Cosa ci fa la recensione di un libro sulla migrazione delle oche in un sito di carattere aeronautico?
Ci ho pensato un po’ sopra, prima di proporlo. Poi ho realizzato che le oche, in quanto uccelli, sono quanto di più aeronautico esista al mondo. Noi aviatori abbiamo copiato gli uccelli, non il contrario. E ancora non siamo riusciti a fare meglio di loro, anzi, neanche ad eguagliarli.
Le oche in particolare, volano a quote che vanno da pochi metri dal suolo fino a oltre novemila metri. Senza ossigeno, senza equipaggiamenti speciali, solo con il loro corpo, volano in formazioni spettacolari per migliaia di chilometri, navigando con mezzi propri, fino a raggiungere la meta, passando attraverso mille pericoli. Un certo numero non ce la farà, magari proprio mentre si preparano all’atterraggio, esauste, alla fine della tappa finale. La loro vita può finire proprio lì, nel tempo di un colpo di fucile che neanche sentiranno.
Comunque questo libro non è un trattato scientifico sulla migrazione delle oche.
L’autore, William Fiennes, a venticinque anni si ammalò. Era il 1995. Fu operato, ma la sua situazione non migliorò e dovette subire altri interventi. Rimase a lungo in ospedale. Era impaziente di guarire e di andarsene, ma la ripresa fu molto lenta. Perciò si dovette rassegnare a rimanere in ospedale e ad evadere solo con la mente, l’unica parte di lui che poteva andare dove voleva.
Si mise a ricordare le cose che faceva quando era sano, nella vita normale di prima della malattia. Come quando si sedeva nel cortile di casa, una casa medievale costruita in pietra e situata nel mezzo dell’Inghilterra, a parecchie miglia di distanza dalla più vicina città, ad osservare i rondoni che volteggiavano intorno al tetto. Generazioni e generazioni di quegli uccelli andavano e venivano nelle loro migrazioni, anno dopo anno. Sparivano, ad un certo punto, ma tornavano sempre.
Aveva letto un libro, “The snow goose”, scritto nel 1941 da un certo William Paul Gallico, senza peraltro apprezzarlo troppo. Da questo libro fu tratto un film nel 1971.
Ma aveva anche l’abitudine , appunto, di osservare gli uccelli, molti dei quali erano stanziali. Altri, quelli migratori, poteva osservarli solo in certi periodi dell’anno quando erano presenti nei dintorni della casa.
Per superare la smania di lasciare l’ospedale e tornare a casa alla fine di una guarigione che sembrava non arrivare mai, rilesse le osservazioni di Paul Gallico sulla migrazione delle oche delle nevi e finì per rimanere affascinato da tutti quegli elementi di mistero riguardo a come sapevano quando fosse il momento di partire, come si orientavano, come interagivano tra loro.
Avrebbe voluto anche lui poter migrare attraverso un territorio sterminato, libero, invece di essere costretto a rimanere confinato tra le mura di un edificio per un tempo indefinibile, apparentemente interminabile, infinito.
Prima o poi sarebbe uscito, ma intanto aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa che lo aiutasse a superare la lunga permanenza, il peso dell’immobilità forzata, la noia del quotidiano.
Aveva bisogno di un progetto, di un’idea, di una via di fuga.
Si fece portare in ospedale tutti i libri possibili che riguardavano l’ornitologia e le migrazioni degli uccelli.
Quando finalmente guarì, decise di andare negli Stati Uniti d’America a seguire lo spostamento delle oche attraverso il continente, da Huston fino ai ghiacci della Terra di Foxe.
Appena lasciato l’ospedale Fiennes partì per l’America del Nord coma aveva sognato durante la lunga degenza, per seguire lo spostamento delle oche delle nevi attraverso il loro lunghissimo viaggio da Sud a Nord.
Il libro racconta questo viaggio.
Non è un libro comune. Non avevo mai letto niente di simile. Ma proprio per questo l’ho trovato altamente interessante, sorprendente, unico. Tanto da accarezzare l’idea di fare la stessa cosa, un giorno o l’altro in questa vita.
Né mancano aspetti tragici. Leggendo il racconto si finisce per amarle molto quelle oche. E non si può certo rimanere indifferenti alla loro sorte, quando si comprende che, inevitabilmente, molte di esse lasceranno il loro posto nelle lunghissime formazioni, vittime di qualcuno dei tanti pericoli.
Verso la fine del libro, quando ormai l’autore e gli stormi di oche hanno raggiunto i ghiacci del Nord, ecco comparire i cacciatori. Fiennes si unisce a loro per raggiungere i luoghi dove finalmente la migrazione ha termine. Solo con le loro slitte, infatti, può raggiungere posti tanto impervi. E immancabilmente assiste all’uccisione di un gran numero di oche.
Una delle ragazze che fanno parte della spedizione dei cacciatori si incarica di far bollire alcune oche per mangiarle tutti insieme, la sera, intorno alle tende. Loro sono accampati sul ghiaccio coperto di neve, mentre nei dintorni stazionano anche migliaia e migliaia di oche accucciate a gruppi per passare la notte.
E’ una scena triste, ma è costretto ad uniformarsi alle necessità.
Descrive così la situazione:
“Mangiammo seduti sulla neve con la schiena contro il capanno. Non avrei voluto mangiare l’oca. Mi ero spesso immaginato nella Terra di Foxe, alla fine del mio viaggio, a guardare le oche delle nevi che tornavano nella regione in cui erano nate. Non mi era mai venuto in mente che avrei potuto mangiarne una. Ero affezionato a quegli uccelli. Non potevo fare a meno di considerarli miei amici. Ma non volevo distinguermi da Paula e Natsiq, così me ne stetti quieto a mangiare l’oca. Nel brodo galleggiava qualche piuma. Prendevo piccoli bocconi che masticavo con aria assorta. La carne era sostanziosa: potevo sentirci dentro i chilometri. I pezzetti mi rimanevano nello stomaco come sassi. Mangiammo in silenzio, accovacciati nei nostri parka; oche dentro e fuori di noi”.
