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Donne con le ali

titolo: Donne con le ali

autore: Luca De Antonis 

editore: MEF – Maremmi Editore Firenze

pagine: 381

anno di pubblicazione: 2012 (prima edizione)

ISBN: 978-88-7255-401-2




“Il 17 dicembre del 1903 una macchina volante ad ali rigide, mossa da un motore a scoppio, avrebbe compiuto il suo primo volo …

Miss Harriet Quimby, inviata del Leslie’s Illustrated Weekly da New York, prendeva nota su un taccuino di tutte le operazioni che si stavano svolgendo.”

Quel 17 dicembre 1903 pietra miliare per l’aviazione, le donne sono già presenti pronte ad affrontare e condividere questa meravigliosa avventura chiamata “Volo”.

Luca De Antonis, autore di “Donne con le ali”, racconterà i primi 30 anni della storia dell’aviazione al femminile.

Non dettagliate biografie, ma un romanzo dove le storie di queste donne, pioniere del volo al femminile, si intrecciano e si soprappongono all’interno dell’ambiente storico-culturale del loro tempo, e con abile maestria narrativa si fondono con gli avvenimenti sociali.

La IV di copertina del corposo libro “Donne con le ali”

Si spazierà dall’America del Nord con gli Stati Uniti e le leggi razziali che affliggevano le persone di colore, all’Europa con la Francia e la sua vita cosmopolita che alle leggi razziali in vigore negli Stati Uniti opponeva il suo motto “Uguaglianza-Fratellanza-Libertà”, al Sud America.

Il 16 agosto 1911 sul giornale Leslie’s Weekly, Harriet Quimby scriveva:

“Ci vogliono quattro anni di studio al College per conseguire un diploma, ma basta molto meno tempo per ottenere un brevetto di volo. A due condizioni però: un fato che non vi sia particolarmente avverso, e un valido istruttore … che vi insegni ad avere fiducia in voi stessi e in voi stesse.

Mi rivolgo particolarmente al pubblico femminile, perché volare è possibile per una donna quanto per un uomo!”

Benché avesse conseguito la licenza di aviatore dall’Aero Club of America da meno di un anno, Harriet Quimby tentò un’impresa assai ardita per l’epoca e soprattutto per una donna: attraversare lo stretto della Manica. Oggi comporta pochi minuti di volo ma nel 1911 quel braccio di Mare del Nord (che nel suo punto più stretto è largo solo 34 km), era una distanza notevolissima. Occorre infatti ricordare che il velivolo utilizzato da miss Harriet volava alla ragguardevole velocità massima di circa 80 km/h, vento permettendo, e a una quota relativamente bassa (qualche centinaio di metri sopra le onde). In effetti, priva di una qualsiasi forma di strumento di navigazione (non è chiaro se disponesse di una bussola magnetica rimediata alla meglio) o di una rudimentale cartina geografica, Harriet decollò all’alba in condizioni meteo avverse e infatti percorse la tratta in diagonale, da Dover (Gran Bretagna) a Hardelot (Francia) anziché la più vicina Calais (come aveva preventivato). La sua impresa durò ben un’ora e nove minuti. Una donna entrava così nella storia, alla pari con il suo diretto collega di sesso maschile Louis Blèriot che aveva compiuto lo stesso volo il 25 luglio 1909. Harriet Quimby morì purtroppo ancora giovanissima nel corso del Third Annual Boston Aviation Meet Squantum, nel Massachusetts  quando per motivi mai definiti, il velivolo Bleriot  con cui volava con passeggero a bordo (lo stesso organizzatore dell’evento) precipitò rovinosamente. Entrambe furono sbalzati fuori dal precario velivolo (all’epoca le cinture di sicurezza non erano contemplate) e per loro non ci fu scampo alcuno. Alla tenera età di 37 anni spiccò il suo ultimo volo lasciando però un segno indelebile nella storia dell’aviazione. (foto proveniente da www.flickr.com)

Harriet Quimby è la prima donna americana a conseguire il brevetto di volo, 1 agosto 1911.

Ma già nel 1910 in Francia l’Aero Club de France aveva rilasciato il primo brevetto di volo al mondo ad una donna: Elise Raymonde de Laroche. A lei è dedicato un volume di cui è possibile leggere la recensione nel nostro hangar.

Ancora una bella immagine di Harriet Quimby che posa davanti al suo velivolo Bleriot XI. Probabilmente risale al periodo in cui frequentò il corso di pilotaggio presso la scuola di volo di John e Mathilde Moisant (quella dei fratelli Wright a Dayton non accettava donne pilota) o immediatamente dopo giacché, una volta brevettata entrò nel team Moisant International Aviators e si esibì in giro per gli Stati Uniti. Sulla semiala nello sfondo si legge distintamente “MSANT”, da qui la nostra congettura  (foto proveniente da www.flickr.com)

(ndr: Francesco Baracca, asso dell’aviazione della I guerra mondiale, effettuerà il suo primo volo in Francia soltanto a maggio del 1912 e conseguirà il brevetto di pilota il 9 luglio)

Come chiaramente indicato dalla didascalia  in corsivo, in questo scatto Harriet Quimby è ritratta a bordo del suo monoplano Bleriot. Per l’epoca si trattava di un velivolo rivoluzionario; sebbene privo di alettoni (il rollio avveniva svergolando l’estremità alare) così come il Flyer dei fratelli Wrigh, il Bleriot XI era dotato di un geniale sistema a pedali che comandava il timone di direzione, divenuto poi lo standard per tutte le macchine volanti a venire, praticamente a tutt’oggi. Ma il suo pezzo forte era il motore; un tricilindrico radiale a W appositamente progettato e costruito dall’italiano Alessandro Anzani in grado di erogare la spaventevole potenza di ben 25 cv. Di chiara derivazione motociclistica, oggi equipaggerebbe un tagliaerba anziché un aeroplano! (foto proveniente da www.flickr.com)

Sono gli anni della “Belle Epoque”, il progresso della tecnica e della scienza non conosceva eguali nel passato: l’illuminazione elettrica, la radio, l’automobile, il cinematografo … l’aeroplano.

Le donne rivendicano i loro diritti, nasce il movimento delle suffragette.

Il mondo vive un periodo di grande ottimismo per il futuro, ancora ignaro della catastrofe che nel 1914 porterà all’orrore della I Guerra Mondiale.

Il 16 aprile 1912, mentre Harriet Quimby a bordo di un Bleriot Type XI si appresta ad effettuare con successo la traversata del Canale della Manica da Dover a Calais, in Europa arriva la drammatica notizia: nella notte tra il 14 e il 15 aprile il Titanic è naufragato nell’Oceano Atlantico a seguito dell’impatto contro un iceberg.

Quella che per tutti doveva essere un’impresa dal grandissimo impatto pubblicitario e commerciale, Monsieur Louis Bleriot già prefigurava una gran richiesta dei suoi velivoli, la prima donna a sorvolare la Manica, passò inosservata.

Il 17 aprile i giornali titolavano la terribile disgrazia avvenuta in mare. Non c’è posto per l’impresa di Harriet Quimby.

 “Cara Bessie, …. Se essere negra costituisce per il tuo obbiettivo, volare, un ostacolo insormontabile qui in America … ricordati che fino a poco tempo fa era un ostacolo insormontabile anche l’essere donna.

A te toccherà un compito ancora più difficile: vincere sul razzismo e sul segregazionismo …

Dopo l’inverno sarò impegnata in Europa per alcuni mesi. Ma l’estate prossima, se potrai venire qui a New York, sarò ben lieta di offrirti tutto il mio aiuto…”

Così scriveva Harriet Quimby nel settembre del 1911, in risposta a Bessie Coleman.

Purtroppo non potrà mantenere le sue promesse, il 1 luglio del 1912 Harriet Quimby perirà in un drammatico incidente di volo.

Dal 1914 al 1918 l’Europa è sconvolta dalla guerra, l’aeroplano verrà impiegato per la prima volta in campo militare, ciò porterà anche ad uno sviluppo delle sue potenzialità.

Il termine della guerra, vede nascere l’interesse verso l’utilizzo dell’aeroplano in campo civile. Per le donne, alle quali fu precluso di partecipare come pilota al conflitto mondiale, si aprivano ora, anche se con difficoltà, le porte dell’aviazione civile e del volo come professione.

Katherine Stinson volerà per il Canada Post, primo servizio di posta aerea, nelle remote e poco accessibili aree del Canada.

Il documento non mente: Elizabeth “Bessie” Coleman, soprannominata “Brave Bessieo” o “Queen Bess” fu la prima donna pilota di origine afroamericana e la prima nativa statunitense (a prescindere da sesso ed etnia), a conseguire una licenza di pilota internazionale in quanto emessa dalla FAI, Fédération Aéronautique Internationale.
Bessie imparò a volare in Francia su un biplano Nieuport tipo 82 giacchè nessuna scuola di volo statunitense ammetteva ai suoi corsi donne e soprattutto nere. Naturalmente non conosceva una sola parola in lingua francese ma quando seppe la scuola di volo Société des avions Caudron di Le Crotoy l’avrebbe ammessa, a dimostrazione della sua determinazione, frequentò un corso di lingua alla scuola Berlitz di Chicago dopodiché si imbarcò sul transatlantico Imperator nel novembre 1920 con destinazione Francia.

Bessie Coleman il 15 giugno 1921 sarà la prima donna afroamericana a conseguire il brevetto di volo. Ma per arrivare a coronare il suo sogno dovrà lavorare duro per riuscire a mettere i soldi da parte e poi con grande coraggio lasciare l’America, che con le sue leggi razziali non permetteva ai negri di accedere alle scuole di volo, per andare in Francia, alla scuola dei fratelli Caudron dove non si facevano distinzioni di sesso né di razza.

Come diversi aviatori dell’epoca, anche Bessie Coleman perse la vita prematuramente a causa di un incidente aereo: a bordo di un Curtiss JN-4 Jenny, a Jacksonville, Bessie fu sbalzata fuori dall’aereo a circa 610 m di quota e morì sul colpo quando precipitò al suolo. Il velivolo era dotato di cinture di sicurezza ma lei non le aveva indossate affinché potesse sporgersi agevolmente dalla cabina di pilotaggio e osservare il terreno in vista di un lancio con il paracadute che avrebbe effettuato durante una imminente manifestazione aerea, (foto proveniente da www.flickr.com)

Il 30 aprile 1926 Bessie Coleman muore in un incidente di volo.

In seguito la città di Chicago le renderà omaggio intitolandole una strada nei pressi dell’aeroporto O’-Hare.

L’inizio del 1929 vede un’altra grande conquista per le aviatrici: finalmente alle donne viene riconosciuto il diritto a partecipare alle manifestazioni sportive aeronautiche, fino ad allora precluse.

Il 18 agosto viene organizzato il primo “Women’s Air Derby”.

Il 2 novembre 1929 presso l’aeroporto di Curtiss Field, viene fondata “l’Organizzazione Internazionale delle Donne Pilota”, il gruppo prende il nome “Ninety-Nines” e viene eletta come prima presidente Amelia Earhart.

Ecco il manifesto dell’organizzazione: 

The Ninety-Nines Mission Statement:

The Ninety-Nines® is the International Organization of Women Pilots that promotes advancement of aviation through education, scholarships and mutual support while honouring our unique history and sharing our passion for flight.

che tradotto in italiano significa: 

Le 99 è l’Organizzazione internazionale delle donne pilota che promuove il progresso dell’aviazione attraverso l’istruzione, le borse di studio e il sostegno reciproco, onorando la nostra storia unica e condividendo la nostra passione per il volo.

https://www.ninety-nines.org/who-we-are.htm

“Donne con le ali”, un romanzo appassionante dall’inizio alla fine.

La copertina della II edizione del bel libro di Luca de Antonis. Nella prefazione l’autore così spiega il suo volume: “… qui si narrano tante diverse storie di donne coraggiose che con con passione hanno saputo compiere imprese grandi e ancora più grandi se rapportate all’epoca in cui si svolti i fatti e a quella condizione gregaria dell’universo femminile alla quale non si sono volute adattare.”

La storia delle prime donne che, sfidando i pregiudizi del loro tempo, hanno dimostrato che ciò che era possibile per un uomo lo era anche per una donna.

Un omaggio a quelle donne i cui nomi e le cui imprese sono quasi sconosciute, o comunque poco raccontate.

La IV di copertina della II edizione di “Donne con le ali” pubblicato in regime di autopubblicazione a mezzo di Amazon. Anche in formato e-book.

Donne che non si sono perse d’animo di fronte alle avversità, che hanno creduto nelle loro capacità.

E’ il 1 aprile del 1921 quando, a bordo di un Caudron C3, Adrienne Bolland atterra a Santiago del Cile, dopo essere decollata da Mendoza. Un’impresa epica: l’attraversamento delle Ande.

