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Geo Chavez, alata avventura


 

Esistono tanti modi per fare divulgazione storica come pure esistono soluzioni originali per insegnare ai bambini la storia, per appassionarli alle vicende e ai personaggi che hanno animato il passato.

Uno splendido primo piano del motore e dell’elica che spinsero il velivolo Bleriot XI di Geo Chàvez fin sopra le Alpi. Il motore era un radiale rotativo a 7 cilindri Gnome Omega capace di sviluppare soli 50 cavalli di potenza. Era raffreddato ad aria (il motore ruotava assieme all’elica per migliorare il raffreddamento) e lubrificato con olio di ricino. L’elica bipala di legno produceva la trazione necessaria a farlo volare ruotando al massimo a 1250 giri al minuto. Ovviamente elica e motori ritratti nella fotografia non sono originali ma appartengono al velivolo replica di quello con il quale effettuò il volo Geo Chàvez.

Rosa Danila Luomi, insegnante elementare in pensione, ce ne fornisce un esempio illuminante con il suo singolarissimo racconto “Geo Chàvez, alata avventura” con il quale ha partecipato, senza godere dei favori della giuria, alla VI edizione del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

La composizione non è stata ritenuta meritevole di avere accesso alla fase finale dell’iniziativa promossa dal nostro sito e dall’HAG, tuttavia approda nel nostro hangar con grande giubilo da parte nostra. Inutile negarlo. Certo, l’autrice ne se sarà amareggiata, ma sappia che gode del nostro più sincero apprezzamento giacchè ci consente anzitutto il privilegio di leggere un racconto inusuale e poi, soprattutto, ci concede l’opportunità di poter ricordare le gesta di Geo Chàvez, appunto, che è poi è lo scopo ultimo di questo cameo narrativo.

Ma andiamo con ordine.

Che il Bleriot XI sia un aeroplano fotogenico è evidente … ma che il fotografo sia stato al posto giusto nel momento giusto e pure con una buona macchina fotografica beh … questo è indiscutibile. Il titolo di questa foto: “Azzurro” (da Flickr.com). Qualora vogliate sapere di più dell’impresa di Geo Chàvez o vi affascini la figura di questo ingegnere con genitori peruviani, nato a Parigi ma adottato dagli italiani, vi suggeriamo di visitare l’ottimo sito web http://www.jorgechavezdartnell.com che costituisce una vera fonte di divulgazione di storia aeronautica. 

Siamo nel 1910 e, se da una parte, l’aviazione è considerata ancora una pratica pericolosa riservata a pochi rompicollo dell’aria, dall’altra, per gli audaci pionieri del cielo si sono appena aperti sconfinati orizzonti di gloria.

E’ ancora vivida, ad esempio, l’impresa compiuta nel luglio del 1909  che ha consentito all’ardimentoso pilota francese Louis Bleriot di attraversare La Manica, lo stretto braccio di mare che separa il continente europeo dall’isola britannica. Per la cronaca, impiegò la bellezza di 36 minuti volo alla media di 64 km/h; oggi lo stesso tratto si percorre in un tunnell sotterraneo in una manciata di minuti, comodamente seduti nelle poltrone di un confortevole convoglio ferroviario …

Il Bleriot XI è un velivolo che ha stabilito diversi primati nell’ambito della storia dell’aviazione mondiale. Anzitutto, pilotato dal suo costruttore Louis Bleriot, attraversò il canale della Manica, quindi, per merito di Jorge Chávez Dartnell superò le Alpi. Questo come impiego civile … ma per uso militare? Ebbene nel 1911 fu utilizzato durante la Guerra di Libia per il primo volo di ricognizione della storia militare. A pilotarlo era il capitano italiano Carlo Maria Piazza. Ma non solo: qualche giorno dopo lo stesso pilota/velivolo si cimentarono nel primo bombardamento aereo effettuando il lancio (a mano) di bombe di 2 kg. sugli accampamenti nemici. Qualche mese dopo, sempre il Cap. Piazza con un Bleriot XI, furono i primi ad effettuare una ricognizione fotografica aerea. A bordo c’era una macchina fotografica Bebé Zeiss. Niente male per un aeroplano di 350chili a vuoto fatto per lo più di frassino e di tela di cotone!

Ma non divaghiamo … sull’onda dell’impresa di Bleriot, dicevamo, i continentali europei potevano essere da meno? Certo che no! Ed ecco allora che, l’Aeroclub di Milano e il Corriere della Sera, in occasione del Circuito Aereo Internazionale di Milano del settembre 1910, mettono in palio un congruo montepremi per chi per primo riuscirà a valicare le Alpi. Ebbene quell’uomo sarò Jeorge Chàvez Dartnell, ricordato confidenzialmente da tutti come: Geo Chàvez.

Per dovere storico siamo tenuti a precisare che Geo decollò da Briga, in Svizzera, e, dopo aver effettuato due tentativi infruttuosi (a causa delle avverse condizioni meteo), atterrò rovinosamente a Domodossola dove precipitò al suolo da un’altezza di circa 20 metri.

A ricordare il luogo dove si compì il tragico destino di Geo Chàvez c’è oggi questo cippo. Il pilota peruviano riportò ferite gravi ma non gravissime tanto che fu trasportato ancora in vita presso l’ospedale San Biagio di Domodossola dove rimase ricoverato ben quattro giorni prima che le sue condizioni si aggravassero irrimediabilmente. Aveva riportato fratture agli arti e svariati tagli. Le prime gli furono ridotte o steccate mentre le seconde gli furono suturate. Alla luce delle moderne conoscenze mediche forse, e sottolineiamo forse, la vita di Geo sarebbe stata salva ma all’epoca, evidentemente … Anzitutto non venivano praticate trasfusioni nè somministrazioni di liquidi via endovena, figurarsi l’erogazione di ossigeno. Nella cartella clinica risultano invece: olio canforato, tinta di digitale e liquore anodino di Hoffman, acquavite tedesca e poco più, Alle ore 14,55 del 27 settembre 1910, Jorge Antonio Chàvez Dartnell venne dichiarato morto per arresto cardiaco. Aveva solo 23 anni. Il suo corpo terreno ci aveva lasciato per sempre, il suo mito era appena decollato verso i cieli della storia.

Il suo monoplano Bleriot XI, costruito per lo più in legno e tela, era stato messo a dura prova dai voli in montagna e incappò in quello che oggi chiameremmo: cedimento strutturale. Le semiali si chiusero sulla fusoliera e Geo fu letteralmente ritrovato, neanche gravemente ferito, sotto ai rottami del suo stesso velivolo.

Era il 23 settembre 1910 e un’altra tappa della storia dell’aviazione era stata scritta.

