Esistono tanti modi per fare divulgazione storica come pure esistono soluzioni originali per insegnare ai bambini la storia, per appassionarli alle vicende e ai personaggi che hanno animato il passato.
Rosa Danila Luomi, insegnante elementare in pensione, ce ne fornisce un esempio illuminante con il suo singolarissimo racconto “Geo Chàvez, alata avventura” con il quale ha partecipato, senza godere dei favori della giuria, alla VI edizione del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.
La composizione non è stata ritenuta meritevole di avere accesso alla fase finale dell’iniziativa promossa dal nostro sito e dall’HAG, tuttavia approda nel nostro hangar con grande giubilo da parte nostra. Inutile negarlo. Certo, l’autrice ne se sarà amareggiata, ma sappia che gode del nostro più sincero apprezzamento giacchè ci consente anzitutto il privilegio di leggere un racconto inusuale e poi, soprattutto, ci concede l’opportunità di poter ricordare le gesta di Geo Chàvez, appunto, che è poi è lo scopo ultimo di questo cameo narrativo.
Ma andiamo con ordine.
Siamo nel 1910 e, se da una parte, l’aviazione è considerata ancora una pratica pericolosa riservata a pochi rompicollo dell’aria, dall’altra, per gli audaci pionieri del cielo si sono appena aperti sconfinati orizzonti di gloria.
E’ ancora vivida, ad esempio, l’impresa compiuta nel luglio del 1909 che ha consentito all’ardimentoso pilota francese Louis Bleriot di attraversare La Manica, lo stretto braccio di mare che separa il continente europeo dall’isola britannica. Per la cronaca, impiegò la bellezza di 36 minuti volo alla media di 64 km/h; oggi lo stesso tratto si percorre in un tunnell sotterraneo in una manciata di minuti, comodamente seduti nelle poltrone di un confortevole convoglio ferroviario …
Ma non divaghiamo … sull’onda dell’impresa di Bleriot, dicevamo, i continentali europei potevano essere da meno? Certo che no! Ed ecco allora che, l’Aeroclub di Milano e il Corriere della Sera, in occasione del Circuito Aereo Internazionale di Milano del settembre 1910, mettono in palio un congruo montepremi per chi per primo riuscirà a valicare le Alpi. Ebbene quell’uomo sarò Jeorge Chàvez Dartnell, ricordato confidenzialmente da tutti come: Geo Chàvez.
Per dovere storico siamo tenuti a precisare che Geo decollò da Briga, in Svizzera, e, dopo aver effettuato due tentativi infruttuosi (a causa delle avverse condizioni meteo), atterrò rovinosamente a Domodossola dove precipitò al suolo da un’altezza di circa 20 metri.
Il suo monoplano Bleriot XI, costruito per lo più in legno e tela, era stato messo a dura prova dai voli in montagna e incappò in quello che oggi chiameremmo: cedimento strutturale. Le semiali si chiusero sulla fusoliera e Geo fu letteralmente ritrovato, neanche gravemente ferito, sotto ai rottami del suo stesso velivolo.
Era il 23 settembre 1910 e un’altra tappa della storia dell’aviazione era stata scritta.
Ora, ricordare brevemente le vicende di Geo Chavez, ospiti in un hangar come il nostro, tra appassionati di volo o anche tra semplici curiosi di aviazione, apparirà alquanto banale; viceversa, tutta altra sfida è farlo con dei bambini, proverbialmente disinteressati e oggi fin troppo tecnologici, più inclini ad appropriarsi del proprio futuro che non a recuperare il passato altrui.
Come fare, cosa fare?
Inventare una storia? Dare un alito di vita al personaggio? Coinvolgere l’interlocutore sempre distratto stimolandone la fantasia? Fargli rivivere le medesime sensazioni che l’eroe-protagonista provò realmente? Recandosi nei luoghi che lo videro compiere quelle sua gesta? … ebbene “Geo Chavez, alata avventura” è la cronaca di questo esperimento, è il resoconto di come sia possibile far appassionare un nipotino di soli nove anni a una storia lontana più di cento.
E di questo siamo grati alla nostra Rosa Danila perchè, almeno con noi, che nove anni li abbiamo compiuti da qualche lustro, ha funzionato. Non farà testo, ma il suo racconto ci ha appassionato, ci ha costretto ad appronfondire, a cercare le foto e i siti web che celebrano o comunque ricordano la figura del giovane pilota peruviano. E brava Rosa: missione compiuta!
E per concludere questa breve scheda critica, vi riportiamo la breve sinossi elaborata dalla stessa autrice:
“Una storia vera raccontata con semplicità , la storia di Geo Chavez ricostruita per far nascere curiosità ed entusiasmi.
Questo eroe dell’aria per tanti anni dimenticato, in occasione del centenario della sua impresa, si è riproposto quasi prepotentemente all’attenzione di tanti e per lui sono stati organizzati spettacoli, celebrazioni, gemellaggi.
Tutto il Verbano, Cusio e soprattutto l’Ossola hanno ripercorso passo passo la storica trasvolata delle Alpi e magicamente Geo Chàvez ha ripreso vita comunicando gioia e spirito d’avventura.
I magici giorni che ho vissuto con Giacomo ripensando e rivivendo quel volo straordinario sono stati unici ed emotivamente intensi: oggi quando insieme ne parliamo quasi non ci sembrano veri . Ma è successo ed è stato uno dei tanti regali che Giacomo ha saputo farmi. Gliene sarò sempre grata.
Perché ho scritto questa storia? E’ semplice … perchè temo di dimenticare .”
Narrativa / Breve
Inedito;
ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;
“Un volo bruscamente, tragicamente interrotto dall’incuria dell’uomo. Una creatura senza nome, nata libera fra il cielo e il mare, che viene fermata da una massa nera che le inchioda le ali. Prima di chiudere definitivamente gli occhi, il volatile ripensa alla propria vita, e al cielo che accoglieva il suo volo.”
E’ con questa brevissima sinossi che Cristina Giuntini sintetizza il contenuto del suo racconto “Catrame” con il quale ha partecipato alla VI edizione del premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.
Una sinossi assai breve che anticipa, senza rendergli particolare onore, un racconto mediamente lungo di circa 24’500 battute dal contenuto amaro, triste e, in alcuni punti, addirittura drammatico.
Lo scenario è quello di una spiaggia qualsiasi, in un angolo qualsiasi del nostro pianeta; il protagonista è un gabbiano senza nome perché, come scrive l’autrice toscana:
“[…] come tutti gli animali liberi, non sono stato battezzato con un nome proprio. Un nome lo hanno solo quelli che popolano le favole per i bambini, oppure i protagonisti dei best sellers. […]”
E’ allo stremo delle forze, sente la vita scorrergli via come le onde che lo lambiscono, gli manca l’aria. Tutto il suo corpo è coperto da una pesante coltre di petrolio addensato, catrame appunto, che gli impedisce di alzarsi, figurarsi camminare, impensabile volare.
Ed è in questa condizione in cui l’essenza vitale lo sta abbandonando per sempre che egli ripercorre la sua esistenza. Di gabbiano, certo, ma pur sempre una vita intera fatta di lunghi voli, di libertà assoluta, di lotta per la sopravvivenza.
Ecco allora che, a partire dallo schiudersi dell’uovo, dalla prima luce del sole, dal primo volo in poi è tutto un dipanarsi di ricordi e di suggestioni che l’autrice tratteggia con invidiabile delicatezza, con la sensibilità che solo una donna – noi uomini dobbiamo ammetterlo, volenti o nolenti – può dimostrare. E Cristina è una di quelle donne, capace inoltre di trasmettercela attraverso le parole e le immagini che quelle parole evocano.
Il suo narrare è delicato, fragile, venato da un dolore sommesso che attraversa tutto il racconto, frase dopo frase, riga dopo riga, perché il destino del gabbiano senza nome è già segnato eppure … l’epilogo sarà imprevedibile e sarà lasciato alla vostra interpretazione, al vostro essere ottimisti o alla convinzione pragmatica che non c’è speranza alcuna. Comunque.
Un racconto che vi strapperà qualche lacrima, ne siamo certi o, quantomeno, lascerà un magone dentro l’animo anche del più coriaceo dei lettori.
Un racconto che di aeronautico ha poco – è vero – ma che pone l’accento su un fenomeno che periodicamente (fin troppo spesso) si verifica e che reca molti nomi: catastrofe ambientale, sversamento di idrocarburi, disastro ecologico, marea nera … ma che comunque porta inevitabilmente alla morte di tutta la fauna contaminata, compresa quella aerea. Salvo miracolosi interventi umani ma che poco sono e poco fanno rispetto all’immane calamità.
