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Donaldo di Cristofalo

jet musoneGeologo, vive e lavora a Termini Imerese (Pa). Ha cominciato a volare con gli ultraleggeri per poi transitare in Aviazione Generale, prendendo il “brevetto” di II grado all’Aero Club di Palermo e mantenendolo in attività per cinque anni circa. Dopo, vittima come tanti degli insostenibili costi … Adesso si accontenta di qualche sporadico volo in ULM, di divorare riviste e libri e di frequentare, ovunque possibile, manifestazioni aeree.



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Nel sito sono ospitati i seguenti racconti:


7500

7500

Jumbo in turbolenzaRacconto di fantasia sulla sindrome da terrorismo non estranea al nostro momento storico.

 



Narrativa / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla III edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2015; in esclusiva per “Voci di hangar”

Settemilacinquecento

Il clangore del traffico sulla circonvallazione sembra amplificato dal calore esalato dall’asfalto, finestrini chiusi su aria climatizzata, da quei pochi aperti braccia penzoloni, pacchiani bracciali d’argento e musica neomelodica a palla.

“Sconti fino al 70%!” gridano i cartelloni pubblicitari 3×6 disposti a spina di pesce sul bordo stradale, dietro guard-rail coperti di vegetazione infestante. Dal sovrappasso sventola un lenzuolo ormai logoro con la scritta Deborah ti amerò per sempre e non si capisce se è un addio per una prematura dipartita o una illusoria promessa. Un’orchestra di clacson sancisce lo scatto del verde al semaforo e cento occhi abbandonano l’ultimo modello di lingerie della réclame per puntare sui pochi spazi liberi tra autocompattatori dalla scia vomitevole, Apecar adorni come carretti siciliani e vecchie Peugeot diesel spompate e fumanti, stracariche di merce di extracomunitari. Le poche uscite dalla tangenziale non alleggeriscono la massa di automezzi che esce dalla città, stretta nel collo di bottiglia tra la montagna ed il mare. Poi subito in vista, dietro la cortina di orribili case abusive, il profilo dell’Isola delle Femmine, e là in fondo, come un’oasi ristoratrice, Punta Raisi.

E invece l’aerostazione è sgradevole, gli spazi appaiono sempre insufficienti rispetto alla massa di passeggeri che vi si aggirano sempre un po’ smarriti. Alcuni sembrano sollevati per il solo fatto di essere arrivati in orario, risolvendo in qualche modo le incredibili difficoltà di chi ha scelto di lasciare la propria auto in uno dei parcheggi, dai quali si esce solo scavalcando barriere, dissuasori e transenne varie. Sembrano dirti: “Devi proprio viaggiare in aereo?”

“Ouh … sì, sono all’aeroporto, tutto a posto. Il solito casino … sì, anche a Venezia è previsto bel tempo, ma freddo, puoi immaginare. I bambini? … bene, ok, ti richiamo all’arrivo, … un bacio, ciao … ciao.”. “Un decaffeinato, per favore … no, grazie, niente cornetto.”

I pochi punti di ristoro rifilano panini insapori con assurdi nomi e cornetti surgelati a prezzi da rapina, i bagni sono perennemente in pulizia, non si può entrare, “Vada all’altro là in fondo”. Ti capita di vedere delle hostess che hanno perso la loro aura di bellezza irraggiungibile, quelle belle gambe fasciate da seriche calze, ora c’è sempre un dettaglio fuori posto, un piccolo difetto che prima avrebbe decretato la loro esclusione, sempre più spesso indossano pantaloni. I controlli di sicurezza poi sono ridicoli, qui di una superficialità imbarazzante, altrove di una irragionevole e gratuita villania. Gli aerei infine, con quei sedili non più reclinabili, l’impossibilità di allungare le gambe o aprire un giornale, il personale di bordo che vuole rifilarti un gratta e vinci. Eppure.

Eppure per Max – si presenta così mentre sulla carta di identità è Massimiliano Pio -, che vola per lavoro ma che di volo è appassionato, che non dorme mai a bordo, che cerca sempre di avere un posto lato finestrino, che si gode i decolli e gli atterraggi, che non si perde l’attimo in cui l’aereo, in salita, sbuca dalle nuvole, o vi si immerge in discesa, che qualche cosa conosce di questo mondo, non si lascia deprimere, quando non è impegnato sul suo laptop a preparare la prossima virtuale esibizione dei prodotti che rappresenta in giro per l’Italia, osserva la varia umanità che transita nell’area partenze o al gate in attesa dell’imbarco, li cataloga, si misura a classificarli. Quelli che fanno un lavoro come il suo, facilissimi da riconoscere, le eleganti coppie mature che si possono permettere di andare a vedere l’ultimo vernissage a Milano, quelle più nervose che devono consultare, magari sempre a Milano, un medico specialista. I ragazzi con immancabile zainetto e smartphone in perenne attività, che vanno o vengono da un Erasmus. L’anziana dalla parlata dialettale dell’entroterra che telefona in continuazione ripetendo informazioni di partenza e arrivo, con finali baci per tutti, che mostra una discorde dimestichezza con i viaggi aerei. Lui evita accuratamente di mangiare in aeroporto, neanche a parlarne in aereo. Peraltro i voli “domestici” si risolvono in un massimo di un paio d’ore, c’è di che organizzarsi, e non certo per ultimo lo stipendio è quello che è.

Max è un “frequent flyer”, o meglio: lo era. Ha fatto viaggi gratuiti con i punti accumulati, ha ricevuto anche graziosi gadget, è persino riuscito a farsi ammettere un paio di volte in cabina di pilotaggio. Poi le cose sono pian piano cambiate, ha dovuto dimostrare di volare al prezzo più basso, ha accettato a malincuore i voli low cost, gli orari impossibili, le hostess bruttine, gli aeroporti più distanti dalle città. Eppure va bene così. Fa un lavoro che tutto sommato lo soddisfa, uno stipendio dignitoso, dormire fuori casa come un pilota di linea – la mette così, è meglio – e viaggiare tanto in aereo.

E’ comodamente seduto aspettando la chiamata del volo, un Palermo-Venezia schedulato per una durata di un’ora e quaranta, anche se lui sa già che durerà meno, anche venti minuti meno, i flight dispatchers delle compagnie si sono attrezzati per evitare ritardi all’arrivo, suona male, le statistiche possono deprimere la domanda, per non parlare di eventuali rimborsi.

Il volo non sarà affollato, ha imparato a stimare il numero dei passeggeri e a confrontarlo con la capacità del velivolo. Non più di cento, centodieci persone per i 190 posti circa dell’aereo, un Boeing 737-800. Meglio così, meno confusione. Nessun bambino, pochi ragazzi non giovanissimi, saranno tutti immersi nelle loro cuffie e nei loro aggeggi elettronici rigidamente in modalità “aereo”.

Ci sono due, no tre giovani di colore, nordafricani si direbbe, maschi, in abbigliamento dimesso ma pulito, ingombranti giubbotti invernali, adatti alla stagione e a Venezia. Non sono assieme, due sono seduti lontano uno dall’altro, il terzo è in piedi e parla concitatamente al telefonino, in una lingua incomprensibile, arabo forse. Non li aveva visti ai controlli, sono arrivati al gate dopo di lui, assieme ad altri ritardatari. In ogni caso ancora non ci si imbarca, mentre scorrono i primi minuti di ritardo. Con l’unghia spropositatamente allungata del mignolo sinistro si tocca distrattamente le sopracciglia scolpite.

Squilla il suo di telefono, all you need is love, dei Beatles. “… pronto? Daniele! Carissimo, come stai? … sì sono informato, nessun problema, ho portato il preventivo aggiornato … no, qua sembra tutto più o meno a posto, non indicano alcun ritardo …. ah, mi confermi che non saremo soli? … (abbassando la voce) Bastardo! Pure svedesi le trovi! Bravo, a dopo, ciao.”

Max non crede di essere razzista, il suo lavoro lo porta ad incontrare gente delle più svariate provenienze, e poi il fatto di essere meridionale gli impone un pregiudizio di vittima di pregiudizi, ripetutamente smontato da quelli che sembrano ottimi rapporti professionali e personali che è riuscito a crearsi nell’intero nord Italia. “Certo, tutti questi immigrati che arrivano in Sicilia, non si parla d’altro”. Lui ha sempre la stessa risposta – Non si fermano da noi, vogliono venire qui al nord, cazzi vostri! –

Non riesce comunque a staccare gli occhi dal ragazzo al telefonino, con quei suoni espirati e la cadenza frenetica della voce. Degli altri due, uno è piuttosto vicino, ma non dà segni di interessamento, pur udendo di certo la conversazione o una metà di essa. La telefonata finisce e il giovane, scambiata un’occhiata con il più vicino degli altri due, viene a sedersi proprio di fronte a Max.

Un’occhiata all’orologio, già 15 minuti di ritardo. Uno sbuffo di impazienza, poi di nuovo ad osservare il ragazzo di colore di fronte. Non ha bagaglio, ora che ci pensa nessuno dei tre ha bagaglio. Ha lo sguardo perso nel vuoto, le mani sulle ginocchia, un tic nervoso al piede destro. Il giubbotto chiuso fino alla gola.

Max si alza e trascinandosi dietro il piccolo trolley si muove in direzione del gate, dove è comparso un addetto con tanto di radiotelefono gracchiante. Ha ottenuto un posto finestrino, ma sopra l’ala destra. Va bene comunque, i movimenti delle varie superfici mobili, flap, diruttori, ipersostentatori e deflettori in decollo e in atterraggio sono interessanti. Il seggiolino accanto al suo rimane vuoto, mentre il terzo, vicino al corridoio, viene occupato da un signore anziano che si immerge subito nella lettura di una rivista di tatuaggi.

Dei tre ragazzi nordafricani uno, il “telefonista”, è ben in vista poco più avanti, sulla sinistra, vicino al finestrino, un altro è sul posto immediatamente dietro l’appassionato di tattoo, il terzo non si vede, sarà da qualche parte davanti. Il decollo e la salita alla quota di crociera sembrano fatti su una rotaia, né una scossa né una correzione di assetto, il cielo è terso e il sole è accecante. Max è costretto a guardare dentro.

Il “telefonista” si è spostato sul sedile lato corridoio. Non si è tolto il giubbotto. Max guarda sopra la sua spalla sinistra, anche il secondo ragazzo non si è tolto il giubbotto ed è intento a cercare qualcosa con lo sguardo in avanti, lungo il corridoio.

– Ok, che cavolo vai cercando, che ti vuoi inventare? – pensa Max mentre un brivido lo attraversa. – Hanno i giubbotti perché sentono freddo, dopotutto vengono da paesi caldi. Non hanno bagaglio a mano, ne avranno avuto da imbarcare. Non sono assieme, non si conoscono, e allora? Per imbarcarsi hanno fatto i controlli di sicurezza, è tutto a posto.-

– Certo, a Palermo non è che siano così meticolosi. Chissà cosa passa prima. Li avranno pur fatti spogliare, quindi niente giubbotti esplosivi. Coltellini di plastica? Fili metallici, cos’altro? Magari una pistola in ceramica, come si chiama, una Glock. – Ecco, ora anche il terzo ragazzo è in vista, si è alzato da una delle prime file, guarda indietro, lungo il corridoio e poi si dirige verso la cabina di pilotaggio. Indossa il giubbotto.

Occhiata sopra la spalla e poi davanti.

I due ragazzi seduti lo stanno osservando entrambi. Nel passetto prima della cabina di pilotaggio un’hostess intercetta il giovane, un breve scambio di parole, poi questi si infila nella toilette. Ora Max è veramente agitato, cerca di non darlo a vedere e si volta a guardare fuori, quel cielo azzurro, scuro in alto, il sole abbagliante. –

Ragioniamo, ammettiamo per gioco, ancora il volo è lungo, che ‘sti tre vogliano fare qualcosa, un dirottamento o un attentato. Attentato no, escludiamolo subito, se metti una bomba, al momento giusto la fai esplodere e amen. Un dirottamento. Prendere il controllo dell’aereo. Gesù, per farci cosa? Fra non molto dovremmo essere all’altezza di Roma. Il Vaticano! Quante volte, anche ultimamente, gli integralisti hanno minacciato i luoghi simbolo del cristianesimo? Se hanno colpito due volte un grattacielo, non dovrebbe essere difficile colpire Piazza S. Pietro. –

– Che stupido! Ormai le cabine di pilotaggio sono ermeticamente chiuse, a prova di proiettile credo. – – Sì ma la hostess è già entrata un paio di volte, si fa aprire, porta da bere … – – Bene, se volevo spaventarmi, ci sono riuscito. –

Il ragazzo seduto più avanti, il “telefonista”, si alza e si avvicina, passando accanto al terzo gli sussurra qualcosa e prosegue verso la coda.

Max non si azzarda a girarsi, non intende certo metterli in allarme. Intanto la hostess ed uno stewart cominciano a distribuire bibite ed altro, col loro carrellino, avanzando da prua. Che fare, dire qualcosa, ma uno di quelli è alle sue spalle, sentirebbe. E poi dire cosa? – Sentite, sono certo che a bordo ci sono tre terroristi -, oppure: – Signora, la prego non entri in cabina di pilotaggio per alcun motivo -.

La hostess non è giovanissima e questo sembra giovarle, i lineamenti sono definiti, il trucco ormai sicuro, ma l’atteggiamento professionale è poco filtrato, il sorriso assolutamente posticcio. Incrocia lo sguardo di Max e si appresta a risolvere ogni problema, poi vi coglie un imbarazzo diverso e il suo livello di attenzione cambia, comincia rapidamente a elencare mentalmente evenienze più rare cui far fronte, malesseri, strane rimostranze, richieste inusuali.

“Posso aiutarla, desidera qualcosa?”. L’approccio è garbato e generico, in modo da concedere al passeggero ogni possibile uscita dall’impaccio.

Volevo chiederle … sarebbe possibile visitare la cabina di pilotaggio?

“Lei è un pilota, o cosa?” è la risposta sulla difensiva dell’hostess.

Con un sorrisetto impacciato: “No, sono solo un appassionato.”

“Mi spiace, le regole della Compagnia non consentono …”

“Ma non è il comandante che decide?”

“Mi spiace …” conclusiva.

“Senta, può dire al comandante che ho un codice, 7500, magari mi fa entrare …”

“… un codice? Della compagnia?”

“Sì, sì, certo, della compagnia. Settemilacinquecento, la prego!”

“… non mi risulta, non credo …”, e si allontana verso prua.

Un’occhiata gli conferma che il ragazzo di colore seduto dietro lo sta osservando con insistenza, si costringe a non arrossire. Anche l’anziano accanto ha chiuso la rivista e lo guarda di sottecchi. L’hostess sta parlottando al telefono e sbircia verso di lui.

Il ragazzo dietro si è alzato, passa accanto, lo fissa per due secondi e poi procede, armeggiando nelle tasche del giubbotto. Max sta somatizzando l’angoscia che lo pervade, si toglie la giacca, si alza sul posto e si guarda attorno. Chi può coinvolgere? L’anziano appassionato di tatuaggi? Figuriamoci! Lo stewart che staziona in fondo alla carlinga sta rispondendo al telefono e sembra osservarlo. A prua due dei ragazzi di colore sembrano discutere col personale di cabina. Cristo! Stanno per agire!

“Ma nessuno vede niente!!” il grido erompe incontrollato, seguito dal solo rumore sommesso dei propulsori, mentre i passeggeri nel raggio di cinque metri si voltano a guardare, incuriositi. Qualcuno preme il tasto di chiamata, proprio mentre si accende il segnale di allaccio delle cinture e viene annunciato l’inizio della discesa verso Venezia. Max si accorge solo ora che da un pezzo hanno superato Roma ed anche l’Appennino, ma questo non lo calma, anzi.

– Certo, lo faranno ora, appena scesi di quota, con la laguna in bella vista, puntare la città sarà uno scherzo e poi cosa, di sicuro piazza S.Marco, gremita come sempre di turisti, un simbolo dell’occidente cristiano marcio e depravato – i pensieri di Max ormai viaggiano come su un binario ben oleato, mettendo in fila tutti i tasselli di un evento già scritto, alimentato da mille informazioni multimediali sedimentate.

Si alza mentre l’aereo attraversa un banco di nubi, scurendo la luce all’interno della cabina – Dobbiamo intervenire ora, come avevano provato a fare troppo tardi quelli del volo UA93, tutto sommato sono solo in 3, possiamo sopraffarli –

“Si metta a sedere!”. Lo stewart in coda lo addita, mentre da prua arrivano l’hostess ed uno dei ragazzi di colore …

“Dobbiamo fermarli!” grida Max indicando il ragazzo. “Ce ne sono altri due, bisogna bloccarli!”

Un lamento multitonale di stupore e di paura si solleva dai passeggeri, molti dei quali stentano a realizzare la situazione. “Torni al suo posto!” anche l’hostess lo addita, il volto fiammeggiante.

“Perdio! E questo non lo vedete!” indicando a sua volta il ragazzo di colore che gli si avvicina.

Ora i passeggeri sono prossimi al panico, si sente qualche grido soffocato, mentre l’aereo effettua una virata poco coordinata, evidentemente in manuale, che fa traballare tutti quelli che sono in piedi. Max è madido di sudore, prova a riflettere sul passo successivo da fare, ficca una mano in tasca alla ricerca del fazzoletto, un gesto che viene accolto da una bordata di urla dei passeggeri vicini, oramai terrorizzati.

Rimane con la mano in tasca mentre qualcosa lo colpisce sbattendolo a terra sullo stretto corridoio. Un forte dolore alla spalla e il pensiero – Gesù, quel porco mi ha sparato, quindi aveva la Glock di ceramica! –

Le grida continuano indistinte mentre Max sente adesso un gran peso su di sé – sto morendo … – e una voce all’orecchio con uno strano accento: “Sta bono e non ti movere!”.

Una mano gli si infila dappertutto – forse cercano la ferita per bloccare l’emorragia – poi di nuovo un lancinante dolore alla spalla, le braccia ritorte all’indietro, qualcosa di sottile gli serra le mani.

Sente distintamente l’hostess, qualche metro dietro “Kevin … chiama il comandante all’interfono … digli che l’Interpol lo ha bloccato, può comunicarlo a terra e procedere all’atterraggio”.

Max si sente sollevato, dunque l’attentato è stato sventato, il terrorista – uno!? – bloccato, lui è stato ferito, lo stanno stabilizzando – buon Dio, ho salvato Venezia! –

Quando lo trascinano fuori, lungo la scaletta, lo accoglie una pioggia fredda e pesante. Il dolore alla spalla è diminuito e un solo chiaro pensiero gli attraversa la testa, per il resto confusa – ma come, non era previsto bel tempo? –


 

 

 

Note dell’autore 7500. E’ il codice internazionale che convenzionalmente indica, inserito nel transponder di bordo, “dirottamento” o “bomba a bordo”. Quando il radar secondario dei servizi di controllo del traffico aereo irradia il velivolo ne ottiene una serie di informazioni, tra le quali il codice digitato dai piloti appunto sul transponder.

UA93. United Airlines 93. Era il nominativo del volo coinvolto nei fatti dell’11 settembre 2001 che verosimilmente doveva schiantarsi sulla Casa Bianca. Le ricostruzioni effettuate sulla scorta dei dati radio e telefonici e relativi a quel volo indicano che un certo numero di passeggeri, realizzato il pericolo, si organizzarono per attaccare i dirottatori ai quali non rimase che schiantarsi al suolo, 240 chilometri (pochi minuti di volo) da Washington.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Donaldo di Cristofalo