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Icaro

– Paolo! Rientra, per favore – urlava nonna Carmela. Lui sarebbe pure rientrato. Stare su un cornicione al settimo piano e soffrire di vertigini non è il massimo della vita. Solo che c’era un problema. Nonna Carmela era morta da un mese d’infarto e l’aveva vista coi suoi occhi quando l’avevano chiusa nella bara. Scosse la testa, riflettendo, poi con un’alzata di spalle decise che forse questo non era così importante, e che sarebbe rimasto fuori ancora per un po’. Certo che tirava un bel venticello, lassù, e le antenne della TV oscillavano a destra e a sinistra chiamandosi l’una con l’altra nel loro linguaggio misterioso e segreto fatto di vibrazioni e cigolii metallici. La più alta era quella della famiglia Rossitti: una volta fatto l’abbonamento a Telepiù il sig. Paolo (il tizio pieno di tic che quando c’erano le riunioni di condominio tirava sempre fuori un lavoro nuovo da fare, perché lui era geometra e queste cose le sapeva, e suo cognato aveva un’impresina che con poca spesa …) non si era voluto rassegnare al fatto di abitare in una zona disgraziata, dal punto di vista televisivo, e pur di poter vedere almeno le ombre dei calciatori, al posticipo della domenica sera, piano piano aveva tirato su un traliccio che per forma e dimensioni ricordava in modo inquietante la Tour Eiffel. A parte il freddo, e la paura del vuoto, ciò che più dava fastidio a Paolo era d’essere a piedi nudi, soprattutto per la circostanza che i cornicioni sono posti molto frequentati dai piccioni, e si sa che quelli sono bestie insolenti e maleducate, quando gli scappa gli scappa, e non vanno tanto per il sottile. – Allora, Paolo! Ho già messo la cena in tavola! – provò ancora la nonna, e stavolta Paolo fu tentato davvero di rientrare, anche se più dei richiami, ad agganciarlo era stato il delizioso profumo della parmigiana di patate. Capì che se avesse esitato ancora alla fine avrebbe finito per rinunciare, e sarebbe ritornato mestamente al davanzale della finestra e, dal davanzale, in casa. Così, tirato un profondo respiro e preso il coraggio per i capelli, spiccò il salto nel vuoto. Doveva battere le braccia, con movimenti ampi e profondi, ma non frenetici, accompagnando il gesto con la ritmica spinta delle gambe, un po’ come quando stai nuotando, ma con la differenza che per volare è necessario che tu senta dentro di te d’essere diventato davvero più leggero dell’aria … Ma che tu non abbia mai, mai, e poi mai paura di cadere! Era un po’ di tempo che non lo faceva, cosicché all’inizio Paolo faticò alquanto a governare le traiettorie aeree, e ci mancò meno d’un pelo che non finisse con l’impigliarsi nei fili stesi tra le finestre ad angolo della signorina Milvia. Non che gli sarebbe dispiaciuto moltissimo, per dir la verità, perdersi in quella moltitudine di mutandine e reggiseni di pizzo, di calze e sottovesti trasparenti, dove avrebbe respirato, lo sapeva bene, il profumo di gelsomino e di femmina che con così poca parsimonia effondeva intorno a sé quella splendida donna in fiore … Ma il pensiero della professoressa Bruni che si affacciava dal balcone del soggiorno sorprendendolo così combinato, scrutandolo di traverso con lo sguardo riservato in classe agli alunni che scopriva impreparati alla lavagna, lo convinse rapidamente a esibirsi in una plastica virata e a puntare in alto, verso l’attico dell’avvocato Pedroli. Eccolo lì, il principe del foro, intento a godersi beato il fresco della sera in terrazzo, circondato dai suoi fiori, in calzoncini hawaiani e Lacoste celeste, regalmente affondato in una elegante e comoda sdraio ergonomica. Sorseggiando con voluttà un cocktail talmente guarnito da ricordare un angolo di foresta tropicale, sfogliava pigramente una rivista illustrata tenuta aperta in grembo. Paolo si fermò, appeso al parapetto come se fosse il bordo di una piscina: aveva sempre ammirato la classe dell’avvocato, i suoi vestiti fatti su misura, le cravatte di Gucci, le morbide scarpe d’alce e la Mercedes grigia metallizzata. Insomma, un bell’uomo abbronzato d’estate e d’inverno, illuminato da dentro dalla nobiltà della cultura, del potere e dei soldi. Ma la luce rossastra e obliqua di quell’interminabile tramonto era ancora sufficiente perché Paolo, che aveva sempre avuto dieci decimi, potesse distinguere la copertina di ciò che stava leggendo l’eminente signor Pedroli. KIDS era il nome della rivista, e sotto la testata, stampate su costosa carta patinata, spiccavano foto di ragazzini nudi ritratti in pose oscene e … Un incombente conato di vomito gli fece perdere l’equilibrio, precipitandolo nel nulla, e solo all’ultimo istante, poco prima di spaccarsi il cranio contro la ringhiera del balcone del secondo piano, Paolo ricordò di conoscere l’arte di volare, raddrizzandosi con un abile giravolta e planando dolcemente verso la strada. Solo che non era proprio la serata giusta, evidentemente, perché giù c’era il ragionier Tajani, che passeggiava con il walkman sulle orecchie, sparandosi in vena rap a tutto volume, e chissà cosa avrebbe detto vedendolo atterrare così sul marciapiede. E fosse stato da solo, almeno! Invece no: i suoi cani, due dobermann muscolosi e feroci, neri come le ore di mezzo di una notte nuvolosa e senza luna, trotterellavano intorno annusando qua e là per stabilire quali fossero gli angoli più adatti per marcare il territorio. Lo sentirono subito, alzando verso l’alto occhi tanto brillanti da forare l’oscurità incipiente della sera e zanne incredibilmente bianche e appuntite. Lo aspettavano senza abbaiare (quegli assassini non gradiscono irritarsi la gola, prima di uccidere), ma accompagnando la lenta discesa di quel succulento boccone con un ringhio sordo frammezzato da guaiti acuti e impazienti. – Eilà, non sono mica la vostra bistecca! – protestò Paolo, scalciando furiosamente e riuscendo infine a frenare a neppure un metro dalle fauci spalancate. Riprese lentamente quota, esausto, e improvvisamente il richiamo della parmigiana di patate si fece irresistibile: rientrò dalla finestra del bagno, che aveva lasciata accostata. Tirò lo sciacquone, tanto per dare un tocco di classe a tutta la storia, lavò diligentemente le mani con una delle saponette alla rosa comprate alla Standa, nei sacchetti da dieci, poi girò la chiave nella toppa e come se niente fosse si incamminò lungo il corridoio. – Sono qui, nonna. – annunciò, facendo il suo ingresso trionfale in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata con la tovaglia azzurra dei giorni di festa e il servizio di porcellana con i fiorellini lillà che piaceva tanto a Paolo. – Buon compleanno, tesoro. Mangia tutto tu, io non ho appetito, stasera. – lo accolse con la cara dolce voce sdentata nonna Carmela, sollevando il busto dalla cassa di mogano foderata di velluto rosso adagiata sui cavalletti accanto al divano. Paolo trovò la cena effettivamente deliziosa.

Il soffio continuo e monotono del respiratore artificiale si accompagnava benissimo al ronzio elettrico delle altre apparecchiature che, attraverso gli aghi infilati un po’ dappertutto nel corpo di Paolo, lo mantenevano in vita da quasi dieci anni. I medici avevano detto che era stato un miracolo che fosse sopravvissuto a un incidente del genere: lo scontro frontale di un motorino contro una betoniera pesante parecchie tonnellate, una sfida che di solito non lascia speranze. Era successo il giorno in cui la Signora Maria, la donna che tre volte a settimana andava a fare le pulizie, aveva trovato sul tappeto finto persiano dell’ingresso la vecchia Carmela, fulminata dallo scoppio dell’aorta. Il padre e la madre di Paolo se n’erano andati quando lui frequentava ancora le scuole medie, visitati e fagocitati a un anno di distanza l’uno dall’altra dallo stesso indesiderato ospite: un carcinoma allo stomaco, piuttosto aggressivo e fetente. Quindi, poiché la nonna era l’unica parente che gli era rimasta al mondo, com’era logico che fosse il ragazzo era andato a vivere a casa sua: affezionandosi a lei sempre di più, scoprendo nell’anziana donna, giorno dopo giorno, una creatura energica e tenera allo stesso tempo, in possesso, al di là dell’enorme differenza d’età, della sensibilità necessaria per comprendere e condividere i suoi problemi d’adolescente. Ci sono diversi modi di dare una brutta notizia, e quel mattino piovoso, che puzzava prematuramente d’inverno, era stato scelto il peggiore: durante l’ora di geografia era entrato in classe il bidello che, con aria circospetta, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio dell’insegnante, svignandosela il più in fretta possibile dalla porta lasciata socchiusa. Il professor Grimaldi si era passata la mano sulla fronte, poi, gravemente, con lo sguardo diretto al pavimento, si era rivolto agli alunni: – Ragazzi, è successa una cosa molto triste, per la quale vi chiedo di stare vicini al vostro compagno. Pasini, ascolta … – “ Pasini? Sono io, Pasini! “ era stata l’unica cosa che aveva pensato Paolo prima di alzarsi, comprendendo ogni cosa all’istante, sgusciando in fretta dal banco senza nemmeno raccogliere lo zainetto, correndo via schivando le braccia protese del professore, verso il cortile, verso il suo Ciao incatenato ai tralicci del canestro nel campo di basket.