Non sappiamo dire perché la giuria del Premio non abbia preferito questo racconto agli altri 20 finalisti, anzi 22 (considerati gli ex equo) … ma una cosa è certa: a noi il racconto di Cristina Giuntini è piaciuto e molto. E questo sebbene il tema da lei scelto sia più vicino agli ambienti ecologisti o ai movimenti che si adoperano per la protezione dell’ecosistema che al mondo aeronautico.
Durante la premiazione di questa edizione 2018, l’editore dell’antologia, Gherardo Lazzeri, a fronte della bontà dei racconti inseriti nel volume, ha proclamato agli autori finalisti presenti: “Sentitevi tutti primi!” … beh, senza nulla togliere al terribile compito portato a termine dalla giuria, noi vorremmo estendere questa esortazione anche a Cristina Giuntini che, se ce ne fosse necessità, costituisce ormai una certezza di questo Premio.
Grazie Cristina!
Un racconto che piacerebbe a Richard Bach (autore de: “Il gabbiano Jonathan Livingstone”) e al nostro Evandro Detti (con il suo “Avventure in punta di ali”) che ai gabbiani hanno dedicato due incommensurabili romanzi.
Narrativa / Medio – Lungo
Inedito;
Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;
titolo: Forever Young.A life of adventure in air and space – [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]
autore: John W. Young e James R. Hansen
Prefazione di: Michael Collins
editore: University Press of Florida
ISBN: 978-0-8130-4209-1
Anno di pubblicazione: 2012
Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.
John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).
Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.
Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.
John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.
Ho imparato moltissime cose, in questo libro.
La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di SpaceShuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.
Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.
Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.
E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.
Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.
Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.
Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.
Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.
Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.
Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).
Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.
Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno ShuttleOrbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.
“It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.
[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].
Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.
Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.
La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.
Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.
Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.
Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.
Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.
Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.
Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.
Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.
Quasi tutte, però, sono state ignorate.
Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.
Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.
Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.
Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.
Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.
Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.
Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.
E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.
Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.
Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?”
[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].
Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.
Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.
Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.
E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
L’edizione 2018 del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE è da considerarsi, senza ombra di smentita, una tra le più “toste” tenutasi fino ad ora. Racconti di altissimo qualità, ben sviluppati e di notevole originalità l’hanno contraddistinta; dunque rientrare nella rosa dei 20 finalisti (rivelatisi poi 22 se si considerano gli ex equo) ha costituito di per sé un notevole successo.
“Consideratevi tutti primi!” ha dichiarato l’editore durante la cerimonia di premiazione di quella VI edizione, a conferma della bontà dei testi premiati dalla giuria.
“D’altra parte” gli ha fatto da contraltare il segretario del Premio, “una classifica andava stilata, seppure discutibile o non rispondente a propri gusti personali”.
Uno degli esclusi da questa benedetta/maledetta classifica è proprio il nostro Claudio di Blasio. Utilizziamo l’aggettivo possessivo “nostro” perché con Claudio abbiamo instaurato ormai un rapporto parallelo che ha visto crescere assieme il Premio, edizione dopo edizione, e, di pari passo, le sue esperienze narrative/editoriali.
Inutile precisare che Claudio ha partecipato a diverse edizioni del Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE sebbene con risultati alterni ma, ad ogni modo, si può considerare un affezionato frequentatore di questa iniziativa che, più di ogni altra, ben si addice al suo narrare squisitamente aeronautico.
Lo stile di Claudio, delineatosi racconto dopo racconto, si è ormai consolidato e anche in quest’ultimo suo testo, “Alta velocità”, non si smentisce. Non smentisce il suo raccontare con dovizia di particolari senza però scendere troppo nel tecnico, non tradisce il suo dipanare la trama con la linearità che non lascia spazio a figure retoriche o a colpi di scena imprevedibili, non viene meno al suo modo di descrivere le persone che poco hanno di inventato e che potremmo realmente incontrare nei reparti di volo operativi.
Insomma: Claudio è una certezza e i suoi racconti sono pressoché inconfondibili. Talvolta questo può essere una fortuna, talvolta una iattura. Perché se è vero che la lettura dei suoi testi è piacevole e scorrevolissima, dall’altra non possiamo e non dobbiamo attenderci dei picchi narrativi, dei sussulti nell’intreccio o delle descrizioni approfondite dei personaggi; rare le riflessioni interiori, scarne le descrizioni dei luoghi. La narrazione di Claudio è tutto movimento, aviazione allo stato puro con scenari di volo a gogò con qualche momento di vita a terra. Che poi, in fin dei conti è proprio quella che conducono o che vorrebbero praticare la maggior parte dei piloti nati con le ali addosso.