Dopo questa ultima tappa Fiennes tornò a casa. Non ci volle molto perché nel lungo viaggio attraverso tanti stati americani si era spostato verso Nord-Est e ormai si trovava geograficamente molto più vicino alla sua nativa Inghilterra.
La penisola di Foxe è situata nell’estremità meridionale dell’isola di Baffin, nella regione di Qikiqtaaluk dello stato del Nunavut, in Canada. Da quella posizione, per tornare in Inghilterra, rimaneva “soltanto” il sorvolo della Groenlandia e dell’Islanda.
Il libro non finisce qui. Il viaggio di ritorno viene descritto molto dettagliatamente. Ma una volta tornato, Fiennes ritrova i luoghi a lui familiari, la casa, gli alberi, il paesaggio e gli animali.
Qui
Ritrova tutto. Ogni cosa era al suo posto, come l’aveva lasciata. Nulla di cambiato.
Lui, però, era cambiato.
Il lunghissimo viaggio insieme alle oche delle nevi, le vicende estremamente avvincenti che aveva vissuto insieme a loro, avevano lasciato una traccia indelebile nella sua anima, nel suo modo di pensare e di essere.
E adesso torniamo alla domanda iniziale: cosa ci fa la recensione di un libro sulla migrazione delle oche in un sito di carattere aeronautico?
Come dicevo, gli uccelli sono quelli che ispirano la nostra passione per il volo e le oche, ma direi tutti gli uccelli migratori, sono quelli che ammiriamo di più. Loro volano per migliaia di chilometri. Noi facciamo lo stesso (e quando non possiamo farne migliaia, ci rassegniamo a farne centinaia. Ma anche solo decine…).
Alcune oche non raggiungeranno la destinazione. Cadranno vittime di incidenti di varia natura, come purtroppo accade anche nel nostro ambiente.
Tra loro c’è una gerarchia e c’è anche nelle nostre aviazioni.
Tra loro c’è coesione e spirito di corpo. Come tra noi.
Loro come noi ragionano in termini di quota, velocità, orientamento, salita, discesa, veleggiamento, planata, decollo, atterraggio, mantenimento della posizione nella formazione e cambio di posizione quando occorre.
Loro come noi stanno attente ai pericoli e cercano di evitarli, quasi sempre con successo, ma a volte no.
Loro come noi provano la gioia di partire, di volare, di arrivare. Provano ansia e paura e, forse, anche indifferenza e noia.
Potrei continuare per molte righe ancora.
Ma soprattutto, vorrei mettere in evidenza un aspetto particolare. Come ho detto, un giorno vorrei anch’io seguire la migrazione di queste oche. O di altri uccelli migratori. Volando, però, insieme a loro.
Per ora sono stati impiegati mezzi lenti, come deltamotore o parapendio motorizzati.
Al momento sono questi gli attrezzi migliori che ci offre la tecnologia.
Ma il progresso tecnico è in continua evoluzione e presto o tardi fornirà qualcosa di molto più evoluto, più ecologico e più versatile. E allora davvero potremo unirci agli stormi di oche che migrano attraverso i continenti, di giorno e anche di notte. E potremo posarci con loro per una sosta qua e là e dormire in mezzo agli stormi per ripartire alle prime luci dell’alba.
Ma senza sparare a nessuno. Senza mangiare nessun esemplare.
Niente oche dentro e fuori di noi.
Solo oche intorno a noi.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
titolo: The astronaut wives club. A true story – [Il club delle mogli degliastronauti. Una storia vera]
autore: Lily Koppel
editore: Headline Publishing Group An Hachette UK Company
eISBN: 978 0 7553 6261 5
anno di pubblicazione: 2013
La dedica che troviamo subito nella prima pagina, dopo l’indice e una brevissima presentazione dell’autrice, è già di per sé illuminante. Nella sua essenzialità, otto parole in tutto, rivela l’intero contenuto del libro: –for the wives who have the “right stuff”- [Per le mogli che hanno la stoffa giusta].
Chi non ricorda il famoso film, a sua volta tratto dal famoso libro di Tom Wolfe, che aveva proprio il titolo di “The right stuff” – [La stoffa giusta]? In effetti in Italia la pellicola fu presentata con il titolo: “Uomini veri”.
Se qualcuno lo avesse dimenticato, o non lo avesse addirittura mai sentito nominare, consiglio di procurarselo con ogni mezzo. Non sarà certo difficile, dopo una rapida ricerca sul web.
Sia il libro che il film riguardano, in estrema sintesi, le conquiste che nel ventesimo secolo si sono succedute a ritmo vertiginoso nel campo dell’aviazione, prima, e nel campo spaziale, poi.
E riguardano, soprattutto, i protagonisti che hanno fatto parte di questa straordinaria, lunga, ma per altri versi anche corta, storia umana. Un secolo o poco più di avvenimenti, scoperte, esperimenti, imprese, rischi, disastri e perdite di vite umane e di mezzi, ma anche di conquiste, come non si era mai visto nei millenni precedenti.
Gli uomini che questa storia hanno costruito un pezzo alla volta dovevano certamente avere la stoffa giusta per farlo.
E per uomini intendo proprio uomini, esseri umani di sesso maschile.
Il libro riguarda un periodo storico dove le donne, tranne qualche caso sporadico, restavano in disparte, dietro le quinte. Semmai se ne trovavano in maggior numero negli uffici, all’interno di strutture e servizi che quasi mai arrivavano agli onori della cronaca. In aviazione la maggioranza erano militari di sesso maschile. La struttura sociale era quella che era e la mentalità pure. Stiamo parlando degli Stati Uniti della fine degli anni ‘50
E’ fuori discussione che questi uomini, in pace come in guerra, dovessero avere la stoffa giusta per affrontare le prove alle quali erano chiamati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Gli aviatori in special modo e gli astronauti ancor di più.
E allora, le mogli degli aviatori e degli astronauti potevano mai fare eccezione?
La dedica in questo ebook, infatti, attribuisce subito anche a loro la stoffa giusta. Ma per fare cosa?
