La fiamma e la falena

L’aurora faceva capolino fra le cupe nuvole di peltro e di acciaio mentre una pioggia leggera e filamentosa scendeva penetrando tra i rami intricati e ancora nudi di un boschetto di querce. Lentamente un’aria lucida e umida incominciò a fra i tronchi scuriti per poi appoggiarsi sui rovi e sui verdi ciuffi d’erba che riprendevano a vivere nella nuova primavera che sopraggiungeva con un po’ di lentezza. Il querceto si disputava lo spazio con una piccola macchia di pini che lasciava precipitare un fragoroso torrentello assediato da pallidi ranuncoli gialli che annegavano in un campo di girasoli ancora in boccio.

Un calabrone che amava trascorrere il suo tempo svolazzando sopra ai fiordalisi che qua e là spuntavano tra i ciuffi di ranuncoli ogni tanto annegati dall’acqua adamantina e fredda del torrentello, osservò affascinato una giovane falena che si mimetizzava sulla corteccia del tronco di un pino. Era diventata indistinta, e poi, nell’atto di alzarsi in volo batté le ali tanto rapidamente che esse erano diventate vaghe come le eliche di un aeroplano e poi, d’improvviso aveva spiccato il volo allontanandosi dal pino su cui era posata. Il calabrone l’aveva guardata sentendosi incantato ed affascinato dalla grazia di quelle ali, tanto che le volò a fianco e le disse: «Mi piaci così tanto che vorrei sposarti…» La falena domandò sorpresa: «E perché vorresti sposarmi?» «Perché le altre farfalle sono troppo appariscenti e non mi sono simpatiche come mi sei simpatica tu! E poi ti confesserò che la tua umiltà mi ha colpito…» Queste parole lusingarono molto la falena dalle ali color nocciola, la fecero sentire importante e bella, tuttavia scrollando il capo rispose gentilmente: «Non so se mi sarà possibile accettare…io sarei felice ed orgogliosa di diventare tua moglie, ma non so se sia il caso…» «Perché esiti?», le domandò il calabrone sbattendo le ali in un forte ronzìo. «Che cosa ti trattiene? Non ti piaccio forse?» «No! Non si tratta di questo…Credo che sarebbe opportuno se chiedessi il permesso a mia madre.» «Perché temi tanto l’autorità di tua madre? E’ forse cattiva nei tuoi confronti?» «No, non si tratta di questo…è che sono giovane e …» «Va bene, visto che sembri temere molto tua madre,» aggiunse il calabrone con piglio risoluto e deciso, «verrò io a chiedere la tua mano.» «Non so se questo potrà servire per convincerla, lei ha sempre sostenuto che non dovrei sposarmi…» «E perché mai?» La giovane falena esitò prima di rispondere, poi, interrompendo il suo volo per posarsi sopra un filo d’erba ingiallito, aggiunse d’un fiato: «Non preoccuparti, cercherò di convincerla…non preoccuparti, vedrai che ce la faremo.» «D’accordo, vorrà dire che questa sera passerò a prenderti, prima che il sole smarrisca la sua luce nell’aria frizzante della sera io sarò da te!» «Davvero?», domandò la falena soddisfatta. «Davvero verrai?» «Certamente!», concluse il calabrone volando via velocemente e lasciando la falena sorpresa e frastornata per quanto era accaduto. Si sentiva al settimo cielo per la felicità, e quando giunse al pino dove la madre soleva riposare le raccontò tutta la storia con fare allegro e spensierato. Ma la madre non si felicitò con lei, né si rallegrò per la proposta di matrimonio del calabrone, e con tono piuttosto dispiaciuto le disse: «Tu non puoi sposare quel calabrone! Lo sai che a noi falene è severamente vietato contrarre matrimonio…» «Ma perché?», domandò la piccola falena con la delusione nella voce. «A me piace quel calabrone…è così forte, robusto, deciso…Mamma, ti prego! Permettimi di sposarlo!» «Figlia mia, io vorrei che tu fossi felice, ma sai quanto volubili siamo noi falene…siamo farfalle sciocche che si lasciano incantare e tu lo sai benissimo piccola!» «Ma a te non è mai accaduto nulla!» «No, ancora no, ma potrebbe