Si era risvegliato sei mesi dopo l’incidente. La prima cosa che aveva visto era stato il volto di un’infermiera bionda, bello come quello di un angelo. Ma non aveva creduto di essere in paradiso: nello stesso momento in cui aveva ripreso conoscenza aveva lampeggiato, nitidissimo, il ricordo del mostro d’acciaio che usciva dalla curva, proprio sulla sua direttrice di marcia. Aveva stretto i freni così forte da capire,prima dell’impatto, d’essersi slogato invano un polso. – Che ore sono? – avrebbe voluto chiedere all’angelo. – Quanto tempo ho dormito? – ed era stato lì che si era accorto di non riuscire a parlare, e che, quando aveva tentato di sollevare il capo, aveva verificato per la prima volta che non succedeva proprio niente. Ma si sa che le creature celesti, siano serafini o cherubini, hanno il potere di leggere nel pensiero, perché, stando a quel che si dice, ne ricevono la delega direttamente da Dio.

– Non posso crederci, ti sei svegliato, alla fine! E’ un evento prodigioso, un miracolo! Ricordati bene la data di oggi: ore 10 del mattino del 17 marzo 1987 … – aveva quasi gridato lei, incredula. Ma più incredulo di lei era rimasto Paolo, visto che l’incidente era capitato il 26 settembre dell’anno prima. – Certo che ti sei fatto un bel sonnellino. Aspetta qui, caro, e non muoverti … – Le mani a schermare il volto improvvisamente imporporato dalla gaffe piramidale. – … ehm, scusami, non so più neanch’io quello che dico. Vado subito a chiamare un dottore. – E prima che si allontanasse, Paolo aveva fatto in tempo a notare due lacrime affacciarsi dagli occhioni lucidi.

Quando i medici gli avevano detto quali erano e quali sarebbero state, fino alla morte, le sue condizioni, Paolo l’aveva già capito da un pezzo: spina dorsale spezzata, paralisi totale e irreversibile. L’unica cosa che da allora l’aveva tenuto attaccato a quella specie di vita era stata l’estrema risorsa di potere flippare via con le sue fantasie oniriche ogni volta che lo desiderasse. C’era il sogno di guerra, in cui lui era il comandante di un esercito invincibile che con imprese mirabolanti sistemava tutte le ingiustizie del mondo, punendo dittatori e politicanti malvagi e corrotti. Poi c’era il sogno d’amore, naturalmente con Angela (per ironia della sorte, si chiamava proprio così!), la dolce infermiera: mille passioni travolgenti, mille vite felici vissute insieme, in ogni epoca e sotto ogni latitudine. E l’esploratore, l’investigatore, l’astronauta, il grande maestro di scacchi … Ma era il sogno del volo, quello che lo prendeva di più.

Che cominciasse sul cornicione di casa, sulla cima di un monte, sulla sommità di una torre … era sempre il più affascinante, perché poi non era Paolo a governarlo, come le altre fantasie, ma, sempre diverso, andava avanti ogni volta secondo un disegno che sembrava sfuggire completamente al controllo della volontà: spesso assolutamente surreale, talvolta triste, talvolta persino angoscioso, ma proprio per questo più simile alla vita vera. Un moscone nero e carnoso ronzava più forte delle macchine che da tremilacinquecento giorni si sostituivano a reni, cuore e polmoni. Stava arrivando la primavera, e l’insetto era molto indaffarato nelle sue faccende, così come vuole natura. Passò e ripassò a pochi centimetri dalle pupille sempre aperte dell’uomo immobile nel letto. Poi gli si posò sulla punta del naso. “ Tutti i miei sogni darei. “ pensò Paolo. “ Tutti. Solo per poter muovere le labbra una sola volta e scacciarlo via di lì con un soffio. “ Ma non poteva farlo, naturalmente. Poi il moscone spiccò ancora il volo. Paolo lo seguì con lo sguardo, finché fu nel suo campo visivo. Per ritrovarsi alla fine, ancora una volta, a fissare l’intonaco bianco del soffitto. “ Sono io, quel moscone. “ decise. E ripartì l’antico mito di Icaro.