Una catena di montagne che Adrienne non aveva mai visto; senza l’ausilio di carte ma solo di indicazioni di cosa avrebbe dovuto vedere e quale vetta prendere come riferimento.

Donne che non hanno sfidato gli uomini, ma che hanno voluto vivere la storia al pari degli uomini ma con la loro sensibilità femminile; che non hanno rinunciato ad amare e a essere amate.

Emozionante il racconto della traversata da Buenos Aires a Rio de Janeiro in idrovolante, a bordo di un Caudron al quale erano stati semplicemente montati dei pattini galleggianti, compiuta da Adrienne Bolland insieme al suo meccanico André Duperrier.

“… Non occorre essere marito e moglie, non occorre essere amanti per essere necessari l’uno all’altro. I nostri comuni interessi, il nostro rispetto, la nostra stima… è il sentimento che ci unisce, che ci lega, che ci fa andare avanti… contro le tempeste della vita, ma anche nel vento delle nostre più belle imprese…”

Adrienne Bolland, assurta alla cronache storiche per essere stata la prima donna ad attraversare la manica decollando dalla Francia e soprattutto per aver sorvolato le Ande (con un volo di 4 ore e 17 minuti). E’ una delle poche donne pioniere dall’Aviazione che, a differenza delle sue colleghe si spense in tarda età (ben 80 anni) e nel suo letto. Praticamente un’eccezione! (foto proveniente da www.flickr.com)

Una pilota e un meccanico, una donna e un uomo, che hanno affrontato e condiviso i successi, i rischi e le disavventure, in un continente lontano dalla loro Francia. Una storia di amicizia, cameratismo, fiducia l’uno nell’altra, ma anche … una forma di amore.

E’ lo stesso autore, nella postfazione, a indicarci le poche situazioni che sono frutto di fantasia, mentre tutti gli altri avvenimenti, sia pure adeguati alle necessità narrative, sono rispettati nella sostanza.

Tutto il romanzo è intriso da un grande rispetto, stima e amore, da parte dell’autore, verso le donne.

Le singole storie scorrono intrecciate tra di loro, in maniera molto fluida, mai noiosa, tenendo incollato il lettore alla lettura.

Bellissima la foto di copertina, che ritrae una sorridente Ruth Elder appoggiata al suo biplano, mentre non vi è alcuna foto all’interno.

Un libro dedicato a tutte le donne che ancora oggi, come nel passato, lottano per vedere riconosciuti i propri diritti, e avere pari opportunità.

Un libro che sia ispirazione per tutte le donne a credere nelle proprie capacità, e un esortazione a non rinunciare alle proprie aspirazioni.

Harriet Quimby a bordo del suo velivolo Bleriot XI (foto proveniente da www.flickr.com)

Concludiamo questa breve recensione riportando un pensiero che costituisce l’essenza del volo al femminile:

“Volare è uno sport raffinato e dignitoso per le donne… e non c’è ragione di aver paura finché si fa attenzione.”  

Harriet Quimby





Recensione di Franca Vorano e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR









 

 

 

In un cielo di guai

titolo: In un cielo di guai

autore: Alessandro Soldati 

editore: Amazon

pagine: 192)

anno di pubblicazione: 2022 (tascabile e e-book)

ISBN: 979-8849987729




Erano anni che lo aspettavo e – in tutta sincerità – ormai disperavo di poterlo leggere. Mi ero quasi convinto che colui che tanto mi aveva stupito con il suo romanzo di esordio “Andrà bene di sicuro“, fosse impegnato in qualcosa di meglio che soddisfare i desideri morbosi e pretenziosi di un insignificante lettore; in effetti già me lo immaginavo in qualche paradiso caraibico attorniato da una selva di donzelle adoranti, intento a godersi i proventi di vendite impreviste e imprevedibili. Sì, quelle che, tra capo e collo, gli sono cadute sicuramente addosso nel 2014 (anno di pubblicazione del primo volume) così come raramente cadono addosso a un autore principiante ma estremamente talentuoso baciato dalla fortuna nell’essere incappato – non lo sapeva neanche lui – in un editore lungimirante e nell’aver mietuto una platea smisurata di ammiratori nell’ambito di un genere letterario di nicchia. E invece …

Il ritratto dell’autore quando militava tra le file del 154° Gruppo Cacciabombardieri del 6° Stormo di Ghedi (i mitici “Diavoli Rossi”), immortalato a bordo di un Tornado dell’Aeronautica Militare Italiana (foto proveniente dalla pagina della Hito, la società presso la quale Alessandro Soldati svolge la sua attività professionale). Nella sua scheda personale leggiamo: “Attualmente ha un incarico di docenza presso un’università e svolge con passione il ruolo di istruttore di corsi teorici presso una scuola di volo.
Quando può, si rilassa in mountain bike, o in motocicletta, o lavora in un fazzoletto di terreno in collina.
Queste tre attività sono state citate in ordine decrescente di fatica.”. Non abbiamo dubbio alcuno che queste note biografiche se le sia scritte da solo …

Confesso che quando ho intercettato “In un cielo di guai” nel calderone del più grande bazar digitale della rete, non credevo ai miei occhi; per un istante ho pensato a un caso di omonimia ma l’istante dopo mi sono scoperto a cliccare in modo compulsivo sul tasto “acquista subito”, dopodiché ho consultato con impazienza la tracciatura del pacco fino a strappare con irrefrenabile cupidigia l’involucro che – appena consegnato – conteneva proprio il secondo volume della produzione letteraria di Alessandro Soldati.

A quel punto, leggerlo tutto d’un fiato è stato un piacere e un dovere; ammetto che ho addirittura trascurato il mio lavoro pur di leggerlo e, complice un provvidenziale black-out elettrico pomeridiano sul luogo di lavoro (erano anni che non accadeva), sono rientrato a casa anzitempo pur di conoscerne tutto il contenuto …

Che dire?

Bellissimo? … no, troppo banale definirlo con un solo aggettivo.

Sublime? … no, prevedibile.

Alessandro Soldati oggi. Dopo essersi congedato dall’AMI e aver svolto la professione di pilota di linea per la defunta Compagnia di bandiera italiana, ha conseguito la laurea in Scienze e tecniche Psicologiche. Ora è una delle colonne portanti di Hito, una società che organizza corsi di formazione di Human factor. Il suo curriculum e la sua biografia dettagliatissima sono presenti nel sito di questa società a dimostraziojne dello spirito di trasparenza che lo contraddistingue (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/)

Un’occasione di riflessione? … certo, ma non in modo cervellotico.

Una denuncia in forma narrativa? … anche, ma non solo.

Un modo originale per informare l’uomo della strada di come funziona l’Aviazione commerciale? … sicuramente, ma anche di più.

Uno spaccato verace di un mondo – quello de piloti  commerciali – una volta dorato e oggi banalizzato? … fuori ogni dubbio.

Una grande burla per impaurire i passeggeri brontoloni? … non proprio.

Verosimilmente “In un cielo pieno di guai” è l’insieme di tutto questo e anche di più, ivi compreso quello che lo stesso autore dichiara in copertina: 

“Il libro che nessun passeggero avrebbe voluto leggere (a dirla tutta anche nessun pilota)” 

In effetti è lo stesso autore che nella prefazione intitolata: “Del perché ho scritto questa vicenda” sintetizza in modo mirabile il senso di questo volume e, in particolare, perché non ha concesso un seguito naturale alla vicenda narrata nel primo romanzo benché:

“molto amici mi hanno chiesto perché mai avessi deciso di farla finita […] ebbene […] ho voluto permettere a quel ragazzo di morire quando era ancora vivo”.

In altre parole, Sanzo Ottaviano, il personaggio che anima il primo romanzo, non è volutamente presente in questo secondo giacché:

“probabilmente avrebbe finito per entrare in qualche Compagnia aerea civile e, francamente, una persona così bella non so lo meritava […] e avrebbe finito per spegnersi, proprio come è successo a molti di noi”.

Il sogno malcelato delle Compagnie è quello di non avere più piloti dipendenti, ossia da addestrare e soprattutto da pagare profumatamente a prescindere. Invero le Compagnie low-cost ci sono parzialmente riuscite scaricando sui piloti almeno l’addestramento iniziale e stipulando con le maestranze dei contratti capestro tipo “a chiamata” o “a cottimo”, emuli del mondo della ristorazione, agricolo o del più bieco commercio. Estremizzando, se i velivoli non avessero più piloti a bordo, le Compagnie massimizzerebbero i loro profitti abbattendo nettamente i costi del personale navigante. Fantasie? Forse … intanto nell’ambiente del trasporto aereo si vocifera già come in divenire la riduzione dell’equipaggio a un solo pilota anziché due. Staremo a vedere. Intendiamoci: anche i dinosauri si sono estinti e non erano certo contenti quando è accaduto loro ma voi – sinceramente – ce lo vedete un pilota che vende a provvigione i gadget più disparati ai passeggeri di un volo commerciale? Mai dire mai … (foto proveniente da www.flickr.com)

Da queste poche righe, apparentemente criptiche, intuiamo subito che in questo secondo volume l’autore si toglierà di sicuro qualche macigno dalle scarpe – eccome se lo toglierà! – rendendo così questa prefazione una specie di vademecum del romanzo, una sorta di chiave di lettura del testo vero e proprio. E ce lo conferma subito una con una frase a dir poco emblematica:

“A pochissimi importa oggi di formare Aviatori perché non sono Aviatori quelli che le Aziende cercano ma appunto Operatori di sistema”.

Ovviamente l’autore si riferisce alla tendenza, ormai radicata presso le Compagnie aeree di tutto il mondo, di convertire i piloti a dei meri esecutori di operazioni schedulate e standardizzate. Alla stregua degli automi, questi pseudo piloti:

“permetteranno a un tubo di metallo di andare praticamente da solo per aria da un luogo all’altro con un ragionevole margine di sicurezza”.

Inutile svelare che il tubo in questione chiamasi aeroplano per trasporto passeggeri …

Come nella migliore tradizione editoriale, la IV di copertina del volume contiene una breve sinossi e una telegrafica biografia dell’autore corredate da una fotografia che ritrae il viso sorridente – e nel caso specifico anche un po’ stralunato – dell’autore

Il dente avvelenato di Alessandro Soldati si rivela però in tutta la sua ferocia quando ricorre a un esempio illuminante: il gioco grafico,  dei punti numerati spesso presente nelle riviste di enigmatica o passatempo. Come funziona? Semplice: occorre collegare  i puntini secondo l’ordine crescente di numero affinché appaia un disegno di senso compiuto. Chissà quante volte vi sarete cimentati in questo giochino … confessate!

Ebbene Alessandro Soldati ci fa notare che quasi chiunque è in grado di unire i puntini ma ciò non significa necessariamente che costui sappia disegnare; inoltre si presuppone che qualcuno li abbia disposti anticipatamente quei puntini stabilendone posizione e progressione. Di certo l’espediente consente di ottenere disegni di qualità accettabile e con poco sforzo (economico, s’intende) in quanto realizzati da individui non particolarmente  talentuosi o qualificati nelle arti grafiche.

A detta di Alessandro Soldati quelli ritratti in questo scatto non sono degli Aviatori bensì degli Operatori di Sistema. Come biasimarlo? E’ pur vero che, per anni, i piloti commerciali hanno vissuto nella bambagia, ossia costituivano una casta alla stregua dei medici, dei notai, dei politici. Non a caso, quello del pilota era una delle professioni meglio pagate in termini squisitamente numerici a fronte però di notevoli responsabilità, un duro, lungo e costante addestramento. Oggi si è passati quasi all’eccesso opposto e i piloti di linea sono – come tutti i gli altri lavoratori – appesi al filo dei licenziamenti e della produttività   (foto proveniente da www.flickr.com)

Mutuando questo esempio geniale al mondo dell’Aviazione commerciale, l’autore ci consente di comprendere che, ormai da tempo, la scelta delle Compagnie aeree è quella di far tracciare i puntini (applicare le procedure e le normative) non a opera di disegnatori creativi (i piloti di vecchia generazione, attivi e pensanti) bensì da parte di Operatori di Sistema (i piloti di nuova generazione, esecutori passivi) che sono in grado di unire diligentemente i puntini producendo un disegno (il trasporto dei passeggeri) dignitoso – è vero – benché spigoloso e preconfezionato. Il tutto spendendo poco nell’addestramento e soprattutto nella retribuzione dei loro sedicenti “disegnatori”.

L’autore affonda l’ultimo colpo prevedendo che questi giovani (piloti e non) saranno facilmente sostituibili, sottopagati e ricattabili. Che è giusto appunto la condizione in cui vivono, loro malgrado, i piloti commerciali da qualche decennio a questa parte. E non solo loro: tutti i lavoratori dipendenti!

C’è una via d’uscita a questo processo apparentemente inarrestabile in quanto sostenuto dal vessillo della estrema “sicurezza del volo”? L’autore ci concede una flebile speranza: si può e si deve tornare indietro per merito di chi, provenendo da una scuola diversa, non si accontenterà più di unire semplicemente i puntini ma vorrà tornare a disegnare istintivamente, pur rispettando le regole base dell’arte figurativa.

In altri termini, a detta dell’autore, occorre addestrare i piloti intensivamente, attribuendo loro la discrezionalità di operare non secondo delle rigide procedure ma lasciando loro un certo margine di azione che consenta di far volare le macchine volanti in modo ragionato e non solo automatizzato.

Ecco allora spiegata la dedica che precede il testo del romanzo:

“Ai sognatori, agli irriducibili e ai ribelli poiché, da adesso in poi, siamo davvero nelle loro mani”

Senza sconfinare necessariamente nella fantascienza, ormai da diversi anni la tecnologia aeronautica consente alle macchine volanti di autogestirsi, ossia di decollare, atterrare, volare e diagnosticarsi in piena sicurezza senza il cosiddetto “ausilio” umano o comunque la supervisione di piloti a bordo … rimane irrisolto un dettaglio non trascurabile: i passeggeri salirebbero a bordo di un velivolo consapevoli che non ci sono piloti in cabina o che solo qualcuno non meglio definito controlla la macchina volante in remoto, alla stregua di un semplice drone? Una sorta di Flight Simulator che diventa la realtà?  Bah … E’ pur vero che già da anni alcune metropolitane delle grandi città sono prive di conduttore e addirittura le automobili di ultima generazione potrebbero percorrere talune strade senza essere guidate manualmente. D’altra parte, con l’avvento dell’industrializzazione, occorre ricordare che prima le macchine semplici e i robot poi hanno sollevato l’uomo dallo svolgimento di lavori pesanti, pericolosi e difficili da eseguire limitando il suo impegno lavorativo al controllo/supervisione delle attività meccanizzate/automatizzate. Tutto in virtù di una maggiore sicurezza sul posto di lavoro ma anche e soprattutto di una maggiore produttività e dunque maggiori profitti. In aviazione, generalmente molto reattiva a recepire determinate innovazioni tecnologiche come pure altrettanto refrattaria a innovazioni azzardate, potrebbe davvero accadere lo stesso fenomeno? E, semmai accadesse, quando? A detta di Soldati è già in atto … (foto proveniente da www.flickr.com).

Una volta letta questa prefazione ciò che segue è solo un formidabile valore aggiunto al libro, un modo esplicativo per dare consistenza alle affermazioni fin qui espresse in chiaro (ma forse non troppo chiare a tutti i lettori, specie quelli estranei al mondo del volo). D’altra parte non si possono comprende a pieno problematiche così articolate se non ricorrendo a esempi pratici, reali, a una sorta di parabola di biblica memoria. E in questo – occorre sottolinearlo – Alessandro ci riesce egregiamente. Perché cosa ci può essere di più esplicativo se non il racconto di un qualunque giorno di lavoro di un pilota commerciale?  Appunto …

In verità la scelta dell’autore è decisamente strategica ed è sapientemente sintetizzata in quarta di pagina cui vi rimandiamo.

Dunque la trama del romanzo è tutta lì e non ritengo opportuno anticiparvi o aggiungere altro. Posso solo indugiare su un aspetto: si tratta di una vicenda alla “Alessandro Soldati maniera”, ossia scritta con leggerezza, sottile ironia, un po’ surreale, comica e tragica al contempo; una vera goduria per gli occhi e la mente che spiega la facilità con cui divorerete le pagine di questo romanzo. E anche se il primo capitolo (quello dello zio anacronistico) scorre appena un po’ più lento degli altri, l’anello si chiuderà – e sarà un anello perfetto alla Giotto – al termine di una giornata memorabile per la protagonista, per lo zio  e anche per il lettore, ovvio.

Le “note a margine”, presenti in coda al romanzo, si ricollegano idealmente alla prefazione e spiegano il perché di alcune forzature:

“lo dico soprattutto per avere almeno una flebile speranza di non venire denunciato”

E non mancano le rassicurazioni rivolte ai passeggeri:

“[…] con tutti i nostri difetti, siamo pur sempre quelli che statisticamente combinano meno disastri […]”

consolidata da un’ultima considerazione arguta e sincera che spiega perché, sempre secondo l’autore, i piloti non raccontano o scrivono le loro innumerevoli, rocambolesche esperienze professionali:

“gli aviatori adorano raccontare quanto sono stati bravi a limitare i danni e gli inconvenienti, solo che mentre li limitano, non hanno modo di raccontarlo. Perciò fidatevi e sappiate che comunque ci stanno provando.

Sono lì apposta”

La degna chiusura di un libro notevolissimo!

Confesso però che, dopo aver girato con rammarico l’ultima pagina del libro, qualche perplessità mi è rimasta: possibile che quanto di funambolico narrato nel volume possa accadere a un pilota nel corso della sua pluriennale carriera? Possibile che l’autore non abbia deliberatamente calcato la mano narrando quegli eventi? Possibile che non li abbia costruiti ad arte e a suo favore?

Sebbene lo stesso Alessanro Soldati ammetta apertamente di aver forzato i tempi e i modi … parrebbe di no … e non lo afferma il sottoscritto che – lo ammetto – conosce marginalmente il mondo dell’Aviazione commerciale bensì un nostro consulente speciale, una sorta di agente segreto che, invece di esercitare la sua attività spionistica all’Avana, ha lavorato per anni in ATI e successivamente in Alitalia, peraltro sugli stessi MD-80 su cui ha “esercitato” il buon Alessandro. Come Alessandro, anche il nostro pilota di fiducia conosce perfettamente quelle dinamiche per averle vissute sulla sua pelle (in cabina di pilotaggio, s’intende).

L’autore immortalato nel corso di una sua qualche lezione. Egli indica sullo sfondo una foto in cui è presente e che, a giudicare dal muso del Fiat G-91 T sullo sfondo, risale al periodo della sua formazione professionale in AMI. Un abile modo per mettere a loro agio i suoi studenti: parlare di sé e dei suoi trascorsi. Strategico! (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/),

E allora, vigorosamente chiamato a rapporto, dopo la lettura volontaria quanto fulminea del volume (una sola lunga serata), il nostro consulente  mi ha confermato che quanto narra il suo collega di cloche è terribilmente verosimile e purtroppo reale, fin troppo reale.

Ad ogni modo, nonostante questa ferale informazione, rimangono irrisolti i quesiti che volano nevroticamente nella mente del famoso e fantomatico uomo della strada che poco o nulla conosce del mondo dell’Aviazione commerciale. Aviazione che, verosimilmente, avrà uno sviluppo esponenziale di passeggeri nei prossimi anni, crisi economica, pandemie e guerre permettendo. E questi quesiti nascono vieppiù numerosi dalla lettura di “In un cielo di guai”. Ecco dunque l’occasione di riflessione stimolata dal libro e, nello stesso tempo, di divulgazione e denuncia di una situazione dai risvolti un poco inquietanti che mi sono solo limitato ad accennare.

Ma torniamo al libro.

A proposito della prosa, dell’inventiva, della tecnica narrativa di Alessandro Soldati non c’è nulla da dire: strepitoso. Forse un po’ meno spontaneo rispetto al libro di esordio, meno caricaturale nel tratteggiare i personaggi, ma sempre un’ottima penna dalla quale attendiamo con impazienza il terzo volume. Perché non c’è due senza tre, vero Alessandro?

Promosso su tutta la linea.

E benché le aspettative fossero molto alte, non le ha tradite. Si nota che la sua scrittura si è fatta più adulta, più ragionata ma non per questo meno valida.

Aggiungo che in alcuni punti i dialoghi tendono a scorrere meno fluidi e in un capitolo – solo uno  – l’autore cede alla tentazione di uno “spiegone” di cui – è vero – possono beneficiare i lettori assolutamente astemi di Aviazione ma che per gli altri, desiderosi di conoscere i risvolti successivi della vicenda, costituisce un ulteriore rallentamento. E comunque nulla di intollerabile o di scandaloso. Ti vogliamo bene, Alessandro, comunque!

Tornando agli aspetti squisitamente editoriali del libro, se da un lato posso tranquillamente esprimermi in modo favorevole circa la qualità della carta utilizzata per la stampa (opaca e anche fin troppo bianca), dall’altra non posso fare a meno di dichiarare delle riserve sulla scelta operata circa la foto di copertina che ritengo abbastanza anonima, forse affrettata, generica, senza una diretta logica con il titolo e il contenuto del libro. Peccato. Magari un’altra copertina per una seconda edizione? Magari la stessa seconda edizione con qualche didascalia o note a piè di pagina a uso e consumo dei lettori meno aeronautici? Vedremo, anzi, leggeremo …

Era il 1967 e questo era l’equipaggio del DC-8-33 della compagnia SAS,  compagnia aerea di bandiera di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il velivolo era appena atterrato al Galeão International – Antonio Carlos Jobim International Airport GIG di Rio de Janeiro in Brasile. Oggi sarebbe impensabile avere una simile schiera di persone a bordo: due piloti, un ingegnere di bordo, un marconista, il motorista e uno stuolo di assistenti di volo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Eccellente il titolo.

Purtroppo, già alla prima pagina di testo, mi è apparsa in tutta la sua infelicità l’uso di un carattere di stampa troppo minuto, sicuramente al di sotto delle dimensioni standard per i libri tascabili. No, non sono “ciecato”, come soleva proclamare il personaggio televisivo della grandissima Anna Marchesini … è proprio piccolo, fidatevi, non sono ciecato. Circa la scelta del font diverso dall’usuale potrei essere benigno ma sulle dimensioni, mi spiace, caro Alessandro, chi ha preferito la copia cartacea del tuo libro – come il qui presente – è costretto a una faticaccia ingiustificata, specie se considerata l’impostazione grafica (anche in questo caso singolare) di porre una riga vuota ad ogni capoverso; trattasi di una nuova estetica dattilografica? Un modo per enfatizzare ciascun periodo? Chissà … sì, certo, noi lo adottiamo in questa recensione … ma non per nostra scelta bensì a causa di un sistema appunto automatizzato che non ci consente di fare diversamente. Il solito programmatore ottuso che ha ideato WordPress – non il nostro, per carità –  lo ha previsto e non riusciamo a fare di meglio.

Ad ogni modo il dettaglio che più mi è stato sgradito all’occhio è la presenza dei segni “<<” e “>>” per aprire e chiudere il discorso diretto: una vera frecciata al cuore! Ma il trattino o le virgolette non sono più di moda?

Voglio sperare che queste soluzioni, riprendendo il contenuto del romanzo, siano avvenute in automatico per mano di un qualche scaltro Operatore di Sistema editoriale e non dall’autore perché, non solo in Aviazione, ma anche in editoria, l’automazione partorisce dei mostri e l’impaginazione discutibile di questo libro potrebbe esserne la conferma.

Quanto al prezzo di copertina non posso che spendere apprezzamenti: onesto e sotto la media di quello di volumi di pari dimensioni pubblicati in regime di autopubblicazione; ottima la scelta di rendere disponibile la versione in ebook o, secondo un altro punto di vista, di farne ancora una versione cartacea.

In conclusione: un libro da acquistare e leggere con la stessa convinzione, certi che – parafrasando i titoli dei due libri di Alessandro Soldati – anche in cielo pieno di guai … andrà bene. Di sicuro!

Buona lettura





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 

Andrà Bene Di Sicuro - Alessandro Soldati - Copertina in evidenza
Andrà bene di sicuro

In un cielo di Guai - ter

Deci 83-86. I Ricordi di “Tiro 0”

titolo:  Deci 83-86. I ricordi di “Tiro 0” 

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2014 e 2019 (II edizione)

ISBN: 1679471880 oppure 978-1679471889





 

Bruno Servadei, l’autore, si trovava in Svezia come addetto militare. Era lì da tre anni e il periodo di servizio all’estero stava per scadere. Infatti già si stava organizzando per il rientro in patria. Ma qualche mese prima del previsto ricevette un ordine di rientro anticipato. Il motivo? Doveva andare a comandare la base aerea e il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.

Questo bel libro autobiografico di Bruno Sevadei è disponibile con ben quattro copertine diverse. La prima è relativa alla prima pubblicazione a cura dell’editore SBC edizioni e ritrae due Fiat G91T che volano in coppia mentre le restanti tre sono il frutto di una diversificazione tra l’edizione cartacea ed elettronica del libro  nonché di un banale errore dell’autore che nel 2019 aveva immaginato di non aver terminato la procedura di autopubblicazione (già andata a buon fine dal 2014). Il contenuto, ovviamente è il medesimo. Nel corso della lettura del libro – precisamente nello spassoso capitolo dedicato alla cerimonia di festeggiamento del  venticinquennale della base di Decimomannu – l’autore ci racconterà la genesi dell’enigmatico disegno che adorna le copertine del volume e che fu realizzato per l’occasione da: “la matita magica del capo dell’SST, autore del magnifico disegno rappresentante la storia del volo che adornava la sala mensa, lo feci aggiornare inserendo i velivoli dell’ultima generazione. Poi pensai di riprodurlo su alcuni quadri in zinco, da consegnare agli ospiti di rilievo partecipanti alla celebrazione.”

Servadei descrive lo scompiglio che un ordine del genere portò in tutta l’organizzazione del rientro da una località tanto lontana come la Svezia, dovendo fare tutto in fretta, quasi senza respiro. Per scoprire, poi, che tutta questa urgenza, in realtà non c’era. Tipico della vita militare.

Comunque, a parte il rientro precipitoso, arrivato a Decimo, come veniva chiamata per brevità la base aerea, cominciò subito il periodo di affiancamento per prenderne il comando.

I ventisette capitoli del libro, per un totale di 343 pagine, prendono in rassegna tutti gli aspetti che il comando di un simile sito militare comporta.

Con il suo tipico stile chiaro, semplice, efficace nelle descrizioni, Servadei riesce a sintetizzare la complessità della vita operativa nella quale si svolgevano operazioni militari di altissima specializzazione.

Sulla base di Decimomannu erano presenti contemporaneamente diversi gruppi di volo, non solo italiani, ma soprattutto stranieri. Tutti erano lì per addestrarsi  con diversi tipi di armi. Veniva utilizzato un poligono di tiro appositamente attrezzato su una penisoletta selvaggia che si trova sulla costa ovest: capo Frasca. Su questo lembo di terra selvaggia erano presenti diversi bersagli, che si dovevano colpire con bombe o con mitragliatrici e cannoncini di bordo. Diverse squadriglie, in sequenza e con cronometrica precisione si alternavano nei passaggi. Poi, a terra, tutti prendevano visione dei punteggi conseguiti da ogni pilota.

Nel corso del suo comando della base di Decimo, contrariamente a quanto avevano fatto i suoi predecessori, il com.te della base Bruno Servadei, colse l’occasione offerta dalle presenza di numerosi diversi tipi di jet – tra i migliori disponibili nell’arsenale della NATO – per effettuare dei voli di prova rendendosi conto, ad esempio a proposito del F-15 Eagle che: “Trattandosi di una delle prime versioni aveva la strumentazione analogica che mi ha consentito di essere a mio agio e di poterlo pilotare senza problemi: in più il pilota USA mi ha lasciato ampia libertà di manovra fino all’entrata in ACMI e al rientro. E poi era un F 15, con due bestie di motori con una spinta incredibile ed una maneggevolezza da sogno anche a basse velocità.”. L’autore è quello ritratto a bordo del mastodontico F-15 statunitense e nel volume ci confida che: “Non era un fatto tipico di Decimo; l’esperienza di anni di reparto mi ha fatto costatare che nella nostra aeronautica i comandanti di stormo in genere non sono mai stati particolarmente interessati all’attività di volo.”
(foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

All’epoca, dal 1983 al 1986, esistevano già strumenti elettronici abbastanza sofisticati da poter simulare l’uso di armi aria-aria nei combattimenti aerei, i cosiddetti dog fighting.

Per questi combattimenti era stato implementato un apposito spazio aereo, dove i piloti potevano addestrarsi a combattere fra loro. I risultati apparivano su tabelloni elettronici, in una sala apposita, in modo da poter agevolmente valutare le prestazioni di ogni partecipante.

A guardarli oggi mettono i brividi ma anche all’epoca – ne siamo certi – non ispiravano certo grande fiducia … e infatti ecco cosa ricorda l’autore a proposito di: “alcune foto fatte in Sardegna nel 1984 sull’aviosuperficie che oggi si chiama “La tana del volo”, dove ho fatto il mio primo volo su un Barouder. Trovai il volo interessante, ma di certo non la ritenni un’attività su cui basare sogni futuri per volare in pensione. Del resto il passaggio dall’F104 con cui ancora volavo al Barouder è stato significativo! Quello che spiace è che oggi tutti questi velivoli sono praticamente scomparsi, e con loro una parte importante della storia del volo che invece sarebbe stato opportuno preservare in qualche museo, o tramite qualche manifestazione ad hoc, magari sponsorizzata ufficialmente dall’AeCI. Ci vorrebbe un HAG anche per i trespoli del volo, un HULMAG!” Parola di Bruno Servadei. (foto provenienti dalla pagina Facebook dell’autore)

Ecco cosa c’è nel libro. C’è la descrizione di ogni aspetto della vita che per i tre anni suddetti ha riguardato i frequentatori della base, piloti e non piloti, compreso il comandante e la sua famiglia. Qualcosa che difficilmente troveremmo, dovessimo cercare in tutte le librerie del mondo.

Non credo esista un altro libro come questo.

Non mi sono mai imbattuto in nulla che andasse oltre un semplice articolo, più o meno stringato.

Normalmente le faccende militari sono celate in una cortina di mistero, se ne parla a mezza bocca, quasi con timore e con la sensazione di rivelare segreti indefiniti.

Invece in questo libro, una volta di più, l’autore ci fa entrare nel suo mondo, ci porta con sé dentro la base di Decimomannu, ci fa conoscere le persone, gli aerei, le procedure, le difficoltà e le soluzioni, a volte geniali, di problemi complicati.

Sì, certo, non è un’immagine propriamente aeronautica ma costituisce comunque la testimonianza visiva di un incontro memorabile che l’autore così ha commentato: “La visita in Sardegna del Papa, quello tosto, che atterrò a Decimo a causa della chiusura di Elmas creandomi non pochi problemi.” (dalla pagina Facebook dell’autore)

Senza rivelare alcunché di segreto, Servadei ci permette di conoscere la realtà misteriosa che si cela oltre la garitta del personale di guardia all’ingresso dell’aeroporto militare. Un mondo che altrimenti non conosceremmo mai.

Dagli anni ottanta a oggi tante cose sono cambiate. Ma, anche se diverse, le linee guida di certe operazioni non dovrebbero essere troppo dissimili da allora. Leggere questo libro mette il lettore in grado, non solo di conoscere la storia passata della difesa aerea, ma di comprendere meglio le modalità di quella odierna, perché in molti casi ci mostra come ci siamo arrivati.

E proprio in quegli anni ottanta prendeva piede il fenomeno del volo ultraleggero. Gli ULM (Ultra Light Machine) erano tubi e tela, modelli davvero basici, con qualche esemplare un po’ più perfezionato, tanto da avere, ad esempio, una parvenza di cabina semichiusa. Sembrava che si reggessero in aria per miracolo e stessero sempre sul punto di cadere. In realtà parecchi cadevano davvero.

A parte questo, il dilagare di mezzi aerei, che allora erano classificati come attrezzi sportivi, al pari di una racchetta da tennis, pilotati da gente che poco conosceva di norme aeronautiche, era visto come una minaccia per l’aviazione commerciale e ancor più per quella militare.

Una ripresa aerea della famosa penisola di Capo Frasca con i suoi caratteristici cerchi concentrici utilizzati per identificare il punto di sgancio degli ordigni (all’occorrenza anche nucleari) (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Nel libro Servadei parla di un’aviosuperficie, o meglio, un campo di volo, che era stata costruita nei dintorni della base e dove operava proprio un club di ULM. C’era il rischio che qualcuno di loro sconfinasse in aree non consentite ed entrasse in conflitto con l’attività militare. Da molte parti si erano levate voci di protesta e Servadei, come comandante della base, era stato sollecitato a far chiudere l’attività di quei “banditi dell’aria“.

Questo episodio narrato nel libro mi ha fatto fare un vero salto dalla sedia.

C’era da aspettarsi che il comandante di una base aerea come quella di Decimo mandasse un contingente di carabinieri a sequestrare i mezzi, arrestare i piloti, recintare l’area e ad applicare sigilli affinché nessuno potesse più entrare là dentro. Mi aspettavo questa reazione, e lessi con il fiato sospeso il seguito del capitolo.

Servadei andò a visitare l’aviosuperficie e a conoscere uomini e mezzi.

Nella sua pagina Facebook così commenta l’autore questo scatto : “Decimo quando era al massimo del suo splendore. La linea di volo tedesca che feci fare in occasione del primo rischieramento dei loro Tornado, nel 1983. Poi c’erano le linee di volo inglese, quella americana e infine la nostra, sempre la più misera.” Da notare le lunghe scie nere posizionate appena dietro i velivoli che testimoniano come quelle piazzole fossero usate abitualmente per la messa in moto e le prove motori dei velivoli. Quelli tedeschi, inoltre erano i velivoli che svolgevano l’attività preponderante nel poligono di Deci in quanto, come spiega ancora nel suo libro Bruno Servadei: “La ricerca di aree idonee a svolgere attività con velivoli a getto costrinse molte forze aeree di paesi densamente popolati a cercare zone libere anche in paesi terzi.
Per questo la Germania, oberata dall’attività di volo a bassa quota dei propri cacciabombardieri, di quelli delle unità NATO ivi dislocate (USA, UK, Francia e Canada) e di quelle dei paesi più piccoli, come Olanda, Belgio e Danimarca, cercò uno sfogo all’estero. Insieme al Canada che, avendo i propri reparti di volo schierati in Germania, condivideva la stessa esigenza, prese contatto con l’Italia per l’utilizzazione di Decimomannu”

Provò anche qualche ULM in volo.

Poi, senza proibire l’attività di questi appassionati, stabilì alcune regole, limiti e altezze massime. E li lasciò volare senza problemi.

Non solo, ma dopo un po’ di tempo, approfittando di qualche giorno di chiusura della base di Decimo, invitò quel club e altri piloti di ultraleggero a venire ad atterrare sulla pista dell’aeroporto per una festa. Così i piloti militari poterono conoscere i civili e viceversa.

Ci fu un vero e proprio scambio culturale. I piloti ULM poterono vedere da vicino gli aerei militari, sapere di più della loro attività e delle loro esigenze operative e imparare soprattutto come comportarsi per non interferire nelle loro operazioni.

Complimenti, Comandante Servadei. Questa parte mi ha addirittura commosso. Come si dice in gergo… tanto di cappello!

Nel 1986 e 1987 facevo anch’io già parte del mondo ultraleggero. Volavo come istruttore su un’aviosuperficie nei dintorni di Roma, in una località dei Castelli romani denominata Pratoni del Vivaro. E questo mi fa apprezzare particolarmente l’orientamento mentale di un Comandante che, invece di proibire e chiudere, stabilisce regole e lascia volare.

Sebbene in modo marginale, la base di Decimo era utilizzate anche dall’AMI e questo è uno dei velivoli con cui l’autore usufruì dei servizi del poligono ben prima di assumerne in comando. Questo scatto vede il G-91T di Servadei in volo di rientro a Decimo da una missione di tiri Aria/Suolo durante il 10°Corso Istruttori di Tiro e Tattiche del 1968. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Un paio di capitoli, il sedicesimo e diciassettesimo, parlano dell’attività di volo che l’autore fece, per mantenere le proprie abilitazioni e il proprio addestramento, sia con velivoli italiani che con quelli stranieri.

La linea di volo italiana a Decimo nel 1968 in una delle tante missione addestrative effettuate dall’autore quando ancora prestava servizio a Gioia del Colle in qualità di cacciabombardiere. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Oggi la logica d’impiego dell’ex poligono è completamente cambiata come si evince dall’articolo pubblicato di cui alla pagina: https://www.lanuovasardegna.it/regione/2022/11/14/news/i-migliori-top-gun-si-addestrano-alla-scuola-di-decimomannu-1.100150806

Anche un comandante deve mantenersi allenato al pilotaggio di tutti i velivoli in dotazione alla propria forza armata, ma non è male se riesce a volare anche con quelli stranieri, che utilizzano la base e il poligono. Gli aerei non sono proprio identici, anche se dello stesso tipo. Chi comanda deve ben sapere le esigenze di tutti. Serve a fare un lavoro migliore, a gestire meglio un’attività così complessa.

Dai capitoli traspare una certa difficoltà nell’ottenere l’autorizzazione a effettuare questi voli, anche se, devo dire, nel caso dell’autore, alla fine riusciva a volare abbastanza.

La retrocopertina del libro di Bruno Servadei che, a differenza di “Vita da cacciabombardiere”, ha un contenuto meno volato ma ugualmente ben narrato secondo lo stile e la sagacia cui ci ha abituato questo autore talentuoso e, a suo modo, prolifico.

Ma la situazione deve essere peggiorata negli anni successivi, perché un mio amico, generale di brigata, in servizio proprio da quelle parti, non riusciva a volare e doveva ogni volta venire a Guidonia a fare qualche oretta per il mantenimento.

Nel libro si parla anche di feste, cerimonie, visite, giuramenti, vacanze estive. E naturalmente non mancano accenni all’interazione con il popolo sardo.

E questo è davvero un argomento interessante. Tutto da leggere.

Alla fine, però, oltre le difficoltà che immancabilmente può incontrare una struttura militare così grande, immersa in una realtà territoriale che la percepisce come qualcosa di scomodo e ingombrante, emerge la bellezza di un’isola straordinaria come la Sardegna. E si finisce per amare la regione e il suo popolo.

Servadei lasciò il comando di Decimo nel 1986 e tornò nel continente. Avrebbe preso servizio come consigliere militare presso il Quirinale. Ma questa parte della sua vita è raccontata in un altro suo libro dal titolo “Un pilota a Palazzo“, di cui potete leggere la mia recensione in questo sito.

Ovviamente ci fu una cerimonia ufficiale. C’è sempre una cerimonia ufficiale nella faccende militari.

Scrive Servadei:

“Il giorno prima di lasciare il comando feci l’ultimo volo con il mio amato F104S. Poi, fra presentat’arm e fanfare, discorsi e saluti, mollai la bandiera di guerra dell’RSSTA nelle mani del mio successore”.

 

 





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Vita da Cacciabombardiere

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Ali in valigia

 

 

Vita da Cacciabombardiere

titolo:  Vita da Cacciabombardiere

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2018 (II edizione)

ISBN: 1730700632 oppure 978-1730700637





Questo è uno dei migliori libri che mi sia capitato di leggere. Almeno nel campo aeronautico.

Spiegare perché lo considero al top assoluto non è facile, ma sono certo che molti piloti, dopo averlo letto, sarebbero d’accordo con me. E’ possibile che una recensione non arrivi a trasmettere ad altri potenziali lettori cosa li attende nella lettura di questa pregevole opera. Si tratta di 429 pagine scritte con caratteri piccoli e dense di vita vissuta. Che tipo di vita? Quella di un pilota che, dopo gli anni dell’Accademia Aeronautica, si ritrova ad operare nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda, dove per decenni ci si deve confrontare con il rischio costante di una guerra, possibilmente anche nucleare, con le forze del Patto di Varsavia.

La splendida immagine di un nuovissimo F-35 al suolo. E’ il tipo di velivoli che verranno progressivamente acquisiti dall’AMI e che dovrebbero andare a ricoprire il ruolo di cacciabombardieri che fu degli F-84 prima, poi degli F-104 e infine dei Tornado. L’autore del volume, dall’alto della sua esperienza di pilota cacciabombardiere (e non solo), ha espresso alcune considerazioni assolutamente autorevoli nella pagina web:http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=4083 a proposito di quei nuovi velivoli di 5° generazione che in passato sono stati al centro di numerose critiche per i costi spropositati e a causa degli innumerevoli problemi del programma di sviluppo giacché si tratta effettivamente di una macchina da combattimento multiruolo tecnologicamente molto sofisticata per non dire “rivoluzionaria” (foto proveniente da www.flickr.com)

L’autore, Bruno Servadei, è un tipo formidabile, la cui carriera comincia così, come pilota operativo di un prestigioso Gruppo di volo. Utilizza alcuni dei caccia di quel periodo, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, macchine affascinanti che sono state il sogno di migliaia di piloti. Poi, la sua carriera prende altre strade e si inoltra in ambienti non meno interessanti, verso avventure forse ancora più prestigiose.

Comunque continua a volare, anche dopo essere andato in pensione.

Bruno Servadei ha molti meriti. Ma solamente alla fine di questa recensione rivelerò uno dei suoi meriti più importanti.

Il libro comincia con il racconto del viaggio di trasferimento da Rimini, dove l’autore aveva una casa di famiglia, verso il reparto presso il quale avrebbe dovuto prendere servizio. Infatti, il capitolo si intitola: Verso il mio reparto.

Il periodo dell’Accademia era terminato e ora lo attendeva la vera vita di Reparto di volo, la vera vita del pilota di caccia dell’Aeronautica Militare Italiana.

La macchina era una piccola BMW con motore bicilindrico di derivazione motociclistica. Un motore boxer di piccola cilindrata.

Era l’Agosto del 1963.

Già alla seconda riga si fa riferimento ad una strada che l’autore stava percorrendo: la Romea.

Ecco come un libro ghermisce il lettore sin da subito.

Una recensione, infatti, non è altro che il resoconto di quanto e come un lettore ha trovato o meno interesse a leggere il libro. Nel mio caso, già alla prima riga la mia attenzione era stata ghermita e alla seconda la mia mente già vedeva la scena come in un film.

In realtà io vedevo due film.

Lo stemma del 6° Stormo – innegabilmente uno dei più belli tra quelli dei reparti di volo dell’AMI, in termini grafici, s’intende – fu adottato quasi subito dal reparto. Rappresenta  un diavolo rosso ghignante con le mani adunche; fu disegnato da Giuseppe Zanini e non era altro che una geniale caricatura dell’allora capitano pilota Giovanni Borzoni, il quale successivamente divenne capoformazione proprio della pattuglia acrobatica “Diavoli Rossi” nata in seno al reparto. Secondo la storia ufficiale dello Stormo, quel gruppo di piloti fu all’inizio riserva della pattuglia titolare del “Cavallino Rampante”, tuttavia i “Diavoli Rossi” passarono naturalmente a pattuglia acrobatica ufficiale nel 1958. La loro prima esibizione avvenne infatti nel marzo 1958 a Bitburg in Germania, mentre l’ultima ebbe luogo nel maggio del 1959 a New York. All’epoca ogni anno, a rotazione, la pattuglia acrobatica era appannaggio di un diverso reparto da caccia dell’AMI ma nel 1961, proprio il comandante Squarcina, in quel periodo a capo della pattuglia, fu incaricato dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare di costituire quella che poi divenne la Pattuglia Acrobatica Nazionale (P.A.N.), ossia una pattuglia acrobatica in pianta stabile benché composta da piloti provenienti da tutti i reparti dell’Aeronautica Militare. Ma questa è un’altra vicenda … tuttavia resta indiscutibile il dato storico che dalla pattuglia acrobatica “Diavoli rossi” nacque l’odierno 313º Gruppo Addestramento Acrobatico proverbialmente chiamato “Frecce Tricolori”. Viceversa l’appellativo “Diavoli Rossi” è rimasto una prerogativa dei membri del 6° Stormo di Ghedi.

Questa scena, molto vivida, di un ragazzo appena ventenne che percorreva la Romea in direzione di Mestre, a bordo di una piccola utilitaria, nel mondo del 1963, tanto diverso da quello di oggi, mi riportava indietro nel tempo, a quando, pochi anni dopo, anch’io viaggiavo verso un reparto dell’Aeronautica Militare dove avrei dovuto prendere servizio.

Le emozioni del passato, rievocate dalle prime due righe del primo capitolo del liro di Bruno Servadei, continuavano a emergere riga dopo riga.

Anche se la mia realtà e la sua erano certamente molto diverse (lui andava a cominciare la sua vita di pilota, io no) a quell’età l’avventura aveva comunque lo stesso sapore.

Anche questo è il distintivo dei “Diavoli rossi” ma da giacca  (quella di Bruno Servadei) e con la particolarità che riporta la dicitura 6° Aerobrigata anziché 6° Stormo, segno evidente che risale a prima del settembre 1967, data in cui l’Aeronautica Militare Italiana riorganizzò e rinominò i suoi reparti (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore:  https://www.facebook.com/photo/?fbid=10200225847597701&set=a.1045415544460)

E forse non c’entra neanche l’età, perché parecchi anni dopo, mi capitò di percorrere proprio la Romea per raggiungere una Torre di controllo di un aeroporto del Nord-Est, dove avrei preso servizio come controllore del traffico aereo. E il sapore dell’avventura era probabilmente lo stesso.

Servadei stava andando a Ghedi, in Lombardia, vicino a Brescia, dove aveva sede la Sesta Aerobrigata, famosa per un prestigioso Reparto di volo, quello dei “Diavoli Rossi“.

Il secondo capitolo descrive l’arrivo. E anche qui la sua descrizione del mondo di allora riporta alla mia mente sensazioni di vita vissuta e dimenticata.

La descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’umanità e dei modi di fare del tempo, sia in ambito militare che non, è talmente efficace da essere, in alcuni punti, travolgente.

Chi ha conosciuto l’Aeronautica degli anni Sessanta si sente riportare indietro nel tempo.

Oggi è tutto diverso.

Nei capitoli successivi si parla dell’assegnazione ad un reparto di volo. Non erano tutti uguali. Servadei spiega bene le differenze. A lui capita un reparto di cacciabombardieri.

Questo deciderà la sua vita operativa futura. E anche il titolo del libro.

Nel corso della lettura, dopo la descrizione del primo periodo dove le giornate erano quasi esclusivamente destinate all’immersione nella realtà del Reparto, senza prospettiva di volare se non davvero saltuariamente e comunque con un jet biposto, un T33, come quello usato alla scuola, subito dopo la fase basica, pian piano si comincia ad intravedere la linea di volo vera e propria.

Sembra trascorso un’eternità da quando, nella primavera del ’56, i primi F-84F “Thunderstreak” giunsero a Ghedi (Brescia), in quella che all’epoca veniva chiamata alla 6° Aerobrigata e che tornò a essere il vecchio 6º Stormo.
Nel 1973, dopo diciassette anni di onorato servizio, l’F-84F concluse la sua vita operativa e dunque nell’agosto del ’63 Bruno Servadei, allora giovanissimo pilota appena uscito dall’Accademia Aeronautica, se li trovò davanti appena giunto al reparto. Ma era “un verme” e, come racconta nel suo libro, per alcuni mesi li osservò solo da lontano. 
Oggi gli F84F si trovano solo al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, in altri musei minori o negli aeroporti che li ospitarono ma solo in qualità di gate guadian o di cimelio storico.  Ad ogni modo, proprio nel giugno del ’63 giunse a Ghedi il primo F-104G dando inizio alla lunga saga dello Starfighter o “Spillone” (come lo soprannominarono i piloti dell’AMI) che si concluse il 31 dicembre 1982 dopo circa 67 mila ore di volo e dopo aver superato con successo ben 16 valutazioni tattiche a livello NATO. Non è dunque un caso che la foto di copertina del libro di Bruno Servadei mostri appaiati i due velivoli che hanno segnato la storia del 6° Stormo e, inevitabilmente, anche quella sua personale (foto proveniente da www.flickr.com).

Gli aerei erano gli F84F, un modello già superato, ma ancora valido, sebbene avesse già fatto la sua comparsa il famoso F104, che però solo pochi fortunati avrebbero utilizzato, almeno nel futuro prossimo.

E da qui in poi, per un pilota di qualsiasi tipo, l’interesse sale a livelli stratosferici. Ma è altrettanto interessante anche per i non piloti.

Servadei ci racconta tutte le fasi della transizione su questa macchina; ed è interessante seguirlo nei suoi primi voli. Conoscere le sue impressioni, le sue soddisfazioni e i suoi timori.

Il tutto, immerso nella vita quotidiana di reparto. Possiamo così “conoscere” i suoi colleghi, i comandanti, i sottufficiali specialisti e anche piloti. Si, perché a quell’epoca esistevano ancora i sottufficiali piloti. Bruno Servadei ne parla molto bene, del resto si è sempre saputo che i sottufficiali piloti erano generalmente eccellenti.

La vita di reparto viene descritta in tutti i suoi aspetti, quelli belli e… quelli meno belli. O meglio, quelli piuttosto brutti.

Con il suo modo delicato l’autore non manca di mettere a nudo gli aspetti più duri della vita nei reparti di volo di quel periodo storico.

Va detto, infatti, che gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, fino alla caduta del cosiddetto muro di Berlino, l’Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti, costituivano una sorta di minaccia sempre presente. Parliamo, come ho detto, del periodo della Guerra Fredda, quando era lecito aspettarci un attacco, anche con armi nucleari, all’improvviso e senza preavviso. A questa minaccia si doveva far fronte subito e senza mezze misure.

Una splendida immagine che ritrae un F-104 Starfighter che sembra puntare verso il cielo. Si tratta di un velivolo che, come indica chiaramente il simbolo del reparto verniciato della deriva e il numero “6” sulla fiancata della fusoliera, era in forza al 6° Stormo. Chissà se questo esemplare fu effettivamente pilotato da Bruno Servadei? (foto proveniente da www.flickr.com)

Le forze della NATO disponevano di Reparti di caccia intercettori e cacciabombardieri, di diverse nazionalità, lungo tutta la linea di confine con i paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

Il reparto di Servadei era solo uno di questi. Gli aerei che utilizzava il suo reparto potevano essere equipaggiati con armi convenzionali, ma anche con armi nucleari. In altre parole potevano portare appesa sotto la fusoliera una bomba atomica. All’occorrenza, che ci si augurava non si verificasse mai, i piloti di questi F84 avrebbero dovuto partire, penetrare a bassissima quota nel territorio nemico, per sfuggire ai radar, raggiungere l’obiettivo stabilito, sganciare la bomba e mettere in atto la procedura di scampo per poi tornare, sempre che ci si riuscisse, alla base.

Ecco qual era il compito operativo del nostro giovane pilota e di tutti i suoi colleghi.

Oggi sarebbe difficile raccontare ai nostri giovani la realtà di quegli anni. E dubito molto che la stragrande maggioranza di loro prenderebbe l’iniziativa di leggere un libro come questo.

Una formazione serrata di Tornado, i velivoli che dal gennaio 1983 costituiscono il nerbo del 6° Stormo e che, a partire dal giugno 2022, sono stati progressivamente sostituiti dal caccia multiruolo di 5° generazione Lockeed-Martin F-35 Lightining II. Ancora oggi, come già accadeva ai tempi in cui l’autore era uno dei piloti impegnati nel servizio di allarme, il compito dello Stormo e dei suoi Tornado è quello di mantenere la prontezza al combattimento (Combat Readiness) degli equipaggi di volo, predisporre i rischieramenti in ambito IRF (Immediate Reaction Force) e, in caso di conflitto, condurre operazioni di attacco e ricognizione per difendere l’area di interesse assegnata. In realtà, in tempo di pace, lo Stormo è istituzionalmente tenuto a cooperare con le autorità civili in caso di calamità naturali (foto proveniente da www.flickr.com).

Chissà se qualche giovane, leggendo la mia recensione, si incuriosirà al punto da prendere l’iniziativa di cercare questo libro e di procurarselo per leggere di una realtà tanto estranea a quella odierna.

Ma una cosa è certa: ogni capitolo rappresenta una sorta di cortina che cela una realtà appassionante, sorprendente, illuminante.

Riga dopo riga la cortina si scosta e la realtà celata si rivela. Poco a poco, le parole di Servadei, magistralmente scelte e combinate tra loro, ci fanno entrare nei suoi ambienti quotidiani, dove viveva ogni giorno senza quasi mai uscire dalla base aerea, per settimane intere.

Non era una vita facile la sua. Neppure quella del circolo ufficiali, dove si giocava assiduamente a carte per ore e ore, quando non c’era attività di volo. A volte la nebbia fittissima della pianura dove aveva sede l’aeroporto di Ghedi non permetteva l’attività di volo e ci si trovava a dover superare la noia di giorni di inattività.

Tuttavia la nebbia, appena si diradava un poco, non riusciva a impedire l’attività di volo, che avveniva ugualmente, sebbene in condizioni di estrema difficoltà.

Servadei ci parla dei diversi profili di missione ai quali prese parte a Ghedi, mentre si formava la sua preparazione per divenire Combat Ready, cioè pronto al combattimento.

Possiamo così leggere di come avvenivano le sessioni di addestramento al poligono di tiro, con diversi tipi di armamento. Le armi erano spesso inerti, ma a volte erano vere.

E poi c’era l’addestramento al lancio della bomba nucleare. E questa era una procedura tutta particolare.

La descrizione dell’attività di volo operativo è lunga e complessa e prende una discreta parte del libro, perciò non posso neppure provare a riassumerla tutta.

Ma non mancano momenti divertenti, qua e là.

La retrocopertina del bel libro di Bruno Servadei nella sua edizione più recente pubblicata in regime di autopubblicazione attraverso il canale Amazon a partire dal 2018. Come nella migliore tradizione editoriale contiene una breve sinossi e note biografiche dell’autore (intento piuttosto arduo perché Bruno Servadei ne ha fatte davvero tante nel corso della sua carriera)

Un giorno la squadriglia di Servadei doveva fare da bersaglio ai serventi dei cannoncini della contraerea aeroportuale. Non che gli dovessero sparare davvero addosso per abbatterli. Si usava una procedura di sicurezza, come ci descrive Servadei. I cannoni avrebbero dovuto sparare dalla parte esattamente opposta a dove si trovavano gli aerei e verso il mare, per ovvi motivi.

Ma per un errore, forse di coordinamento, il radar che guidava la squadriglia li diresse verso il mare, proprio dove passavano i proiettili traccianti dei cannoni.

I piloti videro i traccianti salire verso di loro e il caposquadriglia:

“fece uno strillo per radio che probabilmente giù lo sentirono anche senza: ci fu un po’ di silenzio, poi qualcuno, con voce mesta, chiese umilmente scusa”.

Ma una situazione come questa non era un evento raro.

Poco prima Servadei aveva detto:

“… provavo un vero fastidio nel vedere che, a volte, le canne dei cannoncini ci seguivano mentre rullavamo: sarà anche stato un buon addestramento, ma era come se qualcuno ti puntasse una pistola. Va a sapere chi ci stava dietro a quell’arma e se avesse adottato tutte le precauzioni previste”.

Ancora una volta torno indietro nel tempo, agli anni settanta, quando ero in servizio. Nell’uscire dal reparto di servizio, dopo un turno di notte, stavo attraversando un piazzale e fui attirato da alcuni “click” ripetuti che provenivano da una scala d’ingresso all’ala del palazzo. C’era un aviere VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che mi puntava addosso il MAB (Moschetto Automatico Beretta), un mitra.

La copertina di “Vita da cacciabombardiere”, libro autobiografico di esordio del gen. pilota Bruno Servadei pubblicato nel 2008 nella sua prima edizione a cura dell’editore SBC edizioni nel formato di 438 pagine cui si riferisce il recensore. Le differenze con la seconda edizione sono effettivamente minime ed è possibile imbattersi in qualche vecchia copia attraverso i canali dell’editoria usata … ma non temete: dentro c’è comunque roba buona!

Sapevo bene che il mitra aveva un caricatore vuoto montato e che i caricatori pieni, avvolti nel cartoncino e nastrati, il VAM li teneva nella giberne. Ma… come dice Servadei, vai a sapere chi ci stava dietro a quell’arma

Il VAM sghignazzava, sopra gli scalini, e faceva scattare la sua arma, quasi a cercare la mia approvazione per il suo modo di scherzare.

All’uscita andai dall’ufficiale di picchetto, gli riferii il fatto e subito dopo andarono a sostituire quella guardia. Credo che non se la sia passata tanto liscia.

Un’altra occasione del genere avvenne a Guidonia. Trainavo gli alianti con un aereo ad elica, un Robin DR 400. Dopo ogni traino, lasciato l’aliante in quota, scendevo a duecentocinquanta chilometri orari, passavo di fianco alla testata della pista, pochi metri fuori asse e sganciavo il cavo di traino. Poi risalivo, entravo nel circuito e atterravo. Di solito c’era già un altro aliante da portare su, con il cavo appena sganciato attaccato al musetto. E la faccenda si ripeteva.

In uno di questi avvicinamenti, a qualche decina di metri di quota e ridotta la velocità a centottanta-duecento Km/h, scendevo verso la testata pista e il prato dove avrei sganciato il cavo, quando vidi, con la coda dell’occhio, un movimento sulla sommità di una specie di garitta, sopraelevata di alcuni metri da terra.

C’era una guardia, appoggiata alla ringhiera di protezione della garitta. Un VAM in servizio. Mi era sembrato che mi avesse preso di mira con il mitra, ma in quel punto ero basso, veloce e dovevo stare attento a troppe cose e non potei verificare.

L’autore ritratto accanto al velivolo con cui inizierà la sua vita/carriera di cacciabombardiere. Così racconta il primo contatto con questo tipo di velivolo: “Giunto sul rettilineo che portava al corpo di guardia all’ingresso dell’aeroporto vidi, in lontananza al di là della recinzione, quasi protetti da una foschia densa che ne rendeva vaghi i contorni, un lungo schieramento di F84F che mi procurò un brivido di emozione” (foto proveniente dal volume “Vita da cacciabombardiere”). 

Al traino successivo, però, guardai bene.

Sì. Effettivamente il furbacchione mi puntava il mitra, seguendomi nella traiettoria.

Capisco la sua noia, penso che l’arma fosse scarica e che comunque non mi volesse veramente sparare, però… non sai mai chi c’è dietro quell’arma

Andai al parcheggio. Dal telefono della nostra roulotte che fungeva da ufficio per il volo a vela civile, chiamai l’ufficiale di picchetto.

Dopo poco arrivò una campagnola militare. La guardia venne tirata giù e sostituita. Poi la campagnola tornò al corpo di guardia.

Anche in questo caso non credo che non ci sia stata alcuna punizione.

Non credo neanche che quella guardia possa aver visto chi c’era sul Robin. Ad ogni buon conto, dopo l’episodio, mi guardavo sempre intorno con circospezione, quando ero in aeroporto.

Servadei descrive l’attività al poligono in modo davvero chiaro e preciso. Così che il lettore possa avere un’idea chiara di quale sia il lavoro di un pilota cacciabombardiere.

Ma la massima espressione di questo lavoro riguarda un altro poligono, il più grande d’Europa, che si trova in Sardegna a Decimomannu. Qui si andavano ad addestrare tutti i reparti come il suo, appartenenti agli altri stati della NATO.

Andare in Sardegna, dal continente, implica la necessità di attraversare il mare. C’erano piloti che avevano un certo timore a volare sul mare. Dall’Elba alla Corsica il tratto di mare è il più breve, non ci vuole molto a superare la distanza con un jet. Quasi non ce se ne accorge.

La descrizione di quel trasferimento è un capolavoro. Conosco bene il percorso, le coste, il paesaggio. La breve distanza tra la Corsica e la Sardegna, e lo stupendo paesaggio di quella zona. Poi giù verso Decimomannu.

Ancora un’istantanea della vita da cacciabombardiere dell’autore. Qui è ritratto assieme ai suoi compagni di lavoro e davanti al loro attrezzo di lavoro. (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei).  Benché la carriera di un pilota dell’Aeronautica Militare sia pressoché pianificata già a partire dal momento in cui viene accettata la domanda di ammissione all’Accademia Aeronautica, quella vissuta dall’autore non può certo dirsi monotona o prevedibile. A Bruno Servadei va il merito di avercela raccontata in tutte le sue pieghe ma soprattutto di averlo fatto con la sua proverbiale sagacia e spirito critico, in questo come negli altri libri pubblicati successivamente. Inoltre gli va riconosciuta una notevole capacità narrativa che lascia poco spazio a sentimentalismi o inutili fronzoli: il suo racconto è sempre piacevole e in taluni casi addirittura avvincente, specie per coloro che non hanno confidenza con il mondo aeronautico, militare e non. C’è inoltre un altro aspetto da non sottovalutare: il coraggio di raccontarsi e di renderne partecipi dei perfetti sconosciuti quali i suoi lettori. Qualcuno di loro lo ha tacciato di essere “autoreferenziale e autocelebrativo” ma inevitabilmente, quando si preferisce la formula autobiografica, l’autore è l’elemento fondamentale della narrazione. In realtà, in questo come pure negli altri volumi successivi a questo, Bruno Servadei non smette di regalarci battute spiritose o riflessioni profonde del tutto condivisibili e che, talvolta, sono piuttosto critiche nei confronti dell’Arma Azzurra ma anche della politica, dell’industria aeronautica nazionale e di certi malcostumi tipicamente italici. Per inciso … l’autore è quello in alto a sinistra. 

Servadei ha dedicato un altro libro, dal titolo “Deci 83-86 ricordi di tiro 0“, al suo periodo di servizio, anni più tardi, in questo poligono. Deci è l’abbreviazione di Decimomannu, in Sardegna, di cui ho appena fatto menzione.

I tiri, comunque, erano un esercizio costante nell’attività di un pilota cacciabombardiere. Molte pagine, anzi, interi capitoli parlano di addestramento al tiro con armi di vario tipo, con armi inerti o reali. Ed è veramente accattivante seguire il suo racconto. Pare di essere lì e finalmente possiamo sapere cosa facevano questi piloti durante il servizio in quel famoso poligono.

La vita operativa di Bruno Servadei si snoda nel corso degli anni e passa attraverso molte esperienze.

Ad un certo momento viene trasferito al Sud. Un cambiamento di non poco conto, considerato che in quegli anni le differenze tra le realtà del Nord e del Sud erano notevoli. Questi sono capitoli tutti da leggere.

Nella sua nuova collocazione, a Gioia del Colle, in Puglia, si deve adattare a condizioni e mentalità molto diverse. Le strade, ad esempio, non erano certamente come quelle di oggi e le automobili nemmeno. Per tornare a casa doveva affrontare una specie di odissea.

Ma, a onor del vero, l’Aeronautica di allora, nei weekend, concedeva ai suoi piloti di poter usare il jet per tornare a Ghedi. Come dire, invece di prendere la macchina, prendi pure l’aereo. Basta che domenica sera lo riporti alla base. Che meraviglia!

In questa fase c’è un altro evento importantissimo che lo riguarda: il matrimonio. Vicende che si collegano e si amalgamano con la vita di reparto, in un aeroporto del Sud.

Servadei è stato anche uno sportivo. In quegli anni si addestrava nello sport del bob. E questa è una storia nella storia. Tutta da leggere, sia per i risultati conseguiti, sia per gli aspetti sorprendenti di uno sport così poco conosciuto, ma che ha, a mio avviso, molto in comune con il pilotaggio di un aereo. Furono soltanto impellenti ragioni di servizio che gli impedirono di partecipare alle Olimpiadi del 1972, a Sapporo, in Giappone.

La bontà storico/letteraria di “Vita da cacciabombardiere” è stata riconosciuta ufficialmente dalla stessa Associazione Arma Aeronautica che, per mezzo della giuria presieduta dal generale Mario Arpino (assurto alle cronache nazionali per aver guidato la missione italiana durante la Guerra del Golfo ed essere stato dapprima capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e poi nato capo di Stato Maggiore della Difesa), ha dichiarato il libro di Bruno Servadei quale vincitore della VII edizione del Premio Letterario Aerospaziale “Giulio Douhet” per la sezione narrativa. Alla pagina: http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=2392 troverete la cronaca giornalistica della premiazione. Non male per un libro di esordio! (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei). Così ha invece ha commentato la fotografia della consegna del premio il diretto interessato nella sua pagina Facebook: “Eravamo a Trento, e stavo ricevendo un premio letterario per il mio primo libro ” Vita da cacciabombardiere”, un evento a cui avrei voluto volentieri far assistere mia madre, insegnante di italiano, di cui sono stato a lungo la disperazione!” 

Nel frattempo ci sono da affrontare anche alcune missioni estere. E queste costituiscono un altro elemento di attrazione per un lettore appassionato di volo. Lo svolgimento di queste missioni, nell’ottica di uno scambio di esperienze tra gruppi di volo di nazionalità diverse, rivela aspetti sorprendenti sotto molti punti di vista.

E purtroppo nel libro ci sono parecchie descrizioni di incidenti.

I vecchi F84 e F86 stavano per essere sostituiti, anche se molto gradualmente, dai G91 e dagli F104.

Quest’ultimo, come molti sanno, era un ottimo aereo, ma per una serie di ragioni legate all’impiego che ne venne fatto e ad altri motivi, fu protagonista di frequenti incidenti, che costarono la vita di tanti piloti. Non per nulla venne chiamato “fabbricante di vedove“.

E qui la storia sarebbe lunga. Ma chiunque la volesse conoscere non ha da far altro che leggere questo libro.

Con la sua consueta delicatezza, Servadei affronta l’argomento nell’ultima parte del libro. E anche con competenza, visto che ha utilizzato l’F104 per molto tempo.

Ho trovato molto interessante leggere il resoconto dei suoi primi voli, le sue prime sensazioni, l’impressione che ne aveva avuto.

Il 16 giugno del 1966, una formazione di 16 F84F prese il volo da Ghedi con destinazione Gioia del Colle, nessun rientro previsto. Io facevo parte di quella formazione”. E’ così che l’autore ricorda il suo trasferimento nel profondo Sud pugliese partendo dal pari profondo Nord bresciano. Una pagina della sua vita di cacciabombardiere si era appena conclusa (presso il 6° Stormo) e una nuova si era aperta ma stavolta con la bandiera del redivivo 36° Stormo.  La foto, scattata da un T-33, non si riferisce esattamente a quell’evento ma ci piace pensare che Bruno Servadei (probabilmente capoformazione) sia stato immortalato in questo scatto mentre sta per raggiungere la nuova destinazione di Gioia del Colle. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Riportando aneddoti e spigolature varie sull’uso della radio o sulla scelta del simbolo del reparto, l’autore testimonia come il trasferimento a Gioia non fu indolore e, sintetizzando al massimo, dichiara che fu vittima della crisi dei missili di Cuba! Un capitolo tutto da leggere quello dedicato all’esperienza al 36°.

Si sentiva tanto parlare, all’epoca, della famigerata spinta iniziale del decollo, dato che il post bruciatore, del quale l’F104 era dotato, si conosceva ancora poco. Avevo sentito storie di piloti che, affondata la manetta per decollare, si erano girati di lato a guardare qualcosa e non erano più riusciti a girare di nuova la testa in avanti …

Storie metropolitane. Servadei sfata il mito della poderosa spinta. Il 104 aveva certamente potenza, ma niente di così estremo.

Anche riguardo alla transizione dal volo a velocità subsonica a quella supersonica, Servadei cancella tutte le storie di vibrazioni, scuotimenti e sbandate. L’indice del machmetro passa semplicemente da Mach 0,9 a 1. E poi continua a salire verso valori maggiori. Tutto qui. Anche se dopo ci sono altri fattori da tenere in considerazione, ben descritti e di grande interesse per chi non ha mai pilotato un F104, ma avrebbe tanto voluto farlo.

Arriviamo in fondo al libro. Alla postfazione.

Se questo libro mi era così piaciuto, quando lo lessi nel 2008 o all’inizio del 2009, tanto che ho voluto rileggerlo prima di scrivere questa recensione, devo dire che stavolta mi è piaciuto ancora di più.

Ho dovuto prendere il telefono ed esortare alcuni miei amici ex Aeronautica Militare a tirare fuori il libro e rileggerlo a loro volta, cosa che hanno fatto. Uno di loro era controllore al GCA (Ground Controlled Approach) dell’aeroporto di Grosseto e si è ricordato di alcuni episodi, compreso un incidente di volo proprio sul cielo campo dell’aeroporto, dove si sono scontrati due F104 e alcuni dei pezzi erano caduti a pochi metri da lui, vicino alla capannina del GCA. Uno dei piloti si era dovuto lanciare, l’aereo era finito in un campo appena fuori dall’aeroporto.

La caduta del muro di Berlino (avvenuta nel novembre del 1989) sancì virtualmente la fine della “Guerra fredda” che aveva gelato gli animi degli europei nel corso degli anni ’60, ’70 e quasi tutti gli ’80. Il “Muro” era stato il simbolo concreto della cosiddetta “cortina di ferro”, ossia quella linea immaginaria che divideva il continente europeo in due blocchi separati e per alcuni versi contrapposti: la zona occidentale, composta principalmente dalle nazioni che aderivano alla NATO (ossia sotto l’influenza statunitense), e quella orientale denominata del “Patto di Varsavia” di chiaro indirizzo comunista e sotto il controllo (neanche troppo mascherato) dell’URSS. Il rischio di una guerra nucleare in Europa si mantenne verosimile durante tutto il periodo della guerra fredda tuttavia, salvo occasionali schermaglie a carattere diplomatico, si consumò senza particolari tensioni. In altri termini  non si verificarono scontri militari sul campo di battaglia ma solo azioni di spionaggio, epurazioni di agenti segreti e diplomatici o similari; la pace scoppiò solo all’indomani della caduta del muro. Con l’avvento poi dell’Europa politica/monetaria e soprattutto con la libera circolazione di uomini e merci nei paesi della comunità europea (avvenuta intorno verso la fine degli anni ’90), il divario divenne sempre più labile e oggi, se chiedessimo a un figlio degli anni 2000 cosa sia stata la “Cortina di ferro” … probabilmente ci risponderebbe che fu una particolare soluzione architettonica dell’edilizia degli anni ’70 … Purtroppo la recente invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci ha condotto indietro di trenta anni e ha fatto riapparire nei mass media la notizia della minaccia di una paventata guerra nucleare. Quello ritratto è un F84F molto speciale in quanto, non a caso, fece coppia con la bomba nucleare Mark 7 che gli si trova accanto. Manca solo Bruno Servadei che, assieme a loro, trascorse due anni di servizio di allarme a Ghedi negli anni ’60. Il velivolo e l’ordigno si trovano all’USAF Museum di Wright Patterson (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1491595418678&set=a.1045415544460) mentre l’autore è posizionato abitualmente a casa sua, tranne quando vola con il suo ultraleggero! Così l’autore commenta la sua esperienza: “Ciascuno di noi, giovani ufficiali e sottufficiali piloti, aveva passato sei mesi di quei due anni chiuso dentro un doppio recinto in compagnia di quattro bombe nucleari, pronto a partire in 20’ per un viaggio senza ritorno.”

L’epoca dell’F104 è rimasta indimenticabile.

Ma torniamo alla postfazione. Avevo dimenticato questa parte.

Servadei scrive:

“L’idea di scrivere queste memorie mi è venuta parecchi anni fa, quando mi fu chiaro che mio padre non avrebbe mai scritto le sue, che sarebbero state di gran lunga più interessanti. Allora mi sembrò un delitto lasciare che tanti eventi vissuti in prima persona da mio padre in un periodo così complesso e discusso, come quello degli ultimi anni del fascismo e dei primi anni del dopoguerra, andassero dimenticati solo perché riteneva inutile scriverli, convinto com’era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di pubblicarli.

Così la mia reiterata richiesta di mettere su carta le sue memorie andò del tutto disattesa, nonostante la mia promessa che le avrei conservate in vista di tempi migliori per renderle pubbliche. Dopo la sua scomparsa mi ripromisi che non avrei fatto altrettanto. Per quanto poco significativi rispetto a quelli che avevano riguardato la sua vita, gli eventi che avevano riguardato la mia li avrei registrati, a futura memoria. Forse non li avrebbe letti nessuno, ma se a qualcuno, nel tempo, fosse venuta la curiosità di sapere ciò che si faceva e come si viveva in alcuni particolari reparti da caccia dell’Aeronautica Italiana durante la Guerra fredda, avrebbe potuto trovare nei miei scritti qualche spunto interessante”.

Condivido ogni sillaba delle parole di Servadei. Come ho scritto in altre recensioni, ho sempre esortato tutti coloro che avessero qualcosa di interessante da tramandare ai posteri, di scrivere. Senza riguardo verso questioni di opportunità, specialmente quando gli argomenti si vanno ad intrecciare con le vicende del ventennio fascista. La Storia è Storia. E il fascismo ne ha fatto parte. Tanti eroi si sono mossi in quella realtà, compiendo atti di coraggio senza pari. Scrivere le loro vicende e farle conoscere non significa essere d’accordo con le follie perpetrate da qualcuno. Non significa essere fascisti oggi.

Che l’autore avesse volato con tutto quanto disponibile nell’arsenale velivoli italiano e dei paesi della NATO (leggasi. F-15, F-16, Mirage, Harrier, F5, Hawk, Jaguar, ecc ecc) era noto e facilmente prevedibile … ma che si fosse librato in volo anche con un aliante (nello specifico un Grob Twin Astir del Centro di Volo a Vela militare di Guidonia- Roma) … beh, questo ci ha sorpreso un poco. Probabilmente neanche lui se ne ricordava se non avesse ritrovato – come ha confessato in un post della sua pagina Facebook – la check list del Twin Astir nella pila di carte e cartacce che conserva gelosamente nella cattedrale di documenti del suo studio. Ma voi lo immaginate un cacciabombardiere come Bruno Servadei che vola su un aeromobile privo di motore – a reazione, per giunta -, senza piloni subalari, senza ordigni nucleari al seguito, senza neanche uno straccio di cannoncino utile al combattimento ravvicinato? Beh, sembra impossibile … eppure lo ha confessato! Chissà che non abbia meditato di armare il povero aliante?! Una specie di drone ante litteram? Un’arma subdola che potrebbe giungere silenziosamente sull’obiettivo, invisibile ai radar? … non lo sapremo mai … ma che il buon generale Servadei si sia librato con ali silenziose ora ne abbiamo la prova inconfutabile (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Anni fa ho scritto un libro, una sorta di biografia di un pilota che aveva compiuto imprese mirabili ed era infine diventato un pioniere del trasporto aereo civile. Ma tutto questo si era svolto nel ventennio. Alla pubblicazione del libro ho riscontrato molte perplessità, come se avessi fatto qualcosa di male. E ho perfino perso qualche amico. Eppure nel libro la parola fascismo non compare. Inoltre, il personaggio non era troppo allineato con la mentalità del periodo. Infatti dovette scontare due mesi di arresti nella fortezza di Nisida, per insubordinazione.

Sto parlando di Cesare Carra. La recensione del mio libro, a cura della Redazione di Voci di hangar, è presente nel sito in questa pagina.

Peccato che il padre di Bruno Servadei non abbia scritto. Peccato davvero.

Scrive Servadei:

“Era anche un grande appassionato di fotografia: girava sempre con la sua Laica… Sviluppava e stampava le foto in casa, in una camera oscura arrangiata della quale ricordo ancora la luce rossa e l’ingranditore”.

Quando gli inverni mordevano! (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Questo signore ha tutta la mia simpatia. Anch’io ho passato la vita, dai diciassette anni in poi, con una macchina fotografica sempre appresso. Varie macchine, ma quella più longeva è stata una Olympus OM1n, meccanica e manuale che ancora conservo. Con la mia piccola reflex ho documentato due terzi della mia vita. E naturalmente, avevo una camera oscura arrangiata, con l’ingranditore. Passavo le notti intere a stampare le mie foto. E la mattina dopo, con le stampe asciutte e stirate, andavo a proporle a diverse redazioni. Era un hobby, vivevo di altro, ma ci ho guadagnato un po’ di soldi per pagare i miei voli…

D’accordo, c’era la guerra fredda e gli statunitensi riversavano sull’AMI un fiume di materiale di volo (per loro già un po’ obsoleto), ma uno schieramento così nutrito di velivoli oggi sarebbe impensabile! E inoltre mancherebbero i piloti perché, con quello che costa formare e mantenere allenato un pilota militare, molti di questi velivoli rimarrebbero inutilizzati. La foto ritrae gli F84F allora in forza al 6° stormo di Ghedi dove l’autore fece il “diavolo” all’inizio della sua carriera operativa. Da notare il cielo pieno di cumuli che, solo a guardarli, farebbe venire la voglia di volare a qualunque pilota. Episodio non frequente a Ghedi che, a detta dell’autore godeva – e gode tuttora – di un clima inclemente con nebbie quasi perenni e maltempo non raro che spesso condizionava l’attività di volo del reparto o le procedure di decollo/atterraggio. Lo testimonia un passo di “Vita da cacciabombardiere in cui l’autore racconta la sua esperienza di trasfertista presso l’aeroporto di Villafranca: “Un atterraggio da manuale, non quello ufficiale, quello della 6°! Pensai subito che era venuto tutto troppo bene perché qualcuno  se ne fosse accorto. Invece la sera, al circolo, mi resi conto che anche a Villa non mancava chi passava il tempo a guardare cosa fanno gli altri, per poter poi criticare. La mia performance non era affatto passata inosservata. Purtroppo l’aveva notata anche l’ufficiale addetto alla sicurezza volo,  il quale, con aria pretesca, mi venne a fare la predica sul fatto che non mi ero attenuto alle procedure: avrei dovuto estrarre  carrello e flaps in volo livellato, al termine dei primi 180°, poi proseguire diritto per un po’ e finalmente iniziare la virata finale. Vero! Forse a Villa si potevano permettere di fare il giro d’Italia per una apertura: noi a Ghedi no. Con la visibilità di merda che c’era sempre se il leader avesse fatto un’apertura normale i gregari si sarebbero persi la pista. Ammetto che tutto mi aspettavo tranne che un appunto del genere: ero tentato di iniziare a disquisire sulle procedure di volo in uso a Ghedi, ma mi convinsi che il mio interlocutore ne sarebbe uscito scioccato e preferii lasciar perdere: non ne valeva la pena e non avrebbe capito.”. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Dopo c’è stato l’avvento del digitale e il mondo è cambiato. Così oggi ho una macchina digitale sempre con me, anzi, più di una.

Bruno Servadei, sull’esempio del padre, ha fatto la stessa cosa. Ha usato tante fotocamere e videocamere, con le quali ha documentato ogni sua attività.

Lo dice nella postfazione.

“Documentare con un obiettivo mi è sempre riuscito naturale, e mi ha abituato a guardare gli eventi con occhio critico e a ricordarli”.

Nonostante non fosse consentito, portava questi apparecchi anche in volo, sin dall’inizio, quando volava sul T6.

E aveva raccolto diversi dei suoi preziosi filmati in un paio di DVD.

Giunto alle ultime righe del libro, Servadei scrive:

“Coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni sul contenuto del libro o sul DVD possono contattarmi alla seguente email …”.

All’epoca della prima lettura di questo libro Bruno Servadei mi aveva spedito due DVD, ma non ricordavo come avevo fatto a contattarlo.

Forse l’indirizzo email oggi non è più lo stesso. Ma, giunto a queste ultime righe, di colpo mi sono ricordato come avevo fatto a richiedergli i filmati. Gli avevo mandato una mail a questo indirizzo. E lui mi aveva spedito i DVD, due, non uno.

Li ho ancora. E li conservo con cura.

Allora, qual’é uno dei meriti più importanti di Bruno Servadei?

Lo dice lui stesso, sempre nella postfazione:

“Le difficoltà dello scrivere le ho affrontate perché lo scopo di queste pagine non è tanto di far apprezzare uno stile di scrittura, quanto di raccontare dei fatti. Fatti che rimangano come doverosa documentazione del modo di vivere di personaggi che hanno svolto un difficile compito in un periodo di forte contrapposizione fra NATO e Patto di Varsavia che, fortunatamente, oggi non c’è più, a mio parere anche grazie all’impegno ed ai sacrifici che sono descritti in queste pagine”.

Esatto. Questo è il grande merito: aver registrato qualcosa che altrimenti si sarebbe perduto nelle nebbie del passato.





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Ali in valigia

Amelia Earhart

titolo:  Amelia Earhart

autore: Anna Consilia Alemanno 

editore: Corriere della Sera

anno di pubblicazione: 2021

ISBN: in allegato al quotidiano

[riga vuota n=3]

Vi è mai capitato di acquistare e leggere un libro per comprendere il contenuto di un altro? A me, onestamente  sì. E non è molto edificante, per il lettore e soprattutto per l’autrice del primo libro. Un po’ come “chiodo scaccia chiodo” ma in tema letterario. Nello specifico, il volume “Amelia Earhart” è la biografia che mi ha consentito di comprendere il romanzo “Ero Amelia Earhart”.

Il primo è una biografia e, come tutte le biografie che si rispettino, è divulgativa, storicamente documentata e calibrata su eventi realmente accaduti non senza indugiare su alcune spigolature o alcune particolarità davvero apprezzabili; del secondo ho scritto invece una recensione che è ospitata nel nostro hangar all’indirizzo:

Ero Amelia Earhart

L’aspetto che più colpisce del volume scritto da Anna Consilia Alemanno è ovviamente il linguaggio estremamente fluido, giornalistico, tipico di una storica che riporta in modo appassionato ma rigoroso le dinamiche dell’esistenza di Amelia non propriamente statica. Pur essendo numerosi i rimandi a vari episodi collaterali della breve quanto intensa attività volativa della protagonista, l’autrice segue un inevitabile filo cronologico che ci porterà a conoscere Amelia dall’infanzia fino al suo ultimo giorno di vita ufficialmente conosciuto.

L’eroina dell’aria – lo ricordo – scomparve in qualche angolo sperduto dell’Oceano Pacifico mentre, assieme al suo navigatore/copilota Fred Noonan, stava tentando la trasvolata equatoriale attorno al mondo a bordo di un velivolo bimotore Lockeed Electra. Era il 2 luglio del 1937.

In altri termini un volume che ci condurrà attraverso la storia del volo umano di cui Amelia è universalmente riconosciuta quale protagonista principale.

La IV di copertina della biografia dedicata ad Amelia Earhart, che è una delle due sole biografie disponibile in lingua italiana. Molto lodevole la bibliografia contenuta al termine del volume che fornisce, oltre all’elenco di libri utilizzati come fonti, anche una breve descrizione del loro contenuto. Inutile dire che sono tutti in lingua inglese. Confidiamo che, prima o poi, qualche editrice/traduttrice altruista colmi il vuoto attualmente esistente e che lascia i lettori italiani appassionati di storia del volo privi di alcuni testi meritevoli di essere consultati. Purtroppo anche questa biografia non è facilmente reperibile se non attraverso i canali di libri usati o fondi di magazzino di edicole che, evidentemente, all’epoca hanno restituito ai distributori l’invenduto delle copie del Corriere della Sera di cui il volume costituiva un allegato.

Nell’ambito poi di una collana dedicata alle grandi donne della storia, la biografia di una donna di tale caratura non poteva che essere affidata e scritta da una donna. E Anna Consilia Alemanno, raccolta la sfida, la vince brillantemente sebbene non manchino, soprattutto all’inizio e un po’ qua e là nel corso della narrazione, dei periodi che enfatizzano la figura di Amelia, delle affermazioni dal chiaro taglio campanilistico o che comunque sottolineano il valore di cotanta donna. Tutto  vero, tutto storicamente inattaccabile e dunque non retorico, non fazioso ma inevitabilmente schierato.

Ora mi chiedo: era necessario o utile dare alle stampe una biografia della trasvolatrice statunitense? Certo che sì, anzi, direi che fosse “doveroso” colmare il vuoto imbarazzante nel panorama editoriale in lingua italiana a mezzo di una biografia in lingua italiana, scritta da un’autrice italiana che facesse conoscere anche agli appassionati italiani e soprattutto alle appassionate italiane di storia dell’aviazione l’immenso valore e le qualità di Amelia. Perché se c’è una donna che vola un palmo più alto rispetto a tutte le donne veramente importanti della storia umana … beh, quella è senza ombra di dubbio Amelia Earhart. Senza nulla togliere alle altre donne famose, s’intende.

Ma chi fu veramente Amelia? L’autrice ne crea un ritratto vivido, quasi un’istantanea attraverso una descrizione fisica e una sequela di aggettivi – assolutamente pertinenti e per nulla esagerati – ma anche e soprattutto narrandone le azioni.

Naturalmente Anna Consilia non si risparmia a dipingere una realtà di contorno – quella statunitense – in cui vige ancora feroce il patriarcato (esemplificando c’è ancora l’uso esclusivo dei pantaloni da parte degli uomini) e in cui certe attività sono saldamente appannaggio esclusivo del genere maschile … figurarsi volare!? Un paese bigotto e lontano anni luce da quello che è oggi in termini di parità dei sessi … ma – occorre ricordarlo – siamo solo negli anni ’30 del XX secolo! Tanto per fornire un termine di riferimento, in quegli anni, negli USA, vigeva ancora la pena di morte e ne dovranno passare di nuvole nel cielo prima che venisse posta fine alla segregazione razziale. Di contro già nel 1920, ma dopo decenni di battaglie delle suffragette, verrà concesso il diritto di voto anche alle donne.

In questo senso risulta alquanto preziosa la “linea temporale” tracciata dall’autrice all’inizio della biografia in quanto ci fornisce un quadro cronologico degli accadimenti storici da un lato e dall’altro quelli personali di Amelia.

La locandina del film apparso nelle sale cinematografiche nel 2009 che, nonostante gli sforzi economici della produzione pari a circa 40 milioni di dollari, non si è rivelato un grande successo commerciale incassando “solo” poco meno della metà della cifra. Neanche la critica è stata magnanima nei confronti del film esprimendo più opinioni negative che positive. Ovviamente non è stato un film facile fin dalla scrittura della sua sceneggiatura di cui ne è stata fornita una versione iniziale rimaneggiata per sette volte per poi essere completamente riscritta un’ottava volta e finalmente adottata. Diversi gli aeroplani utilizzati per le scene in volo tra cui un vero Lockeed Electra Junior L-12a molto simile al fratello L10E Electra realmente utilizzato da Amelia, una replica-simulacro di Lockeed Vega (con in quale trasvolò in solitaria e senza scalo l’Oceano Atlantico) e un di Fokker F. VIIB/3M tri motore (in cui fu passeggera nella trasvolata atlantica). In verità esiste un’altro film del 1994 dedicato ad Amelia che ha per attrice protagonista Diane Kane e l’attore Rutger Hauer intitolato: “Amelia Earhart: the final flight” 

In effetti il volume si apre con una breve introduzione a cura di Barbara Biscotti (storica di diritto romano), poi, dopo la “linea temporale” di cui sopra,  segue la biografia vera e propria divisa in due blocchi distinti: “Amelia, la dimensione privata” e “Amelia, la dimensione pubblica” per poi indugiare con “Dice Amelia, di Amelia dicono” e infine per concludersi con la “Cronologia minima” e una preziosissima “Bibliografia ragionata”.

In definitiva una biografia che si legge tutta d’un fiato e che di sicuro non annoierà il lettore forse perché segue una formula probabilmente già sperimentata giacché Anna Consilia Alemanno è autrice di altre svariate biografie di donne famose come Eleonora Duse, Maria Teresa d’Austria, Isabella di Castiglia e, non ultima, Marilyn Monroe nonché Guglielmo il conquistatore.

All’interno del volume sono presenti due pregevoli immagini di Amelia e del suo Electra tuttavia, fatto salvo per il bellissimo primo piano in copertina, in questo libro c’è molto da leggere e molto poco da vedere.

Unica nota stonata: i margini troppo larghi delle pagine a scapito della dimensione del carattere di stampa che risulta un po’ più piccolo della media ma per il resto … buona lettura!

E non possiamo non concludere questa biografia con una frase famosa che è stata ascritta ad Amelia e che è virtualmente il principio ispiratore che la animò durante tutta la sua breve esistenza:

Il sorriso di Amelia Earhart e la fusoliera del suo Electra sono i protagonisti di questo scatto divenuto memorabile (foto proveniente da www.flickr.com)

 

Alcuni di noi hanno grandi piste di decollo costruite per loro. Se ne hai una, decolla! Ma se non ce l’hai, renditi conto che è tua responsabilità prendere un badile e costruirtene una da solo, per te e per quelli che seguiranno dopo di te.





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR