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L’ultimo volo

Andrea era stato il primo ad arrivare. Come sempre. Ora era fermo, parcheggiato di fronte all’hangar, scrutando il cielo dal finestrino. Una breve passeggiata all’aperto, poi il freddo l’aveva subito ricacciato nell’automobile. L’erba era piena di brina e il tepore artificiale del riscaldamento era decisamente più invitante del pallido sole che si era appena staccato dalle colline e che ancora non svolgeva bene il suo lavoro. I suoi pensieri, vagamente assonnati, ruotavano intorno a una tazzina di caffè, ma la macchinetta automatica che aveva ispezionato nel suo breve giro all’aperto, era chiaramente fuori servizio. Aveva considerato, per un istante, l’ipotesi di uscire dall’aeroporto, per raggiungere il bar, a circa tre chilometri di distanza. Poi aveva abbandonato l’idea. Meglio restarsene fermi in macchina, al caldo, guardando il sole che, lentamente, disegnava le prime ombre sulla pista, sciogliendo la brina. Si era appoggiato al sedile stiracchiandosi, considerando pigramente lo spiazzale deserto, la porta dell’hangar leggermente arrugginita. Un vago senso di abbandono, di trascuratezza. L’erba, lungo i raccordi della pista, alta, incolta.

“Quest’aeroporto ha conosciuto tempi migliori” pensa, mentre alcune immagini si fanno largo tra i ricordi. Sono almeno dieci anni, forse di più, che non viene da queste parti. Gli viene in mente, bruscamente, la prima volta in cui era entrato nell’hangar di fronte a lui, quando aveva visto per la prima volta un aliante da vicino. Tutto era nuovo in modo sorprendente e ancora non aveva idea di quello che stava per fare, non immaginava le conseguenze straordinarie di quel suo gesto impulsivo che l’aveva spinto a cominciare a volare. Ripensa alle giornate del suo addestramento, quando affidava la sua vita a un uomo silenzioso. Calde, colorate, piene di emozioni. Il vociare degli allievi, i comandi degli istruttori. Le operazioni di controllo nell’hangar, l’ispezione delle lunghe ali bianche dell’aliante su cui avrebbe volato. La ricerca del secondo paracadute per il suo istruttore, la cui assenza avrebbe scatenato la battuta di sempre: «Col cavolo che salgo in aliante senza paracadute. Come prima cosa è vietato, poi sto scomodo e, infine, ci sei tu ai comandi …». Una delle poche frasi scherzose che gli avesse mai sentito pronunciare. Forse il suo modo di volerlo mettere a suo agio, il tentativo di attenuare quella tensione che spesso accompagna i primi voli di un allievo. Per il resto del tempo insegnava senza parlare, toccando i comandi il meno possibile. Salvandogli la vita di tanto in tanto. Poi la lunga fila di alianti allineati sulla pista di asfalto sotto il sole impietoso; gli allievi seduti sotto le ali, all’ombra, in attesa che il traino, il Bravo-Kilo, li staccasse faticosamente da terra, uno dopo l’altro. Il Bravo-Kilo. Un robusto aereo a motore, un Robin, che lo aveva portato in aria decine e decine di volte… E oggi era lì per lui.

Una telefonata di Carlo, due settimane prima, lo aveva catapultato di nuovo in quel mondo, in quell’aeroporto, risvegliando ricordi lontani. La sorpresa della sua voce, erano almeno dieci anni che non si sentivano. Poi la spiegazione di quello che stava succedendo, la crisi economica dell’Aeroclub, la decisione di disfarsi di quell’aereo, oramai troppo vecchio, sul quale non aveva più senso investire. «Alla fine del mese scade il certificato di navigabilità. Poi sarà smontato, si recupereranno gli strumenti ancora funzionanti e alla fine verrà rottamato». Un lungo silenzio. L’iniziale stupore nel sentire la voce del suo vecchio compagno di volo si era spostato sulla notizia che aveva appena ricevuto. Il Bravo-Kilo stava per esser messo a terra. Ancor più della voce del suo amico la sigla familiare di quell’aereo lo aveva riportato indietro nel tempo, quando aveva ripetuto mille volte la stessa frase: “Bravo-Kilo il cavo è teso, pronti al decollo”. Con un tremore nella voce che ogni volta stentava a dominare, lo sguardo fisso su quella fune che lo legava all’aereo di fronte a lui, aereo che a breve l’avrebbe trascinato sulla pista, strappandolo da terra. Per un altro dei suoi infiniti voli di addestramento, pieni di emozioni che non riusciva a raccontare neanche a se stesso, in giornate assolate e senza tempo, in cui tutto sembrava non avere fine. Il volo, la gioventù, la vita.

Poi le cose si erano improvvisamente ingrigite, una nuova consapevolezza aveva cominciato ad accompagnarlo. E ora quel tozzo aereo che lo aveva preceduto per i primi minuti di innumerevoli voli, quasi sempre con Carlo ai comandi, era prossimo a uscire di scena. Non aveva trovato una risposta, un commento appropriato. Si era limitato a rimanere in silenzio, con la cornetta in mano, assorto in ricordi lontani, prepotenti. Carlo, dopo poco, aveva ripreso a parlare. I discorsi si erano mescolati, avevano raccontato di loro, della loro vita, dei loro figli. Delle loro compagne, del lavoro. A tratti, quasi sottovoce, della loro salute. Poi, inevitabilmente, erano tornati a parlare di volo. Sì, Carlo ancora volava. L’estate scorsa aveva trainato gli alianti che partecipavano ai campionati europei. No, lui aveva smesso. Erano anni che non volava. Mille cose si erano messe di mezzo, ostacolando sempre di più quella sua passione che credeva invincibile. E invece, alla fine, quella moltitudine di piccoli ostacoli ce l’aveva fatta. Era a terra da tempo. L’ultimo volo in aliante l’aveva fatto sei/sette anni prima in un altro aeroporto. Con un amico ai comandi. Poi, più nulla. Un altro, lungo istante di silenzio, poi Carlo era tornato a parlare, gli aveva raccontato la sua idea. E allora, lentamente, il piano aveva preso forma.

Staccare da terra per l’ultima volta il Bravo-Kilo. Insieme.

L’idea lo aveva colpito, incuriosito e, in pochi istanti, entusiasmato. Dopo poco stavano già prendendo accordi, guardando le date. Occorreva sbrigarsi, la fine del mese era vicina e la situazione metereologica non era clemente. Alla fine avevano individuato un giorno. «E Giovanni?». Il loro terzo amico, anche lui un appassionato pilota di aliante, avevano fatto squadra centinaia di volte. «Non so» aveva detto Carlo «io l’ho perso di vista, non trovo più il suo numero di telefono». «Forse io lo posso rimediare» era stata la risposta di Andrea «lo cerco e lo avverto». Poi, un momento di esitazione: l’entusiasmo di risentirsi è ostacolato dalla sua stessa sorgente, il tempo che è passato. Un incontro tra vecchi amici è spesso accompagnato da esagerate pacche iniziali, da frasi enfatiche, pronunciate ad alta voce. Si fa rumore, per festeggiare, per dimostrarsi la contentezza dell’essersi ritrovati. E per mascherare quel vago senso di tristezza, di impalpabile imbarazzo che, a volte, accompagna questi incontri. Ma loro avevano un piano e questo semplificava le cose. Avevano fissato una data, discusso gli orari, le operazioni da svolgere. Si erano salutati allegramente, chiudendo la conversazione con qualche battuta: «Ma è sicuro che ti ricordi come si fa?».

La telefonata aveva messo Andrea di buonumore. Aveva subito cercato, senza successo, di rintracciare Giovanni. Il cellulare, inesistente o non raggiungibile, il vecchio numero di casa che squillava a vuoto. L’unico contatto era stato quello con una gracchiante segreteria telefonica, su cui aveva registrato un lungo messaggio, spiegando cosa volevano fare e lasciando i recapiti telefonici di entrambi. Niente. Giovanni era scomparso nel nulla …

«Chissà che fine ha fatto» pensa Andrea mentre si avventura per la seconda volta fuori dall’automobile. Il sole ora è più alto, il cielo azzurro, senza nuvole; solo un leggero vento, appena freddo. Mette le mani nelle tasche della giacca e si ritrova a toccare la sua licenza di volo a vela. Scaduta da tempo. “Ma perché diavolo me la sono portata appresso?” pensa stizzito. Ma è un attimo, si avvicina all’hangar, ne saggia la porta che, a dispetto della ruggine, scorre libera nelle sue guide. Il gesto, familiare, scaccia i pensieri tristi. Entra. Lo sguardo corre veloce, cerca le tracce di quello che è stato. L’aliante su cui ha preso il brevetto, un aereo di tela e legno, robustissimo, facile a pilotarsi. Altri alianti smontati, sgraziati senza le lunghe ali bianche, polvere ovunque. Molto più spazio di quanto non ce ne fosse quando ancora volava. Si aggira lento nell’ampio locale, i passi amplificati da un leggero eco metallico. Si blocca di colpo, interdetto, ipnotizzato dalla carcassa di un motoaliante, un Falk, un vecchio aereo a due posti bianco e blu su cui aveva volato molte volte d’inverno, quando la situazione metereologica rendeva inutile andare per aria con un aliante normale. Considera i vetri rotti, l’elica spezzata, l’abitacolo distrutto, un esiguo spazio in cui ha passato ore e ore infastidendo le cime innevate che contornavano l’aeroporto. Con il riscaldamento acceso. Il riscaldamento. Un lusso da aerei a motore … Cerca di immaginare cosa sia successo. Chi fosse ai comandi, quale fosse stato l’errore che aveva trasformato quel goffo aereo in un ammasso di rottami. Prova a immaginare le sensazioni del pilota mentre provava inutilmente a recuperare la situazione, l’elica che si spezzava, i rumori che avevano accompagnato l’evento … Si domanda, sottovoce, se e quanto si fosse fatto male… Rimane a lungo a fissare il posto di pilotaggio, ancora pieno di vetri. È il primo incidente di volo a cui assiste, sia pur in differita, e prova una strana, indefinibile sensazione. Non sa chi sia il pilota coinvolto, né le circostanze, né quando la cosa sia successa. Ma conosce perfettamente quell’aereo, i suoi comandi, la lentezza con cui si staccava da terra, il suo goffo comportamento in aria. La procedura per accendere il motore in emergenza, picchiando sino a quando l’aria che investiva la prua, prima a scatti, poi in modo deciso, costringeva l’elica a girare, sempre più veloce e il motore si avviava rumorosamente. Rimane fermo a lungo, la mente divisa tra i ricordi di voli lontani e le emozioni che quell’aereo incidentato gli provocava.

«Allora, che fai? Stai cercando un aliante per andare in volo senza di me?». La voce di Carlo, robusta come sempre, lo fa sobbalzare, lo strappa dai sui pensieri. Si gira, lo guarda. Si sorridono incerti, cercando le tracce del tempo sui loro volti. Carlo si avvicina sorridendo. «Certo che sì,» risponde «l’idea di mettere a repentaglio la mia giovane vita volando con te mi ripugna decisamente. Forse è meglio che lo piloti io quell’aereo». Il sorriso di Carlo si allarga mentre Andrea aggiunge: «E poi hai messo su pancia, come cavolo ci entriamo in due dentro il Bravo-Kilo?». «Giovane vita una sega» ribatte Carlo avvicinandosi ancora «guarda come sei ridotto. Dubito che tu ce la faccia a salire sul Bravo-Kilo. Figuriamoci pilotarlo, poi. Ora perché sei andato in giro due volte su un motoaliante pensi di essere in grado di pilotare un aereo vero …». Mentre pronuncia la parola motoaliante guarda di sfuggita la carcassa che è ora alle spalle di Andrea. Ha volato anche lui su quella macchina, proprio con il suo amico. Tanti, tantissimi anni prima. Strizzati come due sardine nella cabina di pilotaggio, sorvolando a lungo le montagne piene di neve. Distoglie veloce lo sguardo. Andrea ora è di fronte a lui, lo guarda negli occhi e gli dice: «Beh, su quello che so e non so fare credo che dovresti chiedere a tua sorella …». Carlo scoppia a ridere, insieme all’amico. Bene, le battute di rito sono state pronunciate, ora è possibile abbracciarsi. Si stringono forte, pacche sulle spalle. Poi si guardano in faccia, appena imbarazzati, c’è il rischio di dover parlare di cose serie, quelle che ciascuno intravede sul fondo degli occhi dell’altro. Ma Andrea ha una soluzione: «Allora, questo Bravo-Kilo?». Carlo annuisce, si avvia verso il fondo dell’hangar. Dietro un vecchio bimotore bianco, la sagoma del Bravo-Kilo, azzurra, tozza. Pieno di polvere, coperto in parte da teli che un tempo erano stati bianchi. Qualche solco sull’elica di legno, le gomme sgonfie. «Beh» dice Andrea «è ridotto più o meno come te. Solo che a lui è possibile cambiare i pezzi». Carlo sorride, ma non ribatte. È preso dall’aereo. Gli gira intorno, picchietta leggermente con un dito la tela delle ali, smuove gli indicatori di stallo. «Bene,» dice con la mente che già insegue quello che devono fare «al lavoro! Abbiamo parecchie cose da sistemare se vogliamo andare per aria». Si fanno spazio, spostano alcuni aerei e cominciano a ispezionare il vecchio traino. Livello dell’olio, spurgo della benzina, controllo della batteria che era stata messa in carica durante la notte. Andrea gonfia le gomme, poi ispezionano insieme i comandi, gli alettoni, il timone di direzione e di profondità, l’escursione dei flap. Un ultimo giro intorno alle ali. Controlli effettuati centinaia di volte. Carlo ricorda le parole del suo istruttore: «Hai fatto i controlli?». E lui: «Sì». E l’istruttore, dopo un istante: «Ma, dato che io mi voglio bene, li rifaccio». Ha capito dopo anni che non era sfiducia, era solo un modo per consolidare quell’abitudine nella sua mente, per impedire che si trasformasse in una semplice routine da poter disattendere.

Occuparsi dell’aereo li rilassa, cominciano a parlare senza prendersi in giro. Di volo e di altro. Una figlia che si è appena laureata, un figlio che ha divorziato, un bambino preso nel mezzo. E quando quello che si stanno raccontando diventa troppo personale, appena imbarazzante, cambiano argomento, tornano a parlare di volo. Hanno mille ricordi comuni, hanno spesso fatto coppia per aria. Carlo, condividendo i voli di costone dell’amico, le prime acrobazie in aliante, il primo looping della loro vita, insieme. Un lungo giro in motoaliante, proprio quello che stavano guardando prima, in una gelida giornata di febbraio, sfiorando il Corno Grande del Gran Sasso, in un mare di neve che brillava sotto il sole invernale, per poi arrivare in vista del lago coperto di ghiaccio. Oppure, un’altra volta, sul Bravo-Kilo, con Carlo ai comandi, un volo basso, bassissimo, sull’acqua ghiacciata del lago, facendo il pelo ai campanili dei paesini sottostanti, per poi salire bruscamente verso la montagna. Si era formato del ghiaccio nel carburatore, il motore aveva perso colpi, aveva borbottato per qualche minuto, per poco non avevano rischiato di trovarsi nei guai. Oramai hanno preso il via, il passato li ha travolti nuovamente, della loro vita di oggi non parlano più. Volano nei ricordi.

Finalmente l’aereo è pronto, bisogna solo fare benzina. Ma loro continuano a parlare. Per ricordare a quelle pareti fredde, di cemento e metallo, che rimandano indietro la loro voce, che loro hanno fatto, che qui un tempo si volava sul serio, si faceva il solletico alle nuvole … Prendono fiato, in silenzio per qualche istante. Si limitano a guardarsi e sorridere, immersi nel calore di quei ricordi.

«Ma guarda tu che bella coppia di checche. Cosa preferite? Vi porto del tè e pasticcini o faccio un giro di dieci minuti e vi lascio soli, in pace, così finite quello che state facendo?». Giovanni alle loro spalle. Alto, abbronzato, con un sorriso che gli spacca la faccia. Si girano di scatto, ridendo. Altre battute. «Certo che, parlando di checche, mancavi solo tu». «Non è cambiato di una virgola, a parte i capelli che ha scordato a casa: arriva sempre quando non c’è più nulla da fare …». Si abbracciano, chiedono notizie. Lui si è separato due volte, tre figli in tutto, due dalla prima moglie uno dalla seconda. Ora vive solo da sei anni. «Una favola,» dice a voce appena troppo alta «lo consiglio a chiunque. E poi, sapete qual è la conclusione più seria a cui sono arrivato dopo sei anni di vita da single?». «In realtà non vorremmo saperlo» dice Carlo «ma ho il sospetto che ce lo dirai lo stesso». «Esatto!» esclama lui «Spargete la novella: le mutande sono un capo di abbigliamento decisamente sopravvalutato …». Ride, ridono, ma c’è qualcosa dietro quegli occhi che vorrebbe essere raccontata. Forse più tardi. Poi tornano a occuparsi dell’aereo. Meglio. Ora è tutto pronto, lo portano fuori per fare benzina. Mentre spingono Gianni dice: «Ero fuori per lavoro, sono rientrato ieri sera tardi, ho sentito la telefonata solo questa mattina presto e mi sono precipitato. Ma davvero pensavate che vi avrei lasciato andare da soli sull’ultimo volo del Bravo-Kilo? Ma scherziamo? Almeno uno in grado di pilotare ci deve essere a bordo …». Ridono, ma ancora c’è qualcosa nella frase che appena non va, che torna a disturbare la situazione. E allora continuano a occuparsi dell’aereo, attaccano il cavo di massa alla marmitta, fanno benzina. Durante il rifornimento Giovanni tira fuori dalla sacca una bottiglia di Ferrari ghiacciata e, mentre la agita nell’aria, dice: «Se Carlo ha l’accortezza di riportarci a terra intatti poi festeggiamo con questa!». È il suo modo di sempre di scusarsi, di farsi perdonare delle sue ripetute assenze, del suo continuo esser preso dalle sue cose, un modo di fare che spesso mascherava l’affetto che ha per gli altri. Con le sue due ex mogli le scuse non hanno funzionato. Gli amici invece, di bocca più buona, esultano, e Andrea commenta: «Certo, dobbiamo sperare che Carlo atterrando non rompa la bottiglia».

Bene, è ora di andare.

In realtà non hanno mai volato tutti tre insieme. Tranne una volta, ma su due aerei distinti, durante un traino in cui avevano rischiato di farsi male. Tanto. Andrea e Gianni su un aliante biposto, trainati da Carlo, proprio con il Bravo-Kilo, con accanto un istruttore che doveva accertarne le competenze. Tre problemi di fondo: erano molto pesanti, c’era un forte vento al traverso e l’istruttore istruttore non era. Era solo un bravo pilota e un bravo trainatore. Ed è noto che non basta. Gli era stato affidato un ruolo a cui non era adatto. E aveva paura, aveva sbagliato. Erano passati bassi sulla rete di recinzione, completamente disallineati dalla pista. Bassi come l’ascella di un serpente nano. Sfiorando i pali di metallo. Letteralmente. Andrea, ai comandi dell’aliante, ricorda perfettamente la sua mano sulla manopola di sgancio, mentre stimava la distanza tra le ruote del Bravo-Kilo e la rete, pronto a sganciarsi se il traino non ce l’avesse fatta a passare. Carlo ricorda di aver incrociato le braccia, lasciando il destino di quell’aereo al pilota spaventato al suo fianco che li aveva messi in quella situazione. Giovanni ricorda e basta. Per un pelo. Veramente per un pelo. E l’episodio era oramai stigmatizzato da tre battute, ripetute centinaia di volte, come spesso accade quando si vuole esorcizzare qualcosa. «E a peggiorare le cose c’eri tu a pilotare l’aliante …». «Per fortuna che il Bravo-Kilo non lo pilotavi tu …». «Ma guarda questi due in che cavolo di situazione mi hanno messo. Quasi quasi ora scendo e li lascio andare per i fatti loro …».

E oggi, per la prima volta nella loro vita, si sarebbero ritrovati insieme sullo stesso aereo. Per l’ultimo volo di quel vecchio traino.

Cominciano a discutere animatamente nello spiazzale deserto, ipotizzando cosa fare per aria. Andare verso nord, arrampicandosi sulle montagne di fronte a loro, ancora sporche di neve, dove è possibile incontrare dei falchi che, con le ali immobili, si arrampicano senza fatica sulle prime correnti ascensionali della giornata. O scendere verso sud, sorvolando le colline più basse, di un verde vivido, dove la primavera, oramai alle porte, cominciava a riempire di gemme le cime degli alberi. Si prendono in giro, parlano a voce alta, ognuno dice la sua, non trovano un accordo: ogni luogo è pieno dei loro ricordi e il dialogo, sempre più confuso, si conduce mescolando le storie di mille voli diversi. In breve emerge una sola certezza: dove andare non è affatto chiaro (“Basta che non sia troppo lontano, altrimenti Carlo non è in grado di tornare indietro …”), ma una cosa è certa: è ora di staccare il sedere da terra. Poi si vedrà.

Salgono sul Robin vociando, Giovanni insiste sul portarsi appresso la bottiglia di Ferrari, “utilissima per un atterraggio di emergenza”. Litigano scherzosamente su chi debba andare di dietro, discutendo su chi sia più adatto ad affiancare Carlo, per impedirgli di fare errori. «Ma deve proprio pilotare lui? Non potremmo chiamare uno esperto?». Fanno caciara, parlando a voce alta, prendendosi in giro, sino a quando Carlo non grida: «Attenti all’elica!» e mette in moto.

Il Bravo-Kilo, quasi a voler sottolineare quanto sia fuori luogo metterlo a terra, emette uno sbuffo di fumo azzurrino e si accende immediatamente. Si azzittiscono tutti e tre, di botto. Il motore gira regolarmente, un secco scoppiettio nell’aria ancora fresca del mattino. Rullano lentamente sul raccordo laterale, tra l’erba alta. Arrivano in fondo alla pista, si allineano, il ruotino centrale in mezzo alla scritta 17, il lungo nastro di asfalto di fronte a loro. Una chiamata radio per segnalare le loro intenzioni. Completamente inutile, non c’è nessuno in giro, né in aria né in terra. Il motore è oramai caldo e Carlo preme a fondo i freni, porta il motore al massimo dei giri, per cinque secondi. Vibra tutto, un rumore assordante, ma lui è soddisfatto. Poi toglie gas. «Com’era» dice con un ghigno mentre stringe la cloche «avanti per scendere, indietro per salire, sinistra e destra per girare?». Un rapido sguardo agli strumenti, un ultimo controllo, poi lascia i freni e dà tutto gas. L’aereo comincia a muoversi, prendendo pian piano velocità. Carlo, seguendo un’abitudine di sempre, controlla la situazione nello specchietto retrovisore, cercando un aliante che, questa volta, non c’è. Incontra, invece, lo sguardo divertito di Andrea che gli fa una smorfia dai sedili posteriori. Allora si gira a guardare Giovanni, al suo fianco, anche lui con la faccia sorridente mentre stringe in mano la bottiglia di Ferrari, come a dire: “Dopo brindiamo, dopo parliamo. Ma ora andiamocene per aria …”. “Ma possibile che non ci si stanchi mai di volare?” pensa d’un tratto, mentre la consapevolezza di quel volo, dell’essere di nuovo insieme a due amici di sempre, del fatto che quella è l’ultima volta che pilota il Bravo-Kilo si fa strada in modo prepotente dentro di lui.

La prima volta insieme per aria, per salutare un vecchio traino che li ha accompagnati per anni.

Poi viene preso dall’urgenza del momento, si concentra sui comandi, mentre gli amici continuano a prenderlo in giro. L’aereo, oramai veloce, corre sul centro pista con la coda alzata, sobbalzando, sempre più leggero, rincorrendo la sua ombra che il sole alle spalle spinge più avanti di lui. L’ombra, ignara del chiacchiericcio che si svolge nell’aereo dietro di lei, scivola veloce sull’asfalto, adattandosi senza esitazioni alle piccole gobbe e crepe della pista, inseguita dal Bravo-Kilo che arranca, senza guadagnare un centimetro. Una gara che non potrà mai vincere. L’asfalto si consuma sotto le ruote, unico punto di contatto tra l’aereo e l’ombra e, dopo circa trecento metri, Carlo solleva la prua, staccando il traino da terra.

L’ombra continua a correre, prigioniera, sul terreno, mentre il Bravo-Kilo comincia salire e vira verso il sole. Dopo poco è solo un minuscolo punto nel cielo.


 # proprietà letteraria riservata #


Giuseppe Santucci

L’ultimo volo

Per uno che ha viaggiato tanto non dev’essere semplice ricominciare tutto da fermo. Con tutti quei posti e quella gente vista, dev’essere un supplizio non indifferente starsene seduto dietro una finestra ad osservare le nuvole imitarti e continuare un itinerario per chissà dove. Quanto possono bastare i ricordi, le fotografie della memoria? Una mappa da ricoprire con piccoli semini per ripetere tutto il tragitto. Gli aerei, le scale, i voli spettacolari, i colori, le infinite forme delle cose, gli amici, gli odori e i profumi, il cibo in abbondanza. Che strano, è come sentirsi delle ali addormentate sul dorso, incapaci di continuare ciò che forse eri riuscito appena appena ad imparare. I tuoi piccoli occhi potevano arrivare a vedere ovunque al di là del tuo semplice desiderio. I soldi no, quelli non sono mai stati vitali per te. Potevi permetterti di scegliere un luogo, uno qualsiasi che preferivi o che ti incuriosiva, e ci volavi con gioia e spirito di avventura. E poi? Chissà, forse un volo programmato male, un posto che non avresti dovuto visitare. E’ strano, fuori da questa finestra non riesci a vedere che un infinitesimo di tutto ciò che hai avuto la fortuna di sorvolare. Ogni tanto qualcuno ti porta da mangiare, ti parla, pulisce distrattamente il piccolo posto dove vivi, ti osserva ammirato e stupito con altre presenze a te sconosciute. Tu ti giri appena, triste, malato, senza più colore. E al comando che ormai da un po’ conosci alla perfezione, ti dondoli e canticchi gracile, a fatica, ma da bravo pappagallino.


#proprietà letteraria riservata#


Luca Brumurelli

Ultima aria

La distesa blu notte è interrotta a perdita d’occhio da creste spumose sferzate dal vento, decine di arcobaleni guizzano spinti da raffiche ghiacciate. Gocce sottili come spilli mi bagnano il viso e l’uniforme: in piedi ritto nel mezzo del piatto isolotto respiro l’aria carica di salsedine. Scatto sull’attenti, il generale mi fissa severo, la grossa automatica nichelata che porta al fianco manda lucidi bagliori di morte. -Hai compiuto il tuo dovere? Cerco di rispondere, voglio che sappia il perché di tutto questo ma le parole non escono, inchiodate nel buio dell’anima. Il generale sorride. -So che lo hai fatto, tutti noi siamo fieri di te. Si avvicina sollevando una mano, la medaglia brilla nell’aria carica di umidità. Ho uno scatto improvviso all’indietro. -No! Lasciami in pace! Il freddo mi fa lacrimare gli occhi, il vento si insinua sotto la divisa azzurra, rabbrividisco conficcando le unghie nella pelle. La donna e la bambina si tengono per mano, muovono le labbra ma nessun suono rompe il fischio della tempesta. Cerco ancora una volta le parole, tendo le braccia in avanti le palme rivolte verso l’alto, il sangue gocciola sul terreno roccioso. La donna e la bambina annuiscono lentamente, un vago sorriso illumina i visi devastati. Mi aggrappo con forza a quel sorriso, forse potrò riposare.

I due uomini in camice bianco osservano il vecchio disteso nel letto, il più giovane solleva lo stetoscopio dal petto raggrinzito. -E’ la fine, non passerà la notte. Il colonnello medico si avvicina e prende il polso con delicatezza controllando le pulsazioni. -Ora sembra più tranquillo. Le rughe sul viso del vecchio si distendono, le labbra si aprono lentamente ad assaporare l’ultima aria; sul comodino alla destra del cuscino sei giovani in tenuta di volo sorridono all’obbiettivo in una foto d’epoca, alle loro spalle la scritta ” Enola Gay ” scintilla sulla fusoliera del mastodonte d’acciaio.


#proprietà letteraria riservata#


Umberto Bertani

L’ultimo volo

aeroloopingA quest’ora la sabbia dovrebbe essere tiepida, ma i miei piedi nudi non se n’accorgono nemmeno perché non percepiscono niente.

Talvolta ti scorgo in lontananza mentre corri sulla spiaggia di notte. Elegante e fugace. Il tuo pareo è ancora sommariamente annodato sul fianco. E sotto il drappo rosso indossi ancora il tuo bel costume azzurro intriso di salsedine. Ormai asciutto.

I sogni sono degli squarci sul mondo della verità.

La morte è un sogno interminabile.

Intorno a me c’è tanta acqua blu e profonda. Trasparente.

Il tempo è sospeso. Non vedo mai il sole.

Spesso compare la luna, e le nuvole si tingono di bianco-neve. Mentre la spiaggia diventa un incanto desolato e nostalgico.

“Abbraccia la mia anima e proteggila dalla sofferenza. Come facevi un tempo”. T’imploro.

Percorro miglia e miglia di tiepida sabbia avendo tuttavia la strana sensazione di restare fermo. Nella consolazione d’una vita difficile e durissima, densa d’affetti e di poesia, ho fatto di tutto per ritrovarti.

Di tanto in tanto m’appari. Ora là, dietro i cipressi. Ora qua, sul bagnasciuga. A volte mi sembra d’intravedere la tua figura amata sullo specchio di mare blu. Mentre cammini sull’acqua.

Ma ormai è tardi. Io abito qui, in questa casa di sogno. Ogni volta è più bella, sempre diversa, sempre più ricca e spaziosa.

Le stelle per soffitto, l’aria per pareti, la spiaggia per pavimento. Il mare sullo sfondo. Io sto qui, su questa spiaggia sterminata, ovattata e priva di suoni. Accanto al mio velivolo spezzato.

Quando ti vedo passeggiare sulle onde intuisco una melodia che non riesco a sentire. E immediatamente la tua immagine svanisce fra le onde come la musica di uno stereo rotto si spegne nella camera da letto.

Più in là, oltre la spiaggia, filari di cipressi alti e verdi ondeggiano alla brezza di questo crepuscolo perenne.

Campi sterminati di lapidi, attorno ai cipressi, si perdono lontano fino all’orizzonte infinito. Sto qui da solo, in compagnia del tuo bianco foulard di seta indiana. Unico cimelio del nostro ultimo volo. Magicamente il mio pensiero tende a trasformarsi in azione, e torno a quella notte.

Il volo radente sulla sabbia e sul pelo del mare fino a sfiorare l’acqua. L’ala destra inclinata per infilarmi nel solco disegnato dall’onda. Alti spruzzi d’acqua salata sollevati dal ruotino di coda.

“Guarda verso dritta, – ti sento gridare – la luna sta nascendo sul mare”. “E disegna un’incredibile scia d’argento sull’oceano di notte”. Penso nella foga del volo acrobatico. Trasformo mille figure d’alta scuola con elegante bravura. “Ti amo”. Urli nel vento. “Come?” “TI AMO…”. Urli più forte.

Ti avevo sentito benissimo, ma volevo sentirtelo dire di nuovo.

Scivolo lievemente d’ala a sinistra e poi a destra, per attenuare un po’ la tensione delle violente accelerazioni acrobatiche. Ma subito dopo… motore avanti tutta con manetta a battuta. Quattromila giri sul motore stellare. Velocità da capogiro. Elica al passo alto per mordere aria e acqua contemporaneamente. Ora metti la pallina al centro e tieni l’aeroplano livellato mentre raggi lontani di luna sul mare s’intrecciano col biancore del tuo magnifico foulard. Il motore romba dentro il rosso biplano e mi rimbomba nel petto in sintonia col cuore in tumulto di passione. Per il volo e per te.

Amore e volo!

Sono felice.

Una leggera virata a sinistra cabrando lentamente per guadagnare quota. Livellamento a quattrocento metri e poi giù per trasformare la quota in velocità. Un looping a cerchio perfetto si disegna nel cielo della notte stellata.

Ora immagino la sabbia calda sotto i tuoi piedi nudi. E mi sembra di volare ancora nella scia del tuo profumo di gelsomino. Il vento m’inebria della tua fragranza.

Sono un pilota in gamba. Sono il migliore. Tonneau a bassa quota a pelo d’acqua. Volo rovescio sulla spiaggia. Ala destra tra due lunghi filari di cipressi. Cabrata a candela. Picchiata da brivido. Impennata con avvitamento verticale. Vite a caduta libera con giri infiniti. Otto lento. Virata di scampo. Volo lento con tutto fuori.

Librarsi sul mare blu… è come fermare il tempo.

Non ho mai volato da solo. O con te immaginata nel sedile anteriore o con la bottiglia sul cruscotto. Ti portavo con me anche quando non c’eri.

Quella notte ero più ubriaco del solito. Di vino, d’amore e di volo.

Ti sollevai per sistemarti sul mio rosso biplano. Davanti. Al posto d’onore. T’avrei dato il battesimo dell’aria. Finalmente insieme. Liberi nel cielo di sera, nel blu profondo e terso.

Io sono un bravo pilota. Ho le ali disegnate addosso. Ho compiuto mille imprese memorabili.

Ma giunse il tempo della congiunzione fatale. Il volo e l’ebbrezza non si combinano insieme. Tante volte sono andato in volo in compagnia della bottiglia. Ogni volta che non potevo averti. Mi vantavo di saper mantenere le ali livellate o di virare in modo perfettamente coordinato tenendo la bottiglia costantemente incollata sul cruscotto.

Tu avevi gli occhi dell’amore. Io le ali disegnate sul corpo. Il motore nel petto. La potente elica a passo variabile nel pensiero.

Io sono potente come il mio aeroplano.

Ma la notte s’illuminò di stelle. E i suoni scomparvero improvvisamente.

I morti vedono Dio ma non possono vedersi tra loro. Questa è la mia condanna in questo limbo. E’ la fine del tempo.

Questo spazio di lapidi e di cipressi sembra sterminato perché forse non c’è. Il mare, la spiaggia, tu… probabilmente siete solo nella mia mente. I vivi sono altrove. Nel tempo e nello spazio.

Questa non è una vita alternativa. Non ho più il mio biplano.

Questo è l’altro mondo. Un istantaneo sogno lunghissimo, una sensazione dolce e pungente, una sospensione del tutto nel niente, una dimensione senza spessori.

Qui dentro il dritto è uguale al rovescio, il dentro assomiglia al fuori, il veloce appare lentissimo.

Miglia e miglia di volo in un solo momento.

Credevo di ritrovarti qui. Pensavo che fossi tu a venirmi incontro. Tutte favole da vivi!

In quest’orto suggestivo, di fiammelle sempre ardenti, una pace di silenzi si alterna a percezioni sempre nuove. E sorprendenti. Noi siamo condannati a vagare su questa spiaggia per l’eternità perché siamo morti senza sepoltura. Questo è il limbo dei piloti. Un mondo traslucido di sensazioni, senza dolore e senza gioia.

L’ironia vuole che a pochi passi da qui c’è un grande cimitero. Ti ho dato il battesimo del volo e anche la morte.

Sono un grande pilota.

Il rimorso mi accompagnerà perennemente per averti separata da me e dal mondo per sempre.

Ho cominciato a sognare da bambino. Dapprincipio erano sogni spaventosi di cadaveri nei cassetti e acqua minacciosa. Ma poi sorsero bellissime cattedrali e dolci colline silenziose. Ho visto l’inferno e il paradiso. Ma questo è un luogo d’indifferenza. Creato per chi non ha grandi meriti né colpe gravi. Qui non c’è luce perché manca il buio su cui appoggiare i raggi luminosi.

Tutto è pervaso da un perenne crepuscolo.

Quello che i vivi non sanno è che si può morire migliaia di volte nell’arco dell’intera esistenza. Si muore ogni volta che si dorme e si sogna.

La vita è una condizione mentale, mentre la morte è una condizione totale. Quando si sogna si esce dalla mente e si entra nell’altro mondo.

Quando si muore si esce da tutte le possibilità. E si entra nell’assoluto.

L’ala destra nell’onda. L’ala sinistra fra i cipressi. Volo radente sull’acqua salata. Volo rovescio sulla sabbia. Vite stallata a spirale. Richiama! Non lasciarti tentare dal gioco della rimessa all’ultimo momento. Sono già morti troppi piloti dopo cinquanta giri di vite. E’ pericoloso. Richiama più in alto. Datti una possibilità.

Ma io sono il miglior pilota del mondo.

L’impatto fu inevitabile. E ti persi per sempre fra le onde giocose di questa tiepida spiaggia. In una notte memorabile d’amore e di volo.

Ai piloti dell’Aviazione dell’Esercito


#proprietà letteraria riservata#


Luca Brumurelli

L’ultimo volo

biplano superacrobatico“Le stelle per soffitto, l’aria per pareti, la spiaggia per pavimento …” e ancora: “Quattromila giri sul motore stellare. Velocità da capogiro. Elica al passo alto per mordere aria e acqua contemporaneamente …”.  Che dire? Un ultimo volo non può essere che così!? Un racconto poetico dall’epilogo tragico.


Racconto / Medio – breve Pubblicato nel sito: Narrare e E-writers.