Ora, ricordare brevemente le vicende di Geo Chavez, ospiti in un hangar come il nostro, tra appassionati di volo o anche tra semplici curiosi di aviazione, apparirà alquanto banale; viceversa, tutta altra sfida è farlo con dei bambini, proverbialmente disinteressati e oggi fin troppo tecnologici, più inclini ad appropriarsi del proprio futuro che non a recuperare il passato altrui.

Benché siano stati costruiti ben oltre 130 esemplari di Beriot XI (alcuni su licenza dall’italiana S.I.T. – Società Italiana Transaerea di Torino), quello ritratto in questa foto è l’unico volante, fatto salvo che non si tratta di un velivolo originale bensì di una replica costruita dallo svedese Mikael Carlsson per conto dell’imprenditore italiano Giuliano Marini. Lo scopo, peraltro raggiunto, era di farlo volare in occasione del 100° anniversario della traversata delle Alpi nel corso di una memorabile manifestazione tenutasi a Masera. In verita esso fu concesso in prestito a Volandia a fare bella mostra di sé all’interno di uno splendido stand del museo dell’aeronautica (e non solo) di Milano Malpensa ma vederlo in aria è tutta un’altra storia, non trovate?. Rimanendo in tema di musei, occorre precisare che, in Italia, c’è un solo museo dell’aria che annovera un Bleriot XI nella sua collezione. Si tratta del Museo storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle (Roma) che dispone di un rarissimo quanto preziosissimo velivolo biposto originale ma, evidentemente non volante.

Come fare, cosa fare?

Inventare una storia? Dare un alito di vita al personaggio? Coinvolgere l’interlocutore sempre distratto stimolandone la fantasia? Fargli rivivere le medesime sensazioni che l’eroe-protagonista provò realmente? Recandosi nei luoghi che lo videro compiere quelle sua gesta? … ebbene “Geo Chavez, alata avventura” è la cronaca di questo esperimento, è il resoconto di come sia possibile far appassionare un nipotino di soli nove anni a una storia lontana più di cento.

Complice la grande magia creata dalle fotografie in bianco e nero, avremmo potuto tranquillamente additare il velivolo ritratto come quello originale con cui Geo Chàvez compì la sua impresa … in realtà si tratta di una replica e lo scatto è del 2010 quando si festeggiò il centenario di quel volo memorabile. Ciò che non sono assolutamente una replica solo invece le montagne tutte attorno che appaiono insormontabili oggi come allora.

E di questo siamo grati alla nostra Rosa Danila perchè, almeno con noi, che nove anni li abbiamo compiuti da qualche lustro, ha funzionato. Non farà testo, ma il suo racconto ci ha appassionato, ci ha costretto ad appronfondire, a cercare le foto e i siti web che celebrano o comunque ricordano la figura del giovane pilota peruviano. E brava Rosa: missione compiuta!

E per concludere questa breve scheda critica, vi riportiamo la breve sinossi elaborata dalla stessa autrice:

“Una storia vera raccontata con semplicità , la storia di Geo Chavez  ricostruita  per far nascere curiosità ed entusiasmi.

Questo eroe dell’aria per tanti anni dimenticato, in occasione del centenario della sua impresa, si è riproposto quasi prepotentemente all’attenzione di tanti e per lui sono stati organizzati spettacoli, celebrazioni, gemellaggi.

Tutto il Verbano, Cusio e soprattutto l’Ossola hanno  ripercorso passo passo la storica trasvolata delle Alpi e magicamente Geo Chàvez ha ripreso vita comunicando gioia e spirito d’avventura.

I magici giorni che ho vissuto con Giacomo ripensando e rivivendo quel volo straordinario sono stati unici ed emotivamente intensi: oggi quando insieme ne parliamo quasi non ci sembrano veri . Ma è successo ed è stato uno dei tanti regali che Giacomo ha saputo farmi. Gliene sarò sempre grata.

Perché ho scritto questa storia? E’ semplice … perchè temo di dimenticare .”


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Catrame

“Un volo bruscamente, tragicamente interrotto dall’incuria dell’uomo. Una creatura senza nome, nata libera fra il cielo e il mare, che viene fermata da una massa nera che le inchioda le ali. Prima di chiudere definitivamente gli occhi, il volatile ripensa alla propria vita, e al cielo che accoglieva il suo volo.”

E’ con questa brevissima sinossi che Cristina Giuntini sintetizza il contenuto del suo racconto “Catrame” con il quale ha partecipato alla VI edizione del premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

Una sinossi assai breve che anticipa, senza rendergli particolare onore, un racconto mediamente lungo di circa 24’500 battute dal contenuto amaro, triste e, in alcuni punti, addirittura drammatico.

Lo scenario è quello di una spiaggia qualsiasi, in un angolo qualsiasi del nostro pianeta; il protagonista è un gabbiano senza nome perché, come scrive l’autrice toscana:

“[…] come tutti gli animali liberi, non sono stato battezzato con un nome proprio. Un nome lo hanno solo quelli che popolano le favole per i bambini, oppure i protagonisti dei best sellers. […]”

Non sappiamo dire se è questa o altre simili a questa che hanno ispirato l’autrice a scrivere il racconto “Catrame”, certo è che questa è l’immagine che si è materializzata nella nostra mente non appena abbiamo letto le sue prime righe. Trovarla in uno dei tanti articoli giornalistici che riportava l’ennesimo disastro ecologico è stato facilissimo. Quello ritratto, nello specifico, è il pellicano simbolo della marea di greggio che ha colpito la costa della Louisiana (USA) nel 2010 a seguito dell’incidente occorso alla piattaforma petrolifera off-shore Deep Water Horizon della compagnia petrolifera BP.

E’ allo stremo delle forze, sente la vita scorrergli via come le onde che lo lambiscono, gli manca l’aria. Tutto il suo corpo è coperto da una pesante coltre di petrolio addensato, catrame appunto, che gli impedisce di alzarsi, figurarsi camminare, impensabile volare.

Ed è in questa condizione in cui l’essenza vitale lo sta abbandonando per sempre che egli ripercorre la sua esistenza. Di gabbiano, certo, ma pur sempre una vita intera fatta di lunghi voli, di libertà assoluta, di lotta per la sopravvivenza.

Ecco allora che, a partire dallo schiudersi dell’uovo, dalla prima luce del sole, dal primo volo in poi è tutto un dipanarsi di ricordi e di suggestioni che l’autrice tratteggia con invidiabile delicatezza, con la sensibilità che solo una donna – noi uomini dobbiamo ammetterlo, volenti o nolenti – può dimostrare. E Cristina è una di quelle donne, capace inoltre di trasmettercela attraverso le parole e le immagini che quelle parole evocano.

Ancora un’immagine simbolica che testimonia gli effetti devastanti della marea nera sulla fauna volatile. Ogni commento ci appare superfluo. Aggiungiamo solamente che la foto ritrae lo stesso pellicano bruno della fotografia sovrastante: l’animale non si rende conto che il greggio lo ricopre interamente e continua a muoversie ad assumere le posture di un un volatile “normale” , come se nulla fosse.