Diciamo subito che, almeno all’inizio, nella selezione degli astronauti, oltre ai requisiti e alle tremende e a volte stravaganti prove che i candidati dovevano superare, c’era anche la clausola, forse non scritta, che la loro situazione familiare dovesse essere irreprensibile e serena. Per gli scapoli, beh, c’era poco da pretendere, ma per gli sposati…
Niente diverbi familiari, separazioni e, men che mai, divorzi.
Dopo una manciata di righe che descrivono le prove psico-fisiche previste dai medici della NASA per selezionare i piloti (inizialmente scelti solo tra i test-pilots, i piloti collaudatori), un altro paio di righe chiariscono i criteri di selezione del momento: “NASA looked into the backgrounds of not only the men but also their wives”. – [La NASA guardò dentro i trascorsi non solo degli uomini, ma anche delle loro mogli].
Sembra incredibile, oggi, ma venivano poste domande come: quante volte alla settimana tua moglie cucina in casa? Beve troppo? Frequenta spesso persone di credo comunista?
E così via.
Inizialmente erano stati selezionati i primi sette neo-astronauti, che presero il nome di “the original seven”. Era l’Aprile del 1959.
A questi, nel settembre del 1962, seguirono altri nove.
E in ottobre 1963 fu annunciato il terzo gruppo di astronauti per coprire le esigenze delle missioni Gemini ed Apollo che sarebbero state sviluppate negli anni seguenti. Altri 14 elementi.
E, ovviamente, le loro mogli.
La NASA selezionò altri elementi anche nel 1966. I nuovi si auto-nominarono “the original nineteen”. E arrivarono le mogli anche di questi ultimi. Come è scritto sul libro, tutto ciò significò “another gang of gals” – un’altra banda di ragazze.
La vita di queste famiglie, già molto prima che i piloti venissero scelti per le missioni spaziali, era quella tipica delle famiglie dei militari. Vivevano in alloggi di fortuna nei dintorni delle basi, o addirittura dentro le basi. Le comodità erano poche. I mariti erano fuori gran parte del giorno, rientravano dopo le cinque del pomeriggio, a volte stanchi, troppo affamati e sfiniti per giocare con i figli o prendersi cura delle faccende domestiche. Spesso partivano in aereo e stavano fuori giorni o settimane.
I piloti collaudatori convivevano con il rischio continuo. E le loro mogli lo sapevano. Si alzavano prima dell’alba per preparare le loro colazioni, salutavano il marito che andava in volo, coscienti che avrebbero anche potuto non vederlo rientrare. C’erano periodi in cui qualche squadriglia perdeva anche due uomini alla settimana. E le donne non potevano farci nulla se non andare al funerale, cantare l’inno della Navy e piangere quasi di nascosto, nascondendo gli occhi dietro il fazzoletto e il bianco dei loro guanti. Alla fine tutte si rassegnarono, continuando a condurre la loro vita fra innumerevoli difficoltà, occupandosi della casa, della logistica, dei figli e cercando di far quadrare il bilancio tra le spese e la modesta retribuzione dei loro mariti.
Facciamo un esempio per tutte. Marge Slayton, la moglie di Deke Slayton, ossia colui che sarebbe poi diventato il responsabile dei reclutamenti, delle assegnazioni dei piloti e della formazione degli equipaggi, ogni volta che sentiva il rumore delle pale di un elicottero in volo, aveva degli attacchi di paura e di nausea. Non perché temesse quel tipo di macchina, ma perché sapeva che se un elicottero si era levato in volo, probabilmente un jet era caduto e andavano a cercarlo. Lei usciva subito fuori a guardare l’orizzonte, alla ricerca di una eventuale colonna di fumo che salisse da un qualche punto del deserto del Mojave che circondava la base da un orizzonte all’altro. Ma anche se non c’era alcun fumo restava sempre in attesa nella più profonda preoccupazione. Si aspettava che il campanello della porta di casa suonasse e che il cappellano della base venisse ad annunciarle che ora era una vedova.
Queste mogli di aviatori conoscevano bene i disagi della vita militare. Venivano dislocate attraverso l’intera America, con le loro famiglie, sacrificando i migliori anni della loro vita facendo crescere i figli nei diversi angoli del mondo, supportando la carriera dei loro mariti. L’unica facilitazione loro concessa era il trasporto gratuito dei mobili e degli effetti personali ad ogni trasferimento.
L’era delle esplorazioni spaziali arrivò come un fulmine a ciel sereno con il lancio, da parte dell’ Unione Sovietica, del primo satellite artificiale, lo Sputnik. Gli americani si trovarono spiazzati e reagirono subito mettendo a punto la struttura che si sarebbe incaricata di fare di più e meglio di quanto avevano fatto i sovietici, quella che poi divenne la NASA.
E selezionarono i piloti che avrebbero dovuto diventare astronauti.
Perché ormai non si trattava più di lanciare in orbita un satellite che inviasse a terra un bip-bip.
Ora si pensava di mandare nello spazio degli esseri umani.
Improvvisamente le mogli degli aviatori si trovarono ad essere non più solo semplici mogli di aviatori, ma niente di meno che mogli di astronauti, sebbene inizialmente nessuno di loro avesse mai preso parte ad alcun volo spaziale. Per anni si dovevano addestrare e dovevano studiare una montagna di materie, prima di pensare soltanto ad entrare su una navicella posta in cima ad un razzo ed essere sparati fuori dall’atmosfera.
In quel periodo i razzi dei primi esperimenti avevano manifestato l’attitudine ad esplodere direttamente sulla rampa di lancio, prima di essersi alzati di più di qualche metro. Oppure subito dopo. Ormai di quei razzi si diceva che fossero i più grandi candelotti di dinamite del mondo …
Ma anche dopo, quando la tecnologia si era sviluppata al punto di fornire un buon grado di affidabilità, non mancarono gli incidenti. Alcuni di questi avvennero a bordo, non di razzi, ma di comuni aerei da caccia. E allora, di nuovo, funerali, cerimonie, mogli che da sole caricavano la loro macchina e si allontanavano dalla base, con i loro figli, verso un incerto e forse triste futuro.