sempre succedermi…» «Non è vero, se non è accaduto nulla fino ad ora non accadrà più, e se non è capitato a te non capiterà nemmeno a me: se mi permetterai di sposare il calabrone ti giuro che non mi lascerò attrarre nè distrarre…te lo giuro mamma!», e tanto continuò a pregare, a supplicare, a implorare, che la madre si sentì costretta a dare il proprio consenso. «E va bene!», esclamò spazientita. «Quando il calabrone passerà a prenderti gli darò il mio consenso per il matrimonio e non dirò nulla del nostro segreto…però tu non dovrai mai, mai e poi mai lasciarti attrarre e ingannare da ciò che sappiamo!» «Lo giuro mamma! Lo giuro…sarò una buona moglie e lo farò felice sì, lo farò felice!», esclamò la giovane falena fermamente convinta di quel che aveva asserito. «Lo prometto…» «Non giurare e non promettere. Quante volte ti devo insegnare che le promesse e i giuramenti sono inutili? Cerca di impararlo una volta per tutte prima che io cambi idea sul tuo matrimonio…» La giovane falena non spiccicò una parola di più, e dopo che il calabrone era passato a prenderla ottenendo l’approvazione e la benedizione della madre partì per il volo nuziale. Un volo meraviglioso dentro l’aria della sera che stava imbrunendo e annegava nel crepuscolo che filtrava nell’intricato intreccio delle querce che li sovrastavano. Al mattino seguente, mentre le ghiandaie cantavano e la timida luce dell’aurora avanzava fendendo le nuvole argentate, il calabrone e la giovane falena ripresero il dolce volo interrotto la sera precedente perché la notte era calata d’improvviso sopra il loro piccolo mondo costringendoli al riposo. I fiori dei prati rallegravano il volo degli sposi spalancando le loro corolle e il calabrone, con fare orgoglioso e sapiente, raccontava alla falena storie di api, di formiche, di farfalle variopinte e di vespe sue parenti. E volavano felici e spensierati nell’aria limpida della vallata che ogni tanto veniva percorsa da leggeri soffi di vento, mentre lo sposo insegnava alla sposa il nome dei fiori che incontravano lungo il loro viaggio: le indicò il bianco dei petali di margherita, il giallo solare dei ranuncoli, il viola slavato dell’erica che stava appassendo, e il contrastante violetto acceso e splendente delle mammole che sprofondavano dentro ai folti ciuffi d’erba bagnati di rugiada. Dopo aver volato insieme per ore ed aver visitato campi di velluto verde ripresero la via del ritorno. Giunti al loro luogo natale il calabrone incominciò a costruire un nuovo nido. La falena si sistemò provvisoriamente sulla corteccia di un pino che si ergeva a pochi metri da una casa disabitata i cui muri esposti a nord erano ricoperti di muschio e di vecchissima edera dalle foglie consunte e leggermente ingiallite. Il nido che il calabrone stava costruendo piaceva molto alla falena che pensava tra sé e sé: «Come sarò felice!», ingenuamente convinta di riuscire a sfuggire alla propria sorte. «Saremo sempre felici io e lui…sempre, sempre, sempre!» Con l’animo che traboccava di speranza incominciò a sistemare il nido in modo da renderlo più accogliente possibile; il calabrone era soddisfatto della collocazione che aveva trovato anche se avrebbe preferito andare ad abitare nei pressi della città, però la falena lo aveva pregato di non condurla a vivere in un luogo rumoroso e pieno di confusione che è tipica degli uomini, e lui, poiché l’amava infinitamente, l’aveva accontentata in tutto e per tutto. L’amava, ed amandola non desiderava altro che la sua felicità. In quella primavera gli sposi si dilettarono a volare sopra macchie di susini in fiore che dominavano giovani noccioli dalle infiorescenze pendule, lungo corsi di ruscelletti bordati da primule gialle che parevano topazi, e dentro la loro acqua fredda i ciuffi di miosotide si lasciavano frustare dalla forza della corrente che sembrava volerli strappare dalla terra. Anche nell’estate del loro matrimonio tutto proseguì magnificamente, e volando sopra il loro piccolo mondo, il calabrone non perdeva mai l’occasione di insegnare qualcosa alla sua giovane falena: le indicava il rosso sangue dei papaveri che occhieggiavano dagli umbrertosi e dorati campi di grano nei quali pareva essere sprofondato il sole, le mostrava l’azzurro del cielo specchiato nei fiordalisi e negli amorini, la fragilità dei soffioni i cui frutti sottili simili ad acheni, sormontati da un pappo piumoso a forma di ombrello, si staccavano con estrema facilità ad un lievissimo soffio di vento per poi restare sospesi in aria e vagare come farfalle, le narrò che gli uomini, scherzosamente, dicevano che sarebbe stato un bugiardo colui che non sarebbe riuscito a staccare dal ricettacolo tutti i frutti che vi si sarebbero trovati. La falena, quando non trascorreva tutto il suo tempo in volo con il calabrone si occupava delle faccende di casa e non mancava mai di fare visita alla madre per dimostrarle che era una falena saggia poiché aveva scelto di abitare in un luogo isolato e di conseguenza lontano da ogni tentazione che avrebbe potuto distrarla e ingannarla: «Vedi mamma,» era solita dire, «io voglio bene al calabrone e non lo farò mai soffrire…non farò nulla che possa dispiacergli!» Sua madre l’ascoltava con l’animo oppresso da brutti presentimenti anche se nel sentire i buoni propositi che la giovane figlia dimostrava di coltivare non avrebbe dovuto coltivare nessun dubbio e nessun timore. Ma ciò che preoccupava la madre era la consapevolezza di sapere che nessuno può sfuggire al proprio destino per quanto impegno possa mettere nella fuga, ed in virtù di questa sua convinzione non scordava mai di raccomandare alla figlia di stare all’erta, di prestare una particolare attenzione ai pericoli ed alle tentazioni poiché avrebbero potuto intralciare il cammino della sua vita quando meno se lo sarebbe aspettata, ma la giovane falena, con la cocciutaggine e la testardaggine tipiche dell’età, le rispondeva sempre: «A me non accadrà nulla di brutto perché so badare a me stessa!» Al che la madre aggiungeva accorata: «Non scordare il nostro segreto!» «Va bene mamma, non lo scorderò…non ci sono pericoli dove ho fatto costruire il nido al calabrone…non crucciarti perché io mi so destreggiare…» E la madre, restando poi da sola, sospirava forte pensando: «Ah, se davvero fosse così…» Dicendo che il nido del calabrone era stato costruito lontano dai pericoli, la falena aveva detto la verità alla madre. Ciò che aveva preferito nasconderle senza alcun motivo apparente, era invece l’esistenza di quel pino quasi addossato ad una vecchia casa, sul quale lei amava sostare. Improvvisamente, nello scorcio di un cupreo pomeriggio di fine estate, dentro una stanza di quella costruzione diroccata ed impolverata, comparve un tenue chiarore vacillante, oscillante ed irregolare. La falena che proprio in quel momento si era posata sul tronco del pino, restò immobile, attonita e sorpresa, nell’osservare quella sorgente di luce che tremava. Un violento brivido le sferzò il corpo, lo sgomento le incatenò la mente e spaventata ritornò al proprio nido dove fece il possibile, ed anche l’impossibile, per mascherare e nascondere la sua ansia al calabrone. Ma poiché lui l’amava e l’adorava, si accorse subito che lei non era come sempre, che qualcosa la turbava e la preoccupava; spinto da una premurosa sollecitudine le domandò: «Che cosa è accaduto oggi mentre sono stato al querceto?» «Perché mi fai questa domanda?», chiese lei con fare nervoso ed irritato. «Che cosa temi che accada in questo luogo tanto isolato? Niente, niente di niente di niente!» Quella risposta troppo precipitosa, non servì a tranquillizzare il calabrone che seguitò ad essere preoccupato per la sua giovane sposa. Intanto, ogni sera il bagliore tremolante continuava a rischiarare quella finestra incorniciata dal muschio umido mentre la falena si incantava ad osservarla, preda di un violento batticuore fino al momento in cui, non riuscendo più a trattenere la curiosità si avventurò sul davanzale attraversato da vecchi rami di edera ingiallita e vide nella stanza, un vecchio comodino sopra al quale era stata appoggiata una candela che gocciolava…e ardeva bruciando con una fiamma vaga e debole che a tratti si impennava oscillando come se fosse stata preda di un violento spasimo. La falena avrebbe desiderato immensamente entrare in quella stanza, ma la finestra era chiusa e sigillata dall’intrico dell’edera consunta. Il calabrone, che non conosceva il segreto delle falene, non poteva avere nessun sospetto sul conto della sua giovane sposa, non poteva immaginare la forte e tempestosa attrazione che lei sentiva verso quella sorgente di luce, ed ignaro, permetteva che tutte le sere al tramonto si recasse sul davanzale di quella finestra. Ed ogni sera di più, di più, di più la falena si sentiva dominata, stregata ed affascinata da quel fioco lume tremolante che le appariva triste e malinconico come lo era lei. Piano piano, con il morire dei giorni, si convinse che quella fiammella sarebbe stata felice di conoscerla, e che se l’avesse avuta al suo fianco avrebbe arso e bruciato con più forza e vigore. Col sopraggiungere delle prime foschie autunnali la falena era tanto cambiata, deperita e intristita che il povero calabrone non sapeva più che cosa dire né cosa fare per non vederla patire come in quell’ultimo periodo. Gli alberi stavano perdendo le foglie che, secche e vizze, si lasciavano trasportare in aria dai mulinelli dl vento, mentre la falena continuava a desiderare quella luce fioca, e nei crepuscoli arborei andava a guardarla e ad ammirarla. La candela, dimenticata accesa da qualcuno che era entrato in quella casa disabitata, si stava consumando e la falena non riusciva a rassegnarsi di non poter avvicinarsi a lei. La fatalità decretò che la pressione dei rami di edera, e l’umido del muschio scivoloso, riuscissero a far marcire il legno del telaio di quella vecchia finestra che lasciò cadere il vetro. Fu così che la falena in quella sera umida e nebbiosa riuscì ad entrare nella stanza dove ardeva la candela dalla fiammella oscillante; vedendola così da vicino si commosse e la desiderò in modo intenso e spasmodico. Si sentiva felice come mai lo era stata con il calabrone. Osservava con estatico rapimento quella tremula fiammella e le volteggiava intorno. E volava, volava, volava intorno a quel lume pur sentendosi stanca e sfinita. L’oscurità stava bagnando di nebbia tutto il bosco rendendolo indistinto, vago ed irreale mentre in lontananza si sentiva la voce disperata del calabrone che cercava la sua sposa. La chiamava con un tono intriso di dolore disperato mentre lei continuava a volteggiare attorno alla candela, era incapace di fermarsi e ad ogni giro diminuiva la circonferenza del suo appassionato volo. Non badava alla fiammella che le si avvicinava perché era ciò che desiderava: a lei bastava restarle accanto, vicino, tanto vicino da sentirne il calore. E proseguì nel suo volo impazzito fino al momento fatale in cui riuscì ad unirsi al suo amato fuoco ed a morire in lui. Intanto, mentre la nebbia filtrava tra gli umidi rami delle querce e le ghiandaie si ribellavano al silenzio ovattato del crepuscolo autunnale, il calabrone seguitava a chiamare e a cercare con ostinata e mortale disperazione il suo amore di falena. La cercò fino a quando, esausto e sfinito dal primo rigore d’autunno, precipitò a terra agonizzante ed una foglia di quercia, arruffata e vizza ma ammorbidita dall’umido della nebbia, lo accolse in un caldo abbraccio.


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Papera volante animata
Alìda Casagande

Cirillo e Brilla

Cirillo era un pettirosso che viveva in un caldo e confortevole nido, in compagnia di Brilla, la pettirossina sua compagna. La primavera era arrivata da un paio di settimane facendo bella mostra di se, gli alberi erano carichi di fiori e fiori traboccavano dalle aiuole e spandevano nell’aria tiepida i loro inebrianti profumi. Cirillo e Brilla se ne stavano tranquilli, come possono stare tranquilli i pettirossi, dentro il loro nido. Cirillo era un pettirosso sveglio e veloce, che beccava i vermiciattoli e poi felicemente li portava a Brilla, e la guardava, amorevole, mentre lei li ingoiava con avidità dimostrandogli così di apprezzare i suoi gesti.. Cirillo era minuto perché per tutto il giorno svolazzava di qua e di là alla ricerca di cibo sia per lui che per la sua compagna, mentre Brilla che per tutto il giorno se ne stava dentro il caldo nido era grassoccia, e questa era una cosa insolita per una pettirossina, come era insolito anche il fatto che una pettirossina non volasse mai fuori dal nido per cercarsi il cibo. Cirillo l’amava molto, e non voleva che lei si affaticasse, e anche l’amore di Cirillo per la sua pettirossina era una cosa misteriosa. Ma si sa, il mondo è pieno di cose misteriose, è solo che l’uomo è abituato a vedere un albero che ad ogni primavera fiorisce e fa i frutti e non gli pare misterioso, come invece misteriosa è tutta la natura e tante, tante altre cose, cose che magari non si vedono. Per Cirillo e per Brillla tutto ciò che stava loro intorno era meraviglioso, e meraviglioso era il loro amore. Ma in quella straordinaria primavera colma di eccessivi colori, cadde la neve, l’ultima neve dell’inverno. E la neve imbiancò tutto, l’erba e i fiori degli alberi e i fiori dei giardini. E portò il freddo, l’ultima neve dell’inverno, e bruciò e rovinò ogni fiore, dalla terra gelata i bruchi non facevano più capolino e Cirillo pur vagando per tutto il giorno non riusciva a trovare cibo sufficiente per due, ogni tanto incappava in qualche mosca spaventata e inebetita che volava in modo strano dentro l’aria fredda, allora apriva il becco e la ingoiava e si saziava, ma alla sua amata pettirossina che portare? Avrebbe dovuto librarsi in volo anche lei e approfittare degli insetti spaventati e ingoiarli con una sola beccata, ma ahimè, Brilla era troppo grassoccia per riuscire a volare, ed era oltremodo impigrita e oltremisura viziata dal suo compagno. “Non posso, proprio non posso!”, cinguettò lei quando lui le chiese di uscire insieme alla caccia di cibo, “Io non uscirò mai e poi mai con questo tempo … mi vuoi vedere morta?” Ma no!, pensò Cirillo. “Ma no …” cinguettò tristemente, “Io parlo perché voglio il tuo bene: e morirai solo se non verrai a cercarti il cibo! Ti prego …” “No!”, cinguettò lei cocciuta, “Non verrò da nessuna parte e tu farai bene a portarmi qualche verme!” Cirillo era talmente sconfortato che non sprecò fiato per spiegarle che in giro non si trovava niente da beccare perché la neve aveva ghiacciato la terra e i vermi erano intrappolati sotto la gelida crosta. Tante volte Cirillo uscì dal nido alla disperata ricerca di qualche insetto, morto o vivo, da portare alla sua amata pettirossina, ma non riuscì a trovare niente e faceva sempre ritorno al nido stanco e deluso. Ma poi un’idea lo rallegrò: considerò che se Brilla non mangiava sarebbe dimagrita, si sarebbe sentita più leggera e finalmente si sarebbe decisa a librarsi in volo con lui. Infatti, quasi ad avvalorare la sua tesi, i giorni passavano e Brilla dimagriva, tuttavia non si decideva a librarsi in volo. Aveva troppo paura di volare. Cirillo l’aveva viziata troppo, l’aveva fatta vivere sulla bambagia, e ora era incapace di qualsiasi sacrificio. E così a Cirillo non restò altro che osservare, avvilito, giorno dopo giorno, la sua pettirossina che deperiva senza trovare il coraggio, e la forza, di uscire dal nido per cercarsi il cibo. Ma finalmente dopo tanti sforzi Cirillo ebbe un colpo di fortuna, riuscì a prendere una mosca per la sua amata, e felice ritornò al loro nido ma Brilla non c’era. Lasciò cadere la mosca dal suo becco e l’insetto cadde sulla paglia del nido, poi immediatamente uscì in volo per cercare la sua amata pettirossina. La trovò a terra, sulla fredda neve bianca, ai piedi di un melo, e giaceva su di un fianco, con gli occhietti sbarrati e le zampine diritte. Restò a guardarla, felice di averla trovata, e in un impeto di gioia volò fino al loro nido, prese nel becco la mosca e scese di picchiata, avvicinò il becco al corpo di Brilla e lasciò cadere al suo fianco la mosca sperando che presto Brilla si svegliasse e la mangiasse. Poi si appoggiò a lei e la sentì fredda fredda, allora decise di scaldarla col suo corpo, restò lì sulla neve, e incominciò a cantare, e cantò fino al tramonto del sole. Fino a quando il silenzio inondò l’aria che scuriva.


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Alìda Casagande

L’incontro

Salgo, in una bella giornata di inizio estate, verso la cima del Blinnenhorn in compagnia di un guardiano della diga. Ci siamo incontrati sulla stradina di coronamento della diga, c’è ancora molta neve e lui deve andare a rilevarne lo spessore in una zona pianeggiante, appositamente preparata, distante un paio di Km. Con il bel tempo, questa incombenza è, per lui, una piacevole passeggiata con gli sci. Non capisco l’utilità di un simile rilevamento e lui, stupito dalla mia ignoranza, precisa che quel dato, cioè il tipo e lo spessore della neve, permette di stabilire la riserva d’acqua per l’invaso, allo scioglimento estivo del manto nevoso. Assisto incuriosito al rilievo, peraltro molto rapido, e poi iniziamo la salita alla vetta. Il guardiano è un montanaro giovane, allenato e con il suo passo mi fa sputare anche l’anima, ma ce la faccio ad arrivare in vetta assieme. Ci sediamo, meglio, lui si siede mentre io mi accascio sul ghiaccio. Facciamo quattro chiacchiere, giusto il tempo per riprendere fiato emi dice “Devo scendere alla diga, mi aspetta il mio collega … se non fai troppo tardi, fermati nella nostra casetta che ti preparo un piatto di spaghetti” Inforca gli sci e con una serie di eleganti curve, scompare alla mia vista. Sono solo e dolcemente sprofondo in uno stato di contemplazione dell’immenso che mi circonda … quante vette … ne riconosco molte e, per ognuna affiora il ricordo del viso di un amico, o di un momento di felicità o di una terribile bufera … Mi abbandono al riposo accarezzato dal tepore del sole Il silenzio è perfetto ma … ma sì … mi sembra di percepire, molto lontano, il rombo di un motore che si avvicina … ma strano … non mi sembra il solito rombo di un aereo dell’aviazione generale. Trattengo il respiro per sentire meglio … sì, quel rombo che si avvicina non lo riconosco … poi avverto, confusamente dentro di me,ricordi di tempi lontani. Aguzzo lo sguardo e vedo un puntolino d’argento che si avvicina più o meno all’altezza della vetta … ma quel rombo non lo riconosco, non riesco a collegarlo a nessun aereo … e sì che sono pilota anch’io, da sempre mi interesso d’aerei, della loro progettazione e costruzione, della loro storia, vivo tra gli aerei. Seguo con sempre più ansia l’avvicinarsi di quel puntolino e poi … sì, riconosco quel rombo, è da decenni che non lo sento ma non ho mai potuto scordarlo, è il rombo di un grosso motore stellare! Ora l’aereo è sufficientemente vicino, è un bimotore … E nel cuore mi esplode la felicità … è un Dakota … un Dakota tutto per me in questa immensità assoluta! Sono sempre più incredulo, il sogno di un incontro che aspetto da molti decenni è qui ora, in pieno cielo, a 3400 metri di quota, lui nell’aria, io sul ghiaccio. Bello, grande, accompagnato dal rombo possente dei suoi stellari, si avvicina alla mia stessa quota, spostato poche centinaia di metri dalla vetta! Balzo in piedi, col cuore in gola,ed agito in alto le braccia in segno di saluto … mi sembra, o forse sogno, che mi risponda battendo dolcemente le ali. Il mio animo è in subbuglio, infiniti ricordi si accavallano da quella visione, da quel rombo che poi si allontana e si trasforma in un brontolio, poi in silenzio. Solo sulla vetta,tutto il mio essere è travolto dai ricordi … Piccolissimo, rimanevo incantato da puntolini argentei che riempivano il cielo con il loro possente rombo che faceva tremare i vetri e tintinnare le stoviglie nella credenza. La nonna mi metteva al sicuro sotto il tavolo spinto contro l’angolo tra due pareti, ma io volevo vedere e sentire quel possente rombo che non mi spaventava ma mi faceva desiderare di essere là, in alto, tra le grandi nuvole bianche. Poi, all’improvviso, il cielo diventò deserto e silenzioso, la guerra era finita. E negli anni successivi, quando contemplavo un bel cielo estivo con le sue grandi nuvole bianche, speravo, ma invano, di rivedere un puntolino argenteo e sentirne il suo rombo. Ora è silenzio sulla vetta inondata di sole e l’anima si acquieta dall’emozione e dallo stupore di quell’incontro. La memoria, liberata dai veli del tempo mi riporta a quei primi ricordi o, forse meglio, a quei sogni che hanno segnato lo scorrere della mia vita. I cieli erano ridiventati deserti ma li riempivo con i miei sogni. Crescevo e arrivavano le prime riviste aeronautiche che non leggevo, bevevo. Il tempo passava e dalle mie mani uscivano i primi aeromodelli. A scuola ero studente di costruzioni aeronautiche. Ti ricordi, Mario, quando, giovani studenti, passeggiavamo negli immensi piazzali invasi dall’erba della grande fabbrica di aeroplani ormai chiusa da anni. Cercavamo qualche bulloncino, qualche lamierino, qualche segno che ricordasse un aeroplano. Ma un immenso silenzio ci schiacciava, un silenzio che sapeva di cose ormai morte. Crescevo, l’amore, la famiglia, ed il cielo ha ricominciato a vivere. Non più possenti rombi di stellari, ma sibili e boati dei rettori. Costruire i primi ultraleggeri tubi e tela e saltellare nei prati Il brevetto, costruirsi un aeroplano e poi voli bellissimi con un Falco F8L perfettamente restaurato. Quante amicizie, quanti cari volti di noi che voliamo inseguendo il sogno. Icaro è nostro fratello. Tutto questo il mio cuore sente, nel silenzio, sulla vetta ghiacciata. Grazie, lontano puntolino d’argento venuto a trovarmi nell’immenso. Mi stiro le membra, fisso bene al sacco i ramponi e la piccozza, calzo gli sci e scendo a valle. La neve è buona, mi lancio felice in curve ampie e morbide, le braccia allargate a fare l’aeroplanino.

 


 

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Antonio Biraghi

Il volo

Nasce con te e non ti abbandona mai, in ogni momento della vita.

Un’esigenza, un’emozione che non può essere negata, repressa da nulla.

Come una bella donna che, costosa nella sua eleganza, ti eccita e ti lega a sè, senza via di fuga.

E’ un’angolazione, un filtro opacizzante delle brutture umane, che lascia trasparire solo il bello del colore e che eccita la nostra visione.

Così, nella malgama di cielo che ti accerchia, nel turbinio dell’aria che scivola attorno a noi, purifichiamo il nostro animo dall’incoscienza generale intorpidito.


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Lupo Bond

L’ultimo volo

Per uno che ha viaggiato tanto non dev’essere semplice ricominciare tutto da fermo. Con tutti quei posti e quella gente vista, dev’essere un supplizio non indifferente starsene seduto dietro una finestra ad osservare le nuvole imitarti e continuare un itinerario per chissà dove. Quanto possono bastare i ricordi, le fotografie della memoria? Una mappa da ricoprire con piccoli semini per ripetere tutto il tragitto. Gli aerei, le scale, i voli spettacolari, i colori, le infinite forme delle cose, gli amici, gli odori e i profumi, il cibo in abbondanza. Che strano, è come sentirsi delle ali addormentate sul dorso, incapaci di continuare ciò che forse eri riuscito appena appena ad imparare. I tuoi piccoli occhi potevano arrivare a vedere ovunque al di là del tuo semplice desiderio. I soldi no, quelli non sono mai stati vitali per te. Potevi permetterti di scegliere un luogo, uno qualsiasi che preferivi o che ti incuriosiva, e ci volavi con gioia e spirito di avventura. E poi? Chissà, forse un volo programmato male, un posto che non avresti dovuto visitare. E’ strano, fuori da questa finestra non riesci a vedere che un infinitesimo di tutto ciò che hai avuto la fortuna di sorvolare. Ogni tanto qualcuno ti porta da mangiare, ti parla, pulisce distrattamente il piccolo posto dove vivi, ti osserva ammirato e stupito con altre presenze a te sconosciute. Tu ti giri appena, triste, malato, senza più colore. E al comando che ormai da un po’ conosci alla perfezione, ti dondoli e canticchi gracile, a fatica, ma da bravo pappagallino.


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Luca Brumurelli

L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.