Tiberio

Erano trascorsi già quattro anni da quando Tiberio aveva inaugurato la sua base per elicotteri e di velivoli da allora ne erano atterrati tanti.

Tempo addietro, quando gli capitò l’occasione di acquistare la casetta dove abitava, era rimasto entusiasta nel sapere che con essa sarebbe diventato proprietario anche dell’appezzamento di terra antistante: avrebbe potuto coltivarvi un magnifico orto!

Dopo aver dissodato finemente il terreno vi aveva tracciato i solchi che avrebbero ospitato semenze di ogni varietà: pomodori, lattuga, rucola, ravanelli … nulla sarebbe mancato. Ogni giorno con reiterata solerzia innaffiava la sua terra e strappava le erbacce, sbirciando con impazienza i germogli spuntare.

Le piante sembravano ripagare le attese del loro padrone; senonché dopo appena una decina di giorni Tiberio le trovò tutte appassite. Riprovò più e più volte. Inizialmente i semi sembravano intraprendere un florido rigoglio, ma dopo pochi giorni non restava che terra brulla. Fu così che dopo ripetuti e vani tentativi si risolse ad abbandonare il suo intento.

Fu un suo vecchio amico a suggerirgli un uso più attuale di quel terreno: “Perché non ne fai un’aviosuperficie? È meno laborioso e ne ricaveresti un discreto guadagno”.

Dopo molti dubbi e ripensamenti abbracciò il consiglio disinteressato e in poco meno di due mesi la pista fu pronta. Le voci della sua apertura si diffusero velocemente e Tiberio scoprì che esisteva un traffico aereo non indifferente. Casa sua divenne presto approdo e punto di riferimento per tutti i  velivoli della provincia e non passava giorno che l’aria non venisse attraversata dal rumore delle eliche.

L’atteggiamento riluttante dei primi tempi si tramutò presto in una lieta attesa dei viaggiatori del cielo: ognuno di loro aveva una storia da raccontare, e se talvolta qualcuno si chiudeva in un avverso silenzio, era bello poter anche solo immaginare gli accadimenti celesti che aveva vissuto.

“Da tali altezze si perde la percezione dei piani … acqua terra e aria appaiono come un unico strato”, gli era stato detto più volte. Tiberio ascoltava affascinato quei racconti sul cielo, ma nonostante gli inviti dei piloti, aveva sempre rifiutato di volare, preferendo la sicurezza di quella terra che seppur a tratti sterile, gli dava gioia e lo rassicurava.

                                                            ***

Un’altra giornata era quasi giunta al termine e  non erano previsti altri arrivi.

Tiberio si sedette sulla terrazza più alta del vigneto che ormai non produceva che qualche stringa d’uva, e si mise a guardare il cielo, su cui di lì a mezz’ora avrebbe dominato il rossore del tramonto. L’aria autunnale aveva già lasciato il posto ad un venticello nevoso, e questo gli riportò alla mente il resoconto di uno scrittore che l’anno prima era atterrato alla sua base.

Il sole iniziava a nascondersi e gli ultimi tralci di luce colpirono l’orizzonte dei suoi occhi.

 “Esiste veramente”, aveva esordito lo scrittore, “non farti incantare dal mio modo romanzato di raccontare. E’ realtà. “Una grande montagna svetta sul lato orientale di un’isola” e il fiato gli si interruppe per l’emozione del ricordo.

 “Ha le sembianze di un volto disteso, sguardo intenso rivolto al cielo… vi si distingue il naso longilineo e la guancia tonda che digradando si unisce alla linea della fronte.  Quel giorno la superficie era innevata e percorsa da scie di nero lavico che in prossimità delle cavità degli occhi disegnavano righe quasi di pianto”

La sera era giunta e con essa un’umidità penetrante.

“Una faccia muta intenta in ogni tempo a guardare il cielo. Attorno ad essa si estende un paesaggio che l’occhio non riesce ad abbracciare per intero se non sfocatamente… fichi d’india, ginestre, i resti di un acquedotto romano, case sparse”.

Tiberio abbandonò il suo posto sul monte. L’aria umida aveva ormai coperto d’acqua ogni filo d’erba, e il pensiero di un camino frigolante lo invitava a rientrare in casa.

 “Il giorno della partenza l’isola fu scossa da boati che attraversavano le viscere della terra  –‘A Muntagna iè’- mi disse il pilota- ‘c’avi quarchi cosa ra rire’-. Avrei finalmente potuto osservare il gigante montuoso dall’alto, abbracciarlo nella sua pienezza e fissare i miei occhi nei suoi.

Quando decollammo era già l’imbrunire, mi sentivo agitato, impaziente. La Montagna stendeva il proprio manto roccioso come un’ampia gonna spiega le sue balze. Ad un certo punto vi fu un boato più forte ed il vetro si colorò di una sabbia nerastra; potevo intravvedere ancora i fiotti di lava uscire dalla bocca centrale di quel gigante, il fiume caldo raggiungere le pareti concave degli occhi e da questi colare lentamente lungo le rughe dei fianchi”.

Tiberio mise le scorze del mandarino sulla brace del camino: l’odore agrodolce unito al calore gli fece lacrimare gli occhi e gli riportò alla mente quelli altrettanto lucidi dello scrittore, che a quel punto aveva interrotto il racconto ed alzato lo sguardo nello sforzo di contenere la commozione.

La mattina dopo Tiberio comunicò che per quel giorno la base sarebbe rimasta chiusa. Solo un elicottero atterrò. Respirò a fondo, pensò al Gigante e salì.

Quei racconti che aveva ascoltato per anni, divennero ad un tratto i suoi stessi pensieri.

Ti chiedi se sei ancora in vita…

 Il bianco si accalcava sul finestrino e diradandosi si apriva su una distesa di nuvole su cui torreggiavano morbidi iceberg.

Gli occhi mi si chiudevano e un torpore accompagnava la mia morte indolore.

Cercavo di restare vigile per non perder nulla di quel biancicoreo mondo. Le nubi più leggiadre sorvolavano i banchi di nuvole che galleggiavano compatti sul mare celeste.

Il senso di stanchezza aumentava all’innalzarsi dell’altitudine. Sentivo le palpebre diventare sempre più pesanti.

Respirai profondamente e chiusi gli occhi.

 

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Elena Cantarella

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