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Patrizio Pacioni

Icaro

Poche volte, dal mare, arrivavano i profumi che ne conosceva. Da quando era stato rinchiuso, con suo padre, nel palazzo del Minosse, solo il vento che viene da sud gli aveva talvolta fatto sentire quella fragranza, che le onde sempre portavano a casa sua. I suoi giorni erano innumerevoli, perché non sapeva contare se non quello che portava con sé una differenza mentre laggiù, nel buio della sua prigione, le differenze fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, i quali languono per l’eternità nel nulla e nel vago, erano state ridotte al puro battito del suo cuore, non parendogli i rari gemiti di scoramento di suo padre molto diversi da quelli che nell’Ade anime più vecchie già emettevano. Il suo cuore, dunque, era l’unico legame col vivente che era stato, e che si ostinava ad essere. Aveva già consunto i suoi calzari aggirandosi, come le belve si aggirano, per gli oscuri meandri che nemmeno suo padre, l’architetto Dedalo, poteva dir di conoscere davvero. La paura, che nei primi tempi aveva provato pensando al mostro, anch’essa l’aveva abbandonato. Pure quella, che insieme al dolore tanto distingue i morti dai viventi, al suo posto non rimanendo che l’abitudine, i gesti spontanei che rapidamente aveva appreso per sfuggire la bestia. Il dolore, dunque, era l’unico legame col mondo di un tempo. Il dolore di quando, non sapeva dir se di giorno o di notte, sussultando si svegliava e ricordava. Era un dolore duplice; quello che la natura infligge, giacché molto si vuole più di quanto s’abbia, e certe cose naturalmente si sente di desiderare; e quello che Icaro da sé a sé stesso dava, crudelmente, nel rigirar la lama nel ricordo che, come ferita improvvisa, gli s’apriva nel cuore. Ma qualche volta, si era domandato se quel dolore, trattando di cose che non eran più, non lo rendesse maggiormente simile agli spiriti la cui natura, lui di sangue e carne, con orrore guardava. E allora picchiava i pugni per terra, e si graffiava e si tirava i capelli, cose queste, sì, che nessuno spirito poteva. Suo padre Dedalo, vecchio di anni e d’esperienza, lo guardava con tristezza le volte in cui, non resistendo oltre, dava in grida incaute o picchiava contro i muri troppo solidi per essere abbattuti. Aveva accolto quietamente la notizia della condanna, senza proteste e senza lottare. Icaro capiva la mancanza di lotta: lui era giovane, e sbuffando, gridando, sbavando e lottando aveva fino all’ultimo opposto tutto il suo vigore, di una vita che non voleva finire, ai carcerieri che lo rinchiudevano; suo padre non avrebbe certo potuto. Ma opporre un grido, o un pianto, o una supplica, o meglio una maledizione ai suoi tiranni, era cosa che Dedalo ben poteva, lui esperto nelle parole come nel lavoro delle mani, così come in tutte quelle cose a metà fra il mondo degli uomini e il cielo degli dei. Da quando erano stati rinchiusi, Icaro così passava le sue giornate, o quello che credeva esser tali: imprecando il fato e rimpiangendo la sua vita. Dedalo invece, raccolto appena possibile ogni pezzo di legno, ogni brano di stoffa, grattati i dipinti sui muri, strappato tende e sollevate assi, aveva piano piano costruito qualcosa. Aveva anche lungamente osservato, dai pochi pertugi del soffitto, le mutevoli luci che ad Icaro parevano dettate da un cielo capriccioso al pari di chi l’aveva rinchiuso. Dedalo aveva spiegato al figlio le ragioni di luci maggiori in quella che doveva esser notte, rispetto a certe luci che del giorno non avevano sembianza eppur lo erano. I corpi celesti, che Icaro non conosceva, davano al padre notizie abbondanti. Così, come certi vecchi che passavano i giorni, sulla porta di casa, a lamentar le occasioni perdute, il giovane Icaro lamentava di non saper conoscere un po’ più delle cose, mentre il vecchio Dedalo, che le cose aveva imparato, alle volte levava lo sguardo, tendeva l’orecchio, o assorto considerava qualcosa che solo lui sapeva, anche nella prigionia traendo ricca fonte di esperienza. Icaro, piuttosto, dedicava il suo tempo a studiare percorsi, e inganni, e atti di forza da intraprendere contro le guardie, quelle che ogni tanto aprivano l’unica entrata per gettar dentro gli sventurati giovani Ateniesi. Questi rimanevano a lungo contro la porta ormai chiusa a spander lamenti e dannazioni, così attirando l’orrido mostro che li avrebbe divorati. Anch’egli, nel furore della nuova prigionia, avrebbe subito tale sorte, se non che Dedalo, con un tono di urgenza che il figlio sapeva intendere, gli aveva detto di muoversi, e lui s’era mosso, alla cieca nell’oscurità, verso il solo posto che suo padre sapeva sicuro. Del mostro, non avrebbe saputo descrivere che i rumori. Quando chiese a suo padre se davvero fosse figlio di una donna e d’un toro, se davvero avesse testa cornuta, Dedalo, che rideva poco, era scoppiato fragorosamente e fra le risa aveva rimbrottato il figlio. “Figlio mio – gli aveva detto – se crederai all’impossibile, non saprai mai scoprire le cose possibili.” Volendosi giustificare, Icaro aveva chiesto: “E cosa, padre, è possibile, e come faccio a saper che lo è?” “Hai un servo che te lo può dire, – gli disse il padre nuovamente serio – anche se talvolta s’inganna. Ma per fortuna c’è un sapiente e quello, se è fedele servitore, non sbaglia quasi mai. Infine c’è un giudice che giudica l’operato dei due, e se non tarda le sentenze, raddrizza quasi tutti gli ultimi errori.” “E qual è il mio servo, che non lo conosco, o padre? E qual è quel sapiente che non avrebbe di meglio che servire il mio servo? E qual è quel giudice che perderebbe tempo a giudicare il lavoro d’un servo e d’un sapiente scriteriato?” “Oh scriteriato che sei tu, figlio mio! Se tu sapessi di che sto parlando, avresti capito, ma la tua giovinezza finora t’ha portato altrove, e converrà che ti parli come si parla ad un bambino.” Quei modi, che da nessun altro anziano avrebbe tollerato, Icaro accoglieva volentieri dal padre, perché sapeva che erano l’inizio d’una spie­gazione. Disse dunque Dedalo: “Il tuo primo servitore è il cuore, figlio, e come i servitori un tantino intraprendenti, se non lo tieni a bada diventerà padrone della casa. Tu lascerai a lui, come si conviene, tutti i lavori, ma se non veglierai comincerà a fare a modo suo, e una casa comandata da un servo non ha mai fatto buona fine. Però, siccome è un servo di buona cervice, sarà contento di darti consigli, se gliene chiederai, e ti guiderà per le strade migliori.” “E il sapiente, padre?” “Se qualcuno venisse a dirti qualcosa, con che giudicheresti, altro che col tuo senno? Infatti non conosciamo ancora una sapienza, per quanto misteriosa, che rifiuti il consiglio d’un umano. Questo sapiente sa cose che il cuore dimentica, e allora serve che te le ricordi.” “Devo dunque valutare col senno quanto il cuore suggerisce?” “Certo, e dirimere le controversie che sorgessero fra i due.” “Il giudice, infine?” “Il giudice, che nel tuo caso manca, è l’esperienza. Tante volte capita che i servi ignorino, e che i sapienti sbaglino. Dunque c’è bisogno di qualcuno che ricordi se già una volta certe cose sono accadute, e dica come fu meglio comportarsi.” “Ma che razza d’esperienza può dirmi se il mostro è quello che di­cono?” “Hai mai visto un toro? E un uomo, l’hai mai visto? E quando è accaduto a te, che nascite ne hai pur vedute, di assistere alla nascita di un mostro?” “Se dunque non ho mai visto una cosa, quella cosa non esiste, padre?” “Se non hai mai visto una cosa, e viene uno e ti dice: “ho visto questo e quello”, allora è lì che puoi utilizzare servo, sapiente e giudice. Il servo decide se quella cosa è desiderabile, il sapiente decide se è possibile, il giudice decide se assomiglia a qualcos’altro. Quale cosa, nella tua breve vita, sembra un Minotauro?” “Nulla di mia conoscenza. Ho sentito però di molte strane creature che popolano paesi lontani, e perciò posso credere che esistano minotauri.” “Così risponde il servo. E come farebbe a vivere un mostro simile?” “In realtà non lo so. La testa d’un toro è tanto pesante che non si può sollevare. E poi i tori mangiano l’erba e non la carne umana.” “Questo dice il sapiente. E come risolvi il problema?” Icaro stette, il capo chino, privo di ogni idea. Come risolvere il mistero di un fatto che non si conosce, era cosa che non aveva ancora imparato. “Potrei, padre, avvicinarmi di più al mostro, tanto da vederlo, e giu­dicare da me se un tal fatto sia possibile.” Dedalo sorrise. “Correresti il pericolo?” “E perché non correrlo? Se voglio sapere qualcosa, è inutile che me ne stia a porre domande al vuoto. E in questa oscurità, la vita non vale più di una risposta.” “E fuori, Icaro figlio mio, quanto vale una risposta?” Ancora una volta, Icaro pensò, giacché il vigore della sua giovinezza non gli impediva, contrariamente a molti, di fermarsi a pensare. “Credo – disse lentamente – che ogni risposta conduca da qualche parte. Se dunque voglio arrivare ad una meta, una risposta val quanto la meta.” “E se non sai dove la risposta conduca?” “Come qui, padre: sapere che sia il mostro, non mi condurrebbe da nessuna parte, tranne forse tra le sue fauci. Ma per credere che anche qui, morto a tutti tranne che a me, posso far qualcosa dei giorni che passano, immagino che lo farei.” “Allora anche fuori potresti decidere che un rischio si possa correre.” “Non rischiamo forse ogni atrocità solo nascendo?” La risposta era piaciuta a Dedalo, e l’argomento era terminato così. Icaro continuava a smaniare, Dedalo raccoglieva tutto il possibile, sottraendo al mostro le offerte e il cibo che veniva introdotto nel palazzo con le vittime umane. In questo, suo figlio era solerte aiutante, giacché si trattava di sfidare la causa prima della loro prigionia. “Padre, – aveva chiesto un giorno – se noi uccidessimo il mostro, potremmo uscire?” “Probabilmente sì, figlio, – aveva risposto Dedalo, mentre come sempre era intento alla costruzione di qualcosa – ma solo per morire a nostra volta.” “Ma la nostra morte a che servirebbe?” “A far che non si dicesse: il terribile mostro, a cui i figli ateniesi era­no dati in pasto, è morto miseramente. Sarebbe una cosa in meno da temere, e chi governa con la paura non lo permetterebbe.” “In fondo non è la cosa peggiore. La flotta ateniese non è stata distrutta da un mostro, ma da una flotta più forte. Lo so bene, dal momento che ho partecipato alla battaglia decisiva, fra i primi a metter piede sulla nave nemica.” “Chiedi ad un uomo qualunque se preferirebbe finire ucciso in combattimento tra i flutti, trafitto dalla spada di Icaro, oppure essere fatto a brandelli dalle mandibole di un mostro in un palazzo oscuro.” “Nella battaglia c’è almeno onore.” “Questo dice il servo, – aveva risposto Dedalo, sogghignando – che dice il sapiente?” “Che in battaglia si può anche vincere.” Dedalo aveva storto la bocca. “Che è morte meno atroce” aveva aggiunto Icaro. Dedalo aveva fatto un gesto, come per dire: va meglio, ma non è tutto. Icaro aveva pensato. Cosa può dire il proprio senno di ciò che non conosce? “Ecco, padre! Nessun uomo di senno affronta una morte ignota.” “Così va bene, figlio. E ciò spiega anche perché il mostro sia rinchiuso.” “Non per il suo terrificante aspetto?” “Solo in parte. Se il mostro si aggirasse in un qualche luogo della terra, lo vedrebbero in molti, e dopo averlo visto, smetterebbe di far così paura. Chi si spaventa di cosa vista a lungo?” “Dunque, la paura del mostro sarebbe anche peggiore del mostro stesso?” “È così” aveva risposto Dedalo, piuttosto soddisfatto di avere un figlio che non solo poneva domande, ma che pure cercava le risposte. Icaro, però, non si contentava di parole. Il palazzo che abitavano era abbastanza vasto, da suggerire in lui qualcosa di somigliante a quando, libero e vivo, amava aggirarsi fuori dalle mura, in luoghi che i cittadini evitavano. Anche allora i luoghi più impervi, o quelli meno noti, lo richiamavano maggiormente, dandogli come la speranza che in un anfratto, dietro un cespuglio, oltre una collina, ci fosse la risposta a domande che non aveva ancora saputo porre. Andava solitario, perché non aveva trovato, fra gli amici, alcuno che volesse come lui sondare l’ignoto. Già in città ne parlavano, dandosi di gomito mentre passava, come di un originale, che per qualche ragione voleva farsi notare. Non bastava che avesse combattuto per terra e per mare, che fosse stato fra i migliori atleti, né che avesse sempre partecipato ai riti propiziatori, lanciandosi contro i tori senza paura per un salto oltre le corna che era puntualmente fra i più alti. Ma questo ad Icaro non bastava, mentre avrebbe fatto la felicità di tanti suoi concittadini. Aveva disprezzato tutto quello che faceva, perché altri avrebbero potuto farlo, e perché, ancor prima che fosse finito, sapeva esattamente cosa sarebbe successo: qualcuno sarebbe vissuto e altri sarebbero morti; un atleta avrebbe vinto e gli altri perso; oppure quel giorno il toro avrebbe ancora inutilmente levato le corna al cielo, senza voler raggiungere altro che le membra giovani mentre lo scavalcavano. Icaro, che credeva alla grandezza degli dei, non riusciva a vedere in quegli animali, furiosi e impotenti, un’immagine adeguata della divinità. Gli aveva detto suo padre Dedalo che forse erano immagine degli umani, dagli dei scavalcati senza problemi. Ma neppure gli umani si comportavano come un toro sacro. La maggior parte non alzava il capo, e gli dei non avevano difficoltà a passar sopra le loro teste. Chi lo faceva, era per forare il cielo. Ma il cielo, beffardo, non mostrava segno di essere stato ferito. Icaro, dunque, aveva spesso visitato luoghi deserti. Non era la sfida dei briganti, anche se spesso ponevano maggior impeto nell’assalire soldati, la cui sconfitta li inebriava di gloria, che viandanti inermi capaci solo di fornire poche monete e poco cibo. Non era il bisogno di scalare un dirupo, per vedere se le sue mani erano ancora forti o le sue gambe spingevano ancora, o soltanto per il piacere che dà la percezione della propria forza. Non era mosso, Icaro, neppure dalla curiosità di sapere una cosa di più. Dedalo lo avrebbe fatto. Suo padre avrebbe speso molte vite per sape­re cosa ci fosse dietro una curva della strada. Icaro, che aveva avuto tutto ciò che comunemente era ritenuto dono degli dei, sapeva anche che gli dei non regalavano nulla di utile, e andava cercando cose utili in un mondo di cui nessuno aveva la chiave. Così nel palazzo. Icaro ne conosceva già gran parte, aveva imparato a sfuggire il mostro quando lo sentiva avvicinare. Sperava invece che l’oscurità, come una notte eterna, e l’assurdità del suo stato, lo portassero a capire qualcosa di quello che non si capisce in vita e, come raccontavano le favole, potesse acquisire quello sguardo che hanno le anime di chi, ogni lotta passata, poteva meglio considerare il mondo che aveva abbandonato. Ma, se mistero doveva svelarsi, non era fra quelle tenebre che si sarebbe svelato: Icaro ormai lo sapeva. Chiese un giorno a Dedalo: “Padre, se fuggissimo di qua…” “Vorresti tornare alla nostra città, figlio, o fuggire oltre Atene, nella terra dei lupi, o ancora più a nord, dove vivono popoli sconosciuti?” rispose Dedalo, scherzando, senza abbandonare il suo lavoro. “No, padre, non è questo che m’importa: ovunque possa vivere un altro uomo, lì potrei vivere anch’io.” “E cosa allora ti attrae, nell’idea di una fuga?” “Pensavo: come il sole potrebbe abbagliare i nostri occhi, abituati all’oscurità, così le nostre menti: non saremo abituati a pensieri diversi, non vedremmo le cose in altro modo?” “Penso che l’analogia degli occhi sia bene studiata, e vada approfondita. Vediamo: quanto tempo pensi che ci vorrebbe perché i tuoi occhi si abituassero alla luce?” “Una volta, con amici, scesi in una grotta. Ci restammo fino al tramonto, tanto che, all’uscita, la prima cosa che vedemmo fu proprio il sole che calava di fronte a noi. Restammo piuttosto a lungo, gli occhi chiusi, perché non ci riusciva di guardare. Quando li riaprii, il sole era del tutto sceso. Forse questo mi aiutò.” “Allora ti ci è voluto il tempo che abbiamo passato finora chiacchierando, più o meno.” “È così.” “Siamo qui da parecchio. Forse i nostri occhi vorranno più tempo. Diciamo un intero pomeriggio?” “Per quanto ne so, è possibile.” “E in tutto il periodo trascorso in questo luogo, hanno mai contemplato, quegli occhi, la luce di fuori?” “Padre, ti burli? Da quando siamo stati rinchiusi credi che avrei dato alla vista del sole il modo di essere nuovamente interrotta? Ho con me una spada, e l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stato uccidere un nemico alla luce del sole, piuttosto che risparmiare una vita perdendo di nuovo la mia.” “La tua l’avresti persa comunque, ma non è questo il punto. Dunque non hanno mai più contemplato la luce del sole, eppure entrambi pensia­mo che potrebbero riabituarsi ad essa.” “E anche con gioia, ritengo, in quanto ciò discende dalla stessa ragione per cui furon fatti.” “E io ritengo, Icaro caro, che anche senza di me ora potresti giungere alla risposta. Ma per il gusto di sentirmi utile, vi ti condurrò: quante volte hai pensato alla vita di là fuori?” “Tante, oh, tante volte!” “E non ti pare perciò che la tua mente sia abituata a ben minori periodi d’oscurità che non la tua vista?” “Ora capisco cosa intendi! Non ho abbandonato il pensare di laggiù!” “Esatto. Per tutto il tempo della nostra prigionia, non hai pensato mai da prigioniero, ma da libero, e questo va a tuo onore, ma per ciò stesso è poco probabile che il tuo pensiero sia stato modificato in modo tale da renderti diverso, una volta uscito. Non basta la varietà delle esperienze per dare varietà allo spirito, giacché lo spirito assai più si nutre delle proprie abitudini, e tanta è l’abitudine ai soliti pensieri, che alle volte si vive una vita pensando di viverne un’altra, e si aspetta solo un’occasione per essere quello che non si smette mai di volere. E questo spiega anche molta insistenza nei medesimi errori, che non si spiegherebbe se l’esperienza davve­ro cambiasse la gente.” “Ma non fosti tu ad insegnarmi che si deve imparare dall’esperien­za?” “Appunto, si deve imparare. Tu, dacché sei qui, e coi toni che qualche volta t’ho udito, di persona come morta, tanto che alle volte mi sono sentito davvero di piangere la morte di un figlio, così accorato pareva il tuo lamento, e so bene che non era solo la tua loquacità ben nota a darti le pa­role, cosicché io più la tua che la mia reclusione soffrivo, tu dunque, sei forse morto per davvero? No, aspetta, non mi rispondere, poiché ci sono domande che si fanno al solo scopo di far capire che la risposta è nota: no, tu non sei morto, né lo potresti, fino a che nei tuoi polmoni, l’aria con tanta forza è tratta. Né fino a che una lacrima saprai cavare dalla situazione. Tu, dunque, irrimediabilmente vivo, le cui narici fremono, le cui mem­bra si dibattono in mille modi, dando parvenza di lottare contro i muri come un tempo lottavi contro gli uomini; credi tu di avere acquisito anche un solo pensiero che sia simile a quello di un defunto? Vedi allora: non sei diventato quello che temi, pur condividendone le sorti. Pensavi che, uscito che fossi, saresti apparso a quelli di laggiù come un antenato, di quelli che risorgono nelle storie per narrare di avvenimenti passati o futuri? Pallido certo saresti, ma questo e nient’altro ti rassomiglierebbe a quanto temi.” “Padre, non so cosa provo. Se dici questo, e del tuo giudizio mi fido, significa che la morte, e l’oscurità, e l’isolamento, e l’impotenza, non m’hanno piegato. E che per questo, almeno, posso cantar vittoria su chi ci rinchiuse innocenti. È misera consolazione, temo, ma ho appreso a far della miseria una ricchezza, allo stesso modo degli occhi, che hanno imparato a far luce dell’oscurità. E nell’umido di queste pareti, per le tue parole sento un calore, dentro, qual poche volte il sole di Creta mi diede. Ma, e non so se è dubbio lecito o se le tenebre hanno preso un posto nel mio senno, nel contempo mi giunge improvvisa sensazione d’esser povero, se del mio stato non posso coglier frutti. Mentre, l’hai detto, temo le conse­guenze d’una vita così, pure vorrei trarne qualcosa, come dalle cose di fuori si trae. È solo sopravvivere, il nostro? O non abbiamo la speranza di imparare? Un perverso piacere sarebbe, lo capisco, dire d’aver appreso il pensiero dei morti, ma nel mio stesso apprendere vedrei il divenire che solo l’esser vivi concede, giacché, è opinione comune, chi è morto più non diventa.” Dedalo sorrise, e chiese, con aria più allegra: “Hai mai visto una pecora, Icaro?” “Padre, non ne avevamo tante, fuori di qui?” rispose Icaro stupito. “E ritieni di sapere qualcosa sulle pecore?” “Se non fosse così, direi d’avere sprecato molto del mio tempo.” “E ti è mai venuta la paura, stando loro dietro, che a forza di guardare pecore ti saresti trasformato in una di loro?” Fu Icaro, allora, a ridere. “Ti burli di me, dunque, ma cosa c’entrano le pecore?” “Vedi perciò che hai imparato qualcosa senza diventare una pecora. Chissà mai che tu non abbia appreso alcuna cosa sul mondo delle ombre, pur non essendo ombra tu stesso. Quanto si guarda in qualche modo si impara.” “Adesso ci sono. Le cose che ho pensato, e quel che mi sono detto in tutti questi giorni; tutto ho imparato, e tutto potrei riportare all’esterno. Se c’è qualcuno che può dire come sia l’Ade, questi sono io!” “E io, benché l’Ade paia più brutto a chi più da lungi lo teme. E questo, dunque, come lo chiami se non la tua esperienza? E come hai capito, non serve trasformarsi in alcunché per apprenderne i segreti.” Icaro, da quel giorno, o quella notte, o qualsiasi tempo fosse, poiché poteva anche essere che il sole avesse smesso di illuminare il mondo tanto ne era lontano il bagliore, visse la prigionia diversamente. Per la prima volta dacché era lì, vide il palazzo come un luogo e come il vero limite della sua prigione, mentre prima le mura lo stringevano nella mente sua prima ancora che nella loro solidità. E fu così che, meglio di prima, imparò a riconoscerne i luoghi riposti, i passaggi segreti, i collegamenti imprevisti: fu da quel momento, quel giorno o quella notte, che iniziò a sentirsi libero. “Padre – esclamò dopo giorni – credo di poter disegnare una mappa tanto precisa del palazzo, che se altri vi fosse racchiuso potrebbe sentirsi come a casa sua.” “In ciò superando tuo padre, visto che, una volta terminata l’opera, non mi curai di domandarmi se esistesse un motivo per ricordarne la forma.” “E credo anche che ci sia qualcosa che devi vedere. Troppe volte mi sono torturato in vane speranze, e prima di cedere a quest’ultima, voglio almeno sapere da te se la ritieni sensata.” “Icaro caro, non ti riconosco. Per anni la mia voce ti ha inseguito inutilmente mentre tu ti lanciavi per ogni direzione, e adesso chiedi il mio parere prima di muoverti? Vedi allora che neppure qui si vive inutilmente.” “Sì, padre, ma ora vieni con me, ché dobbiamo andare al piano superiore, in un quartiere di solito abitato dal mostro.” “E come facciamo? Hai forse trovato un modo per distrarlo?” “Non io, ma i nostri carcerieri. Se ho ben tenuto conto del tempo, e se quanto mi insegnasti sulla luce di fuori, io l’ho capito, oggi ci sarà un banchetto. E se il mostro si attarderà come di solito fra le spoglie delle vittime, avremo tutto il tempo di vedere e tornare.” “Troppi ‘se’ farebbero credere che il cuore sia divenuto il tuo tiranno, ma le condizioni che citi, anch’io le conosco, e sono del tuo avviso. Aspet­tiamo i soliti rumori di quando aprono il pertugio maledetto per cui passano le vittime. Sarà il momento buono per muoversi.” Non dovettero aspettare molto, e dopo i suoni della botola che si apriva, giunsero i lamenti dei condannati, tali che non si era dovuto studiare altro segnale per il mostro. Icaro aveva appreso da suo padre che quello, per meglio sorprendere i morituri, scendeva da una piccola scala, non unico passaggio alla loro meta. Si avviarono perciò lungo corridoi poco frequentati, in cui più acre era il sentore della bestia; v’era sporcizia più che altrove, e segno di rovina là dove s’era sfogata la sua ira. Icaro proce­deva innanzi, tra l’irruenza e la paura, siccome la rapidità dava al contem­po di addentrarsi nel maggior pericolo e di uscire da esso tempestivamente. Giunsero ad una stanza che pareva essere stata, nel volere degli arredatori, una camera da letto, ma che il tempo e la bestia avevan reso una stalla. “Icaro, è proprio questo il luogo?” “No, perché, inutilizzata, c’è una stanzetta vuota, in cui però noi due staremmo comodi e larghi. Lì ho sentito qualcosa, e voglio che tu lo senta con me.” C’era infatti uno strano passaggio, basso la metà d’un uomo, e per esso entrarono in quel locale. “È strano, figlio. La stanza non pare frequentata dalla bestia.” C’era infatti meno sozzura che altrove, in apparenza data solo dall’abbandono, senza le tracce animali di cui erano ampiamente ripieni i circostanti ambienti. “Anche questa è una combinazione favorevole per noi che dobbiamo rimanere qui.” “Eccoci, dunque, Cosa dobbiamo sentire?” chiese Dedalo, tendendo l’orecchio. “Non così, padre, ma con le nari. Annusa.” disse Icaro, e prese a respirare vigorosamente, mentre una luce balenò per un istante nei suoi oc­chi. Icaro non permise però che l’entusiasmo in lui salisse oltre il livello di una vaga aspettativa. Anche Dedalo annusò, e rimase ad occhi spalancati. “Mare!” disse, ed annusò più forte. “È così. Ora che pure tu me lo confermi, poiché credevo di scambiarlo con qualche sentore di qui, dobbiamo capire donde viene, e se l’odo­re significa che da questo lato è più vicino il mondo.” “Aspetta, ora ricordo. Avevo avuto…” disse Dedalo, ma fu interrotto, angosciosamente, dalle urla di almeno due persone, due giovani sembrava, che dovevano allora avere visto per la prima volta il Minotauro. Stettero i due in silenzio per un attimo, in quanto la pietà per le misere sorti non s’era attenuata coll’abitudine, ma poi Dedalo riprese, ché bisognava far presto. “Avevo avuto molte difficoltà, me lo rammento, perché nella zona su cui costruire c’era un terrapieno naturale, e sotto il mare che saliva con ogni sua onda, tutte le volte che c’era tempesta. Le prime pietre posate sulle rocce franarono, e dovemmo a lungo rinforzare. Ma può essere che la forza del mare, e il vento, che spira in questa direzione, insieme abbiamo ripreso la demolizione. E se qualche benedetto operaio avesse malamente posato alcune pietre, potremmo sperare in un punto di cedimento.” “Dunque è proprio come speravo: di qui una breccia è possibile!” disse Icaro, al massimo dell’eccitazione, ma in quel momento sentirono un suono che li agghiacciò. Il mostro, presto sazio o forse incontentato e furente, si stava avvicinando: lo capirono dalla vicinanza del rumore. “Presto – fece Dedalo – allontaniamoci.” Si gettarono verso la bassa porta, poi attraversarono la maggiore che dava su di un corridoio; si voltarono per la via donde erano giunti, ma l’ombra del mostro li precedette alla curva. Subito diedero indietro, e non potendo giungere all’altra estremità, si tuffarono nello stanzone da cui erano usciti. “Padre – bisbigliò Icaro – qui dentro il mostro riposa. Sta venendo.” Senza che fosse necessaria risposta, i due si gettarono verso la porta bassa, ma neppure così pensavano di essere sicuri. Icaro fece un salto e si aggrappò ad un trave, fra due colonne basse e tozze. A cavalcioni, si abbassò tendendo un braccio a Dedalo che, non troppo malandato, riuscì a sollevarsi. In quel momento capirono che il Minotauro era entrato nel luogo del suo giaciglio. I due rimasero, senza fiatare e nemmeno respirando, a spiare i rumori provenienti dall’altro locale. Due volte ci fu un urlo altissimo, come già ne avevano uditi ma sempre in lontananza. In quel buio, in quella po­sizione, Icaro temeva il suo cuore, rumoroso com’era. Pensava, Icaro, e pensava ai troppi giovani cui aveva voltato le spalle, sapendone la sorte. Pensava che, se morte doveva essere, si dovesse precedere con qualcosa, qualcosa di speciale, come quando, terminando un discorso, se ne dice la sentenza più importante, frutto e meta d’ogni altra parola. Pensava a quale fosse, della sua vita, ciò che la concludeva, e se cruccio dovesse provare non avendola. “Padre – pensava Icaro – a che pensi? Qual cosa lasci tu che non vuoi lasciare?” E la sua mente andò al­lora al luogo sicuro in cui Dedalo, da parecchio, aveva ammassato oggetti e costruitone altri. Ma i suoi pensieri tornarono subito a sé, alla sua vita, di cui non sapeva che fare mentre, pareva, qualcosa ne aveva pur fatto. Cosa avrebbe voluto, lui, non lasciare di quanto stava lasciando? Poiché la morte gli pareva solo questione di momenti. E fu allora che ebbe come un fremito, troppo forte l’impressione che provava: non c’era nulla, in tutta la sua vita, che avrebbe voluto riavere. Certo, le molte soddisfazioni e i tanti piaceri, erano cose a lui care. Ma di tutti i fatti che il suo cuore avevano scaldato, ogni cosa contenuta nella sua mente, era nulla paragonato al contenitore stesso. Gli vennero in mente le battaglie, in questo simili allo stato presente nell’eccitazione e nello spavento del destino imminente. Ebbene, anche in battaglia, se poi si celebravan gli eroismi e le vittorie, non per queste si combatteva, ma per la propria vita, e prova ne era che quella fosse, per vincitori e vinti, fino all’ultimo duello, la maggior preoccupazione. Chi vinceva, aveva solo pensato ad uccidere chi la sua vita minacciava. Chi perdeva, ugualmente si riteneva fortunato per il fatto di tornare a casa. E se veniva catturato, dava volentieri la sua spada per vivere da schiavo un certo tempo, piuttosto che morire combattendo. Ma qui fu brutalmente Icaro ricondotto al presente, datosi che proprio l’esistenza del mostro aveva certo cambiato il modo di pensare, almeno da parte ateniese. Chi avrebbe rinunciato a combattere per incontrare le atroci fauci? Passò un lungo tempo. Il mostro s’era addormentato, e Dedalo az­zardò una parola. “Dobbiamo uscire, Icaro.” La cosa riprecipitò suo figlio nel timore. Uscire significava passare di fianco ad una belva affamata. Strinse l’elsa del lungo pugnale che, amaramente, aveva raccolto da terra chissà dove, un giorno: poteva mai bastare? “Sì, – rispose – dobbiamo uscire, e uccidere il mostro.” Dedalo gli batté piano sulla spalla. “Dobbiamo uscire, e sarà meglio mettere la maggiore distanza tra noi e il mostro.” disse, poi cominciò, aiutato da Icaro, a scendere. Icaro lo seguì e per primo, cautamente, azzardò la testa fuori dalla porta. Il mostro stava davvero dormendo, poiché il suo respiro non era mai così regolare quando vegliava. Icaro e Dedalo passarono vicinissimi all’e­norme forma accucciata, nuda e confusa nel buio, senza il coraggio di attardare lo sguardo su di essa. Fu un coccio a tradirli. Un piede vi strascicò sopra producendo un forte stridìo. I due uomini si trasformarono in statue, ma la loro immobilità fu tragicamente scossa dall’urlo selvaggio del mostro, che si levò, voltandosi verso di loro. Icaro pure si volse, ormai rassegnato, piuttosto che deciso, a lottare, ma ciò che vide lo paralizzò di nuovo. Se almeno avesse avuto testa di toro! Ma era troppo umana per rigettarla come bestiale, e troppo abnorme per accettarne lo spavento. La testa enorme si allargava in quello che solo un gioco crudele aveva rassomigliato a corna, e la bocca non era d’erbivoro, larga e pronta a colpire dall’alto di una mole gigantesca. Fu solo per caso che Icaro avesse in mano il lungo pugnale, e fu solo l’istinto di un gesto altrimenti inutile, mentre il mostro assaliva, a fargli levare le braccia. Il Minotauro, colpito alla gola, si inarcò e cadde all’indietro, mentre anche le grida di Icaro e Dedalo si spegnevano fra gli echi. Rimasero entrambi fermi, mentre si consumava la breve agonia. Poi, muti, contemplarono il misero spettacolo di quella forma, un istante prima minacciosa nella sua sola presenza, ora tristemente esposta in una non più terribile difformità, quasi penosa. L’essere, visibilmente giovane, da morto aveva mutato ogni specie del suo aspetto terribile in immagine di indifesa impotenza. Il sudiciume che lo ricopriva era adesso segno di debolezza, nei propri confronti, quanto prima era parso di spregio, nei confronti altrui. I muscoli, che ancora sembravano tesi a colpire, non suscitavano ormai che un senso di eccesso, lungi dallo spaventare, ma come cosa ingombrante e fuor di misura. I due guardarono, ora senza timore, la testa esagerata e, senza più ravvisarne alcunché di orrendo, furono mossi a compassione per l’incongruità, la scomoda forma, e forse anche il peso eccessivo che l’essere ne doveva sopportare. Con un senso di vergogna, padre e figlio uscirono rapidamente, trovando in tutta fretta la strada del loro nascondiglio, ormai non più neces­sario come tale, ma familiare per il gran tempo trascorsovi. Come chiunque avesse colpito l’opera degli dei, se ne stavano increduli, timorosi che il forte spavento fosse stato troppo breve, che non avesse un seguito. Eppure pareva loro che un fatto del genere, unico, sovrumano, non potesse re­tare così, senza epilogo, un segno che ne sancisse la natura e a proclamare ch’era davvero avvenuto. Era anche il senso d’incompletezza, che si prova sovente alle cose che avvengono senza preavviso, come se, non essendovi preparati, un rito iniziatorio fosse mancato. Come se si fosse entrati in un luogo sacro senza dovuta preparazione, i due sentivano che non c’era stata adeguata introduzione all’avvenimento, pur esso di una brevità eccessiva. Icaro poi, che aveva sempre vantato il suo valore, si trovava ad aver compiuto il massimo gesto della vita sua in un modo addirittura casuale, di cui nessuno avrebbe potuto, in onestà, vantarsi. Dedalo che, se mancava ormai di forza muscolare, non era privo di spirito combattivo, fu il primo a riaversi, forte anche del fatto che aveva qualcosa da fare, e che adesso sapeva come. “Icaro, figlio mio, non possiamo perdere altro tempo. Se dovessero aprire la porta, e accorgersi di quello ch’è successo, le nostre vite sarebbero perdute. Ma, grazie alla tua scoperta, penso che il mio lavoro qua dentro possa dare frutto. Vieni.” Dedalo precedette suo figlio in un canto, e ne trasse degli oggetti di forma lunga, ricoperti di stoffa e dal complicato meccanismo di legno. “Queste, vedi, sono ali.” “Ali? E di che uccello sarebbero mai?” “Siamo noi gli uccelli. E queste ali ci permetteranno di andarcene.” “Padre! – esclamo Icaro al colmo dello stupore – hai costruito ali per degli umani? A tanto ti portava il pensiero della prigionia? Ma un essere umano non può volare.” “È quello che sapremo se ti deciderai ad indossarle.” rispose Dedalo, e raccolse il suo paio. “Vedi come si mettono, e vedi come funziona? Muovi le braccia, e il tuo movimento è accresciuto dal meccanismo, fino a darti la potenza di ali vere. Sono di legno le ossa, di stoffa le piume, il tutto legato con solide fu­ni.” “Padre, non sarebbe stato meglio disporre di cera per incollare tutto? Sarebbero state più leggere.” “Oh, imprudente figlio! Non sai tu che la cera fonde facilmente? Se, dopo aver superato l’altezza degli alberi, il sole troppo vicino la scaldasse, rapido precipiteresti. Adesso aiutami: dobbiamo tornare nella stanza lag­giù a vedere se davvero sia possibile farsi un’apertura sul mare.” Icaro, che tutto avrebbe fatto men che tornare laggiù, chiese: “Non potremmo arrampicarci per uno di quei condotti che portano sul tetto? Se da lì ci lanciamo, è la stessa cosa.” “No, perché terminano tutti dal lato rivolto alla città, e sono bassi, sulla parete. Abbiamo bisogno di lanciarci dall’alto, sfruttare il vento che sale e ci porta in su. Solo così si potrà volare, e questo problema aveva reso insonni molte delle mie notti. Eppure, nella speranza di una soluzione, ho costruito le ali, che ora vengono a proposito.” Si avviarono dunque ancora una volta verso la stanza del Minotauro, ma l’assenza del rischio, e il ricordo dei fatti precedenti, rendevano ad Icaro curiosa la strada, come fosse il sogno di un fatto avvenuto, che nel so­gno si trasforma in altre cose e perde il suo significato. Tutto quanto in­contrava, ora che aveva tempo e spirito per guardare, sembrava quasi nor­male, e avrebbe detto di trovarsi in un palazzo come tanti, simile a quello in cui il Minosse teneva la sua corte. Era perfino accogliente; ridicolo, in questo, al pensiero dell’inutilità di tanto sforzo. Giunti alla stanza dove il Minotauro giaceva, Icaro non poté a lungo guardarne il cadavere, preso da una malinconia per l’essere che con tanta rapidità aveva mostrato la sua debolezza, privo del suo maggior potere che era la paura. Entrarono nella stanzetta, e cominciarono a cercare se ci fosse una crepa più grande. Fu una ricerca breve, perché da un angolo in alto videro una forte lama di luce, segno che la vicenda s’era svolta di notte, e che adesso era l’alba inoltrata. “Questa stanza guarda ad est. Non è la direzione giusta – disse Dedalo – ma le ali dovrebbero permetterci di girare senza sforzo.” S’erano messi a far leva tra le pietre visibilmente sconnesse, per la prima volta lavorando senza timore di farsi sentire. La novità della cosa dava loro energia, e Icaro con un bastone s’aiutava a spingere. Vennero giù rapidamente alcuni grossi blocchi, e la stanza fu inondata di luce. Icaro, che era davanti, ebbe un gemito e si voltò. “Forse questo temeva il Minotauro, e perciò non frequentava la stanza. – disse Dedalo pensieroso – Forza dunque – aggiunse dopo aver guardato fuori – questo è un punto ideale per lanciarsi.” Rapidamente, quasi di furia, indossarono le ali. Fecero alcune prove per controllare che funzionassero, e si trattò, a quel punto, solo di provare. “Qual dio dovremo invocare, – disse Dedalo esitando – dato che abbiamo violato un fenomeno divino?” “Padre, se c’è un dio che amava il Minotauro, ce n’è senz’altro uno che lo odiava in ispregio a quello. Invocheremo dunque il dio sconosciuto che c’ha tenuti in vita fino ad ora, e quelli che vorranno salvarci d’ora in poi. Io non conosco altra via d’uscita, e questa prendo.” E così detto, si lanciò. -°0°- Passò un secolo, poi un altro secolo, poi finalmente Icaro sentì frenare, e dette d’ali, e rovesciò la testa indietro per riprender quota, mentre lentamente planava verso il mare. Temendo di toccare, mosse di nuovo le braccia, alzandosi, e poi non capì più nulla. Stordito dalla velocità, come di cavallo veloce, privo d’altro appoggio che le sue braccia incastellate nel vuoto, ebbe un riso disordinato. Non sapeva smettere, per la paura adesso e per divertimento dopo, mentre pigliava coraggio e pigliava velocità. Quando si fu ripreso, e fu difficile, volle provare una curva, e con molta cautela, poiché sempre era stato temerario, ma sempre aveva avuto i piedi a terra e sempre aveva saputo cosa aspettarsi, abbassò un braccio a mo’ di remo, mentre con l’altro dava più spinta. In un entusiasmo crescente, scoprì che la manovra riusciva, e gli sovvenne di gridare a suo padre. Lo cercò verso il mare, poi verso il palazzo, ma non lo vide. Notò infine un puntolino diretto alla città, e si spaventò: era il vento che lo trasci­nava, o privo di forze per l’età non arrischiava il supero del mare? Volle raggiungerlo, e mentre Dedalo andava lentamente lui, dando di braccia con forza, lo raggiunse in breve tempo. “Padre, dove corri? Là c’è la città, là sono i nemici nostri.” gridò con quanto fiato aveva. La voce affaticata di suo padre gli rispose. “Quella è la nostra città, e non possono esserci nemici. Abbiamo ucciso il loro mostro, quel Minotauro che fu causa della nostra prigionia, ed ora ce ne torniamo in volo, come dei, e neppure il Minosse potrà pensare che tutto ciò sia male.” Detto questo si abbassò, dove già una quantità di gente s’era riunita. C’era clamore, sotto, alla vista dei due uomini volanti. Dedalo, con tutto il fiato che aveva in gola, chiamò: “Uomini di Creta, il Minotauro è morto, e noi siamo usciti in volo dal palazzo.” La gente di sotto uscì in un gran fragore, altri si avvicinarono e in breve, sotto i piedi dei due volatori, era stipata l’intera città. Dedalo discese, fu inghiottito dalla folla e accompagnato entro le mura. Icaro rimase, indeciso se scendere ponendo fine al volo che lo aveva inebriato. Ancora una volta, i fatti lo avevano sorpreso con la loro imprevedibilità. Trovò una guglia di roccia brulla e si posò, come se abbassarsi ancora significasse capitolare agli eventi. Cos’era successo? D’un tratto, uno dei due volatori, colpevoli di fronte agli dei di aver ucciso un essere sovrumano, e fuggiaschi di fronte agli uomini, era diventato a sua volta un sovrumano fenomeno celeste, e anziché ricevere punizioni era stato accolto e anzi prelevato in pieno entusiasmo da una folla festante. Quale doveva essere il peso che quel palazzo sigillato, quell’essere rinchiuso, quei prigionieri sacrificati, facevano sopportare alla loro città! Ma Icaro, questa volta, non sapeva accettare la fretta degli eventi. Guardo giù, dove suo padre era disceso, e nella piana ormai deserta scorse i rottami delle ali, ormai inutili e dimenticate. Sentì in lui un indicibile rimpianto: questo e non altro era il destino delle straordinarie invenzioni umane, di essere abbandonate non appena altro di più allettante si presentasse. Non avevano valore per sé, prova di ingegno che nessun altro animale possedeva e che pure molti dei potevano invidiare; erano solo il modo che un umano escogitava per rientrare fra i suoi simili, e come Icaro stesso, una volta, non s’era mai posto altro problema che quello di primeggiare, per ottenerne il plauso, così adesso il vecchio saggio Dedalo aveva perfino scordato di magnificare al popolo entusiasta lo straordinario mezzo che l’aveva salvato. Ma Icaro era vissuto fra le tenebre, lamentando la lontananza degli uomini e il freddo di mura chiuse al sole. Icaro aveva contemplato da lontano il sorriso degli amici e gli occhi delle più belle ragazze di Creta, che un tempo l’avevano amato. Aveva a lungo ricordato l’eccitazione delle battaglie, la gioia delle gare vinte, la solennità dei riti. Aveva speso le sue la­crime nel rimpianto di quel che non aveva più, e delle molte cose che pensava di non poter mai ottenere. Quanta vita sentiva che gli era ancor mancata! Ora, tutto ciò appariva in colori smorti, sotto il sole nuovo che anco­ra l’abbagliava. D’un tratto, sentì molte voci chiamarlo. Sulle mura, in una gran folla, c’era suo padre Dedalo, a fianco nientemeno del Minosse in mezzo alla sua corte. C’erano bandiere bianche e multicolori, che dall’avvento del mostro erano state bandite. Lo chiamavano tutti, pronti a far festa insieme a lui. Era l’uccisore del Minotauro, uno degli eroi da festeggiare. Ma venne in mente ad Icaro, che anche Atene avrebbe avuto di che festeggiare: nell’entusiasmo, avrebbero di corsa allestito una flotta, sarebbero corsi sull’isola, per fare scempio di chi senza cuore aveva sacrificato i loro giovani. E che sarebbe stato della gloria d’oggi? Icaro allargò le ali, sicuro così di far tacere il clamore. “Uomini di Creta, – gridò forte – Dedalo, padre mio, e tu, Minosse, ascoltate. Non di eroi stiamo parlando, neppure di un’avventura straordinaria, ma, a parte queste ali che il più abile fra i cretesi seppe fare, tutta questa storia altro non è che una serie di casi fortuiti, in cui nessun uomo sulla terra può dire d’avere avuto iniziativa. Siamo stati tutti vittime dei fatti, e io, come mio padre e la città intera, mi sono trovato a fare quello che non sapevo e a vivere come non volevo. Uomini di Creta, quanto da voi stimato una forza, si era trasformato in incubo, e il terrore che il Minotauro doveva incutere sui nemici si è rivoltato contro di voi, precipitando la città nel lutto. Così, avete tratto il male che non sapevate, nel tentativo di trarre a vostro vantaggio le stranezze della natura, ignorando la pietà. Tu, Minosse, che salisti sul trono proprio quando il Minotauro spandeva la sua ombra: il tuo nome era stato nelle generazioni associato all’isola dei colori, e il tuo regno, ricco e felice, era come una luce lontana per i barbari del continente. Oggi, quando si fa il tuo nome, si pensa ad un tenebroso tiranno, quale ti sei dovuto trasformare tuo malgrado. Cretesi, la vostra forza risiedeva nel valore, ed io ben lo so, avendo accompagnato tutti voi nelle vittorie. Oggi non uscite più in cerca di bottino, per il timore dell’odio altrui coalizzato, e i commerci ne soffrono. Dedalo, padre mio, tu hai appena riacquistato la libertà, e l’hai conquistata volando, come nessuno prima aveva saputo fare, e che ne è delle tue ali? Giacciono sotto di me, abbandonate e rotte. Quando, fra alcuni anni, racconterai ad un passante di essere l’uomo che per primo spiccò il volo come un uccello, e questo ben prima ch’io mi lanciassi, ma già quando nel chiuso della cella concepivi l’ardita invenzione, quel passante se ne andrà ridendo, e dirà che i Cretesi le raccontano grosse.” Lo stupore aveva preso quelli della città, più per l’ardire che per il senso delle parole. Icaro riprese. “Che sarà di me, o cretesi, verrò anch’io fra di voi tra le mura, a bere e ridere con chi mi aveva sepolto? E rideremo insieme della mia risurrezione, tentando di dimenticare? Sarebbe dunque tutto accaduto invano, solo un inciampo nel corso di tempi altrimenti quieti e allegri? Ma potranno mai essere allegri i tempi di chi è morto e sa che di nuovo dovrà morire?” Detto questo, e poiché non aveva più voglia di indugiare, nuovamente si lanciò nel vuoto, accompagnato dall’urlo della folla e da un sobbalzo del suo cuore. La prima volta, lanciandosi, Icaro aveva fatto seguire al proposito il gesto: meglio morti, aveva detto, che ancora prigionieri delle ombre. Sta­volta, se era sicuro del meccanismo, l’aspettativa del turbamento già provato lo prese alla sprovvista. Non attese come l’altra volta, ma subito diede d’ala per aggrapparsi al vento, e prima dell’altra volta trovò l’assetto e la direzione. Rapido scavalcò le mura, più per stupire che per necessità; ricordando la partenza del primo volo, cercò la direzione del mare a nord, a fa­tica riconoscendo i tratti di un terreno che da sotto gli era stato familiare. Dimenticata la città coi suoi affanni, passati e futuri, improvvisamente fu conscio delle meraviglie che sotto di lui si dispiegavano. Ebbe gli occhi affamati di vedere, spalancati sopra campi, boschi e fiumi, tutto troppo piccolo, tutto rapidamente scomparso per lasciare il posto a nuova vista. Dava vigorose bracciate, per l’entusiasmo di correre come mai nessuno era corso, e una bracciata più forte lo innalzò di poco, dandogli a vedere il cielo. Quella vista, se già era inebriato, lo annichilì. Il cielo era sopra di lui, ma più vicino a lui che a chiunque altro. Non ebbe dubbi sulla direzione da seguire, e se laggiù qualche dio l’aveva aiutato, sarebbe andato direttamente a rendergli grazie. -°0°- Il padre, vedendo da lontano la direzione presa da Icaro, uscì in un lamento. “Figlio mio! Dove vuoi andare? Troppo in alto ti levi, e le ali non sono fatte per questo. Che vuoi dunque, toccare il cielo, e a che scopo? O vuoi trovare il senso delle cose di quaggiù, tu che tanto t’interroghi? Scendi, ché tu non abbia a pentirtene: sai quanto è alto il cielo, o che direzione prendere lassù? Dovrai salire almeno fino al tramonto, prima di toccare la volta, e allora, troverai un appiglio, o pensi di trapassarla? Oh, di questo ti ritengo capace, so che trapasseresti anche queste mura, se lo credessi utile; ma non tentare la grandezza degli dei, che sono gelosi e ridono degli umani. Hai detto bene, qui nessuno fu protagonista della vita sua, ma vuoi esserlo tu della tua rovina? Scendi, finché sei in tempo!” Così diceva Dedalo, le braccia tese avanti, gridando, mentre i cretesi, uno ad uno, si allontanavano turbati. Ma Icaro non sentiva, e già il puntolino ch’era diventato scompariva, dietro una nuvola o dietro un lembo di cielo aperto. Icaro, follemente, correva incontro a quell’azzurro che, nella sua grandezza, non gli dava a capire quanto lontano fosse. Cominciò a sentire freddo, raggiungendo le prime nuvole. Smise di vedere il terreno, e per un attimo provò lo stesso panico provato di quando, da ragazzo, s’era allontanato a nuoto e s’era perso in mare, conscio dell’infinito abisso sotto di lui. Abisso di sopra, abisso di sotto, un uomo stava cercando di sondarne almeno uno, il più luminoso, nel tentativo di capire il senso delle cose; o forse per l’illusione giovanile che vedere fosse possedere. Icaro non sapeva qual fosse il motore che lo agiva, ma solo spingeva d’ali, per arrivare lassù, ovunque fosse. Quando arrivò al di sopra delle nubi, Icaro prese a sentire più caldo, alzò lo sguardo e si accorse che il sole splendeva subito dietro di lui. Ebbe un altro moto di timore, al pensiero che il carro di fuoco potesse raggiungerlo e bruciarlo. “Se ho caldo, il sole è già molto vicino.” si disse, ma non riuscì a distinguere nel bagliore alcuna forma di carro o di cavalli; fece per alzarsi ancora, ma i suoi occhi, inesausti, s’erano posati su un’altra meraviglia di quel viaggio. Le nuvole, bianche, enormi, erano sotto di lui, quasi del tutto simili a quelle che si vedevano da terra, tanto che per un po’, fino a che non eb­be le vertigini, Icaro si dilettò ad immaginarle di sopra, e lui che volava ro­vesciato. Guardò con attenzione, per vedere se potesse scorgere alcuna forma umana o divina su di esse, ma non ne vide. Si rammentò di poco prima quando, inconsapevole, ne aveva attraversato la struttura eterea, come di fumo. “Le nuvole sono di fumo, le nuvole sono di fumo!” Ecco qualcosa per cui fosse valso il viaggio. Lui solo le aveva viste da vicino, le favolose nuvole, che apparivano e scomparivano sopra le teste degli umani, ed erano solo fumo! Oh, se la sua mamma avesse immaginato, quando scoperchiava il pentolone! Non c’era bisogno di vedere esseri celesti perché il fiato si mozzasse in gola: a perdita d’occhio, in tutte le forme, si stendeva la meraviglia di quel tappeto, che avresti detto soffice e invece era nulla. Il sole traeva ombre curiose dai picchi maggiori sulle piane circostanti, e spiaceva ad Icaro non vedere esseri celesti, tanto quel panorama gliene sembrava adatto. Icaro si sentiva più libero che mai. Passò un bel tempo, lassù, perché aveva imparato a sfruttare la sua velocità in discesa per salire ancora. Ma quando si sentì stanco, pensò con sgomento che non sapeva come scendere! Vero, aveva planato, ma erano stati voli brevi e brevi discese aveva fatto. Adesso, l’idea di quello spazio da attraversare lo spaventava più dell’idea dell’abisso marino l’altra volta. Si diresse senza indugio verso il prato bianco, ma prima ancora di averlo raggiunto sentì che la pesantezza alle braccia gli impediva altri movimenti. Pensò di ripiegare le ali, ma acquisì all’improvviso una gran velocità, ebbe paura e le ridistese. Così planando, riuscì a riveder la terra, ma ebbe in tal modo più netta l’impressione di esser troppo alto, troppo lontano dalla salvezza. “Ancora, ancora” si ripeteva, dandosi coraggio da sé visto che era troppo lontano perché altri gliene desse. I muscoli gli dolevano, gli scendevano lacrime di rabbia. Il terreno però si avvicinava, dando ad Icaro la speranza di farcela. Nel timore di precipitare, Icaro aveva anche lo scorno di non essere andato più in su. Era tutto così vuoto, il cielo degli dei! E avrebbe voluto sapere se sopra a quegli dei tanto evanescenti fosse qualcosa di più solido, ma non aveva potuto. Discese dunque Icaro, tanto più velocemente di quanto avrebbe voluto, e non potendo scegliere la direzione. Sotto di lui, si distinguevano ora boschi e colline che non conosceva, d’aspetto straniero. Di mare, del mare che aveva sempre visto, nessuna traccia. Icaro cominciò a sudare, tendendo muscoli che più non si muovevano. Gridava per gettare anche il suo cuore nella lotta, e il grido gli ritornava spossato in gola. Quando giunse ad una distanza da terra pari all’altezza che la prima volta aveva sfidato, le ali a brandelli non lo sostenevano e i muscoli a pezzi non lo seguivano più. Cercò ancora di diriger la caduta, verso un prato che intravedeva di tra il sudore e le lacrime, ma fu tra una selva di rami d’albero che andò a sbattere, impotente e rassegnato. -°0°- La donna che sola, del gruppo, ebbe il coraggio di avvicinarsi, aveva sempre avuto per prima il coraggio di fare le cose. Non avrebbe temuto nessun messaggero celeste, o almeno non ne avrebbe dato l’impressione. Siccome era rimasta sola nel muovere verso la visione, poté rallentare il passo senza testimoni che ne commentassero l’esitazione. Il cuore le batteva forte, ma volle ignorarlo, almeno finché non vide, riverso su un cumulo di foglie, un essere di aspetto umano, ma curiosamente addobbato di stecchi e brandelli di stoffa, da parere le ali intraviste lassù. Il cuore allora le batté più forte, perché dava l’impressione di essere robusto, e fiero, e recava sul viso, dietro la maschera di un forte dolore, il segno di una passione inquieta. Era stranamente bruno per essere venuto dal cielo, scuri i capelli e scura la pelle, neri gli occhi aperti in un’espressione di doloroso stupore, tanto da parer più un essere degli inferi di sotto. Giaceva riverso, appena in grado di respirare, vivo e sveglio ma inebetito dalla caduta. Col poco fiato che gli rimaneva, mormorava qualcosa in una lingua straniera. La donna prese il suo capo fra le mani, pulì i mol­ti graffi e le ferite, le bagnò e ricoprì d’unguento, finché l’uomo non si riprese. Icaro, dopo lo sbalordimento d’esser vivo, tentò di mettere a fuoco la bianca visione. Era come una donna, ma i capelli chiari, raccolti in molte onde, gli ricordarono le nuvole viste lassù; cercò di carezzarli ma dovette rilasciare il braccio, dolorante. Allora guardò di nuovo, e vide che aveva una pelle bianca, più chiara anche di quella delle donne di Atene. Gli sor­rideva, e parlava una lingua strana, che suonò gutturale alle orecchie di Icaro. Disse qualcosa, ma non seppe cosa e svenne.

Nel tempo che l’uomo del cielo stette dormendo, la donna aveva continuato a guardarlo. Lo aveva liberato, cautamente, dei resti di legno che lo cingevano, e temendo fossero cosa non buona, aveva bruciato ogni pezzo. Moriva dalla curiosità di sapere chi fosse, timorosa però che al risveglio si rivelasse spirito cattivo. Le storie della sua gente pullulavano di ostili divinità recanti il terrore negli accampamenti, durante i lunghi e bui inverni. Ma se era una divinità, s’era talmente bene camuffato da recare sul volto tracce della passione umana, e questo, si diceva lei, non poteva succedere, perché cosa muova un essere umano nella sua inquietudine, potevano fa­ticare a capirlo gli stessi suoi simili. Quando Icaro si svegliò, vide ancora la donna del suo sogno, ma questa volta reale. Aveva strani occhi chiari, color del cielo, e i capelli era­no come li aveva sognati, simili alle nuvole viste dall’alto. E la pelle chiara gli ricordava il colore della nebbia quando, d’inverno, si faticava a vedere l’orizzonte. Rise tra sé, pensando che fosse lei, e non Icaro, discesa dal cielo. Esitò: era dunque finito davvero in quel mondo al di sopra delle nubi che gli pareva giusto esistesse? Ma l’odore forte di un fuoco di sterpi, il ruvido del suo giaciglio, erano troppo terreni per mantenere l’illusione. Ancora una volta, nulla dal cielo era apparso al questuante Icaro. Ma la donna poggiò una mano sulla sua fronte, disse qualcosa e gli sorrise. Il cuore di Icaro si infiammò per la prima cosa veramente bella che vedeva da tempo. Il cielo al di sopra era bello, si disse, ma non era luogo da viverci. Negli occhi di lei, invece, poteva trovare riposo un uomo stanco. Abbassò il capo e rifletté. Che fine avevano fatto le sue ali. Egli non avrebbe saputo ricostruirle. D’altronde non sapeva che direzione prendere per tornare a casa, e infine: era proprio necessario tornare? Quando un uomo ha volato fin sopra le nubi, scoprendo che il cielo non si lascia perforare tanto facilmente, non è giusto che torni a terra per riprendere contatto coi viventi? Icaro, l’uomo che dell’Ade aveva condiviso il destino, che era giunto tanto in alto da perdere la sua gente e la sua terra, non aveva il diritto di scoprire questo nuovo angolo di terra, accogliente e pacifico? Almeno finché le forze non gli avessero permesso di osare maggiormente. Ma per ora si sentiva stanco, e desiderava il conforto di dolci carezze. Si voltò verso il viso sconosciuto. Da dove poteva essere mai giunta una figura come quella? Sembrava che gli dei, fin allora silenziosi ed ostili, avessero donato ad Icaro qualcosa della loro bellezza nella forma di una mortale. O che nel suo viaggio avesse trascinato a terra l’aspetto di lassù. S’ingannava? Nel cuore sentiva che non era così ma il cuore, gli avevano insegnato, talvolta segue il desiderio e non la verità che pur conosce. Pensò, cercando di essere lucido, che un umano subiva terribile sorte se rifiutato dagli dei, mentre lui era ancor vivo. E se gli dei non l’avevano ucciso, c’era speranza che ne avessero gradito l’ardire. Solo la saggezza di Dedalo suo padre, forse, avrebbe detto se era un dono, e privo di tranelli. Ma per l’esperienza c’era un tempo lungo quanto la vita, ed era troppo stanco anche per porre domande. Guardò negli occhi la donna e la salutò, come si conviene alle visioni: “Salve, donna fatta di cielo.” Lei non rispose che col sorriso. Anche lui sorrise, depose il capo e si riaddormentò.


#proprietà letteraria riservata#


Riccardo Baldinotti

Icaro

icaroChi non conosce il mito di Icaro, il suo epico volo su ali di legno ricoperte di piume e cera? … nessuno, credo. Chi ha immaginato invece una vicenda di notevole spessore, ispirata al mito immortale di Icaro, è il solo Riccardo Baldinotti. Dice l’autore a proposito del suo racconto:

“Sono piuttosto contento di avere scritto Icaro, mito riveduto e corretto con polemica nei confronti degli dei che non amo. Il lungo inizio vede un prigioniero porsi domande: cosa è la prigionia? E cosa è il morire? La fuga vede ribaltare dubbi e certezze.”

Per noi, comunque, Icaro rimane il primo uomo volante nella storia dell’umanità. Perché, anche se è un prodotto di pura fantasia, ancora oggi rimane intatto il suo alone di superuomo volante, il fascino del temerario che raggiunge il cielo. Ed è questo che preferiamo leggere tra le righe del racconto.


Narrativa / Lungo Pubblicato nel sito personale dell’autore ( rikky1.interfree.it )