in orbita per la prima volta il 12 aprile 1981 mentre portarono a termine la loro ultima missione il 21 luglio 2011 dopo aver effettuato 135 lanci dal Kennedy Space Center, Florida (il buon vecchio Cape Canaveral delle missioni Apollo). Dunque 30 anni di onorato servizio che non hanno risparmiato loro periodi di grande successi ed entusiasmo cui hanno fatto da contraltare periodi bui con incidenti, riduzioni drastiche di fondi, ritardi e modifiche del programma spaziale. Ad ogni modo, come nella migliore tradizione statunitense, ora gli Shuttle sopravvissuti fanno bella mostra in vari musei. Quello ritratto è l’Atlantis e si trova conservato proprio nel museo ricavato all’interno del John F. Kennedy Space Center da dove partì per l’ultima missione, appunto, del programma Space Shuttle. La statistica ci rivela che questo gigantesco aliante spaziale effettuò un totale di 33 missioni trasportando complessivamente 191 persone di equipaggio e trascorrendo nello spazio 306 giorni 14 ore 2 minuti. Non vi riveleremo il numero delle orbite che lo videro ruotare attorno alla Terra nè i milioni di chilometri percorsi … semmai potremmo ricordarvi che lanciò ben 14 satelliti e fornì un contributo fondamentale per la realizzaione della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Grazie, Atlantis!

John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.

Ho imparato moltissime cose, in questo libro.

 

La prima volta in cui lo Shuttle Columbia fu lanciato verso lo spazio per poi rientrare felicemente a Terra, ai comandi c’era proprio l’autore del libro: il pilota collaudatore nonché astronauta John Watts Young. Era con lui il solo copilota Robert Crippen e la missione era la STS-1. Non c’erano altre persone a bordo né carico pagante fatto salvo l’insieme di apparati utilizzati per il controllo e la registrazione di un’infinità di parametri di volo. Si trattava infatti di una mera missione di collaudo. A differenza delle navicelle fino ad allora utilizzate della NASA, non era stato possibile testare la navetta con comandi remoti benché fossero stati effettuati diversi i voli nell’atmosfera grazie al Boeing 747 ritratto in questa foto in volo, scortato dai jet della NASA. Come previsto il Columbia atterrò in volo planato sulla pista ricavata nel lago Rogers, un bacino asciutto dove aveva (e ha tuttora sede ) la base dell’Air Force di Edwards in California, e per la prima volta nella storia dei programmi spaziali della NASA, non occorse recuperare in mezzo all’Oceano la capsula discesa sulla Terra grazie al sistema a paracadute.

La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di Space Shuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.

Le dimensioni dello Space Shuttle sono facilmente intuibili se raffrontati a quelli di un velivolo noto come il Boeing 747 Jumbo jet o alle dimensioni “umane” del manovratore al suolo. A giudicare da questo primo piano dell’Endeavoir non si tratta proprio di una pulce. L’istantanea fu scattata presso il Kennedy Space Center nel settembre 2012 in procinto di trasferire la navetta presso il California Science Center di Los Angeles. Quel trasferimento costituisce virtualmente l’ultimo volo di uno Shuttle nell’ambito del relativo programma. Dopodichè solo musei!  Foto della NASA/Bill Ingalls

Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.

Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.

E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.

Quando si parla di Space Shuttle, inevitabilmente vengono alla memoria i tanti film prodotti dall’industria cinematografica statunitensi che hanno visto quali protagoniste queste navette. La prima pellicola che ci ritorna in mente è il visionario “Moonraker – Operazione spazio” del 1979 in cui un disinvolto 007- James Bond (interpretato da un mirabile Roger Moor) scorrazza nello spazio a bordo di uno Shuttle. E così i suoi amici e nemici; tutti dotati di Shuttle come fossero gli scooter del futuro. Ma il film più pirotecnico che rammentiamo è “The core”, uscito nelle sale nel 2003 e ricco di effetti speciali notevoli. A causa di una spaventosa tempesta eletrtomagnetica, lo Shuttle Endeavour in fase di rientro nell’atmosfera, si trova a 129 miglia dal previsto luogo di atterraggio (la base di Edwards in California). Che fare? Solo grazie al sangue freddo del comandante di missione e all’intuizione del suo copilota (donna), metterà le ruote (o meglio la pancia) nel canale artificiale Los Angeles nel cuore della popolatissima Los Angeles, appunto. Un inizio di film ad altissimo tasso di adrenalina che, normalmente, vi lascerà a bocca aperta e deglutizione azzerata. Bellissima la simulazione (?) di quanto accade allo Shuttle durante il rientro in atmosfera.

Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.

Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.

Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.