Certamente, da un autore con all’attivo due romanzi pubblicati (“Il mio cielo” e “Ali di fantasia” di cui vi abbiamo dato conto nella sezione MANUALI DI VOLO del nostro sito) ci attendiamo di più di un semplice esercizio di stile personale. Specie se, a detta del nostro servizio di intelligence, ne ha un terzo in via di elaborazione,
Tornando a questo racconto, il protagonista assoluto è, da un lato, Roberto, un giovane pilota militare italiano di stanza alla base di Grosseto e, dall’altra, lo “Spillone”, nomignolo che fu affettuosamente attribuito al Lockeed F104 Starfighter per via della sua forma di razzo con le ali che ricorda la forma, appunto, di uno spillo.
L’apertura dell’episodio vede Roberto in uno stato di profonda prostrazione a seguito di un incidente mortale che ha visto coinvolto un suo compagno di corso durante la fase di atterraggio di un 104 causato da un’errata gestione della macchina.
La vita di un pilota con le stellette però non conosce pause ed ecco che Roberto verrà messo a dura prova da un volo addestrativo con implicito esame da parte di un pilota veterano dopodiché lo attenderà una vera missione operativa di intercettazione (in gergo: scramble) nel corso della quale egli vivrà un’esperienza indelebile come può esserlo solo l’eiezione dall’abitacolo.
Non vi sveleremo di più se non che, nel racconto, incontreremo un’affascinante ragazza con cui Roberto …
Questo il contenuto in breve del racconto. Qualora ne vogliate sapere di più, ecco come l’autore lo sintetizza:
Roberto è un giovane pilota in addestramento presso il XX Gruppo del 4° Stormo, la celebre base maremmana, fucina dei futuri piloti del leggendario F-104 Starfighter.
Le giornate sono segnate da intense e continue missioni e una triste mattina Edoardo, suo compagno di studi in Accademia, perde la vita in un tragico incidente durante la fase di atterraggio. Il giovane pilota accusa molto la perdita dell’amico e cerca di distrarsi passeggiando la sera sul lungomare. Molti gli interrogativi ed i dubbi che affollano la sua mente: – Ne varrà la pena? Chi ce lo fa fare? –
Poco dopo la cerimonia funebre incontra la figlia del suo Capo velivolo, conosciuta proprio assieme a Edoardo al circolo della base. Assieme scambiano poche parole confortandosi davanti a una tazza di cioccolata calda e lasciandosi senza alcun appuntamento.
Le missioni si susseguono fino a giungere a quelle di carattere operativo: le intercettazioni. Un vecchio istruttore lo sfida sprezzante ma Roberto dimostra di avere le doti e le capacità per diventare un ottimo intercettore. Poco prima di essere destinato alla base di Cameri, Roberto accetta l’invito a cena da parte di Lorenzo, il proprio Capo velivolo. Al termine della serata la figlia lo accompagna all’auto e s’intrattengono in una piacevole conversazione che termina con un saluto, un abbraccio e un bacio affettuoso. Tra i due ragazzi nasce un forte sentimento anche se il giovane pilota deve partire per la nuova destinazione.
Il nuovo Reparto di assegnazione è un ottimo ambiente, in particolare per la cordialità e l’affiatamento tra i componenti. Il giorno successivo al suo arrivo, Roberto è assegnato a un volo in formazione con il Comandante, il quale si complimenta vivamente per la sua impeccabile esecuzione delle manovre.
Una sera, durante una missione di scramble simulato per la valutazione dello Stormo in ambito Nato, a causa delle pessime condizioni atmosferiche, lo Spillone di Roberto e quello di un suo collega entrano in collisione. Momenti tragici, durante i quali il protagonista esce indenne dal lancio con il seggiolino eiettabile e cerca disperatamente di conoscere le sorti dell’altro pilota. Dopo il contatto con il suolo, in una risaia, infangato e bagnato raggiunge una casa colonica ove viene accolto dal contadino e da sua moglie, gente semplice che si presta a fornire aiuto allo sventurato e a metterlo in contatto con la propria base. Purtroppo la sorte non è stata benevola con il collega che alcune ore dopo viene trovato sotto i resti del proprio caccia.
Trascorsa una breve convalescenza Roberto riprende l’attività di volo con lo Spillone. Tra loro è nato un particolare rapporto e certamente non lo tradirà più.
In definitiva, si tratta di un racconto da leggere ad alta velocità come il titolo che reca e che lascia ben sperare gli ammiratori di Claudio per i suoi racconti futuri, romanzi compresi.
Narrativa / Medio – Lungo
Inedito;
Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;
Mentre cercavo un libro tra le centinaia che si allineano sulle mensole della mia libreria mi è capitato tra le mani questo volume e subito l’ho messo da parte con l’intenzione di rileggerlo.
Lo avevo già letto parecchi anni fa e non una sola volta. Da questo libro è stato tratto un film, uscito nel 1991, che all’epoca avevo visto e mi era piaciuto molto.
Oltre a rileggere il libro vorrei rivedere anche il film.
Non esito a definire “Il volo dell’incursore” uno dei racconti più avvincenti che mi siano capitati nella vita. E poi, come pilota, lo considero uno dei pochi che non contiene elementi di disturbo, quali, ad esempio, descrizioni approssimative o inesatte. Di solito, vedendo film ambientati nel settore aeronautico, i piloti sono sempre molto critici. Alla più piccola inesattezza, magari motivata dalla necessità di rendere la storia più avvincente, più facile, comprensibile ed accessibile al grande pubblico, il pilota, invece, si indigna. Punta subito il dito, esprimendo ciò che pensa del film con le più efficaci e vivide parole idiomatiche di frequente uso nell’ambiente aeronautico, che non riporto qui per motivi di decenza.
Mentre leggevo il libro, però, con il più acuto spirito critico pronto a rilevare anche la minima inesattezza, non ne ho trovata alcuna. Le pagine scorrevano, le descrizioni erano tutte perfettamente veritiere, la terminologia impeccabile. Sembrava di vivere nel reale mondo aeronautico.
Tutto si svolge su una portaerei che naviga al largo delle coste del Vietnam. Il protagonista è un pilota di jet, guida una squadriglia di cacciabombardieri che partono dalla portaerei e compiono incursioni nell’entroterra vietnamita, su diversi tipi di obiettivi quasi sempre celati nelle foreste.
Il jet è un A-6 Intruder. Incursore, appunto.
La storia si svolge sia a bordo della nave sia durante le missioni di guerra.
Il modo di scrivere dell’autore è talmente efficace che si resta incollati alle pagine per ore ed ore. La suspense è talmente densa da prendere il lettore e rendergli difficile anche una breve pausa.
Il pilota, anche lui, anzi, soprattutto lui… ne resta ipnotizzato.
Le descrizioni, tutte le descrizioni, per un pilota sono talmente esatte e veritiere da “vedere” attraverso le parole. Sembra di vedere il paesaggio, il ponte di volo, l’interno dell’abitacolo (anche l’illuminazione del cruscotto strumenti durante i voli notturni), le foreste e le pianure buie o illuminate dalla Luna.
Conoscendo la geografia generale del Vietnam, perfino le descrizioni della penetrazione a bassa quota provenendo dal mare e la descrizione delle virate, a destra o a sinistra o verso punti cardinali o specifiche prue per raggiungere gli obiettivi, risultano esatte. E questo un pilota lo nota.
Incredibile.
Poi c’è la descrizione delle sensazioni, delle emozioni. Di tutte quelle fasi di volo che comportano una reazione da parte del pilota. Perfino quando, nel bel mezzo di un pericolo imminente, il pilota reagisce con azioni immediate e spesso disperate, senza mostrare emozione alcuna. Almeno sul momento.
E le comunicazioni radio?
Non c’è film o storia narrata che non contenga esempi di comunicazioni radio tra pilota e controllore, ma anche tra piloti e piloti, assolutamente inesatte, sbagliate sotto ogni punto di vista, con terminologia improbabile che nessuno userebbe in aviazione.
Qui no. Tutto perfetto.
Anche se, devo dire, il riporto di posizione trasmesso alla portaerei, da parte del caposquadriglia quando dal mare supera la linea di costa e comincia a sorvolare la terraferma, o viceversa, appare alquanto banale. Nell’intento di non farsi capire da eventuali ascoltatori nemici, il caposquadriglia non dice, ad esempio: “costa superata, entriamo sul continente” oppure: “Lasciata la terra, siamo sul mare”. Usa una forma più ermetica, dice: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi asciutti”, se dal mare è entrato sulla terra. Oppure: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi a mollo”, se dalla terra esce sul mare. Non mi sembra ci voglia molto a capire la situazione, anche descritta così. Però è la realtà, la forma di comunicazione realmente usata dalle squadriglie americane durante le vere missioni.
Del resto, anche i nostri piloti che partono su allarme, vengono autorizzati al livello iniziale, espresso in, ad esempio, ventimila angeli, per significare ventimila piedi.
Certo, così un nemico in ascolto capisce ugualmente a quale quota una squadriglia è stata autorizzata a salire.
Però, come dicevo prima, è tutto reale. Tutto corrisponde alla realtà.
Lascio lo svolgimento delle vicende del libro al lettore, che le scoprirà da solo.
Ma voglio mettere in evidenza un elemento di questo libro che, secondo me, ha una grandissima importanza.
La storia si svolge durante la guerra del Vietnam e le azioni descritte sono azioni di guerra. Quindi sono spesso cruente e anche queste sono descritte in maniera impeccabile.
C’è lo spirito americano in ogni pagina.
Tra i piloti protagonisti serpeggia il malcontento. Si critica l’assegnazione delle missioni, spesso condotte verso obiettivi inesistenti, come risaie, file di alberi, depositi di carcasse di camion eccetera. Obiettivi di cui non si capisce l’importanza, strategica o tattica che sia. Nulla che possa essere considerato decisivo per uno scopo qualsiasi. Però in queste missioni gli incursori sono presi di mira da tutte le armi nemiche, come contraerea, caccia avversaria e razzi. E ogni volta qualcuno di loro esplode in volo, o viene abbattuto e comunque non rientra.
I piloti si interrogano sull’opportunità di rischiare la vita in una guerra condotta in questo modo e si domandano se la guerra stessa è giusta. Sono legati da una grande solidarietà, basata sulla loro immensa passione per il volo, che è la vera ragione per cui sono lì a pilotare dei cacciabombardieri.
In quegli anni si diceva che le migliori caratteristiche di un pilota militare fossero due: un grande culo e un piccolo cervello. La prima caratteristica aiutava ad essere un pilota molto abile, un manico, perché si è sempre detto che l’aereo si guida con il culo, primo organo di senso in assoluto. La seconda consente di affrontare ogni missione senza troppo riflettere sul fatto che le proprie azioni portano morte e distruzione su vittime spesso inermi, come la popolazione civile. Oppure ci si lascia la pelle.
Questi piloti, invece, seppure molto bravi, più di altri, visto che decollano ed atterrano sul ponte di una nave, non hanno certo un piccolo cervello. Hanno sentimenti e opinioni personali. Infatti organizzano una vera missione verso un obiettivo degno: Hanoi.
Ovviamente la loro missione non è autorizzata. Qualcuno passerà certamente dei guai. Ma poi…
Chi leggerà il libro vedrà come va a finire.
Intanto, vorrei aggiungere che nel libro, ad un certo punto si profila il personaggio di una ragazza.
Ce ne sono anche altre, ma questa interagisce quasi subito con il protagonista della storia.
Le loro conversazioni e le loro vicende costituiscono un altro elemento avvincente del libro.
Per concludere, vorrei spiegare perché tutta la storia è narrata con la perfezione che ho menzionato sopra.
L’autore, come ognuno può vedere facendo una breve ricerca su Google, parla come un pilota perché è un pilota. Ed ha volato proprio come pilota della marina degli Stati Uniti. Pilotava un A-6 Intruder e ha partecipato alla guerra del Vietnam. Nonostante sul libro, nelle prime pagine, ci sia scritto che questo romanzo è opera di fantasia, che nomi, personaggi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, a fatti e a luoghi realmente esistenti o esistiti è puramente casuale, lui è stato realmente in quei luoghi e ha compiuto quelle azioni.
Certamente, non esattamente quei luoghi e quelle azioni, ma qualcosa di estremamente simile.
Perciò, pur essendo un romanzo, “Il volo dell’incursore” può essere considerato una eccellente testimonianza storica e come tale vale la pena di cercare il libro sulle bancarelle o in rete, di acquistarlo e leggerlo.
Dopodiché, molti si metteranno alla ricerca anche del film.
Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
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Aforismi
E\' meglio \"una rapata\" che \"una derapata\".
(un istruttore al proprio allievo)
Q.T.B.
PILOTA: insetti morti sul parabrezza. MECCANICO: insetti vivi fuori della cabina
(Suggerita da Herr Professor)
Check-In
HOSTESS: Signore, preferisce un posto finestrino o corridoio? PASSEGGERO: Signorina, faccia come vuole … tanto io sono adattabile