C’è sempre, in ogni cosa, la cosiddetta altra faccia della medaglia. E arrivò anche per queste donne.
La nuova condizione di mogli di astronauti aveva portato una novità: la celebrità.
La televisione, dal 1945 in poi, si era andata sviluppando in maniera esponenziale. Aveva soppiantato la fotografia, perché la gente preferiva le immagini in movimento rispetto a quelle statiche, anche se in entrambi i casi erano in bianco e nero.
I reporters, sia fotografici che televisivi, di fronte a quella immensa novità che era la NASA e la corsa allo spazio, sciamavano a frotte lungo i viali che portavano alle case dove risiedevano le famiglie degli astronauti. Donne che prima se ne stavano in incognito nelle loro case, che uscivano per fare la spesa senza che quasi non si sapesse chi fossero, ora erano braccate ovunque, perfino all’interno delle loro stanze. In molti casi, infatti, si ritrovavano ad essere inquadrate nel mirino di un apparecchio da ripresa che qualche reporter più intraprendente era riuscito ad infilare tra le persiane della finestra. I giardini di cui ogni casa era dotata pullulavano di giornalisti e delle loro attrezzature, cavalletti e luci da ripresa.
La NASA non aveva fornito loro alcuna preparazione su come affrontare queste situazioni. All’inizio dovettero cavarsela da sole. E in breve tempo l’assedio dei media divenne estremamente fastidioso. Ci furono anche casi di crisi nervose e almeno un suicidio.
Ma era anche gratificante. Molte si lasciarono travolgere da quella improvvisa esplosione di popolarità. Indossavano i migliori capi di vestiario, si truccavano in modo da risultare al meglio nelle riprese, assumevano tutte le pose che i reporters richiedevano.
C’erano sempre party, feste di ogni tipo e per ogni occasione.
Negli anni, con il succedersi delle missioni, prima Mercury, poi Gemini e poi Apollo, gli astronauti cominciarono ad essere impegnati per moltissime ore. Lo studio delle materie specifiche, l’addestramento al simulatore, gli spostamenti per tutti gli Stati Uniti, ovunque ci fosse motivo di andare, li tenevano lontani da casa quasi sempre. Per raggiungere gli stabilimenti dove venivano costruiti i vari elementi che costituivano i razzi, le navicelle o i sistemi di ogni tipo, usavano un bel numero di jet militari, i T38, come se fossero aerotaxi privati. Ogni astronauta doveva seguire lo sviluppo di ogni tecnologia, non solo per sorvegliare la loro costruzione, ma soprattutto per fornire indicazioni, affinché tutto rispondesse alla massima adeguatezza possibile.
Erano tutti piloti sperimentali, abbiamo detto.
Ma la loro assenza non poteva lasciare la situazione della famiglia senza conseguenze.
Le mogli, lasciate da sole con il peso della conduzione della casa, dove l’elemento mancante non poteva apportare alcun aiuto, resistettero a lungo. Passarono parecchi anni, ma le prime avvisaglie di disagio cominciarono a manifestarsi nelle famiglie. Molte si sarebbero separate e divorziate già da tempo, ma resistettero per non provocare problemi tra i loro mariti e la NASA, visto che non sarebbero stati tollerati disordini familiari.
Poi, dapprima in sordina, in gran segreto, ma inesorabilmente, la disgregazione delle famiglie divenne un fatto frequente, quasi normale. Tanto che anche la NASA finì per accettare tacitamente l’andamento di certe dinamiche.
La serie delle separazioni e divorzi continuò per tutto il periodo delle missioni spaziali.
Ma bisogna comprendere che la pressione alla quale le mogli degli astronauti si trovarono esposte era davvero immensa.
Furono costrette per anni a mostrare in pubblico una vita di perfezione. Ma i loro uomini erano impegnati nel programma spaziale anche per 18 ore al giorno. O per periodi lunghissimi di giorni, anche di settimane.
Molte mogli aspettarono la fine del programma spaziale per chiedere finalmente il divorzio e nel frattempo sostennero la parte della moglie perfetta con stoica rassegnazione.
Gli astronauti erano molto famosi, all’epoca. Specialmente quelli che avevano volato nello spazio almeno una volta. Erano più richiesti dalle donne di quanto lo siano oggi le rock star. Venivano “assediati” da un gran numero di ragazze, impazienti di poter avere una storia con loro. Lontano dalle famiglie, molti di loro, forse tutti, approfittarono della situazione. Le mogli, a casa, sapevano anche questo. I tradimenti coniugali erano frequenti.
Dopo ogni missione Apollo, che aveva impegnato nel modo suddetto i membri degli equipaggi, fino al loro ritorno sulla Terra, quando ormai si sarebbe potuto pensare che gli uomini potessero finalmente riprendere la normale vita familiare, cominciarono invece gli interminabili viaggi per esigenze di pubbliche relazioni. Altri mesi e mesi lontani da casa, stavolta gli astronauti potevano portare con loro anche la famiglia. Ma neppure in viaggio c’era l’opportunità e il tempo per alcuna intimità.
Molte mogli abbandonarono l’impresa e se ne tornarono a casa. Di nuovo sole, come erano sempre state.
Ecco di cosa parla questo libro. Della vita di donne semplici, travolte per anni dai danni collaterali che anche i loro mariti hanno subito durante lo stesso periodo storico. Del sacrificio degli uomini si era abbondantemente parlato. Di quello, immenso, delle mogli, invece no.
Per questo fondarono l’Astronaut Wives Club. Per avere una valvola di scarico alle loro frustrazioni e avere un’opportunità di evadere dalle occupazioni familiari.
L’Astronaut Wives Club le mostra come eroine. Un onore che si meritano.
Secondo Lily Koppel, l’autrice di questo libro, queste mogli sono state le pioniere del Movimento delle Mogli che cominciò nel 1960.
Lily Koppel ha dovuto viaggiare attraverso l’intera America per riuscire ad intervistare queste donne prima ancora di cominciare a scrivere The Astronaut Wives Club.
