Il cane

Pomeriggio di fine settembre: ancora caldo, limpido, stupendo. Il sole barbagliava mille raggi sul fiume, sulla vicina città, sulle cime d’attorno, ghiacciate e grigiastre, e, al centro di tutto il paesaggio, sulla grande spianata dell’aeroporto, con l’erba bruciata e disseccata dalla violenza estiva.

Elda spinse con sicurezza il piccolo cancello di legno, piccolissimo rispetto alla grande mole degli hangar che lo affiancavano, ed entrò.Lo zampillo amico della fontanella la salutò chioccolando e le offrì lo spettacolo sempre nuovo e mutevole dei due pesciolini che con graziosi volteggi dorati si mormoravano dolci parole d’amore.

Si mormoravano dolci parole d’amore? Elda non ne dubitava. Era innamorata, Elda, e tutto intorno a lei non viveva che nell’amore. Amorosamente giocherellavano i pesci, amorosamente lo zampillo ricadendo dopo il breve slancio carezzava le stentate foglie di una pianticina acquatica cui la vita sfuggiva di giorno in giorno, con grande dolore del piccolo sottotenente biondo che l’aveva raccolta in uno stagno campestre, e che le dedicava quelle cure che solamente un cuore innamorato della natura in ogni sua forma ed essenza, può dedicare a una piccola cosa inutile. Amorosamente infine il sole si indugiava su di ogni rilievo, e avvolgeva in un tiepido abbraccio la sua eterna amante.

Franco la vide da lontano, dal campo, e le corse incontro.

Anch’egli l’amava, con tutta la sua anima assetata di bellezza e di purità: e nulla può essere così bello e puro come un grande amore. Due sorrisi, una dolce stretta di mano, poi via, di corsa, a braccetto, a “vedere l’aeroplano”!

Il velivolo era là, fermo, piantato solidamente sul prato come un rapace artigliato ad un masso, muso sfidante il sole, stupendo simbolo di forza e di eleganza. Sfavillava ai raggi del sole con barbagli d’argento, e il motore ridotto al minimo aveva un ronzio lieve e continuo, come il calmo respiro di un potente polmone.

I due gli girarono a lungo attorno, soffermandosi ad ogni passo. Piaceva molto, a Elda, il bel caccia di Franco, e, quando veniva al campo, mai si stancava di ammirarlo, di tentarne con la mano i docili comandi, di carezzare lievemente le sue belle ali, con l’animo pieno di quella sensualità vellutata che si sprigiona in noi al contatto di una cosa liscia, lucida, elegantemente armoniosa.

Era bella Elda, e al sole i suoi capelli sfolgoravano raggi caldi e rossastri di oro antico.

Una mano di Franco si immerse in quell’oro, tentò la fragile nuca. L’amore li avvolgeva in una cortina di tentazioni, il velivolo li copriva alla vista dei compagni di Franco e degli specialisti che più in là rifornivano gli altri apparecchi. Le loro labbra si unirono.

Il caccia ebbe un sobbalzo, uno schianto, per un secondo il motore urlò, precipitando gli scoppi. Franco alzò il capo, sorpreso. Nulla: tranquilla e regolare l’elica batteva l’aria con le braccia sagomate. Si era senza dubbio sbagliato: l’ebbrezza toglie la giusta percezione dei sensi.

Non era così: al bel caccia si era spezzato il cuore. E ciò che ancora lo faceva fremere e pulsare non era più la vita, perché la vita non può essere che bellezza e bontà, ma un terribile sentimento di rabbioso rancore, di subitanea volontà di vendetta. Anch’egli era innamorato. Di Elda.

Da quando essa aveva cominciato a venire al campo, egli l’amava, con tutta la potenza del suo cuore d’acciaio. Le sue carezze lo inebriavano e facevano fremere di piacere i suoi lucidi fianchi avvezzi solo allo schiaffo dei venti, il leggero peso di lei appoggiato alla fusoliera lo riempiva di estasi, sotto le sue manine morbide i sottili nervi dei suoi comandi si tendevano in uno spasimo di metallica ebbrezza. E l’assiduità di Elda, le sue frequenti visite, avevano illuso il suo animo di guerriero ingenuo. Si era sentito riamato. Aveva creduto che lei venisse per ammirare le sue evoluzioni ardite, le sue audaci acrobazie, e invece essa veniva per l’uomo, per il piccolo uomo che egli accoglieva per compiacenza nella sua sagoma ardita e portava quotidianamente in giro per i cieli.

Si erano beffati di lui, giocando con la sua anima come con quella di uno schiavo senza diritti. Ebbene no, non era uno schiavo senza diritti, e Franco ne avrebbe avuto subito le prove. Il suo rancore non era contro Elda, donna, e perciò incapace di resistere all’amore e all’invito di una bocca amante, ma contro il suo compagno di volo che, pur prima amato, ora avrebbe voluto frantumare con l’elica assetata di sangue.

Franco si preparava rapidamente per la missione. Il casco, gli occhiali, un bacio sulla mano di Elda. Via: la bandiera rossa e bianca diede il segnale.

Tutto gas!

Urlando il velivolo si mosse, avanzò barcollando, poi più sicuro. La coda lasciò il terreno: un attimo, e, libero d’appoggio, si librò nell’aria puntando il muso al cielo. Salì rapidamente.

Franco ne ammirava con gioia la docile potenza, aspirando profondamente il fiotto d’aria proiettato violentemente dall’elica sul suo viso, misto agli inebrianti odori dei gas bruciati.

Toccò i cinquecento, virò, ritornò verso il campo. Sull’erba brunastra, giù in fondo, spiccava con bianca vivacità un punto: Elda. Franco la scorse: essa agitava in cerchio il fazzolettone di seta candida. Per vederla meglio planò leggermente.

L’apparecchio, il muso verso terra, scorse anch’esso il punto bianco. Riarse di scoppio in lui la rabbia con la sete di vendetta, e si condannò a morte. Con l’altro.

Il motore di colpo si rimise al massimo, mutando l’assetto di planata in una veloce picchiata.

La mano del pilota, ferma sulla manetta, non si era mossa. Sorpreso la tirò a sé, la respinse, la agitò bruscamente.

Il motore seguitava a rombare al massimo, e la terra si avvicinava rapidamente.

Franco rialzò l’apparecchio in linea, sempre manovrando la manetta ormai folle, ma il velivolo, interrotto nel suo impeto di assassino, contrasse furiosamente i suoi nervi, e con secco rumore i sottili cavi d’acciaio dei timoni si infransero.

L’apparecchio sobbalzò, sbandò, si inclinò girando rapidamente a sinistra.

Franco impallidì, sentendo la pedaliera inerte sotto i suoi piedi, la barra inutile nella sua mano avvezza al comando. Il caccia, in balia ormai solo di sé, infuriava.

Ora il suo muso picchiava precipitando in baratri fischianti, ora, arrestandosi bruscamente con cigolii e schianti delle fragili ali, risaliva quasi avvitandosi nell’aria per un ultimo sberleffo al sole.

La tragica lotta durò poco. Il caccia decise di finirla. Puntò decisamente il muso al terreno, inchiodò i timoni, e, con un boato orribile, precipitò di schianto rompendosi e frantumandosi in uno strazio di ossature metalliche.

Era piombato sulla strada, schiacciando un piccolo cane che, fuggito alla villa padronale, sgambettava, finalmente libero, alla conquista del mondo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Pio Grenni

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