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Il pilota beone



Il Caposervizio si guardò attorno con fare circospetto con la speranza che nessuno dei suoi collaboratori mi avesse udito, poi replicò: – Comandante, lo sa cosa mi sta chiedendo? –

– Ehmm … sì lo so – risposi io con convinzione – le sto chiedendo un piccolo favore.

– Piccolo favore? – rispose contrito.

In effetti, quello che stavo chiedendo al Caposervizio dell’Ufficio personale non era affatto un piccolo favore. Sì, i turni di servizio venivano abitualmente concordati tra l’Azienda e gli equipaggi, piloti o assistenti di volo che fossero, ma credo che mai, nel corso della trentennale carriera del Caposervizio, un Comandante aveva accampato una richiesta come la mia.

– Ma sì – insistetti, – in fin dei conti le chiedo solo di dare una botta lì e un’aggiustata là … tanto per far quadrare il cerchio.

Lui mi guardò con distacco poi, con enfasi, concluse: – Ascolti Comandante, certe cose non sono autorizzato a farle … neanche se mi offrisse i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni.

Ecca ‘lla, dissi fra me e me. Finalmente ci siamo arrivati! L’allusione non lasciava adito a dubbi. Tirai un sospiro di sollievo: almeno ora sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Tutto nella vita ha un prezzo … il difficile è conoscerlo per poi sapere se si è in grado di pagarlo o meno.

– Finale di Champion Legue?! – chiesi rassegnato. Il Caposervizio fece cenno col capo non prima di essersi dimostrato costernato. Aprii la mia valigetta e tirai fuori due biglietti immacolati: -Tribuna Monte Mario, posti numerati, sotto alle autorità … pensa che sarebbero sufficienti? –

Non feci in tempo a sventolarli che i preziosi biglietti erano già finiti nel cassetto del Caposervizio. Immaginai che mi sarebbero costati un patrimonio in gelati e figurine – in certi casi mio figlio sa essere crudele?! – ma, pensai, che erano volati via per una buona causa. Rimasi imbambolato per un istante. Anche a me piaceva andare allo stadio, non lo nego, e vidi svanire in un istante i colori e i suoni di quella serata che sarebbe stata memorabile: l’Olimpico stracolmo di gente in ogni ordine di posti, una festa sugli spalti e sul campo e …

– Tutto fatto, Comandante. – mi disse trionfante il Capo – C’era un errore nel tabulato … questi computer fanno dei casini immondi! Fortuna che lei se n’è accorto … e l’ho corretto a penna. – aggiunse per giustificare il raggiro. Infine sentenziò: – L’equipaggio è formato.

E fu così che ci ritrovammo, due settimane più tardi, al caro prezzo di due biglietti della finale di Coppa dei Campioni, sul piazzale di Fiumicino, alla base della scaletta del A300.

Ci salutammo cordialmente io, l’assistente di volo Centani e la sua collega Ambrogini, la hostess in addestramento Filippi, il capo equipaggio Turchetti e, naturalmente il Comandante Johannson.

Nei suoi confronti, agli abituali saluti si aggiunsero delle affezionate pacche sulle spalle di noi maschietti e degli innocenti baci delle ragazze. Sulle guance, beninteso. Perché, tutti lo sapevamo, quello non sarebbe stato un volo qualsiasi, non per il comandante Johannson.

Wolfgang, così si chiamava il Comandante, era al suo ultimo volo poi, dopo un breve periodo di servizio a terra, sarebbe andato in pensione e avrebbe lasciato la Compagnia per sempre.

Era una vita che volava: aveva cominciato ragazzino appena dopo la guerra, come pilota militare nella rinata Luftwaffe e poi aveva proseguito, di società in società e di Compagnia in Compagnia a volare su un’infinità d’aeroplani in tutti gli aeroporti del mondo. I suoi occhi brillanti e il fisico asciutto, anzi atletico, ingannavano i suoi cinquantanove anni, ma non l’anagrafe della Compagnia che, anche per i migliori Comandanti, obbligava la messa in riposo a non più di sessant’anni. Wolfgang l’avrebbe compiuti fra una settimana e quella che doveva essere una semplice festa di compleanno s’era tramutata un addio alla carriera. Ma il Comandante Johannson non se ne faceva un cruccio. Contrariamente a quanto accadeva ai suoi colleghi non era per nulla rattristato. O almeno non lo dava a vedere. Forse perché era di papà tedesco (ma di mamma italiana), e buon sangue non mente, forse perché aveva sempre praticato il suo lavoro con passione unita ad una naturale giovialità che lo rendeva davvero unico nell’ambiente.

Diciamo la verità: il comandante Johannson era un vero scavezzacollo, un giocherellone matricolato che non perdeva occasione di organizzare scherzi ai suoi compagni di lavoro e, talvolta, anche ai passeggeri. Pur rimanendo nell’ambito della decenza, riusciva a mettere di buon umore tutti, compresi i passeggeri che immancabilmente salivano a bordo con una paura fottuta dipinta sul volto. Beh, lui riusciva a divertirli e a rilassarli. I suoi annunci non mancavano mai della barzelletta di rito e volare con lui era davvero un piacere, oltre che un lavoro. Per questo tutti i colleghi facevano a gara per formare l’equipaggio con lui … magari non proprio pagare due biglietti della finale di Coppa di Campioni.

In realtà, Wolf, come lo chiamavano tutti, era un professionista attento e scrupoloso, un gran manico per intenderci, tollerante con i suoi uomini – soprattutto se donne – e comprensivo con il personale della manutenzione o dell’assistenza a terra. Non avevo mai sentito un’hostess parlar male di lui – nonostante fosse manifesta la sua debolezza per il gentil sesso – Forse perché non s’era mia permesso di fare loro delle avance in pubblico o sul lavoro. Forse perché sapeva, col suo fascino dell’uomo nordico – alto, biondo, occhi azzurri e fare disinvolto – di planare sul morbido. Forse perché non era sposato né aveva legami affettivi stabili. In definitiva tutti lo consideravamo un bravo diavolo, generoso e garbato, per quanto deciso ed ironico.

Aveva però un unico vizio: il bere! Non che fosse un alcolizzato, per intenderci. Le rigorose visite mediche cui i piloti commerciali vengono sottoposti ogni sei mesi lo avrebbero condannato immediatamente, no, diciamo che la mancanza di una vita familiare e la carenza di un vero affetto lo inducevano talvolta a rifugiarsi in una bottiglia di buon vino. Veramente più di una e questa sua debolezza si riscontrava a tavola, quando non rinunciava mai ad un buon bicchiere, forse due, o ad un buon aperitivo a fine volo, al bar dell’aerostazione. Qualcuno aveva cominciato a dubitare che la sua insistenza nell’andare a prendere qualcosa prima del volo non fosse una sua forma di cordialità ma … una necessità. Di fatto, in tutte le centinaia di tratte che avevamo fatto assieme (io come secondo) non l’avevo mai visto bere niente di più alcolico di una coca-cola, e pure degassata.

Ma si sa: certe malelingue, purtroppo, si fanno strada facilmente in un ambiente in cui il pettegolezzo non è certo privo d’argomenti, nel caso di Wolf fu davvero devastante: nell’arco di qualche mese dal suo arrivo in Compagnia tutti i dipendenti, dai dirigenti ai meccanici di linea erano a conoscenza della piccola debolezza del Comandante. Tanto che era stato soprannominato “Whisky”.

Ovviamente lui ne era venuto a conoscenza, perché è risaputo che gli aeroporti hanno occhi, orecchi e soprattutto lingua, solo che lui, per nulla turbato della cosa s’era preso gioco della turpe insinuazione e, allora un giorno, c’aveva chiamati a raccolta, prima d’imbarcarci, dandoci convegno sotto il musone dell’A300.

– Camerata – esordì nel suo italiano volutamente intedescato – A partire da oggi, ja, vige nova d-i-s-p-o-s-i-z-i-o-n-e per mio equipagio, ja! –

Ci guardammo esterrefatti l’un l’altro, io e le assistenti di volo, fantasticando che il comandante fosse effettivamente brillo. Ma erano appena le nove del mattino! Una di loro, perfidamente, ammiccò portandosi un finto bicchiere alle labbra.

Wolf fece finta di non vederla ma poi con brutalità le chiese: – Tu dire me, prego, quale essere tuo nome? Frau …? –

L’hostess si nascose nella sua divisa, diventando più paonazza del tessuto amaranto scuro che aveva indosso. Poi, facendosi coraggio disse: – Ambrogini – e aggiunse con un filo di voce: – … assistente di volo Lorenza Ambrogini.

Il Comandante mise allora la mano in tasca e per un attimo temetti qualche atto sconsiderato … invece tirò fuori un innocuo gessetto bianco. Poi si girò verso l’enorme ruota del carrello anteriore e fece una tacca radiale sul copertone. Noi non credevamo ai nostri occhi. Quindi scrisse il nome “Ambrogini” accanto alla tacca.

– Pene – riprese austero il Comandante, poi rivolgendosi a me disse: – Ora tu dire me tuo nome, prego.-

Decisi di stare al gioco e risposi: – Secondo pilota Filippo Rossini, her command! –

– Rossini? – chiese incuriosito

– Affermativo, her command – risposi perentorio. Mi sembrava di vivere il personaggio di “Ufficiale e Gentiluomo”. Mancava solo che il sergente di colore, quello sempre arrabbiato, mi chiedesse da quale città provenissi e facesse la battuta che da quella città provengono solo tori e … invece il Comandante mi chiese di nuovo: – Rossini? … come aperitivo? Io conosco ja, molto puono, ja! –

I sorrisi cominciarono a serpeggiare sui nostri volti.

Lui, invece, si girò di nuovo e ripeté l’operazione della tacca e del nome. A farla breve, ci ritrovammo tutti nostri nomi sulla gomma nera del pneumatico, diviso abilmente come una torta da tante tacche ben distanziate. Ma ancora non capivamo dove il Comandante avesse intenzione di andare a parare. Ci tolse finalmente dall’angoscia.

– Io ora spiegare voi, ja! … quando aeroplano atterra su aeroporto io scenda e controllo p-o-s-i-z-i-o-n-e ja, di tacca con riferimento gamba carrelo. Voi capito, ja?

Facemmo un segno d’assenso … ma ancora non c’era chiaro nulla.

– Molto semplice, ja: chi indica tacca paca da bere a tutti equipagio! –

Scoppiamo in una risata liberatoria e lo mandammo amabilmente a quel paese. Wolf ce ne aveva fatta un’altra delle sue!

La prima a dover pagare l’aperitivo all’equipaggio, quella sera, fu proprio l’hostess Ambrogini.

******

Erano trascorsi più di undici anni da quel fatidico giorno, eppure, mai una volta, eravamo venuti meno a quel pittoresco rituale. All’inizio della tratta, il Comandante Wolf, munito di gessetto, segnava sul pneumatico il nome dei suoi uomini e donne per poi esigere, al termine della serie di tratte, il pagamento della buffa scommessa contro il caso. Praticamente faceva parte delle procedure pre-decollo.

Ovviamente questa strana pratica non era sfuggita al resto della Compagnia confermando l’aureola di pazzo scatenato del Comandante Johannson.

E così fece anche quella mattina. Quello che non poteva immaginare Wolf fu che ci ritrovammo esattamente con lo stesso equipaggio di undici anni prima. Un caso? No, due biglietti per la finale di Coppa dei Campioni, sic!

Quel giorno facemmo tre tratte Roma- Lisbona, Lisbona-Londra e Londra-Milano con rientro tecnico a Roma. Confesso che quando venne il momento di salutarci, una volta sbarcati i passeggeri e ultimate le procedure post volo, avevamo tutti gli occhi torbidi. Per l’ultima volta Wolf scese la scaletta e, secondo un rituale consumato, si avvicinò al pneumatico del carrello anteriore.

Solo che le tacche erano sparite e, insieme ai nostri nomi, c’era scritto: “Addio Wolf!”

Ci schierammo ordinatamente in silenzio, a mò di picchetto d’onore. Lui si girò all’improvviso e con gli occhi torbidi sbottò: “E mo’ chi paga da bere?”






NOTE: Un sincero ringraziamento ad Enrico Rossini per avermi accennato di questo Comandante, quello che tutti vorremmo nella cabina di pilotaggio




#proprietà letteraria riservata#

§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§




Big Mark

Il pilota beone

formazione jetI piloti di aeroplani commerciali non sono superuomini, sono semplicemente un piccolo spaccato di varia umanità e come tali non sono immuni da piccole debolezze, vizi ed insani abitudini.

Probabilmente è sulla base di questa considerazione che l’autore ha costruito la vicenda narrata in questo racconto. L’aspetto imbarazzante è che lui sostiene di non averla per nulla “costruita” ma solo scritta dopo che un vero pilota suo amico gliel’ha raccontata. Come un fatto di vita vissuta.

Mah … leggere per credere!


Narrativa / Medio-lungo Pubblicato: inedito Note: inserito nella raccolta di racconti inedita “Appeso all’ala dell’Albatross” e in esclusiva per “Voci di hangar”