Una di loro, alla domanda di cosa provasse ad essere la moglie di un astronauta, rispose: “se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a rimanere a casa”. Dopo aver letto questo libro non stentiamo a crederle.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Anche nel nostro paese – il paese del sole – giunge prima o poi l’inverno. Inevitabilmente.
Sebbene si alternino giornate di pioggia intensa a periodi di caldo fuori stagione, l’inverno ci ricorda che esiste ancora. Non solo nei ricordi degli anziani.
Nonostante sia ormai ufficialmente sfasato dal calendario, con la sua aria gelida, la nebbia ghiacciata, il vento tagliente, le temperature abbondantemente sotto lo zero termico l’inverno ci ricorda puntualmente che è e sempre rimarrà una delle quattro stagioni; sembra quasi volerlo sottolineare ogni volta all’inizio della primavera che – già da diversi anni – ci ha abituato a colpi di coda dell’inverno ben più fredde o nevose dell’inverno stesso.
Qualche giorno fa, io imbacuccato all’inverosimile, lui fasciato da un cappotto sportivo dal taglio elegante, ne parlavo giusto con il com.te Antonino Desti.
– Che ghiacciata, stamattina! Visto che roba, command? – dicevo mentre abbassavo ulteriormente il bordo del cappello fin quasi a coprire le ciglia.
– Ghiaccio oggi? … mai quanto alla Malpensa!
– Malpensa? – Gli chiesi interlocutorio.
Quella mattina io m’ero impressionato del prato dell’aeroporto completamente bianco e dell’asfalto sdrucciolevole delle strade della mia città al centro dell’Italia … egoisticamente il pensiero non m’era certo andato alla distesa gelata della Padana, alla famosa galaverna che imperversava sicuramente in tutte le regioni del Nord.
– Sì, una volta che atterrai a Linate …
– Ah, ecco … atterrando alla … – gli feci eco, fiducioso che mi avrebbe spiegato il perchè, il per come, quando, con chi e in mancanza di cosa gli era capitato quello che mi aveva appena accennato.
I piloti di secolare esperienza come il comandante Desti sono così: hanno una storia per ogni situazione, per ogni luogo, per ogni epoca. Beati loro! Solo che non è facile farsi spiegare, farsi raccontare o meglio: ti devi guadagnare il loro racconto mostrando loro sincero interesse altrimenti si richiudono a riccio e allora addio!
Devo confessare che, di mia natura, sono sfacciatamente curioso. Almeno per quanto riguarda le questioni aeronautiche. Mi piace apprendere spezzoni della vita aerea altrui o delle persone che, come il comandante Desti, presumo abbiano trascorso più tempo in volo che a terra. Amo immedesimarmi nelle avventure che riesco ad estorcere ai piloti militari, commerciali o sportivi che siano perchè è un po’ come vivere tante vite contemporaneamente. Mica male, eh?
Insomma drizzai tutte le antenne, accesi il registratore della memoria e pungolai il comandante affinchè mi confidasse la sua esperienza.
Quello che mi descrisse, dopo aver toccato terra sulla pista della Malpensa, mi impressionò molto più del più terrificante film horror. E sappiate con sono così facilmente impressionabile.
Le foto che gli ho poi estorto ne sono la testimonianza visiva. Incontestabile.
Anche l’articolo che gli ho sottratto minacciandolo fisicamente ne è la conferma. A quelli vi rimando e lascio a voi i commenti.
titolo: Una vita per l’aviazione – Ricordi di un costruttore di aeroplani
autore: Giuseppe Gabrielli
editore: Bompiani
anno di pubblicazione: 1982
ISBN: non presente
Nella storia delle costruzioni aeronautiche del nostro paese si annoverano numerosi nomi di progettisti eccellenti, geniali o addirittura visionari ma solo alcuni di loro possono ritenersi “completi” sotto tutti i punti di vista. Inutile ricordarlo: progettare un velivolo richiede immaginazione, perizia, intuizione e, di base, competenze specifiche; costruire davvero e commercializzare con grande successo (di vendite) le macchine volanti che si sono ideate è invece appannaggio di ben pochi ingegneri. E allora, senza nulla togliere agli altri, sono davvero pochi i nomi di progettisti che ci vengono in mente. Tra loro c’è sicuramente Giuseppe Gabrielli.
Egli unì alle sue indubbie doti ingegneristiche anche una spiccata attitudine all’insegnamento universitario nonché innate capacità di gestione aziendale e, non ultimo, fu personalità di respiro internazionale giacché avviò, già in età giovanile, rapporti con suo omologhi stranieri, mantenuti peraltro nel corso di tutta la sua lunga vita professionale.
Giuseppe Gabrielli, classe 1903 siciliano di Caltanissetta ma torinese di adozione, fu indubbiamente l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto. Per posto giusto intendiamo Torino e la Fiat mentre al momento giusto ci riferiamo al periodo di grande sviluppo delle costruzioni aeronautiche che avvenne ante e durante la II Guerra Mondiale.
Egli conobbe grandi personaggi della storia dell’aviazione, dell’industria aeronautica nazionale e non solo, oltre che del mondo accademico divenendone meritatamente a sua volta membro illustre.
A lui vengono accreditati ben 142 progetti di velivoli sebbene la sua matita da disegno abbia contraddistinto la sua ultima creazione con il numero progressivo 222. Alcuni di questi realizzati in grandi numeri, altri giunti a una produzione in piccola serie, altri ancora allestiti solo allo stadio di prototipo e, in alcuni casi, rimasti allo stadio embrionale di progetto. La storia statistica ci enumera poi anche trenta brevetti e circa duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche. La sua attività iniziò nel 1927 e terminò a metà degli anni ’80 … in definitiva un’intera vita per l’aviazione.
Il titolo di questo libro a carattere autobiografico non poteva essere dunque più pertinente. Gabrielli lo pubblicò nel settembre 1982 quasi ottantenne.
Ci consente di attingere alla viva memoria dell’autore e rivivere assieme alla lui i numerosi episodi della sua carriera professionale e, inevitabilmente, della sua vita. L’arco temporale è quello che va dal 1925, anno del conseguimento della laurea in ingegneria meccanica presso il Politecnico di Torino, fino al 1982, data in cui avvenne il suo rientro in FIAT per volere dell’allora amministratore delegato Cesare Romiti che lo volle fortissimamente quale presidente della FIAT Aviazione dopo un allontanamento durato tredici anni.
In questo volume ritroveremo perciò la fitta galleria di progetti e personaggi che hanno fatto la storia delle costruzioni aeronautiche italiane ma anche francese, tedesche e statunitensi, incontreremo capitani d’industria, piloti collaudatori e presidenti della repubblica, Lydia (la compagna della sua vita), gli operai della Fiat e illustrissimi colleghi di lavoro come Celestino Rosatelli o il diretto antagonista, al secolo l’ingegner Alessandro Marchetti. E questo solo per citarne alcuni.
In effetti leggere un’autobiografia è il pretesto per il lettore di rivivere da un punto di vista previlegiato – quello del biografo, appunto – non solo un’esistenza intensa ma anche e soprattutto un’epoca che non c’è più o che non gli è propria per ovvi motivi anagrafici. E Gabrielli ci riesce perfettamente benché – occorre ricordarlo – si tratti di una persona scolarizzata nientemeno che nel primo decennio del ‘900. Certo, stiamo parlando di un famoso docente universitario avvezzo alla scrittura sebbene mirata alla stesura di relazioni a carattere tecnico e non necessariamente incline alla cronaca storica in forma narrativa; invece Gabrielli riesce ad appassionare il lettore, a coinvolgerlo nelle sue intuizioni creative, a farlo palpitare come egli stesso palpitò in occasione dei voli di collaudo o degli incidenti di volo che pure capitarono ai velivoli frutto della sua inventiva. Ci sono poi le grandi soddisfazioni professionali come la progettazione e realizzazione del S.55 metallico che dimostrò inequivocabilmente la bontà delle costruzioni in metallo anziché in legno o del G-91, vincitore di un concorso internazionale che sancì il successo della FIAT Aviazione e del suo progettista per antonomasia.
Dunque un libro che si legge rapidamente salvo qualche interruzione fisiologica, giusto per andare a sbirciare le numerose foto disposte in due blocchi all’interno del volume. Originali dell’epoca, rigorosamente in bianco e nero, esse visualizzano le macchine volanti o i personaggi evocati nel corso della narrazione. A loro si aggiungono pregevoli disegni a supporto del testo.
Prezioso poi l’elenco dettagliatissimo che si trova in coda al libro e che riporta tutta la produzione di velivoli dell’autore. Utilissimo anche l’indice dei nomi (meglio personalità) che si trovano seminati sempre all’interno del volume.
Intendiamoci: non tratta di un libro di memorie fine a sé stesse, né l’occasione di togliersi sassolini dalla scarpa; non troverete svelati i grandi segreti industriali della FIAT o le confessioni di una matita geniale semmai, pagina dopo pagina, avrete occasione di essere partecipi di una lunga catena di ricordi ordinatamente disposti ed esposti come solo un vero ingegnere saprebbe fare ossia con sintesi, senza lasciarsi andare a inutili romanticismi. D’altra parte il sottotitolo del libro è appunto: “Ricordi di un costruttore di aeromobili”
La copertina del libro (disegnata da certo Giovanni Mulazzani) riprende le classiche copertine dei libri per ragazzi che venivano pubblicate una volta in collane specifiche e dunque lascia inizialmente interdetti; idem per la IV di copertina che, anziché riportare le canoniche note biografiche dell’autore o una brevissima sinossi del libro, mostra i cinque velivoli forse di maggior successo dell’ing Gabrielli. O forse cui teneva di più. Disegnati impeccabilmente a colori, per carità, ma pur sempre viste laterali. Fortunatamente i risguardi interni della sovracopertina sono prodighi di numerose anticipazioni per l’eventuale lettore/acquirente. Sono stati curati da certo Giancarlo Masini cui si ascrive anche l’opera di editing del volume.
Un’ultima nota a carattere editoriale: prefazione di Gianni Agnelli. Ecco, Gianni Agnelli è l’unica personalità illustre nei confronti del quale, praticamente nelle ultime pagine, l’autore svela un sottile accenno di risentimento. Motivo? Perché Gianni, il famoso “avvocato” con l’orologio sopra il polsino, a partire dal suo insediamento, avviò in FIAT un processo di rinnovamento che comportò la rimozione di Gabrielli da capo dello studio di progettazione e la proposta di ricoprire il ruolo pressoché simbolico di “sovrintendente” della FIAT Aviazione. Proposta rifiutata da Gabrielli. Ebbene, il nostro ingegnere addebita al rampollo della famiglia Agnelli la responsabilità di non aver fatto nulla affinché ciò non accadesse o comunque di non avergli comunicato in modo diretto e schietto la sua decisione. Ricordiamolo: stiamo parlando di un Gabrielli che tanto aveva dato alla FIAT e in particolare alla persona di Giovanni Agnelli, nonno di Gianni. E invece apprendiamo che l’ingegnere verrà interpellato dell’Ufficio del personale alla stregua di un qualsiasi operaio. Da qui il rammarico dell’autore. Che comprendiamo e condividiamo.
Dal punto di vista tipografico, il libro è davvero ineccepibile: carta di ottima qualità (grammatura generosa e opaca bianca), rilegatura prestigiosa (in brossura cucita) margini abbondanti, testo formattato in modo impeccabile con caratteri di dimensioni medio-piccoli, testo sillabato e indice del contenuto di ciascun capitolo. In definitiva un volume curatissimo in tutti i dettagli come solo un grande editore (Bompiani) saprebbe fare.
L’acquisto di questo volume, disponibile facilmente nel mercato dell’usato, non può essere casuale ed è appannaggio di un lettore di nicchia, ossia orientato verso il mondo industriale aeronautico.
Chi vi scrive vide per la prima volta quella copertina e lesse la recensione del volume nelle pagine di una famosa rivista aeronautica che ha interrotto la pubblicazione ormai da anni. All’epoca, giovane studente con una limitatissima “paghetta” settimanale già spesa per acquistare la rivista in questione e le dispense di una celebre enciclopedia di aviazione, non potei neanche avvicinarmi alla libreria. Anche perché il prezzo di copertina era davvero notevole. Oggi l’ho finalmente acquistato usato sebbene allo stesso prezzo (ma in euro, sigh!) sull’onda della curiosità di conoscere il racconto dell’autore a proposito di un illustre collega di lavoro, come già anticipato, quale Celestino Rosatelli.
Breve inciso: Giovanni Agnelli, allora a capo della FIAT, volle con fermezza che Gabrielli entrasse nella sua azienda. La stessa fermezza con cui, anni prima, aveva voluto Celestino Rosatelli. Con la differenza che la FIAT aveva già un capo progettista: Rosatelli appunto. Ebbene Agnelli creò un ufficio progettazione parallelo e indipendente da quello di Rosatelli. Così, benché a capo di due uffici distinti, i due geniali ingegneri si trovarono da subito faccia a faccia. Scintille? Niente affatto. Così racconta Gabrielli il rapporto con il collega Celestino:
“Il mio ingresso, a parità di grado, non dovette certo fargli piacere; ma la limpidezza del suo animo non gli consentì né invidia né rancore verso il giovanissimo collega che veniva ad affiancarlo in un campo che l’aveva visto per molti anni incontrastato padrone”
In verità, così come per altri personaggi illustri, l’autore non è poi così prodigo di ricordi a beneficio di Rosatelli, pur dedicandogli un intero capitolo. Ad ogni modo chiunque leggerà questo libro rimarrà colpito dalla delicatezza con cui Gabrielli racconta di un anziano e affaticato Giovanni Agnelli in visita al suo Celestino. Ed è con queste poche righe che vogliamo concludere la nostra recensione:
“[…] quando apprese della morte improvvisa di Celestino Rosatelli, avvenuta il 23 settembre 1945, mi pregò di accompagnarlo per dargli un estremo saluto. Rosatelli abitava in una casa di via Massena al terzo piano. Quando vi giungemmo mi accorsi che l’ascensore non funzionava. Volevo convincere il senatore a rinunciare alla visita, ma egli rifiutò e appoggiato al mio braccio fece lentamente i tre piani di scale. Volle baciare la salma, disse alcune parole di conforto ai familiari e uscì sempre in mia compagnia.
Dopo qualche settimana Giovanni Agnelli si mise a letto e non fu più in grado di alzarsi. […] Dopo pochi giorni spirò. Era il 15 dicembre 1945.”
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Astronaut Oral Histories, Group 1 and 2 (Apollo and America’s Moon Landing Program)
autore: National Aeronautics and Space Administration (NASA), World Spaceflight News, Johnson Space Center
editore: Smashwords Edition
anno di pubblicazione: 2013
ISBN: 978-1521152140
L’opera editoriale è composta da due volumi. Il primo include le interviste agli astronauti:
Anders,
Armstrong,
Bean,
Borman,
Cernan,
Collins,
Cunningham,
Evans,
Gordon,
Haise.
Il secondo include le interviste a:
Lovell,
McDivitt,
Mitchell,
Schirra,
Schmitt,
Schweickart,
Shepard,
Stafford,
Worden.
Queste interviste furono raccolte a beneficio del Johnson Space Center Oral History Project della NASA.
Nel corso degli anni successivi al periodo delle missioni Apollo, da subito dopo fino a qualche anno fa, diversi intervistatori hanno incontrato i protagonisti di quelle missioni. Le registrazioni sono state trascritte ed oggi finalmente possiamo trovarle online, scaricarle e leggerle.
Si tratta di colloqui piuttosto informali, il linguaggio è quello parlato, che fa uso di espressioni idiomatiche tipiche della regione di provenienza degli intervistati. E per scelta ben precisa le trascrizioni sono state lasciate in forma integrale, senza “abbellirle” con opportune correzioni.
La lingua è l’anglese, anzi, diciamo meglio, l’americano. E questo comporta una certa difficoltà in più per il lettore che non sia di madre lingua. Ma, allo stesso tempo, rende la lettura ancor più interessante e, se vogliamo, più formativa.
Ho letto tanti libri scritti dagli astronauti e continuo a leggerne di nuovi, man mano che si rendono disponibili. Non tutti gli astronauti si sono cimentati nell’impresa di immortalare le loro esperienze in un libro, certo, ma coloro che lo hanno fatto, hanno parlato anche degli altri colleghi, di tutti i componenti degli equipaggi. Alla fine si finisce per conoscerli tutti. Si conosce la loro vita, la carriera, la storia che è seguita al loro ritorno.
Ora questa raccolta di interviste non fa altro che ribadire gli stessi eventi. Chi aveva letto i loro libri si trova a fare quasi un ripasso della stessa storia, che già conosce. Ma per chi legge solo queste interviste è un’occasione per conoscere qualcosa di cui, probabilmente, ha solo sentito parlare di sfuggita. Specialmente i giovanissimi.
A parte questo, cosa si ricava dalla lettura di queste trascrizioni?
Beh, dipende da chi legge e da quanto conosce di tutta la storia della conquista dello spazio.
Per quanto mi riguarda, ci sono alcuni elementi, alcune sensazioni e diverse considerazioni che vorrei mettere in evidenza.
Prima di tutto, dalle interviste, avvenute, come ho detto in anni successivi e a volte anche parecchi anni dopo, viene fuori un fatto straordinario: spesso gli astronauti dichiarano di non ricordare con chiarezza molti particolari. E questo sorprende, perché non stiamo parlando di qualcosa di banale, ripetitivo, comune. Ci si aspetterebbe, da chi ha vissuto esperienze così straordinarie, eccezionali e al limite, quasi, delle possibilità umane e tecnologiche, che ricordi tutto, ma proprio tutto, senza dimenticare neanche un singolo particolare.
Invece no. A fronte di alcune parti che ricordano molto vividamente, ci sono pezzi della Storia che non sanno dire con precisione come si sono svolti.
Strano fatto davvero.
Altro elemento di rilievo, che avevo già scoperto leggendo i libri, ma che qui è ribadito ovunque, è l’immenso senso di competizione che riguardava tutti, ma specialmente gli astronauti.