Il suo narrare è delicato, fragile, venato da un dolore sommesso che attraversa tutto il racconto, frase dopo frase, riga dopo riga, perché il destino del gabbiano senza nome è già segnato eppure … l’epilogo sarà imprevedibile e sarà lasciato alla vostra interpretazione, al vostro essere ottimisti o alla convinzione pragmatica che non c’è speranza alcuna. Comunque.

Un racconto che vi strapperà qualche lacrima, ne siamo certi o, quantomeno, lascerà un magone dentro l’animo anche del più coriaceo dei lettori.

Un racconto che di aeronautico ha poco – è vero – ma che pone l’accento su un fenomeno che periodicamente (fin troppo spesso) si verifica e che reca molti nomi: catastrofe ambientale, sversamento di idrocarburi, disastro ecologico, marea nera … ma che comunque porta inevitabilmente alla morte di tutta la fauna contaminata, compresa quella aerea. Salvo miracolosi interventi umani ma che poco sono e poco fanno rispetto all’immane calamità.

Nella ricerca del commento fotografico di questa recensione del racconto “Catrame”, ci siamo imbattuti in questo scatto ad opera di Andrea Ferrante su Flickr.com. Nell’immaginario di chi ha colto questo attimo di vita, il gabbiano si stava annoiando e dunque si è lasciato andare ad un possente sbadiglio … ed è così che voremmo immaginare i protagonsta del racconto di Cristina Giuntini: al sole, con il piumaggio pulito e l’aria annoiata di chi si gode la splendida vista del litorale e la brezza marina, in attesa che i pescherecchi gli regalino un lauto pasto. ma questa è un’altra storia che precede il racconto di Cristina.

Non sappiamo dire perché la giuria del Premio non abbia preferito questo racconto agli altri 20 finalisti, anzi 22 (considerati gli ex equo) … ma una cosa è certa: a noi il racconto di Cristina Giuntini è piaciuto e molto. E questo sebbene il tema da lei scelto sia più vicino agli ambienti ecologisti o ai movimenti che si adoperano per la protezione dell’ecosistema che al mondo aeronautico.

Durante la premiazione di questa edizione 2018, l’editore dell’antologia, Gherardo Lazzeri, a fronte della bontà dei racconti inseriti nel volume, ha proclamato agli autori finalisti presenti: “Sentitevi tutti primi!” … beh, senza nulla togliere al terribile compito portato a termine dalla giuria, noi vorremmo estendere questa esortazione anche a Cristina Giuntini che, se ce ne fosse necessità, costituisce ormai una certezza di questo Premio.

Grazie Cristina!

Un racconto che piacerebbe a Richard Bach (autore de: “Il gabbiano Jonathan Livingstone”) e al nostro Evandro Detti (con il suo “Avventure in punta di ali”) che ai  gabbiani hanno dedicato due incommensurabili romanzi.


Narrativa / Medio – Lungo Inedito;

Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

 

In esclusiva per “Voci di hangar”

 


Forever young

titolo: Forever Young.  A life of adventure in air and space –  [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]

autore: John W. Young e James R. Hansen

Prefazione di: Michael Collins

editore: University Press of Florida

ISBN: 978-0-8130-4209-1

Anno di pubblicazione: 2012





Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.

Una fase molto delicata del decollo dello Space Shuttle quando, raggiunta una quota già elevata e una fortissima accelerazione, i due booster (i razzi laterali che forniscono la mostruosa spinta necessaria per sfuggire alla gravità terrestre) si sganciano dal sebatoio centrale. Da notare i fumetti posti sulla sommità dei razzi laterali che consentono loro di divaricarsi allontanandosi rispetto alla traiettoria in vertiginosa salita dello Shuttle.

John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.

Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.

 

 

Gli Space Shuttle o STS (Space Transportation System, come piace tanto agli statunitensi, maniaci degli acronimi) furono lanciati in orbita per la prima volta il 12 aprile 1981 mentre portarono a termine la loro ultima missione il 21 luglio 2011 dopo aver effettuato 135 lanci dal Kennedy Space Center, Florida (il buon vecchio Cape Canaveral delle missioni Apollo). Dunque 30 anni di onorato servizio che non hanno risparmiato loro periodi di grande successi ed entusiasmo cui hanno fatto da contraltare periodi bui con incidenti, riduzioni drastiche di fondi, ritardi e modifiche del programma spaziale. Ad ogni modo, come nella migliore tradizione statunitense, ora gli Shuttle sopravvissuti fanno bella mostra in vari musei. Quello ritratto è l’Atlantis e si trova conservato proprio nel museo ricavato all’interno del John F. Kennedy Space Center da dove partì per l’ultima missione, appunto, del programma Space Shuttle. La statistica ci rivela che questo gigantesco aliante spaziale effettuò un totale di 33 missioni trasportando complessivamente 191 persone di equipaggio e trascorrendo nello spazio 306 giorni 14 ore 2 minuti. Non vi riveleremo il numero delle orbite che lo videro ruotare attorno alla Terra nè i milioni di chilometri percorsi … semmai potremmo ricordarvi che lanciò ben 14 satelliti e fornì un contributo fondamentale per la realizzaione della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Grazie, Atlantis!

John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.

Ho imparato moltissime cose, in questo libro.

 

La prima volta in cui lo Shuttle Columbia fu lanciato verso lo spazio per poi rientrare felicemente a Terra, ai comandi c’era proprio l’autore del libro: il pilota collaudatore nonché astronauta John Watts Young. Era con lui il solo copilota Robert Crippen e la missione era la STS-1. Non c’erano altre persone a bordo né carico pagante fatto salvo l’insieme di apparati utilizzati per il controllo e la registrazione di un’infinità di parametri di volo. Si trattava infatti di una mera missione di collaudo. A differenza delle navicelle fino ad allora utilizzate della NASA, non era stato possibile testare la navetta con comandi remoti benché fossero stati effettuati diversi i voli nell’atmosfera grazie al Boeing 747 ritratto in questa foto in volo, scortato dai jet della NASA. Come previsto il Columbia atterrò in volo planato sulla pista ricavata nel lago Rogers, un bacino asciutto dove aveva (e ha tuttora sede ) la base dell’Air Force di Edwards in California, e per la prima volta nella storia dei programmi spaziali della NASA, non occorse recuperare in mezzo all’Oceano la capsula discesa sulla Terra grazie al sistema a paracadute.

La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di Space Shuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.

Le dimensioni dello Space Shuttle sono facilmente intuibili se raffrontati a quelli di un velivolo noto come il Boeing 747 Jumbo jet o alle dimensioni “umane” del manovratore al suolo. A giudicare da questo primo piano dell’Endeavoir non si tratta proprio di una pulce. L’istantanea fu scattata presso il Kennedy Space Center nel settembre 2012 in procinto di trasferire la navetta presso il California Science Center di Los Angeles. Quel trasferimento costituisce virtualmente l’ultimo volo di uno Shuttle nell’ambito del relativo programma. Dopodichè solo musei!  Foto della NASA/Bill Ingalls

Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.

Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.

E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.

Quando si parla di Space Shuttle, inevitabilmente vengono alla memoria i tanti film prodotti dall’industria cinematografica statunitensi che hanno visto quali protagoniste queste navette. La prima pellicola che ci ritorna in mente è il visionario “Moonraker – Operazione spazio” del 1979 in cui un disinvolto 007- James Bond (interpretato da un mirabile Roger Moor) scorrazza nello spazio a bordo di uno Shuttle. E così i suoi amici e nemici; tutti dotati di Shuttle come fossero gli scooter del futuro. Ma il film più pirotecnico che rammentiamo è “The core”, uscito nelle sale nel 2003 e ricco di effetti speciali notevoli. A causa di una spaventosa tempesta eletrtomagnetica, lo Shuttle Endeavour in fase di rientro nell’atmosfera, si trova a 129 miglia dal previsto luogo di atterraggio (la base di Edwards in California). Che fare? Solo grazie al sangue freddo del comandante di missione e all’intuizione del suo copilota (donna), metterà le ruote (o meglio la pancia) nel canale artificiale Los Angeles nel cuore della popolatissima Los Angeles, appunto. Un inizio di film ad altissimo tasso di adrenalina che, normalmente, vi lascerà a bocca aperta e deglutizione azzerata. Bellissima la simulazione (?) di quanto accade allo Shuttle durante il rientro in atmosfera.

Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.

Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.

Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.

 

 

Nella storia del programma Space Shuttle furono ufficialmente costruite sette navette. Il Challenger rimase distrutto durante il lancio del suo decimo volo nel gennaio 1986. Perirono i sette membri dell’equipaggio. Il Columbia segui la sua stessa sorte durante il suo rientro in atmosfera nel febbraio 2003. Era quello che aveva svolto i primi voli di collaudo. C’era poi il Discovery che è l’Orbiter che ha inanellato il maggior numero di voli. E’ quello ritratto in questa fotografia.Ricordiamo poi l’Atlantis, quindi l’Endeavour che fu costruito dopo la perdita del Challenger. A loro si aggiunge l’Enterprise che è stato il primo Shuttle utilizzato per sperimentarne il trasporto sul dorso del Boeing 747 e che poi ha effettuato prove di vibrazione e le verifiche delle procedure di montaggio. Non è mai andato nello spazio, tuttavia è stato donato al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington. Infine c’è il Pathfinder, una sorta di clone di un vero Orbiter, identico in termini di peso, dimensioni e forma. Venne utilizzato come simulacro per verificare alcune procedure di gestione a terra.
Esiste poi anche una copia dell’Orbiter originale mai usata né per test né per missioni. Si tratta dell’Explorer.

Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.

Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.

Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).

Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.

Prima di riuscire a lanciare nello spazio una macchina volante e, al contempo, una navetta spaziale così avveniristica, la NASA intraprese un programma lungo, travagliato e particolarmente oneroso che ebbe inizio già nel ’69, praticamente all’indomani del grande successo della missione Apollo 11 che permise all’umanità a mettere piede sulla Luna.
L’idea di base dello Shuttle – occorre ammetterlo – era geniale nella sua semplicità tuttavia, quando il salto tecnologico/ingegneristico è così immenso, le difficoltà che si incontrano, inevitabilmente, sono altrettanto immense.
Certamente la NASA fece enorme tesoro degli studi condotti sugli aerorazzi X-1 e X-15, divenuti famosi per aver volato a velocità e a quote per allora impensabili, per non dire “insuperabili”.
Anzitutto sperimentò l’idea di velivoli a fusoliera portante, quindi quelli con ala a delta … ma per arrivare anche solo a definire le specifiche dello Shuttle (da dare in pasto alle ditte aerospaziali) occorsero anni.
Oggi una macchina volante di nuova ideazione prima vola per alcuni mesi, al massimo qualche anno, nei computer degli studi di progettazione: se ne analizzano scrupolosamente i comportamenti e le caratteristiche di volo e si provvede alle opportune modifiche senza aver costruito praticamente nulla. Tutto virtuale, tutto simulato elettronicamente, tutto assolutamente verosimile tanto che i voli di collaudo confermeranno quasi completamente comportamenti e caratteristiche di volo previsti da progetto … ma all’epoca, era tutta un’altra storia. E poi c’era la necessità di materiali nuovi, di soluzioni tecnologicamente nuove mai sperimentate fino ad allora: una sfida immane che ricordava quella – vinta – che aveva consentito alla missione Apollo 11 di scrivere una pagina di storia. Idem per il programma Space Shuttle, nel bene e nel male.
In questa foto dai toni romantici si può vedere lo Shuttle Carrier Aircraft (il famoso 747 modificato) che trasporta lo Space Shuttle Enterprise al tramonto. Che sia stato uno scatto profetico?

Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno Shuttle Orbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.

It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.

 

[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].

Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.

Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.

La patch della prima e dell’ultima missione del programma Space Shuttle. Oltre ai nomi dei membri dell’equipaggio, è facile notare come siano presenti in ciascun logo rispettivamente la lettera ALFA e la lettera OMEGA. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. L’inizio e la fine.

La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.

Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.

Un’altra splendida immagine che pone il risalto l’accoppiamento Space Shuttle-Jumbo jet. L’idea, in verità non era del tutto nuova nella storia dell’aviazione … ma lo era in astronautica o in cosmonautica (detto alla sovietica)

Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.

Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.

Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.

Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.

Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.

Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.

Quasi tutte, però, sono state ignorate.

Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.

Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.

Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.

E non dimentichiamoci che il signor Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortale accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – è stata utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia

Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.

Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.

Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.

Un giovane John Watts Young in posa per la foto di rito prevista per tutti gli astronauti del programma Apollo. In realtà egli aveva cominciato quale membro del programma Gemini e terminerà la carriera con il programma Space Shuttle. In effetti, all’inizio della sua carriera professionale, era stato pilota della US Navy e, prima ancora di arruolarsi, aveva studiato tecnica del volo presso il Georgia Institute of Technology laureandosi con il massimo dei voti.

Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.

L’autore in posa davanti allo Shuttle durante una cerimonia di commerazione del XXV anniversario del primo lancio della navetta. L’evento si tenne nel 2006 presso il Kennedy Space Center. Young aveva lasciato definitivamente la NASA dopo 42 anni di servizio alla splendida età di 74 anni. Nel 2012 ci ha regalato questa pregevole autobiografia mentre ci ha lasciato per sempre alla venerabile età di 87 anni a causa di una banale polmonite

E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.

Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.

Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?

[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].

Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.

Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.

Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.