 

 

Nella storia del programma Space Shuttle furono ufficialmente costruite sette navette. Il Challenger rimase distrutto durante il lancio del suo decimo volo nel gennaio 1986. Perirono i sette membri dell’equipaggio. Il Columbia segui la sua stessa sorte durante il suo rientro in atmosfera nel febbraio 2003. Era quello che aveva svolto i primi voli di collaudo. C’era poi il Discovery che è l’Orbiter che ha inanellato il maggior numero di voli. E’ quello ritratto in questa fotografia.Ricordiamo poi l’Atlantis, quindi l’Endeavour che fu costruito dopo la perdita del Challenger. A loro si aggiunge l’Enterprise che è stato il primo Shuttle utilizzato per sperimentarne il trasporto sul dorso del Boeing 747 e che poi ha effettuato prove di vibrazione e le verifiche delle procedure di montaggio. Non è mai andato nello spazio, tuttavia è stato donato al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington. Infine c’è il Pathfinder, una sorta di clone di un vero Orbiter, identico in termini di peso, dimensioni e forma. Venne utilizzato come simulacro per verificare alcune procedure di gestione a terra.
Esiste poi anche una copia dell’Orbiter originale mai usata né per test né per missioni. Si tratta dell’Explorer.

Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.

Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.

Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).

Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.

Prima di riuscire a lanciare nello spazio una macchina volante e, al contempo, una navetta spaziale così avveniristica, la NASA intraprese un programma lungo, travagliato e particolarmente oneroso che ebbe inizio già nel ’69, praticamente all’indomani del grande successo della missione Apollo 11 che permise all’umanità a mettere piede sulla Luna.
L’idea di base dello Shuttle – occorre ammetterlo – era geniale nella sua semplicità tuttavia, quando il salto tecnologico/ingegneristico è così immenso, le difficoltà che si incontrano, inevitabilmente, sono altrettanto immense.
Certamente la NASA fece enorme tesoro degli studi condotti sugli aerorazzi X-1 e X-15, divenuti famosi per aver volato a velocità e a quote per allora impensabili, per non dire “insuperabili”.
Anzitutto sperimentò l’idea di velivoli a fusoliera portante, quindi quelli con ala a delta … ma per arrivare anche solo a definire le specifiche dello Shuttle (da dare in pasto alle ditte aerospaziali) occorsero anni.
Oggi una macchina volante di nuova ideazione prima vola per alcuni mesi, al massimo qualche anno, nei computer degli studi di progettazione: se ne analizzano scrupolosamente i comportamenti e le caratteristiche di volo e si provvede alle opportune modifiche senza aver costruito praticamente nulla. Tutto virtuale, tutto simulato elettronicamente, tutto assolutamente verosimile tanto che i voli di collaudo confermeranno quasi completamente comportamenti e caratteristiche di volo previsti da progetto … ma all’epoca, era tutta un’altra storia. E poi c’era la necessità di materiali nuovi, di soluzioni tecnologicamente nuove mai sperimentate fino ad allora: una sfida immane che ricordava quella – vinta – che aveva consentito alla missione Apollo 11 di scrivere una pagina di storia. Idem per il programma Space Shuttle, nel bene e nel male.
In questa foto dai toni romantici si può vedere lo Shuttle Carrier Aircraft (il famoso 747 modificato) che trasporta lo Space Shuttle Enterprise al tramonto. Che sia stato uno scatto profetico?

Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno Shuttle Orbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.

It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.

 

[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].

Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.

Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.

La patch della prima e dell’ultima missione del programma Space Shuttle. Oltre ai nomi dei membri dell’equipaggio, è facile notare come siano presenti in ciascun logo rispettivamente la lettera ALFA e la lettera OMEGA. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. L’inizio e la fine.

La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.

Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.

Un’altra splendida immagine che pone il risalto l’accoppiamento Space Shuttle-Jumbo jet. L’idea, in verità non era del tutto nuova nella storia dell’aviazione … ma lo era in astronautica o in cosmonautica (detto alla sovietica)

Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.

Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.

Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.

Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.

Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.

Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.

Quasi tutte, però, sono state ignorate.

Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.

Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.

Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.

E non dimentichiamoci che il signor Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortale accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – è stata utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia

Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.

Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.

Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.

Un giovane John Watts Young in posa per la foto di rito prevista per tutti gli astronauti del programma Apollo. In realtà egli aveva cominciato quale membro del programma Gemini e terminerà la carriera con il programma Space Shuttle. In effetti, all’inizio della sua carriera professionale, era stato pilota della US Navy e, prima ancora di arruolarsi, aveva studiato tecnica del volo presso il Georgia Institute of Technology laureandosi con il massimo dei voti.

Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.

L’autore in posa davanti allo Shuttle durante una cerimonia di commerazione del XXV anniversario del primo lancio della navetta. L’evento si tenne nel 2006 presso il Kennedy Space Center. Young aveva lasciato definitivamente la NASA dopo 42 anni di servizio alla splendida età di 74 anni. Nel 2012 ci ha regalato questa pregevole autobiografia mentre ci ha lasciato per sempre alla venerabile età di 87 anni a causa di una banale polmonite

E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.

Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.

Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?

[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].

Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.

Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.

Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.

E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR