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Da grande farò il pilota

pilota buffaloDavanti al distributore del caffè di un Aeroclub, capita di incontrare un estraneo.

Capita che sia un pilota.

Capita che si tratti di un giovane cordiale ed estroverso.

Capita di rado – ma capita – che sia un pilota militare.

Capita molto molto di rado – ma a me è capitato – che sia un pilota di Typhoon.

Capita che lo pungoli chiedendo di scrivere qualcosa per VOCI DI HANGAR.

Capita – ma accade rarissimamente – che si schernisca dicendomi: “Io non so scrivere … ma ultimamente ho letto qualcosa di veramente bello che merita di essere pubblicato”.

Capita – ed è accaduto – che lui ti invii all’istante un’e-mail contenente il compito in classe di un anonimo bambino inglese di 10 anni. Parla dei piloti, di ciò che un bambino di quell’età crede e immagina siano i piloti, il loro mondo, il loro lavoro. Una piccola perla d’infantile  ingenuità. Grazie, comandante, per avercela fatta conoscere.

Capita che non ti ricordi neanche il suo nome.



Narrativa / Breve Presente nel web, autore anonimo

Un decollo risicato

aeroplanino turbolenzaParecchio tempo fa un distinto signore con folta barba nera (diventatagli poi bianca) venne a trovarmi in Aero Club chiedendomi se potevo accompagnarlo da Palermo a Pantelleria.

Era un commerciante di vini e, infine, acconsentii purché pagasse mio tramite il costo del volo.

Il giorno prima c’era stato forte scirocco, ma ora cal-ma piatta, e venni anche rassicurato dall’Ufficio Meteo. Feci preparare l’aeroplano che generalmente usavo per lanciare paracadutisti, imbarcai accanto a me anche un collega che oggi è pilota di linea e feci accomodare il commerciante nel sedile posteriore; rullai per portarmi in posizione attesa, pronto per il decollo, autorizzato. La manica a vento era a zero ma, appena staccato alla giusta velocità, questa di colpo si dimezzò portando l’aeroplano in stallo; poi si riprese e di nuovo stallo …! Riuscii a superare “a pelo” le case che si trovavano in fondo alla pista e qui l’aeroplano cominciò a salire come un ascensore! Il seguito nel racconto …!



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Le due rondini

Era una volta una coppia di rondini che stranamente in inverno, anziché migrare verso paesi più caldi, abitavano nella soffitta di una casa e d’estate facevano il nido sul tetto di quella stessa casa. “Sono degli uccelli davvero bizzarri!” dicevano quelli che le osservavano, non conoscendone la storia. In realtà non erano uccelli bizzarri, strano era ciò che era capitato loro. Ma vedremo cosa ne penserete voi bambini dopo che avrete letto questa favola.

“Mamma, mi compri un palloncino?” disse il bimbo mentre passeggiava con la mamma in una via del centro un sabato pomeriggio. “Va bene. Quale vuoi?” “Quello a forma di delfino.” “Grigio o azzurro?” domandò al bimbo il venditore di palloncini. “Azzurro, per favore. Quello più grosso!” Il bimbo prese il palloncino e lo osservò. “Guarda come va in alto!” esclamò. “Attento a non farlo volare.” si raccomandò la mamma. Il bimbo tirò giù il filo fino a prendere il palloncino tra le braccia. “Mamma, posso salirci sopra?” “Ma non è un canotto …” “Dai, solo un attimo. Dammi la mano.” “E va bene, baby stranezza.” La mamma prese il filo, se lo legò al polso e poi aiutò il bimbo a salire a cavalcioni sul palloncino. “Che bello!” esclamò il bimbo felice “Lascia andare un po’ il filo, mamma, voglio andare in alto.” “Si, ma solo un poco.” Purtroppo il filo le scappò di mano e il palloncino si alzò nel cielo, ma quel che è peggio è che il nodo che la mamma si era fatta intorno al polso si sciolse ed il palloncino volò via insieme con il bambino. “Aiuto! Aiuto!” gridò la mamma “Il mio bambino sta volando via. Aiuto!” Tutti alzarono gli occhi e videro l’incredibile scena del bambino che volava cavalcando un delfino finto. Il bimbo non aveva paura, anzi si divertiva un mondo perché era una cosa straordinaria, ma … dove sarebbe arrivato? In men che non si dica il palloncino raggiunse le nuvole e si arenò all’ingresso della baia del Regno delle Rondini. “Oh, oh, abbiamo ospiti.” disse la rondine incaricata della sorveglianza del Regno. “Buongiorno e benvenuto nel Regno delle Rondini.” “Il Regno delle Rondini? Oh, che meraviglia! Buongiorno.” rispose il bimbo. “Cerchi qualcuno?” chiese la Rondine. “Be’ se c’è qualcuno che può aiutarmi a tornare sulla terra …” “Che cosa ti è successo?” Il bimbo le raccontò l’episodio del palloncino e la sorvegliante chiamò la squadra del Pronto Intervento, il cui capo era una rondine grassa, un po’ stupida e dai modi spicci. “Sai volare?” chiese al bimbo. “No, io … no.” “E il tuo amico?” “Ma lui è … un palloncino.” “Be’ sa volare o no?” “No, no … cioè sì, ma solo verso l’alto … credo …” “E’ necessario l’esercizio! Qui siete tutti pigri. Esercizio costante ci vuole: costante! Fuori le ali!” Il bimbo aprì le braccia. “Ma … dove sono le ali?” “Non ha ali.” s’intromise la sorvegliante “E’ un bambino!” Quest’ultima conosceva fin troppo bene la stupidità del capo della squadra del Pronto Intervento. “Un bambino? E cosa ci fa qui? E’ un nemico del Regno?” “No, no, calma. E’ una storia troppo lunga per raccontartela.” La sorvegliante sapeva che se gliel’avesse narrata, l’altra le avrebbe chiesto di ripeterla quattro o cinque volte prima di capirne meno della metà, tanto era ottusa. “Ciò che il bambino desidera è tornare a casa. Sulla Terra.” aggiunse. “Potevate dirmelo subito! Squadra, attenti! Posizionate la scala.” La squadra eseguì prontamente ed ecco una robusta scala di corda penzolare dalla nuvola. La capo-squadra, rivolgendosi al bambino, disse: “Basterà che tu metta il piede qui e scenda.” Quando la scala fu ben sistemata, ci si accorse che era troppo corta e che non arrivava fino alla Terra. Il bambino e la sorvegliante si scambiarono uno sguardo desolato. Intanto sulla Terra, la mamma in preda all’ira si era avvicinata al venditore di palloncini e, gridandogli delle parole molto cattive, gli aveva rotto tutti i palloncini. Questi, arrabbiatissimo, dimenticò di essere un gentiluomo e, contro tutte le regole della cavalleria, le diede un grosso calcione sul sedere, ma così grosso che la fece volare in alto in alto nel cielo. Fortuna volle che anche lei approdasse nel Regno delle Rondini. “Mamma!” esclamò il bambino non appena la vide. “Amore mio!” I due si abbracciarono forte forte forte. “E’ la mia mamma! E’ la mia mamma! Evviva! Evviva!” Il bimbo non stava in sé dalla gioia; mai avrebbe immaginato di veder arrivare la mamma nel Regno delle Rondini. Anche la mamma era felicissima ed era grata al venditore di palloncini per il calcione nel sedere che, stranamente, non le faceva già più male. Ma ora bisognava risolvere il problema del ritorno a casa. “Come possiamo fare?” domandò la mamma alla Rondine sorvegliante. Fu interpellata la Rondine scienziato, la quale non trovò altra soluzione che quella di trasformare la mamma ed il bimbo in due rondini affinché potessero tornare a casa volando. La mamma accettò e così immediatamente, dopo che ebbero bevuto un intruglio misterioso, avvenne la metamorfosi. Le due neo rondini salutarono affettuosamente le loro nuove amiche e si diressero verso la Terra. Approfittando della nuova condizione fecero dei lunghi giri intorno al mondo e videro un sacco di cose bellissime che mai avrebbero potuto immaginare. “Mamma, sai che mi piace di più essere una rondine che un bambino?” disse il bimbo. “Be’, ti dirò che anche a me non dispiace. Siamo liberi, possiamo andare dove vogliamo e … guarda lì che lago meraviglioso!” “Non lo avremmo mai visto se non fossimo diventati rondini.” “E’ vero, ma ora andiamo a casa. E’ passato molto tempo.” “Se proprio dobbiamo …” Quando arrivarono a casa, però, si accorsero che non sapevano come fare per trasformarsi nuovamente in una mamma ed un bambino. La Rondine scienziato non aveva dato loro niente da prendere per tornare com’erano prima, né aveva detto se sarebbero rimaste rondini solo per un periodo di tempo limitato. “Dovremo tornare al Regno delle Rondini per chiedere cosa fare.” disse la mamma. “Ma il bimbo non era d’accordo. “Mamma … io preferirei rimanere così. Non ho voglia di tornare ad essere un bambino, quel letto così grande … io non so più dormirci, tutti quei giocattoli … io non so più giocarci …” Anche la mamma provava le stesse sensazioni e le piaceva molto poter essere libera e girare il mondo quando e come voleva. “Be’ in fondo … non siamo obbligati a cambiare … se stiamo bene così …” “Oh, sì, io sto benissimo!” disse il bimbo. “Allora … va bene … restiamo così” “Mamma, sei la mamma più straordinaria e la rondine più fantastica che esista. Anzi sei la mamma rondine più straordinariamente fantastica.” “Quanti complimenti … grazie. Ma questa casa? Non possiamo lasciarla abbandonata.” “No. Diamola ai poveri.” “Giusto! Aspettami qua. So già a chi darla.” La mamma rondine uscì, percorse tutta la via fino all’angolo e lo vide. Era sempre lì, tutti i giorni, con il caldo e con il freddo, da mesi e mesi. Chi era? Chiederete voi. Un mendicante. La sua era una brutta storia, una storia di guerra, di miseria e di umiliazioni. Abitava nel suo paese, non lontano dall’Italia, con i suoi quattro bambini. Era vedovo perché la moglie era morta in un incidente d’auto. Una mattina all’alba i soldati avevano fatto irruzione nella sua ed in tutte le case vicine ed avevano obbligato tutti gli abitanti ad uscire così come si trovavano. Il pover’uomo era riuscito a prendere solo qualche coperta per proteggere i bambini dal freddo ed aveva dovuto fuggire, ma lui si riteneva fortunato perché aveva tutti e quattro i suoi figli con sé. Era stato costretto a fare un lungo viaggio a piedi fino al confine e spesso, non avendo di che sfamare i suoi bambini, dava loro da mangiare solo delle bacche selvatiche. Al confine era stato messo su un pullman insieme ad altri profughi e condotto in Italia. Qui aveva dovuto arrangiarsi da solo. Purtroppo la violenza della guerra gli aveva fatto perdere l’uso di un braccio e di una gamba che l’uomo si trascinava stancamente e, un po’ per questo, un po’ perché extra-comunitario, non era riuscito a trovare un lavoro. Così si era sistemato in un vagone ferroviario abbandonato e tutto il giorno chiedeva la carità all’angolo della strada. Questa storia la mamma rondine la sapeva già da prima perché vedeva il mendicante ogni mattina accompagnando il bimbo a scuola e si fermava a fargli l’elemosina. Quando gli si avvicinò, il mendicante, pensando che fosse solo un uccello affamato, le disse: “Vieni, ho solo quattro panini che sono per i miei bambini, ma te ne do volentieri un pezzetto, rondinella affamata.” Ma la mamma rondine disse di no con la testa e gli fece cenno di seguirlo. Il mendicante si alzò e la seguì. Arrivati alla casa, la rondine gli indicò lo zerbino, il mendicante lo sollevò e vide una chiave. “Devo … devo aprire?” chiese. La rondine annuì. L’uomo aprì la porta ed entrò, ma rimase fermo e intimidito in un angolo dell’ingresso. La rondine allora, con grande sorpresa e spavento del mendicante, parlò e gli spiegò tutta la storia; poi disse che, da quel momento, quella casa era per lui e per i suoi bambini. L’uomo prese la rondine tra le braccia e la baciò. “E’ un miracolo!” esclamò sbalordito. “E’ ciò che ti meriti. Tu sei un uomo buono e la vita è già stata tanto ingiusta con te. Hai perso tua moglie, la tua casa e tutto ciò che avevi. Ora il Signore vuole ridarti una casa. Va’ a prendere i tuoi figli e portali qui.” “Lo farò solo ad un patto.” “Quale?” “ Che anche tu resti qui.” “Ma io ho scelto di restare rondine proprio per essere libera, per andare dove voglio.” “Vorrà dire che, quando avrai finito di girare tutto il mondo, tornerai qui ed abiteremo insieme.” E così accadde. Le due rondini girarono in mondo in lungo e in largo e scoprirono posto incantevoli che purtroppo né io né voi vedremo mai (non tutti almeno). Mantenendo l’accordo fatto, alla fine di ogni viaggio esse tornavano a casa e restavano lì fino alla partenza successiva. E così ora che hanno finito di viaggiare e viaggiare e viaggiare sono tornate definitivamente a casa e, come vi ho detto all’inizio, in inverno abitano in soffitta e d’estate fanno il nido sul tetto.

Ora ditemi, bambini, pensate anche voi che sono due rondini bizzarre?


# proprietà letteraria riservata #


Alessandra Libutti

Loredana Limone

Il decollo

Abilitati a un Jumbo intercontinentale, oppure a un caccia supersonico dell’ultima generazione, piuttosto che a un leggero biposto da turismo con poche decine di cavalli di potenza o a un silenzioso aliante, tutti invariabilmente i piloti di aeromobili hanno avuto a che fare con “il decollo”. Si dà infatti il caso che, a un certo punto del processo di iniziazione al volo, colui che sa, vale a dire il Pilota istruttore, dopo un certo numero di voli a doppio comando, giudichi che chi (il minuscolo non è casuale) non sa, cioè l’allievo pilota, sia maturo per il suo primo volo da “solista”. Perciò, di norma senza alcun preavviso, giunge il giorno in cui il primo (l’aquila) dice al secondo (il pinguino): “Adesso vai …”, così, di botto, senza fronzoli né preamboli, magari con malsimulata noncuranza, se non addirittura con ostentata sicurezza; lasciando il pivello tutto solo a districarsi tra leve, pomelli, manette, pedali, interruttori, strumenti e tutte le altre diavolerie in cabina. I preliminari, i metodi didattici e le modalità specifiche possono variare, in ragione di fattori peculiari quali le personalità in gioco, le circostanze, gli aspetti ambientali, il materiale di volo, le condizioni meteorologiche, il traffico nell’ATZ. Ma in genere il decollo consiste in almeno un paio di giretti dell’apprendista pennuto intorno al campo, mentre il Docente se ne rimane a terra, con l’occhio attento a seguire ciascuna fase del volo e – dacché le radiocomunicazioni “TBT” (terra-bordo-terra, ndA) in fonia hanno sostituito le primitive segnalazioni ottiche con razzi, teli e bandierine (nonché i laboriosi messaggi radiotelegrafici in morse), finalmente debellando l’annosa incomunicabilità in tempo reale fra terra e bordo – l’ orecchio in ascolto sulla frequenza locale: pronto a rincuorare o sovvenire il solingo “pulcino” che nel frangente è di norma in più o meno accentuata apprensione. Molti piloti ricordano quell’evento anche a distanza di parecchi anni, e malgrado gli innumerevoli eventualmente interposti; i più anzi non avranno a scordarlo mai, in forza del contradditorio concentrato di ansia, orgoglio, velleitarismo, paura vera e propria, e quant’altro esso abbia a suo tempo rappresentato – in varia composizione – per ciascuno di loro. Dopo il mio giovanile avvio, purtroppo (sostanzialmente per motivi di ordine economico) non tosto seguito da un coerente sviluppo, che tarderà a concretizzarsi quasi una ventina d’anni, da pilota – sia pure ‘della domenica’ – ricordo a mia volta assai nitidamente quel fatidico mattino di una primavera, ahimè ormai lontana; i cui prodromi e stimoli risalivano ad anni ben addietro.

Superate le ultime remore specie grazie alla convincente insistenza dell’amico Erio – reincontrato giusto sul campo di volo dopo lustri di distacco – e superata nella metropoli regionale, sede del mio lavoro, la temuta visita psico-fisiologica preliminare, avevo iniziato a cavallo della Pasqua il corso di pilotaggio, presso l’Aeroclub della tranquilla cittadina natia. Ciò previa ingestione di una montagna di pubblicazioni, testi e manuali di volo, nonché (a titolo propedeutico) di memoriali di piloti di pace e di guerra, connazionali e non. Frequentavo soltanto il fine settimana, dato che nei giorni lavorativi ero incatenato alle mie responsabilità direttive presso un grande gruppo editoriale con sede nel capoluogo della regione. Al pari dell’amico (fin dall’inizio degli studi medi) e ora ritrovato collega nell’apprendimento dell’arte del volo, mi aggiravo nei dintorni del “mezzo del cammin”, senza pur tuttavia avere (almeno consapevolmente) smarrita la “diritta via”. Oltretutto, eravamo animati entrambi dalla più sentita propensione a un sensibile miglioramento delle statistiche demografiche, per quanto di spettanza e nelle modestissime nostre facoltà; e altresì accomunati dal non aver potuto appagare prima quell’antica brama condivisa che ci vedeva appassionati alla follia fin dalla più fresca stagione dei calzoncini corti: lo scrivente ferratissimo nelle nozioni teoriche e nella storia del volo, quanto nostro malgrado ambedue digiuni di esperienze concrete, eccezion fatta per quelle aeromodellistiche e gli sparuti voletti risalenti all’età degli studi medi. Istruttore pilota presso la locale scuola civile di pilotaggio era allora l’ottimo già maresciallo Elio C., purtroppo repentinamente rapito anzitempo da un male subdolo rivelatosi incurabile. Durante la guerra era stato bombardiere sul monomotore Caproni 111 e sui trimotori Caproni CA-133 e SIAI Marchetti SM-81 e SM-79, nell’Africa orientale italiana dov’era poi finito prigioniero degli inglesi; al rientro in patria aveva prestato servizio presso la base nella provincia limitrofa, fino al pensionamento volando su bimotori Beechcraft 18 e monomotori Stinson L-5 da collegamento.

Gran navigatore d’istinto (a base della terna occhio, bussola e orologio), tramite il bonario Macchi MC-416 in dotazione al sodalizio, aveva insegnato ad alcuni di noi discepoli talune manovre addizionali a quelle di stretta prassi: quali virare in cabrata accentuata, scivolare d’ala, simulare la virata “d’attacco” dei cacciabombardieri, raccomandandoci di non praticarle se non a quota di sicurezza e in condizioni di buona visibilità; nonché a entrare in nube (accuratamente scelta, entro una ristretta tipologia di cumuletti di ridotte dimensioni e altezza adeguata), con susseguente immediata fuoriuscita tramite inversione di rotta, controllata tramite orizzonte giroscopico, variometro, bussola, altimetro e virosbandometro. Ci aveva pure ammaestrato a destreggiarci nelle dense foschie frequenti nella natia piana settentrionale, teatro di quelle vicende; nonché in presenza di vento sostenuto. Era un autentico galantuomo, vero signore non per censo bensì nell’animo, ben lungi dalla iattanza e supponenza peculiari a certe frange dell’ambiente militare, tanto che aveva ricusato la prospettiva offertagli di adire al ruolo ufficiali. Pacato e paziente oltre ogni dire, valido alla cloche quanto impacciato tra le scartoffie e infastidito dalle pastoie burocratiche, rifuggiva dalle circonlocuzioni sia verbali e sia scritte, ancorché eventualmente finalizzate a diplomatica edulcorazione o tattico smusso di punte spinose. Insomma, inderogabile la loquela, essenziale e lineare, quale regola istintiva naturale: pane al pane, come si usa dire, condito da scarni complimenti giusto quando affatto ineludibili; energici richiami ogni qualvolta reputati viceversa utili a noi discenti. Di umile famiglia toscana – aveva raccontato a pochissimi di noi allievi – prima di arruolarsi volontario nell’Arma, sotto la spinta sia della passione aviatoria e sia del bisogno, aveva dovuto sbarcare il lunario alla giornata: tra l’altro perfino improvvisandosi … generatore umano di corrente, presso la fabbrichetta piemontese che lo aveva ingaggiato per farlo pedalare da mane a sera in sella a una bicicletta vincolata al terreno, ad azionare la dinamo atta a fornire energia ai reparti. Giovanissimo, si era poi brevettato sul “Caproncino” grazie alle provvidenze governative allora vigenti, per essere indi destinato al bombardamento. Talvolta ci ricordava di quel suo maresciallo istruttore – probabile emblema-nemesi di buona parte del sottufficialato volante all’epoca – dal nome di un diffuso cereale, che lo aveva “abilitato” al bombardiere Fiat BR-2 mandandolo per aria da “solista” dopo due soli giri campo in “doppio comando” su quel potente biplanone bizzoso; durante i quali gli aveva consentito di saggiare (con gran cautela) la sola manetta del gas, esclusivamente in volo livellato, senza avergli lasciato neppure sfiorare una volta il volantino!

Soprannominato “democristiano” per il carrello biciclo “inginocchiato”, il “Sedici”, in gentile concessione vitalizia dall’Aeronautica Militare, era dal canto suo un gran buon bestione. Declassato a biposto generoso e tranquillo, efficace come strumento didattico qual’era stato espressamente progettato, incline a un perdono generalizzato – forse sa solo Dio quanti peccati sia naturalmente portato a compiere l’allievo pilota alle sue prime armi – offriva una comoda abitabilità, nell’arcaica rudezza funzionale dell’insieme. Dei centonovantadue originari cavalli, quell’esemplare di costruzione Aerfer dietro sub-licenza Fokker via Aermacchi, residuava ormai modesta porzione, dopo la quasi ventennale intensa attività consumata presso le scuole militari di primo periodo, cioè di iniziazione delle reclute all’ABC del volo. Tuttavia il suo stanco ruggito in pronta risposta alla manetta spinta a fondo corsa suonava ancora di tutto rispetto, così come una certa qual soggezione la incuteva (quantomeno a noi neofiti) quel suo vibrare da cima a fondo a ogni sensibile variazione del numero dei giri, al pari degli scoppi fragorosi che si liberavano dai suoi scarichi ossidati ogni qualvolta si arretrasse bruscamente la manetta al regime minimo. E, in tema di ciclismo, nel rullaggio pre-decollo erano richiesti quasi più polpacci alla Moser che non potenza sull’albero motore, data la necessità di spedalare in continuazione per contrastare – ancor meglio prevenire – la sua inguaribile tendenza a imbardare ora a dritta e ora (assai più frequente e pronunciata) a manca, in conformità alla caparbia renitenza al procedere rettilineo sull’asse longitudinale della pista. Quel caracollare spontaneo si reiterava poi, ingentilito solo di poco, nella corsa susseguente all’atterraggio, allorquando la congenita vocazione anserina del macchinone tendeva di nuovo al volteggio, alternativamente facendogli volgere il muso di qua e di là come fosse un ronzino bolso ma ancor animato da orgogliose velleità battagliere. Il caro bonario “Macchino” – “Maccone”, per chi aveva sott’occhio l’ancora svolazzante minuscolo “308” ligneo della medesima storica casa varesina – imponente e grintoso nella sua livrea argentea da gran guerriero, un poco smunta e qua e là segnata dalla vetustà, era giusto alla soglia delle ultime ore di volo ancora gentilmente concessegli dopo qualche indulgente reiterata proroga, posto che di fatto non l’avesse già abbondantemente oltrepassata (come noi ipotizzavamo, senza neppur soverchia malizia). E di lì a poco avrebbe mestamente figurato comparsa statica in una pellicola di ambientazione storica, debitamente imbellettato a chiazze mimetiche e fregiato di truci svastiche nere, ma (per le stesse inesorabili ragioni di copione) miseramente finendovi in fiamme non posticce. La mia istruzione ai segreti dell’arte di Dedalo era appunto iniziata quasi all’insegna di un allenamento … ciclistico, con i ripetuti monotoni lenti giretti nel circuito standard intorno al caro vecchio nostro campetto erboso delle adolescenziali saghe aeromodellistiche e i correlati decolli e atterraggi dal problematico mantenimento della linearità lungo la mezzeria della pista. Rullaggio, allineamento, tutta manetta, pedalate a non finire, decollo, via i flap, larga virata di novanta gradi a sinistra – “Pallina al centro, non derapi!” -, in affannosa salita al massimo dei giri – “Piano, che va in stallo …” -, quindi sopravvento, livellando a seicento piedi sul QFE – “Perché lo lascia salire? Se vuole andar dritto punti quel ponte, laggiù …” -, poi controbase – “Ora miri allo stadio, come se dovesse bombardarlo …” – seguita dal sottovento – “Vede il campanile di quel paese, là in fondo? Lo mantenga in prua e vedrà che andrà bene, mantenga la quota …” -, virata base: ipersostentatori, motore a discrezione; poscia il finale – “Tenga su … non troppo … non lo lasci scadere … non abbia fretta di toccare … controlli la velocità … punti il muso verso quegli alberi là in fondo alla pista … si regoli con l’altezza … mantenga l’allineamento … su, ora lo sieda per bene, piano … su il muso …” – e finalmente il sudato atterraggio, di nuovo accompagnato da alterne energiche pedalate al timone di direzione e conseguente sculettamento del mansueto paperozzo ritornato terricolo. Il tutto in circa nove minuti, dato che la velocità di crociera dell’esausto I-AENK superava di appena qualche nodo quella di stallo, e che il nostro aeroportino non consentiva il touch and go: involo e atterraggio erano infatti obbligati nel verso rispettivamente opposto, a causa della linea ad alta tensione corrente in fregio alla soglia nord. Ostacolo che uno dei precedenti istruttori, l’ex maresciallo del mio “battesimo” di lustri addietro, aveva una volta malaccortamente saggiato, riducendo il robusto Saiman 202 a un mesto mucchietto di listelli e schegge di legno ammonticchiati sulla parallela strada ferrata sottostante, per fortuna senza neppure un graffio agli occupanti.

Poi via daccapo. La lezione tipo durava poco meno di mezz’ora, per i tre canonici decolli e atterraggi, senza diversivi né varianti di sorta. Attenti a quota e velocità, mantenere la prua, controllare i giri, periodica occhiata a pressioni, temperature e livelli, ecco là il ponte della tratta sopravvento, indi lo stadio e la piscina pubblica in controbase – ma perché mai la capricciosa pallina scappa sempre di qua e di là? – poi il campanile della virata base – “Perché inclina così? Lo sostenga … attento alla velocità … non si lasci portare dall’aeroplano, cerchi di farlo andare dove lei vuole …” – e fuori i flap – il ligneo bottone in capo alla tubolare leva metallica si gonfiava per l’umidità (perciò quasi ogni volta), talché sarebbe occorsa la mano notoriamente d’acciaio di Sandokan per sbloccarlo quando l’atmosfera non fosse ben secca, cioè assai spesso – giù il muso, ruotino di coda bloccato – “Abbiamo vento da destra, vede la manica? Abbassi l’ala …”, seconda tacca – “Richiami … bene così, un po’ di piede … adesso su … troppo, tenga il muso allineato … – bum! (oddio, qui si spacca tutto …) -, “Fermo lì! … manetta … piede contrario, ora attenzione … pazienza, tiri tutto, ora si ritocca …” – e di nuovo ogni cosa da rifare, ancora una volta ricominciando con calma dall’inizio. Per fortuna, delle scarne comunicazioni radio si occupava l’istruttore, lasciando così noi allievi liberi di concentrarci sulle manovre, che era già un impegno esaustivo di per sé.

Accumulai in breve una decina di ore, alla media di una la settimana: mezzora il sabato, altrettanto la domenica e gli altri giorni festivi, capricci del tempo maggiolino permettendo. E appresi lo stallo con relativa rimessa, nonché la riattaccata e la simulata emergenza motore sia da millecinquecento e sia da tremila piedi di quota sul campo. Non senza qualche tribolo, imparai alfine a eseguire correttamente la richiamata dopo il plané finale: il resto andava abbastanza bene, nel competente giudizio del Maestro. Ma la mia paura permaneva elevata, specialmente durante la fase di decollo, con il motore urlante a pieno regime. Mi rendevo tuttavia conto che con il procedere delle lezioni a doppio comando andavano gradualmente diradandosi gli interventi del paziente insegnante, dapprima manuali (e pure … pedestri), in seguito soltanto verbali. Finché, quella domenica mattina di mezzo giugno radioso …

… siamo impegnati nel solito circuito standard intorno al campo, inanellando uno dopo l’altro tre giri stretti nella familiare piccola ATZ, con altrettanti decolli e atterraggi. Il taciturno maresciallo appare distratto, guarda fuori dal suo lato senza parlare; l’aria è calma e il sole comincia a farsi sentire. Dopo il terzo atterraggio, che al pari dei primi due riuscì discretamente, il brav’uomo si slaccia cintura e bretelle; e mentre sto riallineando il pacifico bestione borbottante, apre il tettuccio e mi apostrofa senza preamboli: “Io vado a prendermi un caffè; lasci pure in moto, e si faccia un altro giretto intorno al campo …” Pausa. Il cruscotto vibra vistosamente mentre la massiccia elica lignea seguita a girare al minimo (ptc-ptc-ptc …). “ … no, signor C. (guai a chiamarlo con il grado da militare!) … ci vengo anch’io, al bar …” Il granitico sottufficiale di terza classe non riesce a trattenere un batter di ciglia e a mascherare un impercettibile serrar di mascelle, per qualche attimo restandosene impalato con mezzo busto fuori dall’abitacolo, massaggiato dal flusso dell’elica che continua a macinare aria fresca, a rompere quella fattasi greve in cabina e ritmare quel nostro silenzio denso di pathos …

Fu così che il mio decollo andò ignominiosamente buco. Da parte mia sgomento, più che perplessità. Pur tralasciando l’apprensione, in realtà non mi sentivo affatto in piena salute: forse avvertivo già i primi sintomi della faringite che mi avrebbe costretto a letto per la mezza settimana susseguente, o – chissà – forse il mal di gola mi avrebbe viceversa assalito giusto in conseguenza di quello shock, mah … Sta di fatto che la vista della poltroncina di destra d’un tratto libera, seppur implicitamente in preventivo fin dall’inizio del corso, mi aveva messo addosso i tremori. E l’incontrollabile Io intimo aveva preso a martellarmi insistente: “Aspetta, non andare, non sei maturo …”, in sincronia con i giri dell’elica e le palpitazioni del cuore, prostrandomi in un vuoto mentale del pari mai conosciuto prima. Il paziente buon uomo ci era rimasto palesemente maluccio dal canto suo, dissimulando a stento il proprio disappunto sincero. Non me lo fece pesare allora, né avrà a ricordarmelo in seguito, ma con tutta probabilità non gli era mai capitato un siffatto imprevedibile quanto determinato rifiuto irrazionale: caso forse addirittura unico negli annali della storia universale dell’uomo che vola, comunque più singolare del celebre diniego che a suo tempo aveva guadagnato fama tuttora viva all’emblematico pontefice Celestino V.

Andammo insieme al bar attiguo all’aula didattica del piccolo aeroporto domestico: lui a sorseggiarsi l’usuale bicchiere di latte tiepido, io pleonasticamente farfugliando che non mi sentivo in forma, che ancora non mi ritenevo pronto nello spirito, se non quanto agli aspetti teorici della preparazione. Mi sentivo invero la gola secca e la mente confusa; goffamente, mi scusai come meglio mi riuscì (deve essere stata una scenetta penosa), trangugiando un brandy nostrano di pessima qualità; che non apportò alcun sollievo né allo spirito né alla condizione fisica. Da quella squisita persona sensibile che era, egli comprese … al volo; non rincarò la dose, anzi minimizzando l’accaduto. Fumai tre sigarette di seguito, prive di filtro e parimenti di produzione nazionale a prezzo popolare, mentre andavo rimuginando il paradossale episodio. Codardo era l’epiteto più mite che mentalmente mi venisse da affibbiarmi. Egli non mi mise il muso; almeno in apparenza i nostri ottimi rapporti non parevano essersi guastati. Eppure, riflettevo in silenzio, non era stato il medesimo valente istruttore a inculcare in tutti noi allievi che ciascun pilota deve fare solo e nulla più di quanto non si senta di volta in volta di fare? Bene, io non me l’ero proprio sentita, di decollare quella mattina di domenica. E ciò, nonostante il mio lunghissimo vagheggiamento dell’ intera materia, oltreché il connaturato desiderio ardente di dominare i cieli senza tutori-pedagoghi di sorta al fianco. Semplice, no? Almeno a dirsi.

Guarito che fui almeno nella gola e un poco rilassato, il secondo sabato successivo mi risolsi a ripresentarmi sul campo di volo. Non senza previo travaglio decisionale, ben conscio com’ero di ciò che colà mi avrebbe atteso senza più scappatoie percorribili. I tre canonici giretti in doppio comando filarono infatti lisci come olio; quindi via: “Se la sente, adesso? …”, seguito dal mio ritardato sibilo afono che stava per un sì senza calore né convinzione, seppur non improvvisato, tantomeno estorto. Due circuiti stretti stretti intorno al campetto, come al solito ma evitando accuratamente di lasciar cascare l’occhio sul desolatamente vuoto sedile di destra: due decolli da manuale, stacco dolce, direzioni e quote precise, pallina al centro, virate impeccabili, l’aereo sensibilmente più leggero dell’usuale; e due atterraggi pennellati alla vaselina, il secondo bagnato da uno spruzzo di pioggia capricciosa. “Decollo bagnato, volo fortunato”, non mancheranno di chiosare poi a terra. E, confortante, inusitata la serenità goduta fin dal primo istante del “tutto gas” per l’abbrivio sullo scorrevole manto erboso, subentrata alla propedeutica tensione che sempre aveva presieduto ai decolli istruzionali. Indi subito le felicitazioni degli astanti, con il rituale brindisi al neo aquilotto ma, soprattutto, il largo sorriso del buon signor C., a gratificazione sopra ogni altro apprezzamento.

A distanza di tanto tempo, tuttora palpita la viva memoria di quei sedici eterni minuti del volo forse più bello di tutti, a bordo dell’aeroplano più fascinoso del mondo sull’aeroporto più delizioso, nel giorno più intenso della mia vita di aspirante aviatore. E pensare che qualche anno dopo il mio secondogenito – il primo era pilota civile già da qualche anno – è “decollato” all’età di diciassette anni appena fatti, dopo sole sei ore di doppi comandi su un “Cessnino” da cento cavalli, almeno in apparenza senza alcun patema (lui)! E’ pur tuttavia vero che quell’indovinato aeroplanino ha il più facile carrello triciclo anteriore e che la pista bitumata dell’ aeroporto sul quale ha fatto la scuola è libera da ostacoli presso ambo le testate, perciò esente da vincoli, per cui vi è consentito il “tocca e riparti” che comporta soltanto un mezzo giro intorno al campo in luogo dell’intero circuito che noi dovevamo invece compiere, con conseguente più che raddoppio dei tempi. Ma altrettanto vero è che a distanza di una buona mezza generazione i metodi didattici sono cambiati, contemplando una pratica che anziché anteporre l’apprendimento di decollo e atterraggio privilegia l’esecuzione di altre manovre in volo, per cui i tempi dell’istruzione a doppio comando tornano ad allungarsi. E non è meno vero che il ragazzo è ancor più riservato e introverso del genitore, e sa simulare con naturalezza la più fredda indifferenza anche in situazioni delicate. Buon per me che, diversamente dal solito, quel giorno non l’avevo accompagnato io all’aeroporto, bensì il fratello maggiore. Tanto che, appresa l’inaspettata notizia al mio rientro serale, mi dibatterò a lungo fra l’incredulità e un’apprensione a posteriori, nel rimuginare in silenzio lo scansato accoramento e, insieme al primogenito, meditare intorno a certe differenze generazionali, oltreché di ordine anagrafico. Come del resto già provato anche dal decollo e dal brillante superamento delle tappe ulteriori da parte del primogenito stesso, nello storico aeroporto non lontano dal capoluogo sede del mio lavoro.

In seguito superai altri “decolli”, durante le successive abilitazioni a specifiche macchine, sempre della categoria monomotori da turismo e sport, fino alla potenza di duecentosessanta cavalli: analoghi i preliminari voletti in doppio comando, ma – nonostante la novità del mezzo – di volta in volta incomparabilmente più disteso il primo involo da “solista” a bordo di ciascuna di esse.


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Carlo Alberto Ferandini

17 dicembre 1903

Orville si svegliò d’improvviso.

Il vento, forte e teso con non mai, fischiava minaccioso attraverso le pareti e il tetto.

Si sollevò con i gomiti dalla scomoda brandina e di scatto si voltò verso il Flyer.

Nell’hangar regnava il buio più completo, eppure, del biplano, riusciva a vederne ogni singola travatura, ogni tirante ed ogni cavo di comando. Sentiva l’odore del legno di frassino e di abete con cui era costruito, sentiva nelle dita l’intelatura di mussola di cotone grezzo che l’inseparabile Katharine aveva cucito con infinita pazienza sulle ali sovrapposte. Poteva vedere le grandi eliche bipala, lo scontroso motore da quattro cilindri in linea realizzato appositamente per loro dal caro amico Charles Taylor e le piccole ali mobili orizzontali, appena riparate, che svettavano imperiose sul lungo traliccio a sbalzo.

Il Flyer riposava tranquillo.

Eppure non c’era una sola finestra dalla quale passasse la luce della luna: – A che scopo farla? -, s’erano chiesti due anni prima, lui e Wilbur quando avevano costruito il piccolo hangar, – Ci dovrà stare solo il Glider! – si dissero. Erano più che convinti che quella solida baracca di legno stagionato sarebbe stata sufficiente per il ricovero e la manutenzione della loro macchina volante. E non c’erano neanche lumi a petrolio: – Troppo pericoloso – avevano subito concordato all’unisono.

Eppure Orville, gli occhi puntati verso il buio, vedeva il Flyer davanti a sé, voglioso di spiccare il volo, ma non abbastanza leggero da farlo con quel soffio che passava impertinente tra le tavole.

Orville, rassicuratosi, si adagiò sulla brandina: – Devo dormire – disse tra sé e sé, – Domani è il grande giorno, lo sento, e non voglio rovinarlo per disattenzione o per stanchezza -.

Avevano lavorato trentasei ore ininterrotte, lui e Wilbur, per rimediare al piccolo danno che, due giorni prima, Wilbur aveva provocato in atterraggio. Atterraggio!? … sì, il Flyer aveva tentato di decollare: il motore al massimo dei giri, Wilbur aveva mollato il cavo di ritenzione, lui lo aveva accompagnato sostenendo l’estremità dell’ala fino a quando … il biplano aveva percorso tutto il binario ma, staccatosi improvvisamente dal carrello sul quale correva, non era riuscito a guadagnare il cielo ed era caduto quasi subito a terra. Un pattino anteriore s’era infilato nella sabbia e le alette orizzontali anteriori e si erano danneggiate non poco.

– Wilbur è stato solo sfortunato – pensò Orville, – la fortuna è così: ora ti sorride … ma tra un istante è già di un altro. –

A Wilbur, solo tre giorni prima, aveva davvero sorriso: avevano tirato a sorte lanciando in aria un nichelino ed aveva vinto. – Quello – si disse Orville – avrebbe potuto essere il primo volo nella storia di una macchina più pesante dell’aria e invece … –

Non c’era invidia in Orville: per lui, Wilbur, non era semplicemente il fratello maggiore o carne della sua carne. No, per Orville, Wilbur era la parte razionale di sé, quella riflessiva che non si lasciava andare di fronte all’insuccesso o alle difficoltà. Orville sapeva di essere un sognatore, un intuitivo, uno che aveva visioni folgoranti e che sapeva anche concretizzarle praticamente. Wilbur però, più maturo, era razionale e determinato, forte delle proprie ragioni e convinzioni. Un vero metodico. L’uno era la compensazione dell’altro. E non poteva esserci invidia tra loro. Erano i fratelli Wright e nient’altro.

– No – pensò Orville ad alta voce: – Il Signore ha voluto così. Ha fatto in modo che Wilbur non rimanesse ferito e che il Flyer non si danneggiasse troppo.-

Per un momento, sentì nella sua voce quella del padre, il reverendo Bishop Milton Wright: “la volontà del Signore” ricorreva continuamente nei suoi sermoni e nei testi che scriveva e poi pubblicava nel Religius Telescope. Ma non perché glielo imponesse il ruolo di vescovo della comunità religiosa della Chiesa Evangelica degli United Brethern in Christ, quanto perchè vi credeva fermamente. Così tanto che, di riflesso, anche lui e Wilbur ne erano altrettanto convinti.

– Se il Signore vorrà … e se avremo lavorato bene … il Flyer domani volerà – pregò Orville.

La volontà del Signore, sarebbe stata certo determinante … ma i due fratelli sapevano di aver lavorato davvero moltissimo.

Orville chiuse gli occhi. Prima di addormentarsi rivide sé stesso e suo fratello … bambinetti nella cantina della vecchia casa di Dayton, in Hawthorn Street, costruire per gioco, e anche per qualche spicciolo utile alla famiglia, piccoli giocattoli, congegni meccanici, e aquiloni in particolare. Rivide il modellino di elicottero di sughero e fil di ferro che, quando lui aveva solo sette anni … e quindi Wilbur undici, il reverendo Milton aveva regalato loro scatenando, forse, la curiosità per le macchine volanti. Anche mamma Susan li aveva stimolati: una donna colta e con una naturale predisposizione per le invenzioni. Rivide il suo viso sereno dalla carnagione chiara, i capelli quasi biondi, gli occhi intelligenti … e cadde in un sonno profondo.

L’alba era ancora lontana.

Il vento spazzava impetuoso la spiaggia di Kitty Hawk. Teso e gelido, sferzava con violenza la torretta costruita per le prime prove con il loro veleggiatore … erano passati già tre anni. Sibilava dispettoso attorno all’hangar dove Orville aveva insistito di dormire, quella notte, e non risparmiava, rumoreggiando, l’attigua casetta di legno che ospitava Wilbur. Non c’era altro accanto a loro: solo dune di sabbia e l’Oceano. E un oceano ancor più grande sopra di loro. La collina di Kill Devil Hill, qualche miglio più a sud, li guardava sorniona.

– Che diavolo di posto! – s’erano detti la prima volta che c’erano andati. Da casa loro, avevano dovuto percorrere diverse centinaia di miglia, in treno, attraversare l’Ohio e arrivare fin lì, nella North Carolina, nella parte più orientale del paese.

– Ringrazia l’U.S. Weather Bureau (Ufficio Meteorologico Federale, N.d.R.) – aveva detto sarcastico Orville. Ma non era certo colpa di Wilbur se, alla sua richiesta, quelli avevano risposto con indicazioni sbagliate: – Altro che venti tesi – aveva aggiunto bonario Orville, – altro che venti costanti e di piccola intensità: se va bene, qui ci saranno almeno trenta nodi di vento … con raffiche fino a cinquanta!? Chiamala brezza! – aveva infierito Orville. Wilbur aveva sorriso sconsolato: per l’ennesima volta aveva avuto la dimostrazione di quanto fossero fallaci le informazioni fornite dalla scienza del loro tempo e dai suoi depositari.

Orville si agitò nel sonno, scosso da brividi. Ma non erano dovuti al freddo: erano gli incubi. Incubi terribili che lo inseguivano, ormai, ogni notte. In uno di questi, l’elica destra schizzava via dal suo albero e rincorreva il Flyer, tranciandolo pezzo dopo pezzo, come un tritacarne per gli hamburger. In un altro, ancora più terrificante, lui era a terra e vedeva il Flyer salire in aria, salire, salire, salire … fino a scomparire alla vista per non riapparire più. Ma il più sconvolgente, era l’incubo che ricorreva, ormai con insistenza, già da qualche settimana … praticamente da quando avevano ricevuto la notizia del fallimento di Langley.

Come loro, anche Langley aveva tentato di far volare la sua macchina più pesante dell’aria. Si chiamava “aerodrome” ed aveva due bizzarre ali in tandem. Per alcuni mesi Orville e Wilbur, avevano lavorato incessantemente, preoccupati che egli potesse superarli nell’impresa … ma dopo un primo tentativo finito miseramente, al secondo, l’aerodrome si era sfracellato cadendo nelle acque del fiume Potomac. Purtroppo per Langley, nonostante il lancio a mezzo di catapulta a vapore ed un motore molto migliore rispetto a quello del Flyer, l’aerodrome non aveva neanche accennato a volare.

Orville e Wilbur, appresa la notizia, s’erano guardati l’un l’altro e, senza proferire una sillaba, s’erano complimentati a vicenda per aver preferito tutt’altre soluzioni aerodinamiche e costruttive. E, naturalmente, ringraziarono il Signore per averli preferiti a Langley: – Le nostre preghiere ed un’esistenza condotta nella grazia di Dio, ci hanno salvato – aveva commentato Wilbur.

Il fratello assentì con un cenno della testa ma, sapeva bene, e Wilbur lo sapeva meglio di lui, che il loro Flyer non avrebbe volato solo per intercessione dell’Onnipotente.

Orville prese a dimenarsi nel suo letto improvvisato, perseguitato dal suo incubo. Egli vedeva Wilbur ai comandi del Flyer, lo vedeva staccarsi da terra, guadagnare qualche decina di metri di quota e poi … frantumarsi sulle dune di Kitty Hawk, sollevando una gran nuvola di sabbia.

– E’ stato un incubo premonitore – aveva confessato a Wilbur. Quando aveva abortito il decollo, tre giorni prima, Orville era rimasto pietrificato, incapace di correre dal fratello che, incolume, scivolava giù dall’ala del biplano, preoccupato più per piani orizzontali che per sè.

– Ho vissuto il mio incubo peggiore – gli aveva spiegato Orville. Wilbur lo rassicurò: – Non temere, fratello mio – poi, con pacatezza, aggiunse – … non farò la fine di Lilienthal.-

Orville allora, gli occhi persi al cielo, tornò con la memoria a quel lontano giorno dell’ottocentonovantasei in cui avevano appreso, dai giornali, della morte del grande pioniere Otto Lilienthal. L’uomo che, secondo loro, per primo, si era cimentato con metodo e rigore scientifico nella grande sfida all’aria.

Orville, rammentò che anche Wilbur era rimasto letteralmente sconvolto dalla notizia, forse anche più di lui. Sinceramente, non riusciva a ricordare altre occasioni in cui aveva visto il fratello così scosso. Però, né lui né Wilbur, ricordò ancora Orville, avevano accettato con rassegnazione le ultime parole del pioniere tedesco: – Qualcuno dovrà pur sacrificarsi -. Erano state pronunciate sul letto di morte, è vero, ma erano state riportate dai giornali, più per enfatizzarne la teutonica follia che la pervicacia del geniale ricercatore.

Orville allora capì il vero senso delle parole di Wilbur: non voleva semplicemente rassicurarlo, no, intendeva ricordargli che il loro approccio al mondo del volo era stato ancor più rigorosamente scientifico e ancor più spietatamente sperimentale di quanto avesse tentato di essere quello dello sfortunato ingegnere tedesco. Così facendo, non avrebbero mai rischiato la loro vita … semmai il successo della loro impresa.

– Lo so, Wilbur- rispose Orville fiducioso – noi faremo solo la fine … dei fratelli Wright -.

Orville fu preso da un fremito improvviso: il Flyer stava precipitando e lui era impotente. Nel sonno urlò. Fu allora che si svegliò, bagnato di sudore, nonostante la temperatura glaciale. Nella mente, l’ultima scena ancora vivida.

Gli ci volle un poco per rendersi conto di dove si trovasse. Ascoltò il vento: era calato. C’erano circa quindici nodi, ora: – Se si mantiene così – disse a voce alta – …. possiamo ancora farcela –

Il Flyer era piuttosto leggero, circa 750 libbre (340 kg, N.d.A.) con tutto il pilota e sarebbe stato difficile governarlo con un vento superiore ai venti nodi. Non potevano certo permettersi di sottovalutare il vento. Anche e soprattutto in considerazione del motore di cui disponevano. Wilbur però, al termine del suo tentativo sfortunato, se ne era dichiarato ampiamente soddisfatto e aveva così dissipato uno dei maggiori motivi di preoccupazione di Orville. Anzi, aveva addirittura insistito con lui affinché il lungo binario, ove correva il carrello di supporto del Flyer, fosse portato dal fianco della collina di Kill Devil Hill ad un tratto di spiaggia completamente piano: – Possiamo fare a meno della pendenza – gli aveva detto Wilbur, e aveva aggiunto:- Vedrai … la macchina volerà stupendamente! –

Orville, non dubitò neanche un istante delle parole del fratello: non era abitudine di Wilbur fare previsioni … a meno che non fossero ampiamente meditate. Tuttavia, Orville non poté fare a meno di mostrare una smorfia di scetticismo: non più tardi di venti giorni prima, era dovuto correre a Dayton per far ricostruire, con materiale più resistente, l’albero di supporto dell’elica destra … senza parlare poi, dell’infinità di problemi che l’installazione del motore, sulla cellula del Flyer, aveva creato loro: – E poi ho gli incubi!? – aveva detto scherzosamente al fratello.

D’altra parte, lo stesso Wilbur, analizzando nei dettagli il suo decollo abortito, aveva riconosciuto apertamente di preferire il vecchio libratore al nuovo biplano: il Flyer era assai diverso dai loro vecchi Glider, benché ne derivasse in tutto e per tutto, salvo che per la presenza del motore.

Sia lui che Orville, su quelli avevano consumato migliaia di voli, con quelli avevano imparato a volare: l’incomodo del motore li avrebbe disorientati non poco. Almeno all’inizio.

– Dovremo abituarci all’idea – commentò Orville – e cambiare metodo di pilotaggio rispetto a quello che abbiamo adottato fino ad ora –

– Certo! – riconobbe sconsolato Wilbur – Non c’è altro da fare – poi, con il viso rassegnato disse: – il volo degli alianti, oggi, è fin troppo breve … – e lanciandosi in un’altra previsione che non suonò affatto azzardata alle orecchie di Orville, neanche in quell’occasione, aggiunse: – ma in un prossimo futuro gli alianti voleranno ininterrottamente per ore e percorreranno centinaia di miglia … ma la storia dell’aviazione la faranno gli aeroplani a motore … purtroppo! –

Anche Orville la pensava allo stesso modo. Era vero: nel corso dei loro studi preliminari, avevano calcolato che Otto Lilienthal aveva volato per un totale di sole cinque ore, nonostante migliaia di lanci effettuati. E anche loro, nonostante tre anni di prove e altrettante migliaia di lanci con tre diversi libratori, vincolati e non … erano riusciti a coprire solo brevi distanze rimanendo in aria per una manciata di secondi ogni volta. Era pur vero che questi brevi voli avevano permesso loro di mettere a punto le macchine e di migliorarle notevolmente, di sperimentare nuove soluzioni e, non ultimo, di prepararli al grande giorno in cui … avrebbero solcato, finalmente, il grande oceano dell’aria.

– Un pilota di aliante fa presto a diventare un pilota di aeroplano – aveva detto scherzando Orville.

Del tutto serio, Wilbur gli rispose: – Chissà se sarà altrettanto vero il contrario? –

– E’ tipico di Wilbur -, si disse tra sé e sé Orville. Quando lui si concedeva qualche provocazione o qualche fantasticheria, Wilbur lo riportava immediatamente alla realtà con affermazioni brutalmente ponderate quanto profonde. Orville non era perfetto, e lo dichiarava candidamente, ma anche Wilbur … Orville, ad esempio, riusciva con grande difficoltà a seguire la rigidissima metodologia del fratello. Affermare che Wilbur fosse disciplinato era poco, secondo Orville. Spesso lo trovava eccessivo se non, addirittura, insopportabile: non c’era motivo, a detta di Orville, di controllare e poi ancora ricontrollare una seconda volta ogni singolo componente del loro libratore prima di ogni volo: – L’hai già fatto nel volo precedente – gli diceva contrariato Orville. Ma Wilbur non sentiva ragioni: – La sicurezza dei nostri mezzi è la nostra sicurezza!- rispondeva laconico. Orville riusciva a malapena a dominarsi: non voleva infierire sul fratello, anche perchè, in fondo, aveva ragione. Una sola volta l’aveva criticato apertamente: quando, due anni prima, Wilbur s’era lasciato strappare una dichiarazione lapidaria da un sedicente giornalista, giunto fin lì a curiosare. Suonava più o meno così: “Per almeno altri cinquanta anni l’uomo non volerà”. Orville non gliela aveva mai perdonata. Non volendo, Wilbur aveva alimentato proprio quel certo tipo di stampa che era sempre alla sola ricerca di notizie sensazionalistiche ed inattendibili. “La peggiore stampa” la chiamava Orville, dalla quale avrebbero dovuto sempre ben guardarsi perché non avrebbe certo giovato loro, a chi, come loro, stava rincorrendo un sogno millenario e, soprattutto, ai lettori che non venivano affatto informati ma, al massimo, “impressionati”. Ma ciò che più aveva amareggiato Orville era il comportamento di Wilbur che, in quella occasione, s’era lasciato prendere dallo scoramento e non solo: l’aveva esternato. Il loro secondo aliante, proprio in quei giorni, stava rivelandosi un vero fallimento: avevano applicato con eccessiva fiducia i dati sui profili curvi raccolti da Lilienthal. Per un istante, presi entrambe dallo sconforto, avevano addirittura pensato di mollare tutto … ed era stato in quei momenti di debolezza che quel “satanasso” di giornalista aveva avvicinato Wilbur. Da allora in poi, i rapporti con la stampa s’erano fatti difficili. Orville ne era consapevole, e talvolta, anche compiaciuto. La stessa vicenda di Langley poi, era stata significativa: non avevano nessuna intenzione di essere lapidati pubblicamente dalla stampa dopo aver vissuto il dramma dell’insuccesso, già di per sé enormemente traumatico. Sarebbe stato davvero troppo. Anche per loro. L’insuccesso del giorno prima aveva perciò ridestato il sopito dissapore in Orville ma fortunatamente, pensò, non avevano vissuto la stessa triste esperienza con la stampa: la notizia non aveva avuto eco sui giornali. E sì che ce n’erano stati di spettatori. – Non c’erano giornalisti tra loro – aveva detto giocoso a Wilbur. Il quale aveva risposto con un mugugno di assenso. I rapporti con la stampa preoccupavano comunque Orville. Avevano discusso più volte sulla necessità di divulgare il risultato delle loro ricerche e delle loro esperienze ma, erano sempre giunti alla stessa decisione: – Vedrai che, quando arriverà il giorno fatidico … ci prenderanno per stregoni sioux! – disse stizzoso Orville. Ma Wilbur era stato irremovibile. Il loro carattere riservato e la mentalità imprenditoriale fecero il resto. Orville dunque, non biasimò la scelta di Wilbur: convocare per quella mattina i soli addetti alla Life Saving Station (Stazione di salvataggio, N.d.R.) di Kitty Hawk. Uno di loro, John T. Daniels, avrebbe provveduto, all’occorrenza, a scattare anche delle foto. Era un appassionato di fotografia e se la sarebbe cavata egregiamente con l’obiettivo, il diaframma le lastre e gli altri ammennicoli. – Sarà oggi il giorno fatidico? – si chiese Orville scendendo dalla brandina . L’incertezza li avrebbe tormentati fino all’ultimo istante, anche se erano certi di aver superato brillantemente tutti i problemi che, fino ad allora, avevano impedito il volo con il motore di una macchina più pesante dell’aria. Erano certi di aver letteralmente prosciugato tutte le conoscenze tecniche disponibili all’epoca, e di aver progettato, realizzato e poi sperimentato ogni singolo componente del Flyer con grande scientificità. Certo, avevano goduto dell’appoggio e dell’incoraggiamento di Chanute, avevano adottato la travatura reticolare di Pratt, avevano preso spunto dalle esperienze di Lilienthal, si erano ispirati al planoforo di Penaud e all’ariel di Henson, … ma quanti problemi e vuoti scientifico-tecnologici avevano superato grazie alla loro sagacia e perseveranza!? S’erano costruiti una piccola galleria del vento con la quale avevano sperimentato centinaia di profili confermando che i dati forniti da Lilienthal erano davvero sovrastimati. Avevano progettato e costruito le due eliche: le prime con un rendimento sufficiente per il decollo di un velivolo. Avevano realizzato il loro motore: piccolo, leggero e abbastanza affidabile. Avevano reso finalmente governabile, su tutti gli assi, la loro macchina volante. Come? Installando, per primi: i timoni di direzione, di profondità (stabilatori, N.d.R.) ed un originalissimo sistema di svergolamento delle estremità alari (precursore dei moderni alettoni, N.d.R.). E poi: avevano centrato e bilanciato la loro macchina disponendo il motore lateralmente, in posizione opposta a quella pilota. Pilota che, per ridurre la resistenza all’avanzamento, era letteralmente disteso sul dorso dell’ala. Con grande disappunto di Wilbur. Avevano montato le due eliche spingenti sul bordo d’uscita alare, nello spazio tra le due ali e, a mezzo di trasmissione a catena, avevano dato loro un senso di rotazione opposto l’una all’altra per evitarne la controrotazione. E ancora: i pattini, il sistema di lancio su carrello sganciabile, il radiatore sul montante alare … – Niente male per due costruttori di biciclette! – esclamò Orville. Finì di vestirsi e indossò la pesante giacca di lana. Sfilò dal taschino l’orologio e s’incamminò verso la porta dell’hangar. Aprì lo sportellino del suo orologio da tasca … ma non per conoscere che ora fosse. Albeggiava. Il mare in burrasca. Il vento da nord, gelido, teso, sui trenta nodi. Il chiarore illuminò il minuscolo ritratto della madre e la fotografia del padre. Insieme a Wilbur, erano tutta la sua famiglia. Né lui, né il fratello avevano una moglie e dei figli. Neanche una fidanzata: – Nè mai l’avremo – sosteneva Wilbur: – Nessuna donna – diceva – che sia abbastanza sana di mente, riuscirebbe a condividere un’esistenza con me o con te, caro Orville. – All’esortazione di spiegarsi meglio, Wilbur aveva aggiunto: – E’ molto semplice. Noi siamo dei missionari, o se vuoi, degli invasati: dipende dai punti di vista. La nostra mente, il nostro cuore e il nostro corpo perseguono un solo grande sogno … e in questo grande sogno, lo sai bene, non c’è posto per una donna. Non esiste donna in terra che accetterebbe di esserne semplice cornice – Wilbur aveva ragione: non c’era moglie che avrebbe rinunciato al marito, ai figli, alla tranquillità economica, ad una casa e ad una vita normale … per cosa? Non avrebbe mai capito. – C’è un prezzo anche per i sogni – disse, rivolto alla madre. Orville alzò gli occhi torbidi e si girò verso la piccola baracca: Wilbur era sulla porta. Come lui, era già vestito, come lui guardava l’alba, come lui valutava il vento. Il loro sguardo s’incrociò. Un sorriso solcò il viso austero di Wilbur, Orville aggrottò i baffi sorridendo a sua volta. Entrambe erano svegli … eppure, entrambe stavano sognando. Era l’alba del 17 dicembre 1903.

Il reverendo Milton Bishop Wright aprì il telegramma e lesse: “Fatti con successo quattro voli giovedì mattina tutti contro ventuno miglia di vento partendo in piano con potenza del motore solo media attraverso aria trentuno miglia il più lungo 57 secondi informa la stampa a casa a Natale. Orville Wright”

Il volo a motore era nato: il volo a vela l’aveva partorito.

Note: 1) il telegramma riportato è quello che, completo di errori, fu ricevuto veramente da Bishop Wright, il pomeriggio del 17 dicembre 1903 a Dayton. Alle 10.23 del mattino, Orville aveva volato per 12 secondi coprendo 120 piedi (37 metri) ma, nel volo più lungo di quella giornata, Wilbur riuscì a volare per 59 secondi e 852 piedi (260 metri) di distanza. 2) un ringraziamento particolare al mio insegnante di tecnologia aeronautica, prof. G. Ciampaglia, che ci ha regalato, forse, l’unico libro in lingua italiana sull’argomento: “I fratelli Wright e le loro macchine volanti” – 1993 – Istituto Bibliografico Napoleone 3) le vicende narrate hanno fondamento storico, i dialoghi e le considerazioni espresse dai personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. In buona parte. 4) Orville e Wilbur Wright non si sposarono mai … ma coronarono il loro grande sogno!


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