Aldrin, ad esempio, si è rovinato l’esistenza per non essere stato il primo a scendere dal Modulo Lunare e posare il piede sulla superficie polverosa del nostro satellite. Nella sequenza di fotogrammi della videocamera che lo riprende mentre scende la scaletta del LM (Lunar Module – modulo lunare), quando già Armstrong lo aspettava sul suolo lunare, si vede che sull’ultimo piolo si arresta e rimane fermo per un certo tempo. A chi gli chiede il motivo risponde che si era fermato per… fare pipì! Si, esatto, proprio per fare pipì. Aveva un sistema studiato appositamente per permettere agli astronauti di svolgere questa funzione attraverso un tubicino che portava la pipì in una sacca fissata più in basso. La gravità della Luna, un sesto di quella della Terra, faceva sì che il sistema funzionasse bene. Ma non era per questo che aveva scelto quel momento. Piuttosto voleva essere il primo, se non a mettere piede sulla Luna, a farci la pipì.
E Cernan, l’ultimo a togliere il piede dal suolo lunare nel corso della missione Apollo 17, ha portato per tutta la vita l’etichetta di ultimo… anche se non credo che a lui, questo, abbia dato particolarmente fastidio.
Ma Cernan aveva aperto la strada all’Apollo 11. Con la missione precedente, l’Apollo 10, Cernan era sceso a bordo del modulo lunare fino ad una quindicina di chilometri dalla superficie. La sua poteva essere la missione destinata ad atterrare, ma il modello di Lunar Module che stava utilizzando era ancora troppo pesante. Perciò, meglio non rischiare. Una catastrofe avrebbe fermato tutta la corsa alla conquista della Luna, che doveva avvenire prima della fine del decennio, come Kennedy aveva promesso.
Anche l’URSS era interessata ad essere la prima a scendere sul suolo lunare e l’URSS andava assolutamente battuta. Non si poteva rischiare.
Cernan dovette arrestare l’avvicinamento a quella quota, circa quindici, sedici chilometri. Infatti comandò l’abort e tornò al rendez-vous con il Modulo di Comando (e il Modulo di Servizio, uniti) che intanto stava orbitando intorno alla Luna. Poi tornarono indietro.
E questo, credo, deve avergli dato veramente fastidio, perché poteva essere stato lui il primo.
Nell’intervista a Cernan, alla seconda pagina, traspare questo fastidio:
“… But we only came close. We came within about 47.000 feet but did not land. That’s the way it was planned, although originally one time early on in the program the fourth Apollo flight was going to be the first attempt at landing. That would have been Apollo 10”.
(Ci siamo andati vicino. Siamo arrivati intorno ai 47.000 piedi ma non siamo atterrati. Così era stato pianificato, sebbene originariamente nel programma il quarto volo Apollo avrebbe dovuto essere quello del primo tentativo di atterraggio. Avrebbe dovuto essere l’Apollo 10).
E quello che dice dopo è ancora più illuminante:
“But anyway, I keep telling Neil Armstrong that we painted that white line in the sky all the way to the Moon down to 47.000 feet so he wouldn’t get lost, and all he had to do was land”.
(Ma comunque, io continuo a dire a Neil Armstrong che noi abbiamo disegnato quella linea bianca nel cielo fino alla Luna e giù fino a 47.000 piedi così che lui non si perdesse, e tutto quello che gli rimanesse da fare fosse l’atterraggio).
Come dire: non sarò stato il primo, ma se non fosse stato per me… ti ho tracciato la strada fin quasi al suolo lunare…
Ecco, grande senso di competizione. Ma anche grandissimo senso di collaborazione.
Tornando ai due libri, ogni intervista rivela la linea degli avvenimenti che sono quelli noti, ma dal punto di vista del personaggio di turno. Ogni personaggio ci regala la sua personale visione dei fatti.
Ma c’è un altro elemento che tutti hanno, in qualche modo, menzionato, o lasciato intendere: il rammarico per l’improvviso arresto delle successive missioni Apollo già pianificate. Dopo l’Apollo 17 tutto si è fermato, molti sono stati licenziati e il budget è stato dirottato nelle missioni di un nuovo veicolo spaziale che stava prendendo forma in quegli anni: lo Shuttle. E la costruzione di quella che oggi è la Stazione Spaziale Internazionale.
Con questo è finita l’era dell’esplorazione dello Spazio profondo e ci si è, per così dire, ritirati in un guscetto che gira intorno alla Terra, appena fuori dalla porta di casa.
C’è molto altro in queste interviste. Si trovano online e chiunque le può scaricare.
Consiglio tutti di leggerle. Qualcuna è più difficile da comprendere, per via delle troppe frasi idiomatiche e parole strane che, a volte, neanche il vocabolario insito nell’applicazione Kobo conosce. Ma si rimedia facilmente con lo smartphone, che trova quasi tutto con facilità.
E in questo modo, ripeto, si impara.
Con questi due libri possiamo conoscere i fatti che hanno riguardato il passato.
Quest’anno, 2019, ricorre il cinquantesimo anniversario del primo sbarco sulla Luna.
Ma proprio in questo periodo riprende con forza l’interesse per l’esplorazione spaziale. Non solo è previsto il ritorno sulla Luna, ormai lo sguardo umano è rivolto verso Marte e le sue lune e verso altri asteroidi lontani.
Si ritorna nello spazio profondo, con tutto ciò che comporta.
E questa è l’alba di una nuova era che potrebbe portare l’Umanità ad essere una razza multi planetaria. Come forse era già stata. Uno degli intervistati, Al Worden, lo sostiene.
Questa, però, è Storia futura.
Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer).
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.
Aforismi
Che il cielo me la mandi buona … ma soprattutto “disponibile”.
(Gabriele Tasca)
Q.T.B.
PILOTA: topo in cabina. MECCANICO: gatto installato
(Suggerita da Herr Professor)
Check-In
HOSTESS: Signore, preferisce un posto finestrino o corridoio? PASSEGGERO: Signorina, faccia come vuole … tanto io sono adattabile