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Roald Dahl. Come da pilota da caccia divenni scrittore

Un’intenso primo piano del protagonista di questa biografia … giusto per dare un volto al suo nome e cognome. Dahl è recentemente assurto all’attenzione delle cronache giornalistiche giacché la sua casa editrice, in virtù di una profonda esigenza di “revisionismo” e sull’onda di quanto fece qualche anno fece per prima la Disney a proposito dei personaggi dei suoi films, si è presa la briga di provvedere a una radicale rielaborazione dei numerosi testi per bambini dell’autore con l’eliminazione di quelle frasi, caratterizzazioni e uso di aggettivi poco inclusivi, potenzialmente offensivi o comunque spiacevoli nei confronti di razze, colore, peso e caratteristiche fisiche in genere. Insomma, a detta dell’editore, i testi di Dahl erano troppo razzisti, sessisti, insensibili nei confronti dei grassi, dei brutti, delle streghe e dei cattivi in genere e dunque andavano addolciti, resi più educativi più inclini al clima di tolleranza civile contemporaneo. La notizia ha riempito i media britannici e, fortunatamente, è a malapena apparsa in quelli nostrani. In effetti mettere mano a testi scritti da una persona geniale nata nel 1916 e vissuta in un mondo completamente diverso da quello attuale (benché guerre e miseria siano perduranti) lascia molto perplessi e semmai è questo aspetto che scandalizza davvero. Che poi i britannici siano sempre stati dei sciovinisti egocentrici con la puzzetta sotto il naso non è una novità e che cadano talvolta nel ridicolo non stupisce affatto; dunque riallinearsi al resto del continente non è del tutto fuori luogo … anzi, era ora! … è pur vero che val bene addolcire certe espressioni del linguaggio corrente per attribuire una maggiore dignità alle persone (lo spazzino che diventa collaboratore ecologico, ad esempio) ma sostenere che il salvifico bacio dato dal principe azzurro alla signorina Biancaneve non è consensuale e dunque si tratta di una forma di abuso sessuale, beh … ce ne corre! D’altra parte cosa dovremmo fare noi italiani? Revisionare secoli di letteratura per non indispettire la sensibilità altrui? E, nel caso specifico, dovremmo censurare le favole di Gianni Rodari o quelle di Italo Calvino o il Pinocchio di Collodi, tanto per citarne alcuni? Stendiamo un velo pietoso e leggiamo la narrativa per l’infanzia con gli stessi occhi innocenti dei bambini per i quali gli orchi non sono mai affascinanti e Cappuccetto Rosso è semplicemente una bambina indifesa. La malizia di vedere nel Gatto e la Volpe due omosessuali inveterati ce l’hanno solo gli adulti. Allo stesso modo prendiamo Roald Dahl quello che fu, nel bene e nel male; noi lo ricordiamo  specie come il pilota che divenne scrittore (foto proveniente da www.flickr.com)

Era il classico gentleman inglese, somigliava un po’ a Lawrence d’Arabia, il volto lungo e i capelli con una perfetta riga a lato. Per tutta la sua vita Roald Dahl rappresentò la quintessenza del suddito devoto e orgoglioso della grandezza dell’impero Britannico, pronto a sacrificarsi affinché sua maestà potesse regnare ancora per secoli sui suoi vasti possedimenti. Solo quando prese servizio nella RAF, in volo sul suo aereo da caccia, in Grecia e in Medio Oriente, si rese conto che l’epoca d’oro dell’impero stava finendo, travolto dall’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale:

“Ora, quindi, ci erano rimasti in Grecia sette Hurricane in grado di volare, e con questi avremmo dovuto fornire copertura aerea all’intero corpo di spedizione britannico che stava per essere evacuato lungo la costa. Tutta la faccenda era una ridicola farsa”,

 scrisse.

Risale a quel periodo, infatti, uno dei primi racconti di Dahl, Un gioco da ragazzi, poi pubblicato sulla rivista americana Saturday Evening Post con il titolo più eroico e bellicista di “Abbattuto in Libia”.

Ma come c’era finito lì, lui che solo un anno e mezzo prima non era mai salito su un aeroplano e non aveva mai manifestato alcuna passione per il volo? Spirito di servizio, dedizione alla causa e forse la voglia di avventura che da sempre aveva guidato le sue scelte di vita.

Scrive alla madre, il 4 dicembre 1939, in un telegramma inviato da Nairobi:

“Cara mamma, sto passando un periodo bellissimo, non mi sono mai divertito tanto. Ho prestato giuramento alla RAF e adesso ci resterò fino alla fine della guerra. Il mio grado è di Leading Aircraftman (aviere scelto) con buone possibilità di diventare sottotenente in pochi mesi, se non mi dimostro una schiappa”.

Roald Dahl ha ventitré anni e da poco ha chiesto alla compagnia per cui lavora in Africa, la Shell Oil Company, un periodo di congedo pagato, per andare a servire la patria combattendo “e dare una mano contro bwana Hitler”, come ricorda nella sua autobiografia, In solitario. Diario di volo. Manca dall’Inghilterra da un anno esatto e vende benzina e gasolio in Africa per conto della compagnia petrolifera con la conchiglia.

“Troppo alto per volare?” E’ questa la domanda che pone ai visitatori la figura cartonata di Roal Dahl ritratto a misura reale quando, giovanissimo, militava tra le file della RAF. E in effetti, a giudicare dal confronto con il bambino alla sua sinistra, il pilota Roald Dahl era effettivamente altissimo … ma all’epoca occorrevano tutti i piloti disponibili per difendere i cieli patri e, benché curvo sui comandi o rannicchiato nella cabina, purché potesse pilotare e sparare al nemico, anche un fuori misura andava bene! Evidentemente l’ergonomia e in comfort di pilotaggio all’epoca erano dettagli davvero insignificanti. La foto riporta un angolo molto frequentato del museo dedicato allo scrittore; si trova in terra britannica presso la località di Great Missenden, nella contea del Buckinghamshire, non lontano da Londra. Lì visse fino all’ultimo dei suoi giorni e lì è sepolto nel cimitero dove una semplice lastra di marmo scuro riporta il suo nome, la sua data di nascita e quella della sua dipartita. Tornando all’immagine, sono da notare le numerose targhette che indicano le misure antropometriche degli svariati personaggi ideati dalla mente visionaria di Dahl (foto proveniente da www.flickr.com)

Chi si fosse imbattuto in lui, nelle strade di Londra o sulla metropolitana, lo avrebbe certo notato: un giovane alto quasi due metri – troppo per un aspirante pilota; alla prima visita medica a Nairobi lo volevano scartare – con bombetta e ombrello di ordinanza, come conveniva allora a tutti i gentleman della city. Tempo prima ha inoltrato domanda alla Shell, perché il suo desiderio più grande è viaggiare in terre esotiche, al contatto con la natura primitiva.

Inaspettatamente, molti sono i candidati, Roald Dahl ottiene un posto; ne è orgoglioso ma un po’ stupefatto. Dopo un lungo periodo di tirocinio, prima nella City poi in giro per l’Inghilterra come venditore di carburante, la Shell gli propone di rappresentare gli interessi della compagnia in Africa Orientale.

Per il futuro scrittore, andare a osservare da vicino i grandi animali della savana è l’avverarsi di un sogno, che ha colmato di affascinanti immagini le sue notti fin da bambino, di un desiderio che si realizza.

I genitori di Roald sono entrambi di origine norvegese, di Oslo. Il padre, Harald, e suo fratello sono due tipi molto intraprendenti. Capiscono che la Norvegia offre poche prospettive e opportunità di lavoro, così emigrano prima in Francia poi in Inghilterra, dove fanno fortuna nel commercio.

Roald ha due anni quando la famiglia Dahl si trasferisce in una lussuosa villa di campagna, poco lontano da Cardiff: è il 1918 e Roald ha due anni. Nei tre anni successivi la cattiva sorte piove sui Dahl come una grandinata: muoiono la piccola Astri e, pochi mesi dopo, il capofamiglia che non regge al dolore e si lascia morire.

Il Gloster Gladiator fu il velivolo con cui Roald Dahl compì un rocambolesco quanto rovinoso atterraggio nel deserto. E’ ricordato anche come l’ultimo caccia biplano in forza alla RAF e alla Royal Navy ma, a differenza del famoso Fiat CR-42 Falco italiano che rimase in servizio durante tutta la II Guerra Mondiale, il Gladiator fu ritirato rapidamente dalle prime linee per lasciare posto a ben più moderni Hawker Hurricane. (foto proveniente da www.flickr.com)

La madre di Roald, incinta, si ritrova così sola con cinque figli da sfamare. Ma Sofie Magdalene, è una donna forte e si appresta ad affrontare questa nuova fase della vita con determinazione e coraggio. Vende la grande casa, che non sarebbe riuscita più a gestire da sola, e lei e i bambini si trasferiscono in una più piccola. Dentro un baule porta con sé parecchie decine di taccuini che il marito aveva riempito, ogni singolo giorno, durante la Prima Guerra Mondiale. Roald, che disse di averne conservato uno, considerava il padre “uno straordinario scrittore di diari”.

Dopo aver frequentato la Scuola della Cattedrale dl Llandaff, da dove si fa quasi cacciare, la vedova Dahl iscrive il figlio alla St Peter’s School: considera le scuole inglesi – loro vivono poco distanti però nel Galles – come le migliori al mondo e mai avrebbe rinunciato ad assicurare al giovane Roald un’istruzione di alto livello, degna della loro famiglia.

Boy, così in famiglia l’hanno sopranominato, inizia una fitta corrispondenza con la madre, una lettera la settimana, che continuerà fino alla sua morte, nel 1957; le scriverà da scuola, dai luoghi di lavoro in Gran Bretagna e in Africa, e durante la guerra in Medio Oriente, mentre sul suo Hurricane cerca di contrastare i caccia della Luftwaffe: seicento lettere, che lei aveva scrupolosamente conservato, all’insaputa di tutti, e che lui ritroverà in seguito.

Sulla pagella di Boy, del III trimestre del 4° anno, figurano un “ottimo” in lingua inglese e voti poco più che sufficienti o discreti nelle altre materie, con un “molto buono” in condotta. Per far fronte ai lunghi mesi invernali di reclusione dentro i muri della St Peter’s School – “il manicomio” – lo chiama Roald, Boy ripensa alle sue vacanze estive che trascorre in una piccola e sperduta isola norvegese.

Roald Dahl è stato un prolifico autore di romanzi, racconti, sceneggiature, poesie e addirittura un’opera teatrale. Quelli ritratti in questo scatto sono solo una minima parte dei suoi volumi, molti di grandissimo successo editoriale e quasi tutti tradotti in innumerevoli lingue a testimonianza della bontà delle notevoli capacità letterarie di Dahl.

Puntualmente con l’arrivo della bella stagione, per dodici anni consecutivi, parte, assieme alla madre e ai fratelli, per raggiungere, dopo un avventuroso viaggio per mare e per terra di quattro giorni, la terra dei suoi avi. Per lui è una gioia immensa immergersi nella natura di “quell’isola magica” in un paese cui si sente profondamente legato, pur non essendovi mai vissuto se non per i brevi periodi di quelle “idilliache vacanze”. 

Vestito di tutto punto, indossando la divisa d’ordinanza, camicia bianca con colletto rigido, calzoni neri solcati da sottili righe grigie, bretelle, panciotto e infine una marsina, anch’essa di color nero, a coda di rondine, Roald entra a Repton: – Mi sentivo come “un apprendista di un impresario di pompe funebri” – scrisse nella sua autobiografia.

Il famoso collegio privato si trova nelle Midlands, a circa tre ore di treno da casa: è la fine estate del 1929 e Boy ha compiuto tredici anni. Nel primo trimestre, quasi schiavizzato dagli studenti più grandi, è obbligato da questi a scaldargli, durante i rigidi inverni inglesi, la ciambella del water, prima che questi ci si siedano. Per passare il tempo, seduto sulla tazza del cesso, in quei primi freddi mesi a Repton, legge l’opera completa di Dickens, l’autore che influenzerà molto i libri per bambini di Roald Dahl.

Il giovane Dahl però matura, durante quegli anni di collegio, due passioni che saranno per lui una sorta di riscatto: la fotografia ma, soprattutto lo sport: il gioco della pelota; è promosso, grazie alla sua abilità di calciatore a capitano, il che significa, nelle rigide istituzioni scolastiche private inglesi, essere degno del massimo rispetto e oggetto di ammirazione.

Con la pelota, la sua noiosa vita a Repton cambiò di punto in bianco e la prospettiva di trascorrere ancora altri anni in quella polverosa scuola divenne più tollerabile, anche perché il suo professore d’arte gli aveva fatto nel frattempo scoprire la fotografia e la pittura. Diventa così abile con la macchina fotografica che inizia a vincere premi; diverse illustri e blasonate organizzazioni, come la Royal Photographic Society o la Photographic Society of Holland lo premiano.

Al momento di scegliere l’Università, era destinato a Oxford o Cambridge, Roald però rinuncia e confessa alla madre di voler:

“andare dritto a lavorare per qualche compagnia che mi mandi in meravigliosi paesi lontani, come l’Africa o la Cina”.

E la Shell, dove è assunto nel 1933, qualche anno dopo lo accontenterà.

Il cognome Dahl è divenuto famoso anche per un’invenzione che nulla ha a che fare con la letteratura o l’aviazione: è la valvola Wade-Dahl-Till. Andò così: uno dei figli di Roald, Theo, era affetto da idrocefalia a causa di un disastroso incidente automobilistico. Per risolvere il suo grave problema di salute gli fu impiantata una speciale valvola che però tendeva ad incepparsi in quanto incapace di funzionare a causa dei detriti del liquido cerebrale, specialmente in pazienti in cui era presente sanguinamento e danno cerebrale come in Theo. Quando avveniva i disturbi provocati erano terribili (dolore, cecità e rischio di danni cerebrali permanenti) e talvolta richiedevano un intervento chirurgico d’urgenza. Dahl catalizzò le capacità del neurochirurgo infantile Till dell’ospedale pediatrico presso cui era in cura Theo e dell’ingegner Wade, ingegnere specializzato in idraulica di precisione con il quale condivideva la passione per l’aeromodellismo dinamico. Assieme misero a punto una nuova rivoluzionaria valvola che porta il loro nome: Wade-Dahl-Till, appunto. (foto proveniente da www.flickr.com)

Agli inizi degli anni trenta l’Europa è in preda ad una grave crisi economica e sociale, dopo il crollo di Wall Street del ’29. Mussolini è al potere da ormai un decennio e Hitler si appresta a edificare il Terzo Reich e a occupare e soggiogare quasi l’intero continente, mentre in Unione Sovietica Stalin è saldamente al potere. È l’inizio della fine per l’Impero Britannico.

Un’altra bella immagine di Roald Dahl che deve il suo nome di battesimo alla scelta operata dei suoi genitori in onore dell’esploratore norvegese Roald Amundsen, considerato in Norvegia un vero e proprio eroe nazionale e tragicamente scomparso tra i ghiacci nel vano tentativo di prestare soccorso al suo amico-nemico italiano Umberto Nobile, precipitato sul pack nel 1928 con una parte del suo equipaggio del dirigibile Italia … ma questa è un’altra storia. (foto proveniente da www.flickr.com)

Al momento dello scoppio della guerra, Roald si trova a Dar es Salaam, ed è in partenza per Nairobi, dove ha sede un centro di addestramento della RAF, l’aviazione inglese.

Dedicherà a questo periodo della sua vita africana il libro autobiografico In solitaria, che uscirà, con il titolo originale Going solo, nel 1986. Preso il brevetto di volo, con ottimi voti, è pronto ad andare a combattere. Durante però uno dei primi voli di trasferimento, a causa di errate indicazioni di rotta avute da un comandante di una base aerea, sorpreso dal buio, deve atterrare a bordo del suo biplano da guerra Gloster Gladiator in pieno deserto, in una zona accidentata: sceglie un tratto di terreno meno sassoso degli altri e posa le ruote a terra sobbalzando, incrociando le dita; non ha fortuna. A più di cento chilometri l’ora il muso del biplano si conficca nel terreno e la testa di Roald urta violentemente contro l’abitacolo. Il colpo gli causa un trauma cranico, la perdita della vista e denti rotti, e solo il suo istinto di sopravvivenza gli consente di uscire dal posto di pilotaggio già avvolto dalle fiamme. Una pattuglia di soldati inglesi lo recuperano in fin di vita.

l giovane pilota e futuro scrittore passa molti mesi in ospedale, con le bende sugli occhi e il volto attraversato da cicatrici, i segni degli interventi chirurgici, che gli avevano restituito la parvenza di un viso normale, cui i medici dell’ospedale anglo-svizzero di Alessandria d’Egitto lo avevano sottoposto.

Il 20 novembre del 1940 scrive alla madre dall’ospedale:

“Sono arrivato qui otto settimane e mezzo fa, e sono rimasto steso sulla schiena per sette settimane senza far niente. (…) Quando sono entrato ero conciato un po’ male (…) ma quaggiù hanno i più portentosi specialisti di Harley Street che sono entrati in servizio con la guerra. (…) Mi dolgono ancora gli occhi se leggo o scrivo molto, ma dicono che torneranno normali, e che sarò di nuovo pronto a volare più o meno fra tre mesi”.

Nel marzo del 1941, dopo cinque mesi di ospedale e uno di convalescenza che passa in un lussuoso hotel del Cairo, una commissione medica della RAF lo giudica di nuovo idoneo a pilotare, in zona di guerra, un caccia. Roald stenta a crederci quando gli restituiscono il suo libretto di volo: solo pochi mesi prima i medici gli avevano prospettato la possibilità di dichiararlo invalido e di rispedirlo in patria. Così si ritrova a bordo pista, pronto a decollare per il fronte greco, su di un aereo mai visto prima:

La splendida linea dell’Hawker Hurricane che, assieme ai Supermarine Spitfire, arginarono gli attacchi della Luftwaffe nel corso della Battaglia d’Inghilterra. Ancora oggi ne volano diversi esemplari, specie in Gran Bretagna. Chissà che questo possa indispettire i tedeschi del XI secolo?! (foto proveniente da www.flickr.com)

“Ero sbalordito quando mi allacciai per la prima volta le cinture nell’abitacolo dell’Hurricane. Era la prima volta che volavo su un monoplano. Era senza dubbio il primo aereo moderno su cui volavo. Era infinitamente più potente e veloce e complicato di tutti quelli che avevo visto. (…) Non avevo mai pilotato niente di simile. (…) L’idea di tuffarmi nel Mediterraneo mi preoccupava infinitamente meno del pensiero di rimanere per quattro ore e mezzo in quella minuscola cabina di pilotaggio. Ero alto un metro e novantotto centimetri, e quando ero seduto in un Hurricane assumevo la posizione di un feto nel grembo materno”.

Arrivò a destinazione, la base aerea di Eleusi, a pochi chilometri da Atene, dopo quattro ore e mezzo di volo. Le gambe erano così rattrappite che gli avieri, a terra, dovettero estrarlo a peso morto dall’abitacolo. 

Forse è durante quel volo che partorì l’idea della storia dei Gremlin, una sorta di spiritelli dispettosi che, secondo i piloti, si intrufolavano negli aeroplani della RAF smontando pezzi e causando danni: gnomi dispettosi e pericolosi.

Dahl proporrà il racconto qualche anno dopo alla Disney che affidò ai Gremlin un ruolo in un fumetto, pubblicato dalla Random House da titolo, The Gremlins. Una storia ambientata nella RAF, del tenente pilota Roald Dahl, dove, durante la Battaglia d’Inghilterra, un pilota da caccia incontra un gremlin:

Come testimonia la copertina di questo consunto libro, il romanzo “The Gremlins” ha come protagonista un Hawker Hurrican e le piccole creature dispettose divenute poi celeberrime grazie allo stravolgimento cinematografico operato dallo sceneggiatore Chris Columbus e realizzato visivamente dal regista Joe Dante, tuttavia l’idea di base – originalissima, non c’è che dire – è e rimane del pilota Roald Dahl (foto proveniente da www.flickr.com) 

“Un pilota di nome Gus, pattugliando con il suo Hurricane a 18.000 piedi (600 metri, N.d.T.) sopra Dover, stava inseguendo uno Junkers 88 e lo stava innaffiando con le sue mitragliatrici con corte e precise raffiche. Poteva vedere un sacco di piccoli sbuffi che si alzavano dal muso dello Junkers mentre il mitragliere di coda tedesco rispondeva al fuoco. Gus diede un’occhiata a dritta, e là, in piedi sull’ala del suo Hurricane vide un piccolo uomo, non più alto di sei pollici ( 15 cm. N.d.T.), con una grande faccia rotonda e un paio di piccole corna che spuntavano dalla testa. Indossava un paio di stivali neri a ventosa che gli permettevano di rimanere in piedi sull’ala a 300 miglia (480 km, N.d.T.) all’ora.”

Il soggetto di The Gremlins fu poi ripreso e stravolto, nel 1984, trasformato in un film horror, commedia tinta di nero di grande di successo diretto da Joe Dante, e che ebbe con numerosi seguiti.

Il giovane pilota Roald si accorge subito che dovrà affrontare l’aviazione tedesca, che schiera molti più aerei e meglio armati: la Luftwaffe ha il pieno controllo dei cieli greci; non passa giorno che il capopattuglia, al ritorno dalle missioni di caccia, segnali delle perdite. Solo la spregiudicatezza e lo sprezzo del pericolo, tipico dei giovani, irrora coraggio nelle vene a piloti come Dahl e la determinatezza di alzarsi ogni volta in volo, sapendo di andare incontro alla morte.

In occasione del centenario delle sua nascita e dopo aver dedicato la deriva dei propri velivoli a grandi personaggi del mondo scandinavo come Christian Andersen e Edvard Munch, nel 2016 la compagnia aera low cost Norwegian ha ritenuto opportuno e doveroso riservare la deriva di questo suo Boeing 737-800 al suo celebre connazionale Roald Dahl. Considerato uno dei più grandi scrittori per l’infanzia del mondo anglosassone e, ovviamente norvegese, Dahl ha vissuto buona parte della sua esistenza in Gran Bretagna divenendo britannico per antonomasia ma il suo viso che pare osservare il muso del jet commerciale sta a testimoniare le sue chiare origini norvegesi. (foto proveniente da www.flickr.com)

Tra il 17 e il 20 aprile del ‘41, Roald affronta i caccia nemici in dodici missioni: tre al giorno. I suoi compagni di squadriglia continuano a morire sotto i suoi occhi. Lui se la cava solo per fortuna: al rientro dalle sortite contro i Messerschmitt e gli Junker 88 tedeschi, il suo Hurricane è spesso sforacchiato come un colabrodo, ma integro e meccanici e avieri riescono sempre a rattoppare in qualche modo i fori dei proiettili nemici.

Poi nel maggio successivo la RAF collassa. Roald e la sua squadriglia sono costretti a rifugiarsi prima in Egitto poi in Palestina; da Haifa invia una lettera alla famiglia e non sa ancora che quella sarà l’ultima dal fronte di guerra:

“Cara mamma, ultimamente abbiamo volato piuttosto intensamente. (…) A volte ho fatto anche sette ore il giorno, che un bel po’ su un caccia. Però la mia testa non l’ha presa affatto bene e gli ultimi tre giorni sono rimasto a terra. (…) Ho cinque abbattimenti confermati, quattro tedeschi e uno francese (dell’aviazione del governo collaborazionista di Vichy, N.d.R.). Il gruppo ha perso quattro piloti nelle ultime due settimane. (…) Per il resto questo paese è una bellezza, e indubbiamente vi scorre il latte e il miele…”

Il telegramma successivo annuncia ai familiari il suo ritorno in patria, congedato, per non essere più idoneo al volo. E lui in fondo ne è contento, anche se è un po’ rammaricato perché solo ora, dopo quei lunghi mesi di guerra aerea, si sente un vero pilota. La vecchia ferita alla testa si è rifatta viva e il cervello sottoposto alle forti sollecitazioni causate dalle acrobazie del volo, risponde provocandogli pericolosi capogiri e annebbiamento della vista. Il responso medico della commissione è impietoso e insindacabile: riformato e non più in grado di pilotare un aereo.

Per Roald Dahl è l’inizio di una nuova vita: da giovane pilota a scrittore. Sette mesi più tardi, dopo l’attacco giapponese alla base navale americana del Pacifico di Pearl Harbour, gli Stati Uniti d’America, escono dall’isolazionismo correndo in aiuto delle democrazie occidentali ed entrano in guerra a fianco dell’Inghilterra.

Il governo guidato da Winston Churchill affida a Roald Dahl l’incarico di consulente aeronautico, come comandante di stormo, presso l’ambasciata inglese negli Stati Uniti. Così Boy, dopo un periodo di riposo trascorso in patria, fa le valige e si trasferisce a Washington.

Forte è il sospetto che, come altri intellettuali inglesi dell’epoca, il suo compito fosse procacciarsi informazioni e dati sensibili per conto del suo governo e svolgere azioni di propaganda: è il 1942.

Nella capitale degli USA fa la conoscenza dello scrittore Cecil Scott Forester: inglese come Dahl, era un romanziere diventato famoso per la saga letteraria incentrata sull’eroe dei mari il capitano Hornblower.

Ancora una bella immagine di un Gloster Gladiator scattata ai giorni nostri sebbene il velivolo sia chiaramente originale della fine degli anni ’30. Su una questione occorre riconoscere che i britannici sono davvero encomiabili: conservano egregiamente la loro storia, specie quella aviatoria, tenendo in vita e mostrando in volo – anziché solo nei musei – macchine davvero storiche come questa. In Italia se non ci fosse l’HAG – Historical Aircraft group, a restaurare e a mantenere in attività volativa gli aeromobili d’epoca, a malapena ci rimarrebbero i musei – pochi – a ricordarci la nostra storia in termini di Aviazione (foto proveniente da www.flickr.com)

Forester, intravede in Dahl la stoffa del narratore ed è grazie proprio a lui che l’ex pilota di Hurricane scrive e pubblica Shot Down Over LibyaAbbattuto in Libia, cui seguirà, nel 1946, Over to you: Ten stories of flyers and flying, una raccolta dei suoi primissimi racconti, ispirate alla sua esperienza di guerra, che segnano l’inizio della sua brillante carriera di scrittore di libri per l’infanzia: James e la pesca gigante, Gli Sporcelli, Il GGG, Matilde, La fabbrica di cioccolato, quest’ultimo divenne anche un grande film di successo e tanti altri. Ma Boy trova anche il tempo per scrivere sceneggiature, come, per esempio, quelle di Chitty Chitty Bang Bang e Agente 007- Si vive solo due volte.  

Roald Dahl si dedica alla scrittura con lo stesso impegno e dedizione che aveva profuso per ottenere il brevetto di pilota, ed è molto severo verso sé stesso e critico verso quello che scrive, fino a rivedere un suo testo anche 150 volte. Prima di vergare anche una sola parola, seduto al tavolo rinchiuso nel suo nido, una casetta di legno zeppa di oggetti e ninnoli, segue un preciso rituale, finché si butta a capofitto sulle pagine bianche scrivendo, in modo disciplinato, però non più di due ore. Ma il lavoro più impegnativo per lui è la riscrittura del testo che deve essere fatta “a freddo”, per lasciare che le parole e le frasi trovino il loro posto esatto all’interno della trama, sedimentandosi e imprimendo la loro indelebile impronta sulla carta.

Ormai anziano e malato, dopo aver divorziato dalla prima moglie Patricia Neal, colpita da un ictus, aver perduto due figlie, Olivia di soli sette anni, e con il loro fratello Theo affetto da idrocefalia, Roald Dahl, in un’intervista a un giornale inglese si scaglia contro Israele e gli ebrei, accusandoli:

“di  mancanza di generosità verso i non ebrei. Voglio dire che c’è sempre un motivo se un sentimento contro qualcosa spunta ovunque”

e, ancor più grave, rilascia, sempre in quell’occasione, una dichiarazione che suona quanto meno fuori luogo:

“Anche una carogna come Hitler non se l’è presa con loro senza alcun motivo”.

Ancora una bellissima immagine che ritrae un Gloster Gladiatore e un Sea Hurricane in volo in formazione. Sembra quasi che il biplano ceda idealmente il testimone al moderno monoplano come peraltro storicamente avvenne. La presente nota biografica, a cura di Massimo Conti, è una gradita quanto inedita anticipazione dell’immane lavoro che sta svolgendo in termini giornalistici: 50 biografie dedicate agli scrittori-aviatori di tutte le nazionalità e di tutti i tempi. Lodevole iniziativa! Auguriamo a Massimo di concludere al più presto la sua opera, certi che divoreremo il suo volume per darvene conto in una doverosa recensione. Buon lavoro, Massimo! (foto proveniente da www.flickr.com)

Ciò sorprende in un uno come lui che si è sempre circondato d’intellettuali di origine ebraica, come Amelia Foster, direttrice del Roald Dahl Museum and Story Centre a Great Missenden.

Ed è proprio nel cimitero del piccolo villaggio nella contea del Buckinghamshire, a un’ora e mezza di strada a nord di Londra, che lo scrittore pilota inglese è sepolto, dal 1990, nell’amata Inghilterra tanto stimata dai suoi adorati genitori norvegesi.

Trent’anni dopo la sua morte, la famiglia di Dahl si è dovuta scusare pubblicamente per le esternazioni fatte a suo tempo da chi da pilota volle diventare uno scrittore.


Testo a cura di Massimo Conti, didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR



Articolo giornalistico / Medio – lungo

Inedito

§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimo Conti

RACCONTI TRA LE NUVOLE – Il Sostegno di ADA



Logo Racconti Tra Le Nuvole

XI edizione Premio letterario “Racconti tra le nuvole”

COMUNICATO STAMPA

nr 2 del 08 marzo 2023

         In virtù del:

  • comune fine di divulgare la cultura aeronautica nel nostro Paese
  • “tema suggerito” della XI edizione del Premio (le donne nel mondo aero/astro nautico)

è con viva soddisfazione ma anche con malcelata euforia che l’HAG (Historical Aircraft Group) e VOCI DI HANGAR – organizzatori del Premio – sono lieti di annunciare che:

l’ADA – Associazione Donne dell’Aria,

si è unita alla FISA (Fondazione Internazionale per lo sviluppo aeronautico), alla rivista VFR AVIATION e all’azienda farmaceutica VR MEDICAL, tra i preziosi e autorevoli sostenitori della prossima edizione del Premio.

         Siamo certi che l’ADA, attraverso il sostegno del suo Presidente, del Direttivo e delle associate tutte, fornirà rinnovate energie a RACCONTI TRA LE NUVOLE, a  testimonianza della bontà di un’iniziativa unica nel suo genere nel panorama italiano.

         In concreto l’ADA istituirà per l’occasione il “Premio speciale ADA” che, a insindacabile giudizio dell’associazione, verrà conferito a uno dei racconti  partecipanti secondo una valutazione del tutto autonoma rispetto a quella operata dalla Giuria del Premio.

         Il “Premio speciale ADA” verrà altresì consegnato nel corso della premiazione a cura del Presidente dell’associazione o, nel caso ne fosse impossibilitata, da una sua delegata.

          Un rinnovato benvenuto alle associate ADA e al suo direttivo che ringraziamo per ver voluto sostenere fattivamente RACCONTI TRA LE NUVOLE.

        

Gli organizzatori




Per qualsiasi informazione:                         www.raccontitralenuvole.it                                              

Donne con le ali

titolo: Donne con le ali

autore: Luca De Antonis 

editore: MEF – Maremmi Editore Firenze

pagine: 381

anno di pubblicazione: 2012 (prima edizione)

ISBN: 978-88-7255-401-2




“Il 17 dicembre del 1903 una macchina volante ad ali rigide, mossa da un motore a scoppio, avrebbe compiuto il suo primo volo …

Miss Harriet Quimby, inviata del Leslie’s Illustrated Weekly da New York, prendeva nota su un taccuino di tutte le operazioni che si stavano svolgendo.”

Quel 17 dicembre 1903 pietra miliare per l’aviazione, le donne sono già presenti pronte ad affrontare e condividere questa meravigliosa avventura chiamata “Volo”.

Luca De Antonis, autore di “Donne con le ali”, racconterà i primi 30 anni della storia dell’aviazione al femminile.

Non dettagliate biografie, ma un romanzo dove le storie di queste donne, pioniere del volo al femminile, si intrecciano e si soprappongono all’interno dell’ambiente storico-culturale del loro tempo, e con abile maestria narrativa si fondono con gli avvenimenti sociali.

La IV di copertina del corposo libro “Donne con le ali”

Si spazierà dall’America del Nord con gli Stati Uniti e le leggi razziali che affliggevano le persone di colore, all’Europa con la Francia e la sua vita cosmopolita che alle leggi razziali in vigore negli Stati Uniti opponeva il suo motto “Uguaglianza-Fratellanza-Libertà”, al Sud America.

Il 16 agosto 1911 sul giornale Leslie’s Weekly, Harriet Quimby scriveva:

“Ci vogliono quattro anni di studio al College per conseguire un diploma, ma basta molto meno tempo per ottenere un brevetto di volo. A due condizioni però: un fato che non vi sia particolarmente avverso, e un valido istruttore … che vi insegni ad avere fiducia in voi stessi e in voi stesse.

Mi rivolgo particolarmente al pubblico femminile, perché volare è possibile per una donna quanto per un uomo!”

Benché avesse conseguito la licenza di aviatore dall’Aero Club of America da meno di un anno, Harriet Quimby tentò un’impresa assai ardita per l’epoca e soprattutto per una donna: attraversare lo stretto della Manica. Oggi comporta pochi minuti di volo ma nel 1911 quel braccio di Mare del Nord (che nel suo punto più stretto è largo solo 34 km), era una distanza notevolissima. Occorre infatti ricordare che il velivolo utilizzato da miss Harriet volava alla ragguardevole velocità massima di circa 80 km/h, vento permettendo, e a una quota relativamente bassa (qualche centinaio di metri sopra le onde). In effetti, priva di una qualsiasi forma di strumento di navigazione (non è chiaro se disponesse di una bussola magnetica rimediata alla meglio) o di una rudimentale cartina geografica, Harriet decollò all’alba in condizioni meteo avverse e infatti percorse la tratta in diagonale, da Dover (Gran Bretagna) a Hardelot (Francia) anziché la più vicina Calais (come aveva preventivato). La sua impresa durò ben un’ora e nove minuti. Una donna entrava così nella storia, alla pari con il suo diretto collega di sesso maschile Louis Blèriot che aveva compiuto lo stesso volo il 25 luglio 1909. Harriet Quimby morì purtroppo ancora giovanissima nel corso del Third Annual Boston Aviation Meet Squantum, nel Massachusetts  quando per motivi mai definiti, il velivolo Bleriot  con cui volava con passeggero a bordo (lo stesso organizzatore dell’evento) precipitò rovinosamente. Entrambe furono sbalzati fuori dal precario velivolo (all’epoca le cinture di sicurezza non erano contemplate) e per loro non ci fu scampo alcuno. Alla tenera età di 37 anni spiccò il suo ultimo volo lasciando però un segno indelebile nella storia dell’aviazione. (foto proveniente da www.flickr.com)

Harriet Quimby è la prima donna americana a conseguire il brevetto di volo, 1 agosto 1911.

Ma già nel 1910 in Francia l’Aero Club de France aveva rilasciato il primo brevetto di volo al mondo ad una donna: Elise Raymonde de Laroche. A lei è dedicato un volume di cui è possibile leggere la recensione nel nostro hangar.

Ancora una bella immagine di Harriet Quimby che posa davanti al suo velivolo Bleriot XI. Probabilmente risale al periodo in cui frequentò il corso di pilotaggio presso la scuola di volo di John e Mathilde Moisant (quella dei fratelli Wright a Dayton non accettava donne pilota) o immediatamente dopo giacché, una volta brevettata entrò nel team Moisant International Aviators e si esibì in giro per gli Stati Uniti. Sulla semiala nello sfondo si legge distintamente “MSANT”, da qui la nostra congettura  (foto proveniente da www.flickr.com)

(ndr: Francesco Baracca, asso dell’aviazione della I guerra mondiale, effettuerà il suo primo volo in Francia soltanto a maggio del 1912 e conseguirà il brevetto di pilota il 9 luglio)

Come chiaramente indicato dalla didascalia  in corsivo, in questo scatto Harriet Quimby è ritratta a bordo del suo monoplano Bleriot. Per l’epoca si trattava di un velivolo rivoluzionario; sebbene privo di alettoni (il rollio avveniva svergolando l’estremità alare) così come il Flyer dei fratelli Wrigh, il Bleriot XI era dotato di un geniale sistema a pedali che comandava il timone di direzione, divenuto poi lo standard per tutte le macchine volanti a venire, praticamente a tutt’oggi. Ma il suo pezzo forte era il motore; un tricilindrico radiale a W appositamente progettato e costruito dall’italiano Alessandro Anzani in grado di erogare la spaventevole potenza di ben 25 cv. Di chiara derivazione motociclistica, oggi equipaggerebbe un tagliaerba anziché un aeroplano! (foto proveniente da www.flickr.com)

Sono gli anni della “Belle Epoque”, il progresso della tecnica e della scienza non conosceva eguali nel passato: l’illuminazione elettrica, la radio, l’automobile, il cinematografo … l’aeroplano.

Le donne rivendicano i loro diritti, nasce il movimento delle suffragette.

Il mondo vive un periodo di grande ottimismo per il futuro, ancora ignaro della catastrofe che nel 1914 porterà all’orrore della I Guerra Mondiale.

Il 16 aprile 1912, mentre Harriet Quimby a bordo di un Bleriot Type XI si appresta ad effettuare con successo la traversata del Canale della Manica da Dover a Calais, in Europa arriva la drammatica notizia: nella notte tra il 14 e il 15 aprile il Titanic è naufragato nell’Oceano Atlantico a seguito dell’impatto contro un iceberg.

Quella che per tutti doveva essere un’impresa dal grandissimo impatto pubblicitario e commerciale, Monsieur Louis Bleriot già prefigurava una gran richiesta dei suoi velivoli, la prima donna a sorvolare la Manica, passò inosservata.

Il 17 aprile i giornali titolavano la terribile disgrazia avvenuta in mare. Non c’è posto per l’impresa di Harriet Quimby.

 “Cara Bessie, …. Se essere negra costituisce per il tuo obbiettivo, volare, un ostacolo insormontabile qui in America … ricordati che fino a poco tempo fa era un ostacolo insormontabile anche l’essere donna.

A te toccherà un compito ancora più difficile: vincere sul razzismo e sul segregazionismo …

Dopo l’inverno sarò impegnata in Europa per alcuni mesi. Ma l’estate prossima, se potrai venire qui a New York, sarò ben lieta di offrirti tutto il mio aiuto…”

Così scriveva Harriet Quimby nel settembre del 1911, in risposta a Bessie Coleman.

Purtroppo non potrà mantenere le sue promesse, il 1 luglio del 1912 Harriet Quimby perirà in un drammatico incidente di volo.

Dal 1914 al 1918 l’Europa è sconvolta dalla guerra, l’aeroplano verrà impiegato per la prima volta in campo militare, ciò porterà anche ad uno sviluppo delle sue potenzialità.

Il termine della guerra, vede nascere l’interesse verso l’utilizzo dell’aeroplano in campo civile. Per le donne, alle quali fu precluso di partecipare come pilota al conflitto mondiale, si aprivano ora, anche se con difficoltà, le porte dell’aviazione civile e del volo come professione.

Katherine Stinson volerà per il Canada Post, primo servizio di posta aerea, nelle remote e poco accessibili aree del Canada.

Il documento non mente: Elizabeth “Bessie” Coleman, soprannominata “Brave Bessieo” o “Queen Bess” fu la prima donna pilota di origine afroamericana e la prima nativa statunitense (a prescindere da sesso ed etnia), a conseguire una licenza di pilota internazionale in quanto emessa dalla FAI, Fédération Aéronautique Internationale.
Bessie imparò a volare in Francia su un biplano Nieuport tipo 82 giacchè nessuna scuola di volo statunitense ammetteva ai suoi corsi donne e soprattutto nere. Naturalmente non conosceva una sola parola in lingua francese ma quando seppe la scuola di volo Société des avions Caudron di Le Crotoy l’avrebbe ammessa, a dimostrazione della sua determinazione, frequentò un corso di lingua alla scuola Berlitz di Chicago dopodiché si imbarcò sul transatlantico Imperator nel novembre 1920 con destinazione Francia.

Bessie Coleman il 15 giugno 1921 sarà la prima donna afroamericana a conseguire il brevetto di volo. Ma per arrivare a coronare il suo sogno dovrà lavorare duro per riuscire a mettere i soldi da parte e poi con grande coraggio lasciare l’America, che con le sue leggi razziali non permetteva ai negri di accedere alle scuole di volo, per andare in Francia, alla scuola dei fratelli Caudron dove non si facevano distinzioni di sesso né di razza.

Come diversi aviatori dell’epoca, anche Bessie Coleman perse la vita prematuramente a causa di un incidente aereo: a bordo di un Curtiss JN-4 Jenny, a Jacksonville, Bessie fu sbalzata fuori dall’aereo a circa 610 m di quota e morì sul colpo quando precipitò al suolo. Il velivolo era dotato di cinture di sicurezza ma lei non le aveva indossate affinché potesse sporgersi agevolmente dalla cabina di pilotaggio e osservare il terreno in vista di un lancio con il paracadute che avrebbe effettuato durante una imminente manifestazione aerea, (foto proveniente da www.flickr.com)

Il 30 aprile 1926 Bessie Coleman muore in un incidente di volo.

In seguito la città di Chicago le renderà omaggio intitolandole una strada nei pressi dell’aeroporto O’-Hare.

L’inizio del 1929 vede un’altra grande conquista per le aviatrici: finalmente alle donne viene riconosciuto il diritto a partecipare alle manifestazioni sportive aeronautiche, fino ad allora precluse.

Il 18 agosto viene organizzato il primo “Women’s Air Derby”.

Il 2 novembre 1929 presso l’aeroporto di Curtiss Field, viene fondata “l’Organizzazione Internazionale delle Donne Pilota”, il gruppo prende il nome “Ninety-Nines” e viene eletta come prima presidente Amelia Earhart.

Ecco il manifesto dell’organizzazione: 

The Ninety-Nines Mission Statement:

The Ninety-Nines® is the International Organization of Women Pilots that promotes advancement of aviation through education, scholarships and mutual support while honouring our unique history and sharing our passion for flight.

che tradotto in italiano significa: 

Le 99 è l’Organizzazione internazionale delle donne pilota che promuove il progresso dell’aviazione attraverso l’istruzione, le borse di studio e il sostegno reciproco, onorando la nostra storia unica e condividendo la nostra passione per il volo.

https://www.ninety-nines.org/who-we-are.htm

“Donne con le ali”, un romanzo appassionante dall’inizio alla fine.

La copertina della II edizione del bel libro di Luca de Antonis. Nella prefazione l’autore così spiega il suo volume: “… qui si narrano tante diverse storie di donne coraggiose che con con passione hanno saputo compiere imprese grandi e ancora più grandi se rapportate all’epoca in cui si svolti i fatti e a quella condizione gregaria dell’universo femminile alla quale non si sono volute adattare.”

La storia delle prime donne che, sfidando i pregiudizi del loro tempo, hanno dimostrato che ciò che era possibile per un uomo lo era anche per una donna.

Un omaggio a quelle donne i cui nomi e le cui imprese sono quasi sconosciute, o comunque poco raccontate.

La IV di copertina della II edizione di “Donne con le ali” pubblicato in regime di autopubblicazione a mezzo di Amazon. Anche in formato e-book.

Donne che non si sono perse d’animo di fronte alle avversità, che hanno creduto nelle loro capacità.

E’ il 1 aprile del 1921 quando, a bordo di un Caudron C3, Adrienne Bolland atterra a Santiago del Cile, dopo essere decollata da Mendoza. Un’impresa epica: l’attraversamento delle Ande.

Una catena di montagne che Adrienne non aveva mai visto; senza l’ausilio di carte ma solo di indicazioni di cosa avrebbe dovuto vedere e quale vetta prendere come riferimento.

Donne che non hanno sfidato gli uomini, ma che hanno voluto vivere la storia al pari degli uomini ma con la loro sensibilità femminile; che non hanno rinunciato ad amare e a essere amate.

Emozionante il racconto della traversata da Buenos Aires a Rio de Janeiro in idrovolante, a bordo di un Caudron al quale erano stati semplicemente montati dei pattini galleggianti, compiuta da Adrienne Bolland insieme al suo meccanico André Duperrier.

“… Non occorre essere marito e moglie, non occorre essere amanti per essere necessari l’uno all’altro. I nostri comuni interessi, il nostro rispetto, la nostra stima… è il sentimento che ci unisce, che ci lega, che ci fa andare avanti… contro le tempeste della vita, ma anche nel vento delle nostre più belle imprese…”

Adrienne Bolland, assurta alla cronache storiche per essere stata la prima donna ad attraversare la manica decollando dalla Francia e soprattutto per aver sorvolato le Ande (con un volo di 4 ore e 17 minuti). E’ una delle poche donne pioniere dall’Aviazione che, a differenza delle sue colleghe si spense in tarda età (ben 80 anni) e nel suo letto. Praticamente un’eccezione! (foto proveniente da www.flickr.com)

Una pilota e un meccanico, una donna e un uomo, che hanno affrontato e condiviso i successi, i rischi e le disavventure, in un continente lontano dalla loro Francia. Una storia di amicizia, cameratismo, fiducia l’uno nell’altra, ma anche … una forma di amore.

E’ lo stesso autore, nella postfazione, a indicarci le poche situazioni che sono frutto di fantasia, mentre tutti gli altri avvenimenti, sia pure adeguati alle necessità narrative, sono rispettati nella sostanza.

Tutto il romanzo è intriso da un grande rispetto, stima e amore, da parte dell’autore, verso le donne.

Le singole storie scorrono intrecciate tra di loro, in maniera molto fluida, mai noiosa, tenendo incollato il lettore alla lettura.

Bellissima la foto di copertina, che ritrae una sorridente Ruth Elder appoggiata al suo biplano, mentre non vi è alcuna foto all’interno.

Un libro dedicato a tutte le donne che ancora oggi, come nel passato, lottano per vedere riconosciuti i propri diritti, e avere pari opportunità.

Un libro che sia ispirazione per tutte le donne a credere nelle proprie capacità, e un esortazione a non rinunciare alle proprie aspirazioni.

Harriet Quimby a bordo del suo velivolo Bleriot XI (foto proveniente da www.flickr.com)

Concludiamo questa breve recensione riportando un pensiero che costituisce l’essenza del volo al femminile:

“Volare è uno sport raffinato e dignitoso per le donne… e non c’è ragione di aver paura finché si fa attenzione.”  

Harriet Quimby





Recensione di Franca Vorano e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR









 

 

 

In un cielo di guai

titolo: In un cielo di guai

autore: Alessandro Soldati 

editore: Amazon

pagine: 192)

anno di pubblicazione: 2022 (tascabile e e-book)

ISBN: 979-8849987729




Erano anni che lo aspettavo e – in tutta sincerità – ormai disperavo di poterlo leggere. Mi ero quasi convinto che colui che tanto mi aveva stupito con il suo romanzo di esordio “Andrà bene di sicuro“, fosse impegnato in qualcosa di meglio che soddisfare i desideri morbosi e pretenziosi di un insignificante lettore; in effetti già me lo immaginavo in qualche paradiso caraibico attorniato da una selva di donzelle adoranti, intento a godersi i proventi di vendite impreviste e imprevedibili. Sì, quelle che, tra capo e collo, gli sono cadute sicuramente addosso nel 2014 (anno di pubblicazione del primo volume) così come raramente cadono addosso a un autore principiante ma estremamente talentuoso baciato dalla fortuna nell’essere incappato – non lo sapeva neanche lui – in un editore lungimirante e nell’aver mietuto una platea smisurata di ammiratori nell’ambito di un genere letterario di nicchia. E invece …

Il ritratto dell’autore quando militava tra le file del 154° Gruppo Cacciabombardieri del 6° Stormo di Ghedi (i mitici “Diavoli Rossi”), immortalato a bordo di un Tornado dell’Aeronautica Militare Italiana (foto proveniente dalla pagina della Hito, la società presso la quale Alessandro Soldati svolge la sua attività professionale). Nella sua scheda personale leggiamo: “Attualmente ha un incarico di docenza presso un’università e svolge con passione il ruolo di istruttore di corsi teorici presso una scuola di volo.
Quando può, si rilassa in mountain bike, o in motocicletta, o lavora in un fazzoletto di terreno in collina.
Queste tre attività sono state citate in ordine decrescente di fatica.”. Non abbiamo dubbio alcuno che queste note biografiche se le sia scritte da solo …

Confesso che quando ho intercettato “In un cielo di guai” nel calderone del più grande bazar digitale della rete, non credevo ai miei occhi; per un istante ho pensato a un caso di omonimia ma l’istante dopo mi sono scoperto a cliccare in modo compulsivo sul tasto “acquista subito”, dopodiché ho consultato con impazienza la tracciatura del pacco fino a strappare con irrefrenabile cupidigia l’involucro che – appena consegnato – conteneva proprio il secondo volume della produzione letteraria di Alessandro Soldati.

A quel punto, leggerlo tutto d’un fiato è stato un piacere e un dovere; ammetto che ho addirittura trascurato il mio lavoro pur di leggerlo e, complice un provvidenziale black-out elettrico pomeridiano sul luogo di lavoro (erano anni che non accadeva), sono rientrato a casa anzitempo pur di conoscerne tutto il contenuto …

Che dire?

Bellissimo? … no, troppo banale definirlo con un solo aggettivo.

Sublime? … no, prevedibile.

Alessandro Soldati oggi. Dopo essersi congedato dall’AMI e aver svolto la professione di pilota di linea per la defunta Compagnia di bandiera italiana, ha conseguito la laurea in Scienze e tecniche Psicologiche. Ora è una delle colonne portanti di Hito, una società che organizza corsi di formazione di Human factor. Il suo curriculum e la sua biografia dettagliatissima sono presenti nel sito di questa società a dimostraziojne dello spirito di trasparenza che lo contraddistingue (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/)

Un’occasione di riflessione? … certo, ma non in modo cervellotico.

Una denuncia in forma narrativa? … anche, ma non solo.

Un modo originale per informare l’uomo della strada di come funziona l’Aviazione commerciale? … sicuramente, ma anche di più.

Uno spaccato verace di un mondo – quello de piloti  commerciali – una volta dorato e oggi banalizzato? … fuori ogni dubbio.

Una grande burla per impaurire i passeggeri brontoloni? … non proprio.

Verosimilmente “In un cielo pieno di guai” è l’insieme di tutto questo e anche di più, ivi compreso quello che lo stesso autore dichiara in copertina: 

“Il libro che nessun passeggero avrebbe voluto leggere (a dirla tutta anche nessun pilota)” 

In effetti è lo stesso autore che nella prefazione intitolata: “Del perché ho scritto questa vicenda” sintetizza in modo mirabile il senso di questo volume e, in particolare, perché non ha concesso un seguito naturale alla vicenda narrata nel primo romanzo benché:

“molto amici mi hanno chiesto perché mai avessi deciso di farla finita […] ebbene […] ho voluto permettere a quel ragazzo di morire quando era ancora vivo”.

In altre parole, Sanzo Ottaviano, il personaggio che anima il primo romanzo, non è volutamente presente in questo secondo giacché:

“probabilmente avrebbe finito per entrare in qualche Compagnia aerea civile e, francamente, una persona così bella non so lo meritava […] e avrebbe finito per spegnersi, proprio come è successo a molti di noi”.

Il sogno malcelato delle Compagnie è quello di non avere più piloti dipendenti, ossia da addestrare e soprattutto da pagare profumatamente a prescindere. Invero le Compagnie low-cost ci sono parzialmente riuscite scaricando sui piloti almeno l’addestramento iniziale e stipulando con le maestranze dei contratti capestro tipo “a chiamata” o “a cottimo”, emuli del mondo della ristorazione, agricolo o del più bieco commercio. Estremizzando, se i velivoli non avessero più piloti a bordo, le Compagnie massimizzerebbero i loro profitti abbattendo nettamente i costi del personale navigante. Fantasie? Forse … intanto nell’ambiente del trasporto aereo si vocifera già come in divenire la riduzione dell’equipaggio a un solo pilota anziché due. Staremo a vedere. Intendiamoci: anche i dinosauri si sono estinti e non erano certo contenti quando è accaduto loro ma voi – sinceramente – ce lo vedete un pilota che vende a provvigione i gadget più disparati ai passeggeri di un volo commerciale? Mai dire mai … (foto proveniente da www.flickr.com)

Da queste poche righe, apparentemente criptiche, intuiamo subito che in questo secondo volume l’autore si toglierà di sicuro qualche macigno dalle scarpe – eccome se lo toglierà! – rendendo così questa prefazione una specie di vademecum del romanzo, una sorta di chiave di lettura del testo vero e proprio. E ce lo conferma subito una con una frase a dir poco emblematica:

“A pochissimi importa oggi di formare Aviatori perché non sono Aviatori quelli che le Aziende cercano ma appunto Operatori di sistema”.

Ovviamente l’autore si riferisce alla tendenza, ormai radicata presso le Compagnie aeree di tutto il mondo, di convertire i piloti a dei meri esecutori di operazioni schedulate e standardizzate. Alla stregua degli automi, questi pseudo piloti:

“permetteranno a un tubo di metallo di andare praticamente da solo per aria da un luogo all’altro con un ragionevole margine di sicurezza”.

Inutile svelare che il tubo in questione chiamasi aeroplano per trasporto passeggeri …

Come nella migliore tradizione editoriale, la IV di copertina del volume contiene una breve sinossi e una telegrafica biografia dell’autore corredate da una fotografia che ritrae il viso sorridente – e nel caso specifico anche un po’ stralunato – dell’autore

Il dente avvelenato di Alessandro Soldati si rivela però in tutta la sua ferocia quando ricorre a un esempio illuminante: il gioco grafico,  dei punti numerati spesso presente nelle riviste di enigmatica o passatempo. Come funziona? Semplice: occorre collegare  i puntini secondo l’ordine crescente di numero affinché appaia un disegno di senso compiuto. Chissà quante volte vi sarete cimentati in questo giochino … confessate!

Ebbene Alessandro Soldati ci fa notare che quasi chiunque è in grado di unire i puntini ma ciò non significa necessariamente che costui sappia disegnare; inoltre si presuppone che qualcuno li abbia disposti anticipatamente quei puntini stabilendone posizione e progressione. Di certo l’espediente consente di ottenere disegni di qualità accettabile e con poco sforzo (economico, s’intende) in quanto realizzati da individui non particolarmente  talentuosi o qualificati nelle arti grafiche.

A detta di Alessandro Soldati quelli ritratti in questo scatto non sono degli Aviatori bensì degli Operatori di Sistema. Come biasimarlo? E’ pur vero che, per anni, i piloti commerciali hanno vissuto nella bambagia, ossia costituivano una casta alla stregua dei medici, dei notai, dei politici. Non a caso, quello del pilota era una delle professioni meglio pagate in termini squisitamente numerici a fronte però di notevoli responsabilità, un duro, lungo e costante addestramento. Oggi si è passati quasi all’eccesso opposto e i piloti di linea sono – come tutti i gli altri lavoratori – appesi al filo dei licenziamenti e della produttività   (foto proveniente da www.flickr.com)

Mutuando questo esempio geniale al mondo dell’Aviazione commerciale, l’autore ci consente di comprendere che, ormai da tempo, la scelta delle Compagnie aeree è quella di far tracciare i puntini (applicare le procedure e le normative) non a opera di disegnatori creativi (i piloti di vecchia generazione, attivi e pensanti) bensì da parte di Operatori di Sistema (i piloti di nuova generazione, esecutori passivi) che sono in grado di unire diligentemente i puntini producendo un disegno (il trasporto dei passeggeri) dignitoso – è vero – benché spigoloso e preconfezionato. Il tutto spendendo poco nell’addestramento e soprattutto nella retribuzione dei loro sedicenti “disegnatori”.

L’autore affonda l’ultimo colpo prevedendo che questi giovani (piloti e non) saranno facilmente sostituibili, sottopagati e ricattabili. Che è giusto appunto la condizione in cui vivono, loro malgrado, i piloti commerciali da qualche decennio a questa parte. E non solo loro: tutti i lavoratori dipendenti!

C’è una via d’uscita a questo processo apparentemente inarrestabile in quanto sostenuto dal vessillo della estrema “sicurezza del volo”? L’autore ci concede una flebile speranza: si può e si deve tornare indietro per merito di chi, provenendo da una scuola diversa, non si accontenterà più di unire semplicemente i puntini ma vorrà tornare a disegnare istintivamente, pur rispettando le regole base dell’arte figurativa.

In altri termini, a detta dell’autore, occorre addestrare i piloti intensivamente, attribuendo loro la discrezionalità di operare non secondo delle rigide procedure ma lasciando loro un certo margine di azione che consenta di far volare le macchine volanti in modo ragionato e non solo automatizzato.

Ecco allora spiegata la dedica che precede il testo del romanzo:

“Ai sognatori, agli irriducibili e ai ribelli poiché, da adesso in poi, siamo davvero nelle loro mani”

Senza sconfinare necessariamente nella fantascienza, ormai da diversi anni la tecnologia aeronautica consente alle macchine volanti di autogestirsi, ossia di decollare, atterrare, volare e diagnosticarsi in piena sicurezza senza il cosiddetto “ausilio” umano o comunque la supervisione di piloti a bordo … rimane irrisolto un dettaglio non trascurabile: i passeggeri salirebbero a bordo di un velivolo consapevoli che non ci sono piloti in cabina o che solo qualcuno non meglio definito controlla la macchina volante in remoto, alla stregua di un semplice drone? Una sorta di Flight Simulator che diventa la realtà?  Bah … E’ pur vero che già da anni alcune metropolitane delle grandi città sono prive di conduttore e addirittura le automobili di ultima generazione potrebbero percorrere talune strade senza essere guidate manualmente. D’altra parte, con l’avvento dell’industrializzazione, occorre ricordare che prima le macchine semplici e i robot poi hanno sollevato l’uomo dallo svolgimento di lavori pesanti, pericolosi e difficili da eseguire limitando il suo impegno lavorativo al controllo/supervisione delle attività meccanizzate/automatizzate. Tutto in virtù di una maggiore sicurezza sul posto di lavoro ma anche e soprattutto di una maggiore produttività e dunque maggiori profitti. In aviazione, generalmente molto reattiva a recepire determinate innovazioni tecnologiche come pure altrettanto refrattaria a innovazioni azzardate, potrebbe davvero accadere lo stesso fenomeno? E, semmai accadesse, quando? A detta di Soldati è già in atto … (foto proveniente da www.flickr.com).

Una volta letta questa prefazione ciò che segue è solo un formidabile valore aggiunto al libro, un modo esplicativo per dare consistenza alle affermazioni fin qui espresse in chiaro (ma forse non troppo chiare a tutti i lettori, specie quelli estranei al mondo del volo). D’altra parte non si possono comprende a pieno problematiche così articolate se non ricorrendo a esempi pratici, reali, a una sorta di parabola di biblica memoria. E in questo – occorre sottolinearlo – Alessandro ci riesce egregiamente. Perché cosa ci può essere di più esplicativo se non il racconto di un qualunque giorno di lavoro di un pilota commerciale?  Appunto …

In verità la scelta dell’autore è decisamente strategica ed è sapientemente sintetizzata in quarta di pagina cui vi rimandiamo.

Dunque la trama del romanzo è tutta lì e non ritengo opportuno anticiparvi o aggiungere altro. Posso solo indugiare su un aspetto: si tratta di una vicenda alla “Alessandro Soldati maniera”, ossia scritta con leggerezza, sottile ironia, un po’ surreale, comica e tragica al contempo; una vera goduria per gli occhi e la mente che spiega la facilità con cui divorerete le pagine di questo romanzo. E anche se il primo capitolo (quello dello zio anacronistico) scorre appena un po’ più lento degli altri, l’anello si chiuderà – e sarà un anello perfetto alla Giotto – al termine di una giornata memorabile per la protagonista, per lo zio  e anche per il lettore, ovvio.

Le “note a margine”, presenti in coda al romanzo, si ricollegano idealmente alla prefazione e spiegano il perché di alcune forzature:

“lo dico soprattutto per avere almeno una flebile speranza di non venire denunciato”

E non mancano le rassicurazioni rivolte ai passeggeri:

“[…] con tutti i nostri difetti, siamo pur sempre quelli che statisticamente combinano meno disastri […]”

consolidata da un’ultima considerazione arguta e sincera che spiega perché, sempre secondo l’autore, i piloti non raccontano o scrivono le loro innumerevoli, rocambolesche esperienze professionali:

“gli aviatori adorano raccontare quanto sono stati bravi a limitare i danni e gli inconvenienti, solo che mentre li limitano, non hanno modo di raccontarlo. Perciò fidatevi e sappiate che comunque ci stanno provando.

Sono lì apposta”

La degna chiusura di un libro notevolissimo!

Confesso però che, dopo aver girato con rammarico l’ultima pagina del libro, qualche perplessità mi è rimasta: possibile che quanto di funambolico narrato nel volume possa accadere a un pilota nel corso della sua pluriennale carriera? Possibile che l’autore non abbia deliberatamente calcato la mano narrando quegli eventi? Possibile che non li abbia costruiti ad arte e a suo favore?

Sebbene lo stesso Alessanro Soldati ammetta apertamente di aver forzato i tempi e i modi … parrebbe di no … e non lo afferma il sottoscritto che – lo ammetto – conosce marginalmente il mondo dell’Aviazione commerciale bensì un nostro consulente speciale, una sorta di agente segreto che, invece di esercitare la sua attività spionistica all’Avana, ha lavorato per anni in ATI e successivamente in Alitalia, peraltro sugli stessi MD-80 su cui ha “esercitato” il buon Alessandro. Come Alessandro, anche il nostro pilota di fiducia conosce perfettamente quelle dinamiche per averle vissute sulla sua pelle (in cabina di pilotaggio, s’intende).

L’autore immortalato nel corso di una sua qualche lezione. Egli indica sullo sfondo una foto in cui è presente e che, a giudicare dal muso del Fiat G-91 T sullo sfondo, risale al periodo della sua formazione professionale in AMI. Un abile modo per mettere a loro agio i suoi studenti: parlare di sé e dei suoi trascorsi. Strategico! (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/),

E allora, vigorosamente chiamato a rapporto, dopo la lettura volontaria quanto fulminea del volume (una sola lunga serata), il nostro consulente  mi ha confermato che quanto narra il suo collega di cloche è terribilmente verosimile e purtroppo reale, fin troppo reale.

Ad ogni modo, nonostante questa ferale informazione, rimangono irrisolti i quesiti che volano nevroticamente nella mente del famoso e fantomatico uomo della strada che poco o nulla conosce del mondo dell’Aviazione commerciale. Aviazione che, verosimilmente, avrà uno sviluppo esponenziale di passeggeri nei prossimi anni, crisi economica, pandemie e guerre permettendo. E questi quesiti nascono vieppiù numerosi dalla lettura di “In un cielo di guai”. Ecco dunque l’occasione di riflessione stimolata dal libro e, nello stesso tempo, di divulgazione e denuncia di una situazione dai risvolti un poco inquietanti che mi sono solo limitato ad accennare.

Ma torniamo al libro.

A proposito della prosa, dell’inventiva, della tecnica narrativa di Alessandro Soldati non c’è nulla da dire: strepitoso. Forse un po’ meno spontaneo rispetto al libro di esordio, meno caricaturale nel tratteggiare i personaggi, ma sempre un’ottima penna dalla quale attendiamo con impazienza il terzo volume. Perché non c’è due senza tre, vero Alessandro?

Promosso su tutta la linea.

E benché le aspettative fossero molto alte, non le ha tradite. Si nota che la sua scrittura si è fatta più adulta, più ragionata ma non per questo meno valida.

Aggiungo che in alcuni punti i dialoghi tendono a scorrere meno fluidi e in un capitolo – solo uno  – l’autore cede alla tentazione di uno “spiegone” di cui – è vero – possono beneficiare i lettori assolutamente astemi di Aviazione ma che per gli altri, desiderosi di conoscere i risvolti successivi della vicenda, costituisce un ulteriore rallentamento. E comunque nulla di intollerabile o di scandaloso. Ti vogliamo bene, Alessandro, comunque!

Tornando agli aspetti squisitamente editoriali del libro, se da un lato posso tranquillamente esprimermi in modo favorevole circa la qualità della carta utilizzata per la stampa (opaca e anche fin troppo bianca), dall’altra non posso fare a meno di dichiarare delle riserve sulla scelta operata circa la foto di copertina che ritengo abbastanza anonima, forse affrettata, generica, senza una diretta logica con il titolo e il contenuto del libro. Peccato. Magari un’altra copertina per una seconda edizione? Magari la stessa seconda edizione con qualche didascalia o note a piè di pagina a uso e consumo dei lettori meno aeronautici? Vedremo, anzi, leggeremo …

Era il 1967 e questo era l’equipaggio del DC-8-33 della compagnia SAS,  compagnia aerea di bandiera di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il velivolo era appena atterrato al Galeão International – Antonio Carlos Jobim International Airport GIG di Rio de Janeiro in Brasile. Oggi sarebbe impensabile avere una simile schiera di persone a bordo: due piloti, un ingegnere di bordo, un marconista, il motorista e uno stuolo di assistenti di volo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Eccellente il titolo.

Purtroppo, già alla prima pagina di testo, mi è apparsa in tutta la sua infelicità l’uso di un carattere di stampa troppo minuto, sicuramente al di sotto delle dimensioni standard per i libri tascabili. No, non sono “ciecato”, come soleva proclamare il personaggio televisivo della grandissima Anna Marchesini … è proprio piccolo, fidatevi, non sono ciecato. Circa la scelta del font diverso dall’usuale potrei essere benigno ma sulle dimensioni, mi spiace, caro Alessandro, chi ha preferito la copia cartacea del tuo libro – come il qui presente – è costretto a una faticaccia ingiustificata, specie se considerata l’impostazione grafica (anche in questo caso singolare) di porre una riga vuota ad ogni capoverso; trattasi di una nuova estetica dattilografica? Un modo per enfatizzare ciascun periodo? Chissà … sì, certo, noi lo adottiamo in questa recensione … ma non per nostra scelta bensì a causa di un sistema appunto automatizzato che non ci consente di fare diversamente. Il solito programmatore ottuso che ha ideato WordPress – non il nostro, per carità –  lo ha previsto e non riusciamo a fare di meglio.

Ad ogni modo il dettaglio che più mi è stato sgradito all’occhio è la presenza dei segni “<<” e “>>” per aprire e chiudere il discorso diretto: una vera frecciata al cuore! Ma il trattino o le virgolette non sono più di moda?

Voglio sperare che queste soluzioni, riprendendo il contenuto del romanzo, siano avvenute in automatico per mano di un qualche scaltro Operatore di Sistema editoriale e non dall’autore perché, non solo in Aviazione, ma anche in editoria, l’automazione partorisce dei mostri e l’impaginazione discutibile di questo libro potrebbe esserne la conferma.

Quanto al prezzo di copertina non posso che spendere apprezzamenti: onesto e sotto la media di quello di volumi di pari dimensioni pubblicati in regime di autopubblicazione; ottima la scelta di rendere disponibile la versione in ebook o, secondo un altro punto di vista, di farne ancora una versione cartacea.

In conclusione: un libro da acquistare e leggere con la stessa convinzione, certi che – parafrasando i titoli dei due libri di Alessandro Soldati – anche in cielo pieno di guai … andrà bene. Di sicuro!

Buona lettura





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 

Andrà Bene Di Sicuro - Alessandro Soldati - Copertina in evidenza
Andrà bene di sicuro

In un cielo di Guai - ter

Deci 83-86. I Ricordi di “Tiro 0”

titolo:  Deci 83-86. I ricordi di “Tiro 0” 

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2014 e 2019 (II edizione)

ISBN: 1679471880 oppure 978-1679471889





 

Bruno Servadei, l’autore, si trovava in Svezia come addetto militare. Era lì da tre anni e il periodo di servizio all’estero stava per scadere. Infatti già si stava organizzando per il rientro in patria. Ma qualche mese prima del previsto ricevette un ordine di rientro anticipato. Il motivo? Doveva andare a comandare la base aerea e il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.

Questo bel libro autobiografico di Bruno Sevadei è disponibile con ben quattro copertine diverse. La prima è relativa alla prima pubblicazione a cura dell’editore SBC edizioni e ritrae due Fiat G91T che volano in coppia mentre le restanti tre sono il frutto di una diversificazione tra l’edizione cartacea ed elettronica del libro  nonché di un banale errore dell’autore che nel 2019 aveva immaginato di non aver terminato la procedura di autopubblicazione (già andata a buon fine dal 2014). Il contenuto, ovviamente è il medesimo. Nel corso della lettura del libro – precisamente nello spassoso capitolo dedicato alla cerimonia di festeggiamento del  venticinquennale della base di Decimomannu – l’autore ci racconterà la genesi dell’enigmatico disegno che adorna le copertine del volume e che fu realizzato per l’occasione da: “la matita magica del capo dell’SST, autore del magnifico disegno rappresentante la storia del volo che adornava la sala mensa, lo feci aggiornare inserendo i velivoli dell’ultima generazione. Poi pensai di riprodurlo su alcuni quadri in zinco, da consegnare agli ospiti di rilievo partecipanti alla celebrazione.”

Servadei descrive lo scompiglio che un ordine del genere portò in tutta l’organizzazione del rientro da una località tanto lontana come la Svezia, dovendo fare tutto in fretta, quasi senza respiro. Per scoprire, poi, che tutta questa urgenza, in realtà non c’era. Tipico della vita militare.

Comunque, a parte il rientro precipitoso, arrivato a Decimo, come veniva chiamata per brevità la base aerea, cominciò subito il periodo di affiancamento per prenderne il comando.

I ventisette capitoli del libro, per un totale di 343 pagine, prendono in rassegna tutti gli aspetti che il comando di un simile sito militare comporta.

Con il suo tipico stile chiaro, semplice, efficace nelle descrizioni, Servadei riesce a sintetizzare la complessità della vita operativa nella quale si svolgevano operazioni militari di altissima specializzazione.

Sulla base di Decimomannu erano presenti contemporaneamente diversi gruppi di volo, non solo italiani, ma soprattutto stranieri. Tutti erano lì per addestrarsi  con diversi tipi di armi. Veniva utilizzato un poligono di tiro appositamente attrezzato su una penisoletta selvaggia che si trova sulla costa ovest: capo Frasca. Su questo lembo di terra selvaggia erano presenti diversi bersagli, che si dovevano colpire con bombe o con mitragliatrici e cannoncini di bordo. Diverse squadriglie, in sequenza e con cronometrica precisione si alternavano nei passaggi. Poi, a terra, tutti prendevano visione dei punteggi conseguiti da ogni pilota.

Nel corso del suo comando della base di Decimo, contrariamente a quanto avevano fatto i suoi predecessori, il com.te della base Bruno Servadei, colse l’occasione offerta dalle presenza di numerosi diversi tipi di jet – tra i migliori disponibili nell’arsenale della NATO – per effettuare dei voli di prova rendendosi conto, ad esempio a proposito del F-15 Eagle che: “Trattandosi di una delle prime versioni aveva la strumentazione analogica che mi ha consentito di essere a mio agio e di poterlo pilotare senza problemi: in più il pilota USA mi ha lasciato ampia libertà di manovra fino all’entrata in ACMI e al rientro. E poi era un F 15, con due bestie di motori con una spinta incredibile ed una maneggevolezza da sogno anche a basse velocità.”. L’autore è quello ritratto a bordo del mastodontico F-15 statunitense e nel volume ci confida che: “Non era un fatto tipico di Decimo; l’esperienza di anni di reparto mi ha fatto costatare che nella nostra aeronautica i comandanti di stormo in genere non sono mai stati particolarmente interessati all’attività di volo.”
(foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

All’epoca, dal 1983 al 1986, esistevano già strumenti elettronici abbastanza sofisticati da poter simulare l’uso di armi aria-aria nei combattimenti aerei, i cosiddetti dog fighting.

Per questi combattimenti era stato implementato un apposito spazio aereo, dove i piloti potevano addestrarsi a combattere fra loro. I risultati apparivano su tabelloni elettronici, in una sala apposita, in modo da poter agevolmente valutare le prestazioni di ogni partecipante.

A guardarli oggi mettono i brividi ma anche all’epoca – ne siamo certi – non ispiravano certo grande fiducia … e infatti ecco cosa ricorda l’autore a proposito di: “alcune foto fatte in Sardegna nel 1984 sull’aviosuperficie che oggi si chiama “La tana del volo”, dove ho fatto il mio primo volo su un Barouder. Trovai il volo interessante, ma di certo non la ritenni un’attività su cui basare sogni futuri per volare in pensione. Del resto il passaggio dall’F104 con cui ancora volavo al Barouder è stato significativo! Quello che spiace è che oggi tutti questi velivoli sono praticamente scomparsi, e con loro una parte importante della storia del volo che invece sarebbe stato opportuno preservare in qualche museo, o tramite qualche manifestazione ad hoc, magari sponsorizzata ufficialmente dall’AeCI. Ci vorrebbe un HAG anche per i trespoli del volo, un HULMAG!” Parola di Bruno Servadei. (foto provenienti dalla pagina Facebook dell’autore)

Ecco cosa c’è nel libro. C’è la descrizione di ogni aspetto della vita che per i tre anni suddetti ha riguardato i frequentatori della base, piloti e non piloti, compreso il comandante e la sua famiglia. Qualcosa che difficilmente troveremmo, dovessimo cercare in tutte le librerie del mondo.

Non credo esista un altro libro come questo.

Non mi sono mai imbattuto in nulla che andasse oltre un semplice articolo, più o meno stringato.

Normalmente le faccende militari sono celate in una cortina di mistero, se ne parla a mezza bocca, quasi con timore e con la sensazione di rivelare segreti indefiniti.

Invece in questo libro, una volta di più, l’autore ci fa entrare nel suo mondo, ci porta con sé dentro la base di Decimomannu, ci fa conoscere le persone, gli aerei, le procedure, le difficoltà e le soluzioni, a volte geniali, di problemi complicati.

Sì, certo, non è un’immagine propriamente aeronautica ma costituisce comunque la testimonianza visiva di un incontro memorabile che l’autore così ha commentato: “La visita in Sardegna del Papa, quello tosto, che atterrò a Decimo a causa della chiusura di Elmas creandomi non pochi problemi.” (dalla pagina Facebook dell’autore)

Senza rivelare alcunché di segreto, Servadei ci permette di conoscere la realtà misteriosa che si cela oltre la garitta del personale di guardia all’ingresso dell’aeroporto militare. Un mondo che altrimenti non conosceremmo mai.

Dagli anni ottanta a oggi tante cose sono cambiate. Ma, anche se diverse, le linee guida di certe operazioni non dovrebbero essere troppo dissimili da allora. Leggere questo libro mette il lettore in grado, non solo di conoscere la storia passata della difesa aerea, ma di comprendere meglio le modalità di quella odierna, perché in molti casi ci mostra come ci siamo arrivati.

E proprio in quegli anni ottanta prendeva piede il fenomeno del volo ultraleggero. Gli ULM (Ultra Light Machine) erano tubi e tela, modelli davvero basici, con qualche esemplare un po’ più perfezionato, tanto da avere, ad esempio, una parvenza di cabina semichiusa. Sembrava che si reggessero in aria per miracolo e stessero sempre sul punto di cadere. In realtà parecchi cadevano davvero.

A parte questo, il dilagare di mezzi aerei, che allora erano classificati come attrezzi sportivi, al pari di una racchetta da tennis, pilotati da gente che poco conosceva di norme aeronautiche, era visto come una minaccia per l’aviazione commerciale e ancor più per quella militare.

Una ripresa aerea della famosa penisola di Capo Frasca con i suoi caratteristici cerchi concentrici utilizzati per identificare il punto di sgancio degli ordigni (all’occorrenza anche nucleari) (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Nel libro Servadei parla di un’aviosuperficie, o meglio, un campo di volo, che era stata costruita nei dintorni della base e dove operava proprio un club di ULM. C’era il rischio che qualcuno di loro sconfinasse in aree non consentite ed entrasse in conflitto con l’attività militare. Da molte parti si erano levate voci di protesta e Servadei, come comandante della base, era stato sollecitato a far chiudere l’attività di quei “banditi dell’aria“.

Questo episodio narrato nel libro mi ha fatto fare un vero salto dalla sedia.

C’era da aspettarsi che il comandante di una base aerea come quella di Decimo mandasse un contingente di carabinieri a sequestrare i mezzi, arrestare i piloti, recintare l’area e ad applicare sigilli affinché nessuno potesse più entrare là dentro. Mi aspettavo questa reazione, e lessi con il fiato sospeso il seguito del capitolo.

Servadei andò a visitare l’aviosuperficie e a conoscere uomini e mezzi.

Nella sua pagina Facebook così commenta l’autore questo scatto : “Decimo quando era al massimo del suo splendore. La linea di volo tedesca che feci fare in occasione del primo rischieramento dei loro Tornado, nel 1983. Poi c’erano le linee di volo inglese, quella americana e infine la nostra, sempre la più misera.” Da notare le lunghe scie nere posizionate appena dietro i velivoli che testimoniano come quelle piazzole fossero usate abitualmente per la messa in moto e le prove motori dei velivoli. Quelli tedeschi, inoltre erano i velivoli che svolgevano l’attività preponderante nel poligono di Deci in quanto, come spiega ancora nel suo libro Bruno Servadei: “La ricerca di aree idonee a svolgere attività con velivoli a getto costrinse molte forze aeree di paesi densamente popolati a cercare zone libere anche in paesi terzi.
Per questo la Germania, oberata dall’attività di volo a bassa quota dei propri cacciabombardieri, di quelli delle unità NATO ivi dislocate (USA, UK, Francia e Canada) e di quelle dei paesi più piccoli, come Olanda, Belgio e Danimarca, cercò uno sfogo all’estero. Insieme al Canada che, avendo i propri reparti di volo schierati in Germania, condivideva la stessa esigenza, prese contatto con l’Italia per l’utilizzazione di Decimomannu”

Provò anche qualche ULM in volo.

Poi, senza proibire l’attività di questi appassionati, stabilì alcune regole, limiti e altezze massime. E li lasciò volare senza problemi.

Non solo, ma dopo un po’ di tempo, approfittando di qualche giorno di chiusura della base di Decimo, invitò quel club e altri piloti di ultraleggero a venire ad atterrare sulla pista dell’aeroporto per una festa. Così i piloti militari poterono conoscere i civili e viceversa.

Ci fu un vero e proprio scambio culturale. I piloti ULM poterono vedere da vicino gli aerei militari, sapere di più della loro attività e delle loro esigenze operative e imparare soprattutto come comportarsi per non interferire nelle loro operazioni.

Complimenti, Comandante Servadei. Questa parte mi ha addirittura commosso. Come si dice in gergo… tanto di cappello!

Nel 1986 e 1987 facevo anch’io già parte del mondo ultraleggero. Volavo come istruttore su un’aviosuperficie nei dintorni di Roma, in una località dei Castelli romani denominata Pratoni del Vivaro. E questo mi fa apprezzare particolarmente l’orientamento mentale di un Comandante che, invece di proibire e chiudere, stabilisce regole e lascia volare.

Sebbene in modo marginale, la base di Decimo era utilizzate anche dall’AMI e questo è uno dei velivoli con cui l’autore usufruì dei servizi del poligono ben prima di assumerne in comando. Questo scatto vede il G-91T di Servadei in volo di rientro a Decimo da una missione di tiri Aria/Suolo durante il 10°Corso Istruttori di Tiro e Tattiche del 1968. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Un paio di capitoli, il sedicesimo e diciassettesimo, parlano dell’attività di volo che l’autore fece, per mantenere le proprie abilitazioni e il proprio addestramento, sia con velivoli italiani che con quelli stranieri.

La linea di volo italiana a Decimo nel 1968 in una delle tante missione addestrative effettuate dall’autore quando ancora prestava servizio a Gioia del Colle in qualità di cacciabombardiere. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Oggi la logica d’impiego dell’ex poligono è completamente cambiata come si evince dall’articolo pubblicato di cui alla pagina: https://www.lanuovasardegna.it/regione/2022/11/14/news/i-migliori-top-gun-si-addestrano-alla-scuola-di-decimomannu-1.100150806

Anche un comandante deve mantenersi allenato al pilotaggio di tutti i velivoli in dotazione alla propria forza armata, ma non è male se riesce a volare anche con quelli stranieri, che utilizzano la base e il poligono. Gli aerei non sono proprio identici, anche se dello stesso tipo. Chi comanda deve ben sapere le esigenze di tutti. Serve a fare un lavoro migliore, a gestire meglio un’attività così complessa.

Dai capitoli traspare una certa difficoltà nell’ottenere l’autorizzazione a effettuare questi voli, anche se, devo dire, nel caso dell’autore, alla fine riusciva a volare abbastanza.

La retrocopertina del libro di Bruno Servadei che, a differenza di “Vita da cacciabombardiere”, ha un contenuto meno volato ma ugualmente ben narrato secondo lo stile e la sagacia cui ci ha abituato questo autore talentuoso e, a suo modo, prolifico.

Ma la situazione deve essere peggiorata negli anni successivi, perché un mio amico, generale di brigata, in servizio proprio da quelle parti, non riusciva a volare e doveva ogni volta venire a Guidonia a fare qualche oretta per il mantenimento.

Nel libro si parla anche di feste, cerimonie, visite, giuramenti, vacanze estive. E naturalmente non mancano accenni all’interazione con il popolo sardo.

E questo è davvero un argomento interessante. Tutto da leggere.

Alla fine, però, oltre le difficoltà che immancabilmente può incontrare una struttura militare così grande, immersa in una realtà territoriale che la percepisce come qualcosa di scomodo e ingombrante, emerge la bellezza di un’isola straordinaria come la Sardegna. E si finisce per amare la regione e il suo popolo.

Servadei lasciò il comando di Decimo nel 1986 e tornò nel continente. Avrebbe preso servizio come consigliere militare presso il Quirinale. Ma questa parte della sua vita è raccontata in un altro suo libro dal titolo “Un pilota a Palazzo“, di cui potete leggere la mia recensione in questo sito.

Ovviamente ci fu una cerimonia ufficiale. C’è sempre una cerimonia ufficiale nella faccende militari.

Scrive Servadei:

“Il giorno prima di lasciare il comando feci l’ultimo volo con il mio amato F104S. Poi, fra presentat’arm e fanfare, discorsi e saluti, mollai la bandiera di guerra dell’RSSTA nelle mani del mio successore”.

 

 





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





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