E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Alta velocità

L’edizione 2018 del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE è da considerarsi, senza ombra di smentita, una tra le più “toste” tenutasi fino ad ora. Racconti di altissimo qualità, ben sviluppati e di notevole originalità l’hanno contraddistinta; dunque rientrare nella rosa dei 20 finalisti (rivelatisi poi 22 se si considerano gli ex equo) ha costituito di per sé un notevole successo.

Qualcuno si domanderà come il fotografo sia riuscito a realizzare questa istantanea che, se scattata in volo, avrebbe qualcosa di letteralmente miracoloso. Ebbene, a ben guardare l’immagine, questo ipotetico qualcuno si renderà conto che lo scatto, per quanto splendido per inquadratura, luminosità e originalità, è avvenuto utilizzando uno “Spillone” impiegato quale “gate guardian”. In verità, osservando questa fotografia, chiunque ammetterà che mai nomignolo è stato così azzeccato. Perchè questa è l’impressione che sia ha: un enorme spillo che penetra il cielo. Evviva lo “Spillone”!

“Consideratevi tutti primi!” ha dichiarato l’editore durante la cerimonia di premiazione di quella VI edizione, a conferma della bontà dei testi premiati dalla giuria.

“D’altra parte” gli ha fatto da contraltare il segretario del Premio, “una classifica andava stilata, seppure discutibile o non rispondente a propri gusti personali”.

Uno degli esclusi da questa benedetta/maledetta classifica è proprio il nostro Claudio di Blasio. Utilizziamo l’aggettivo possessivo “nostro” perché con Claudio abbiamo instaurato ormai un rapporto parallelo che ha visto crescere assieme il Premio, edizione dopo edizione, e, di pari passo, le sue esperienze narrative/editoriali.

Inutile precisare che Claudio ha partecipato a diverse edizioni del Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE sebbene con risultati alterni ma, ad ogni modo, si può considerare un affezionato frequentatore di questa iniziativa che, più di ogni altra, ben si addice al suo narrare squisitamente aeronautico.

Lo Starfighter (letteralmente: “cacciatore delle stelle”) è stato radiato dal servizio nel 2004 dall’Aeronautica Militare italiana, ultima forza armata al mondo ad utilizzarlo per scopi operativi e di prima linea. Godeva di grande reputazione presso i reparti da caccia e, in miisura minore, anche presso quelli che lo utilizzavano (snanturandolo non poco), quale cacciabombardiere. Il nomignolo “Spillone” è la dimostrazione dell’affetto che i piloti italiani nutrivano per questo velivolo benchè le rigide norme di impiego innescassero spesso, se non osservate, situazioni di pericolo talvolta mortali. Il verificardsi sempre più frequente di incidenti e la vetustà delle cellule (benchè rinnovate radicalmente o manutenute con notevole dispendio di risorse economiche) combinate all’avvento di nuovi velivoli (come l’Eurofighter) e ai mutati scenari geopolitici, indussero anche l’Aeronautica italiana a radiarli dal servizio giusto appunto dopo 46 anni di onorato servizio operativo (da che fu utilizzato per la prima volta dall’USAF) o la bellezza di 50 anni dalla data del suo primo volo di collaudo.

Lo stile di Claudio, delineatosi racconto dopo racconto, si è ormai consolidato e anche in quest’ultimo suo testo, “Alta velocità”, non si smentisce. Non smentisce il suo raccontare con dovizia di particolari senza però scendere troppo nel tecnico, non tradisce il suo dipanare la trama con la linearità che non lascia spazio a figure retoriche o a colpi di scena imprevedibili, non viene meno al suo modo di descrivere le persone che poco hanno di inventato e che potremmo realmente incontrare nei reparti di volo operativi.

Una macchina volante come lo “Spillone” non può non adornare l’ingresso di un aeroporto militare in qualità di “gate guardian” come pure non può non adornare un museo dell’aria degno di questo nome.

Insomma: Claudio è una certezza e i suoi racconti sono pressoché inconfondibili. Talvolta questo può essere una fortuna, talvolta una iattura. Perché se è vero che la lettura dei suoi testi è piacevole e scorrevolissima, dall’altra non possiamo e non dobbiamo attenderci dei picchi narrativi, dei sussulti nell’intreccio o delle descrizioni approfondite dei personaggi; rare le riflessioni interiori, scarne le descrizioni dei luoghi. La narrazione di Claudio è tutto movimento, aviazione allo stato puro con scenari di volo a gogò con qualche momento di vita a terra. Che poi, in fin dei conti è proprio quella che conducono o che vorrebbero praticare la maggior parte dei piloti nati con le ali addosso.

Certamente, da un autore con all’attivo due romanzi pubblicati (“Il mio cielo” e “Ali di fantasia” di cui vi abbiamo dato conto nella sezione MANUALI DI VOLO del nostro sito) ci attendiamo di più di un semplice esercizio di stile personale. Specie se, a detta del nostro servizio di intelligence, ne ha un terzo in via di elaborazione,

Il vigoroso esubero di spinta del mitico motore General Electric J79 (dotato di postbruciatore) che ha equipaggiato l’F104 sin dalla prima versione, lo ha reso per decenni il velivolo di intercettazione per antonomasia. Capace di decollare e di salire praticamente in verticale, riusciva a raggiungere rapidamente lo scramble e a identificarlo in men che non si dica con grande soddisfazioni dei piloti e del comando della difesa aerea. Ai piloti piaceva molto il colpo nella schiena che, al decollo, confermava l’inizio della corsa di rullaggio e, benchè la piccola ala trapezia fosse molto più adatta all’alta velocità che al combattimento manovrato, lo Starfifghter possedeva anche una certa manovrabilità … o almeno la dimostrava se pilotato dai quei “manicacci” dei cacciatori italiani. In questo scatto del nostro Giorgio Levorato il magnifico colpo d’occhio del cruscotto del 104.

Tornando a questo racconto, il protagonista assoluto è, da un lato, Roberto, un giovane pilota militare italiano di stanza alla base di Grosseto e, dall’altra, lo “Spillone”, nomignolo che fu affettuosamente attribuito al Lockeed F104 Starfighter per via della sua forma di razzo con le ali che ricorda la forma, appunto, di uno spillo.

L’apertura dell’episodio vede Roberto in uno stato di profonda prostrazione a seguito di un incidente mortale che ha visto coinvolto un suo compagno di corso durante la fase di atterraggio di un 104 causato da un’errata gestione della macchina.

La vita di un pilota con le stellette però non conosce pause ed ecco che Roberto verrà messo a dura prova da un volo addestrativo con implicito esame da parte di un pilota veterano dopodiché lo attenderà una vera missione operativa di intercettazione (in gergo: scramble) nel corso della quale egli vivrà un’esperienza indelebile come può esserlo solo l’eiezione dall’abitacolo.

Non vi sveleremo di più se non che, nel racconto, incontreremo un’affascinante ragazza con cui Roberto …

Questo il contenuto in breve del racconto. Qualora ne vogliate sapere di più, ecco come l’autore lo sintetizza:

Roberto è un giovane pilota in addestramento presso il XX Gruppo del 4° Stormo, la celebre base maremmana, fucina dei futuri piloti del leggendario F-104 Starfighter.

         Le giornate sono segnate da intense e continue missioni e una triste mattina Edoardo, suo compagno di studi in Accademia, perde la vita in un tragico incidente durante la fase di atterraggio. Il giovane pilota accusa molto la perdita dell’amico e cerca di distrarsi passeggiando la sera sul lungomare. Molti gli interrogativi ed i dubbi che affollano la sua mente: – Ne varrà la pena? Chi ce lo fa fare? –

Poco dopo la cerimonia funebre incontra la figlia del suo Capo velivolo, conosciuta proprio assieme a Edoardo al circolo della base. Assieme scambiano poche parole confortandosi davanti a una tazza di cioccolata calda e lasciandosi senza alcun appuntamento.

         Le missioni si susseguono fino a giungere a quelle di carattere operativo: le intercettazioni. Un vecchio istruttore lo sfida sprezzante ma Roberto dimostra di avere le doti e le capacità per diventare un ottimo intercettore. Poco prima di essere destinato alla base di Cameri, Roberto accetta l’invito a cena da parte di Lorenzo, il proprio Capo velivolo. Al termine della serata la figlia lo accompagna all’auto e s’intrattengono in una piacevole conversazione che termina con un saluto, un abbraccio e un bacio affettuoso. Tra i due ragazzi nasce un forte sentimento anche se il giovane pilota deve partire per la nuova destinazione.

Tornando al tema che non si tratta di un vero museo dell’aria se non  presente uno “Spillone”, al Museo storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle (Roma), ad esempio, è conservato un esemplare assai  particolare. Fu l’unico velivolo F-104G italiano costruito negli Stati Uniti ed il primo ad essere stato consegnato all’Aeronautica Militare nel ’62. Un vero pezzo unico!

         Il nuovo Reparto di assegnazione è un ottimo ambiente, in particolare per la cordialità e l’affiatamento tra i componenti. Il giorno successivo al suo arrivo, Roberto è assegnato a un volo in formazione con il Comandante, il quale si complimenta vivamente per la sua impeccabile esecuzione delle manovre.

         Una sera, durante una missione di scramble simulato per la valutazione dello Stormo in ambito Nato, a causa delle pessime condizioni atmosferiche, lo Spillone di Roberto e quello di un suo collega entrano in collisione. Momenti tragici, durante i quali il protagonista esce indenne dal lancio con il seggiolino eiettabile e cerca disperatamente di conoscere le sorti dell’altro pilota. Dopo il contatto con il suolo, in una risaia, infangato e bagnato raggiunge una casa colonica ove viene accolto dal contadino e da sua moglie, gente semplice che si presta a fornire aiuto allo sventurato e a metterlo in contatto con la propria base. Purtroppo la sorte non è stata benevola con il collega che alcune ore dopo viene trovato sotto i resti del proprio caccia.

Trascorsa una breve convalescenza Roberto riprende l’attività di volo con lo Spillone. Tra loro è nato un particolare rapporto e certamente non lo tradirà più.

 

In definitiva, si tratta di un racconto da leggere ad alta velocità come il titolo che reca e che lascia ben sperare gli ammiratori di Claudio per i suoi racconti futuri, romanzi compresi.


Narrativa / Medio – Lungo Inedito;

Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

 

In esclusiva per “Voci di hangar”

 


Il volo dell’incursore

titolo: Il volo dell’incursore

autore: Stephen Coonts

editore: Sperling paperback

anno di pubblicazione: 1986

ISBN: 88-7824-127-X

 





Mentre cercavo un libro tra le centinaia che si allineano sulle mensole della mia libreria mi è capitato tra le mani questo volume e subito l’ho messo da parte con l’intenzione di rileggerlo.

Lo avevo già letto parecchi anni fa e non una sola volta. Da questo libro è stato tratto un film, uscito nel 1991, che all’epoca avevo visto e mi era piaciuto molto.

Oltre a rileggere il libro vorrei rivedere anche il film.

L’A6 Intruder (letteralmente tradotto: incursore) fu progettato e costruito dalla Grumman per rispondere ad una specifica richiesta di fornitura della US Navy che aveva necessità di un aereo imbarcato per l’attacco al suolo in condizioni ognitempo. La società di Bethpage ( New York) ebbe la meglio sulle altre aziende aeronautiche facendo tesoro di una considerazione alquanto elementare: il piccolo A-4 Skyhawk, recente acquisto della Marina, era incapace di azioni ognitempo. Benché leggero ed economico, agile e di architettura moderna, si prestava ottimamente al suo ruolo ma non poteva dirsi certo un bombardiere. Di contro, il vecchio A-1 Skyrider aveva una configurazione piuttosto datata (per non dire antiquata) con il suo motore stellare, seppure in grado di un notevole carico bellico. Era una sorta di dinosauro dell’aria, giunto troppo tardi per essere utilizzato durante il II conflitto mondiale, tecnologicamente superato rispetto ai jet che ormai avevano conquistato – occorreva ammetterlo – la supremazia dell’aria. Dunque occorreva creare un velivolo robusto, capace di trasportare elevati carichi bellici, propulso da almeno due motori a reazione, bipost e con un’avionica specializzata. La risposta fu appunto l’A-6. Naturalmente, come voleva la tradizione dei velivoli imbarcati, anche l’Intruder aveva le semiali ripiegabili e questa fotografia lo testimonia.

 

Non esito a definire “Il volo dell’incursore” uno dei racconti più avvincenti che mi siano capitati nella vita. E poi, come pilota, lo considero uno dei pochi che non contiene elementi di disturbo, quali, ad esempio, descrizioni approssimative o inesatte. Di solito, vedendo film ambientati nel settore aeronautico, i piloti sono sempre molto critici. Alla più piccola inesattezza, magari motivata dalla necessità di rendere la storia più avvincente, più facile, comprensibile ed accessibile al grande pubblico, il pilota, invece, si indigna. Punta subito il dito, esprimendo ciò che pensa del film con le più efficaci e vivide parole idiomatiche di frequente uso nell’ambiente aeronautico, che non riporto qui per motivi di decenza.

Mentre leggevo il libro, però, con il più acuto spirito critico pronto a rilevare anche la minima inesattezza, non ne ho trovata alcuna. Le pagine scorrevano, le descrizioni erano tutte perfettamente veritiere, la terminologia impeccabile. Sembrava di vivere nel reale mondo aeronautico.

Tutto si svolge su una portaerei che naviga al largo delle coste del Vietnam. Il protagonista è un pilota di jet, guida una squadriglia di cacciabombardieri che partono dalla portaerei e compiono incursioni nell’entroterra vietnamita, su diversi tipi di obiettivi quasi sempre celati nelle foreste.

L’A-6 Intruder non può certo definirsi un aereo bello a vedersi, almeno non tanto bello quanto i più ben blasonati velivoli che lo precedettero o con quelli con cui condivise i ponti di volo delle portaerei. La sua configurazione biposto affiancati (pilota e navigatore facente anche funzione di bombardiere) era assolutamente inconsueta tra i velivoli del parco US NAVY. Inoltre, rispetto al tronco di coda piuttosto smilzo, la fusoliera risultava abbastanza sgraziata a causa del generoso radome capace però di contenere il potente radar posto nel musone. D’altra parte uno dei punti di forza del A-6 fu proprio la potentissima, completissima e avanzatissima avionica che, all’epoca, lo rendeva pressoché infallibile nelle sue missioni a bassa quota e nella gestione dei più disparati munizionamenti. In questa istantanea è ritratto mentre, in fase di atterraggio, mostra completametne estratti i suoi pittoreschi aerofreni

 

Il jet è un A-6 Intruder. Incursore, appunto.

La storia si svolge sia a bordo della nave sia durante le missioni di guerra.

Il modo di scrivere dell’autore è talmente efficace che si resta incollati alle pagine per ore ed ore. La suspense è talmente densa da prendere il lettore e rendergli difficile anche una breve pausa.

Il pilota, anche lui, anzi, soprattutto lui… ne resta ipnotizzato.

Le descrizioni, tutte le descrizioni, per un pilota sono talmente esatte e veritiere da “vedere” attraverso le parole. Sembra di vedere il paesaggio, il ponte di volo, l’interno dell’abitacolo (anche l’illuminazione del cruscotto strumenti durante i voli notturni), le foreste e le pianure buie o illuminate dalla Luna.

Conoscendo la geografia generale del Vietnam, perfino le descrizioni della penetrazione a bassa quota provenendo dal mare e la descrizione delle virate, a destra o a sinistra o verso punti cardinali o specifiche prue per raggiungere gli obiettivi, risultano esatte. E questo un pilota lo nota.

Incredibile.

Quello ritratto è un A6 Intruder “Green Lizard” (letteralmente tradotto: “Lucertola verde”) al suolo, nell’area di parcheggio della base navale statunitense di Miramar (San Diego – California). Il fotogramma è stato scattato nell’agosto 1975 dal sig Jim Leslie che l’ha resa pubblica nell’ambito di Flickr. Egli precisa che il velivolo era in forza presso il reparto denominato “VA-95”, imbarcato sulla portaerei Coral Sea nell’ambito del Carrier Air Wing 15 sciolto nel 1995, anno in cui anche l’A6 Intruder cessò la sua attività operativa per far posto al ben più moderno F/A 18 Hornet. A proposito della Naval Air Station di Miramar siamo certi che questo nome (storpiatura latino-americano di Miramare, il castello di Trieste voluto a fine ‘800 dal sovrano Massimiliano I d’Asburgo) non vi apparirà del tutto sconosciuto. Fu infatti sede del Fighter Weapons School, ossia l’accademia deli piloti della US Navy, che con il suo programma di addestramento avanzato, formava i migliori piloti da caccia specializzati nel combattimento ravvicinato (il cosiddetto dogfight) e nella difesa aerea della flotta. Erano i famosi TOPGUN. In realtà questa base assurse agli onori del grande pubblico del cinema di azione quando divenne lo scenario dell’omonima pellicola degli anni ’80 che consacrò in giovanissimo Tom Cruise e ci fece conoscere un’affascinante attrice come Kelly Mc Gillys . Supportato anche da una fortunata colonna sonora, il film ebbe un successo strepitoso e dunque può essere considerato, senza ombra di dubbio, un vero e proprio “cult movie” del genere guerra-azione-aviazione. In effetti i cieli californiani stavano alquanto stretti all’intensa attività addestrativa dei piloti militari tanto che negli anni ’90 la “Fightertown” (letteralmente: città dei piloti da caccia) fu trasferita a Fallon, nel deserto del Nevada, ben più adatta alle scorribande addestrative dei TOPGUN.

 

Poi c’è la descrizione delle sensazioni, delle emozioni. Di tutte quelle fasi di volo che comportano una reazione da parte del pilota. Perfino quando, nel bel mezzo di un pericolo imminente, il pilota reagisce con azioni immediate e spesso disperate, senza mostrare emozione alcuna. Almeno sul momento.

E le comunicazioni radio?

Non c’è film o storia narrata che non contenga esempi di comunicazioni radio tra pilota e controllore, ma anche tra piloti e piloti, assolutamente inesatte, sbagliate sotto ogni punto di vista, con terminologia improbabile che nessuno userebbe in aviazione.

Qui no. Tutto perfetto.

Anche se, devo dire, il riporto di posizione trasmesso alla portaerei, da parte del caposquadriglia quando dal mare supera la linea di costa e comincia a sorvolare la terraferma, o viceversa, appare alquanto banale. Nell’intento di non farsi capire da eventuali ascoltatori nemici, il caposquadriglia non dice, ad esempio: “costa superata, entriamo sul continente” oppure: “Lasciata la terra, siamo sul mare”. Usa una forma più ermetica, dice: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi asciutti”, se dal mare è entrato sulla terra. Oppure: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi a mollo”, se dalla terra esce sul mare. Non mi sembra ci voglia molto a capire la situazione, anche descritta così. Però è la realtà, la forma di comunicazione realmente usata dalle squadriglie americane durante le vere missioni.

Prodotto in circa 700 unità, Il Grumman A-6 Intruder entrò in servizio nei primi anni ’60 e fu radiato a metà degli anni ’90. Non fu mai venduto alle forze aeree di altri paesi; il loro costo spropositato (circa 43 milioni di dollari USA), non ne favorì certo le vendite. Ebbe il battesimo del fuoco proprio in occasione della Guerra del Vietman le cui intricate vicende costituiscono lo scenario del libro del nostro Stephen Coonts ma, la storia insegna, l’A6 fu utilizzato ampiamente in tutti quegli scenari in cui entrò in azione l’US NAVY, ossia: Libano, Libia, Golfo Persico e financo in Iraq. Dall’Intruder è stato derivato, ed è tuttora utilizzato, un velivolo che si può considerarsi l’erede: l’EA-6B Prowler (predatore) Purtroppo nel nostro paese esso è assurto tristemente all’attenzione delle cronache a seguito della strage del Cermis: nel febbraio del ‘98 un velivolo di questo tipo, decollato dall’aeroporto NATO di Aviano per un volo addestrativo, impattò contro i cavi della cabinovia provocando a morte dei 19 occupanti e del manovratore. Fu un incidente che poteva essere evitato se solo il pilota non avesse volato premeditatamente troppo basso e troppo veloce. La vicenda incrinò non poco i rapporti tra l’Italia e gli USA sebbene, dopo una prima assoluzione, il pilota e il suo navigatore furono degradati e rimossi dal servizio. In seguito il pilota fu incarcerato per alcuni mesi e congrui risarcimenti furono destinati ai familiari dei defunti.

Del resto, anche i nostri piloti che partono su allarme, vengono autorizzati al livello iniziale, espresso in, ad esempio, ventimila angeli, per significare ventimila piedi.

Certo, così un nemico in ascolto capisce ugualmente a quale quota una squadriglia è stata autorizzata a salire.

Però, come dicevo prima, è tutto reale. Tutto corrisponde alla realtà.

Lascio lo svolgimento delle vicende del libro al lettore, che le scoprirà da solo.

Ma voglio mettere in evidenza un elemento di questo libro che, secondo me, ha una grandissima importanza.

La storia si svolge durante la guerra del Vietnam e le azioni descritte sono azioni di guerra. Quindi sono spesso cruente e anche queste sono descritte in maniera impeccabile.

C’è lo spirito americano in ogni pagina.

La retrocopertina del libro di Stephem Coonts, prolifico autore statunitense che ha all’attivo numerosi filoni del genere war e spy story. “Il volo dell’incursore” è il primo nonchè il suo romanzo di maggior successo giacchè è stato l’unico ad avere goduto di una trasposizione cinematografica. Un attento osservatore non potrà fare a meno di osservare che, nella copertina del libro, nel casco del pilota si riflettono delle forme luminose piuttosto inquietanti. O almeno così apparirono agli occhi di chi vi scrive. Quella copertina mi ha sempre dato l’idea, ingenuamente, che il losco figuro fosse un cyborg, sì insomma … un robot dalle fattezze umane alla stregua del mitico Terminator. E invece, solo oggi, col senno di poi e dovendo analizzare le foto per questa recensione, ammetto che si trattava di un umanissimo pilota letteralmente abbagliato dagli schermi luminosi dei numerosi apparati elettronici di bordo.

 

Tra i piloti protagonisti serpeggia il malcontento. Si critica l’assegnazione delle missioni, spesso condotte verso obiettivi inesistenti, come risaie, file di alberi, depositi di carcasse di camion eccetera. Obiettivi di cui non si capisce l’importanza, strategica o tattica che sia. Nulla che possa essere considerato decisivo per uno scopo qualsiasi. Però in queste missioni gli incursori sono presi di mira da tutte le armi nemiche, come contraerea, caccia avversaria e razzi. E ogni volta qualcuno di loro esplode in volo, o viene abbattuto e comunque non rientra.

I piloti si interrogano sull’opportunità di rischiare la vita in una guerra condotta in questo modo e si domandano se la guerra stessa è giusta. Sono legati da una grande solidarietà, basata sulla loro immensa passione per il volo, che è la vera ragione per cui sono lì a pilotare dei cacciabombardieri.

In quegli anni si diceva che le migliori caratteristiche di un pilota militare fossero due: un grande culo e un piccolo cervello. La prima caratteristica aiutava ad essere un pilota molto abile, un manico, perché si è sempre detto che l’aereo si guida con il culo, primo organo di senso in assoluto. La seconda consente di affrontare ogni missione senza troppo riflettere sul fatto che le proprie azioni portano morte e distruzione su vittime spesso inermi, come la popolazione civile. Oppure ci si lascia la pelle.

Nel corso del suo trentennale utilizzo, l’Intruder venne utilizzato principalmente come bombardiere tattico giacché era in grado di trasportare un carico bellico della bellezza di 15 tonnellate. Questa foto documenta l’enormità di munizionamento che il velivolo poteva trasportare (non tutto assieme, beninteso). Anche se non dotato di una notevole velocità (era solo subsonico), era in grado di volare a bassa quota, supportato da un’avionica che, per l’epoca, era letteralmente strepitosa rendendolo a tutti gli effetti antesignano di quanto sarà poi il Panavia Tornado solo alcuni decenni dopo.

Questi piloti, invece, seppure molto bravi, più di altri, visto che decollano ed atterrano sul ponte di una nave, non hanno certo un piccolo cervello. Hanno sentimenti e opinioni personali. Infatti organizzano una vera missione verso un obiettivo degno: Hanoi.

Ovviamente la loro missione non è autorizzata. Qualcuno passerà certamente dei guai. Ma poi…

Chi leggerà il libro vedrà come va a finire.

Intanto, vorrei aggiungere che nel libro, ad un certo punto si profila il personaggio di una ragazza.

La copertina del libro nella sua edizione originale in lingua inglese

Ce ne sono anche altre, ma questa interagisce quasi subito con il protagonista della storia.

Le loro conversazioni e le loro vicende costituiscono un altro elemento avvincente del libro.

Per concludere, vorrei spiegare perché tutta la storia è narrata con la perfezione che ho menzionato sopra.

L’autore, come ognuno può vedere facendo una breve ricerca su Google, parla come un pilota perché è un pilota. Ed ha volato proprio come pilota della marina degli Stati Uniti. Pilotava un A-6 Intruder e ha partecipato alla guerra del Vietnam. Nonostante sul libro, nelle prime pagine, ci sia scritto che questo romanzo è opera di fantasia, che nomi, personaggi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, a fatti e a luoghi realmente esistenti o esistiti è puramente casuale, lui è stato realmente in quei luoghi e ha compiuto quelle azioni.

La locandina del film tratto dal libro “Il volo dell’incursore”. Come tutti gli adattamenti cinematografici di best sellers, la trama del film non riprende perfettamente quella dell libro ma ne adatta i contenuti ai ritmi e alle scene tipiche del cinema. La pellicola, girata ben dopo il grande siccesso di TOP GUN, aveva tutte le carte in regola per riscuotere un buon successo a sua volta. Forse fu per questo motivo che la produzione, per girarlo, investì una cifra davvero notevole (circa 30 milioni di dollari)  … purtroppo ne ricavò poco meno della metà. Sebbene le riprese in volo e le ambientazioni a terra o a bordo della portaerei appaiono di tutto rispetto, assai scadenti (o comunque non proporzionati) risultano gli effetti speciali che, non potendo usufruire dell’elaborazione digitale nata qualche anno dopo, sono a dir poco grossolani. Anche la critica cinematografica statunitense non fu tenera con il film. Diversa fortuna ebbe invece il videogioco che, uscito nel 1990 per piattaforma personal computer, fu reimmesso sul mercato dalla Nintendo in concomitanza con l’uscita del film.

 

Certamente, non esattamente quei luoghi e quelle azioni, ma qualcosa di estremamente simile.

Perciò, pur essendo un romanzo, “Il volo dell’incursore” può essere considerato una eccellente testimonianza storica e come tale vale la pena di cercare il libro sulle bancarelle o in rete, di acquistarlo e leggerlo.

Dopodiché, molti si metteranno alla ricerca anche del film.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR