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Rischio di collisione

aeroplano avviamentoIn quel momento non poteva rispondere. Stava attraversando una tempesta emotiva di quelle forti. E questa volta rischiava veramente di soccombere. Dovevamo parlare, anche a rischio di scontrarci duramente. Prima o poi la nostra situazione doveva trovare un chiarimento. Così l’avevo pregata di sedersi accanto a me, nella poltrona lasciata momentaneamente libera dal pilota di sinistra. Il velivolo s’inclinò leggermente a sinistra. Di una quantità quasi impercettibile. Pochi gradi sull’orizzonte artificiale, ma di un tanto che bastava per imprimere all’aeroplano una lentissima virata, leggera e inesorabile. Me ne resi conto ma non intervenni! Lei stava seduta con le gambe distese e la pancia in fuori. Come se avesse appena fatto un pranzo luculliano. Bellissima come sempre! Improvvisamente aprì le gambe come fanno le ballerine quando stanno per fare una spaccata. Sul principio pensai che volesse buttare tutto in ridere mimando un passo di danza, ma poi, sempre più catturato dalla sua gonna cha continuava a scivolare verso l’alto, restai ipnotizzato come un cretino. Il panorama si fece sempre più avvincente: in cima ad un bel paio di cosce schiuse apparvero delle accattivanti mutandine d’un sorprendente blu intenso. Un colore perfettamente intonato alla sua uniforme da hostess. Restai inchiodato come in una trance ipnotica.

Il grosso quadrigetto, nel frattempo, stava continuando a virare lentamente a sinistra. Quando avvistai il bimotore che ci veniva incontro era ormai tardi. Volavamo su rotte di perfetta collisione. Terrorizzato afferrai con forza il volantino, premetti il tasto giallo col pollice destro e sganciai l’autopilota. Spinsi più che potetti verso il basso inclinando contemporaneamente le ali verso destra. L’inerzia era enorme. Prima di ottenere una risposta significativa dai comandi di volo trascorsero degli istanti interminabili. Mi resi conto che l’equipaggio dell’executive non ci aveva avvistati. Infatti l’aeromobile continuava imperterrito a mantenere quota e prua invariati. Mentre la donna urlava terrorizzata io mi sentivo paralizzato da una tensione parossistica. In un baleno i due aerei furono così vicini che riuscii a scorgere con precisione la sagoma del copilota del piccolo jet. Con disperazione continuai a spingere il volantino verso il basso e verso destra … Improvvisamente mi accorsi di non aver ridotto i motori al minimo. Un errore tanto grave quanto inesplicabile. Entrai in uno stato di confusione.

Mi svegliai in un bagno di sudore e guardai la sveglia sul mio comodino: erano le cinque del mattino. Potevo dormire ancora un ora prima di alzarmi per prepararmi alla partenza.

Nel 1978 ero un primo ufficiale pilota di B 747. Quel giorno il mio turno di volo prevedeva due tratte: Roma – Milano, Milano – New York. Il volo si svolse regolarmente.


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Mario Trovarelli

E’ scritto nel vento

Vagavo senza meta. Fui dapprima uno sciuscià e poi un giovane bruciato. Ma presto mi crebbero i capelli e presi a fumare coi figli de’ fiori. “We shall overcome” Suonavo la chitarra e cantavo con Joan Baez e Bob Dylan. “Blowin’ in the wind” Ma nel cuore c’eri solo tu. Unico amore della vita mia. Vagai a lungo finché … …oltre il limite della fantasia, quando il sogno si congiunse col cielo, ti trovai. Vestita di rosso con rintocchi d’avorio. Dalle gambe snelle e forti. Le braccia lunghe e spiegate come eleganti ali affusolate. La linea armoniosa. Mi fermai ad ammirarti con l’emozione d’un bimbo che scopre il suo primo regalo col cuore battente. Quando tornai in me ti girai attorno per mangiarti con gli occhi. E quando ritrovai coraggio m’avventurai più vicino per guardarti il grembo. Caldo e accogliente. E morbido al contatto. Nonostante mi sentissi indegno anche solo di sfiorarti, tremante m’avventurai dentro di te. Restai in estasi per infiniti istanti. Finché compresi d’esser l’unico pilota che tu aspettavi da sempre. Sentii d’esser giunto alla meta. D’esser diventato un uomo. “How many roads must a man walk down Before you call him a man? Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand? Yes, ‘n’ how many times must the cannon balls fly Before they’re forever banned? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Fu così che ruppi ogni indugio e decisi d’avviare la tua elica mordente. Ci levammo in volo dopo una breve corsa sul prato. Salimmo insieme nel blu per dipingere il cielo di figure superbe con le tue ali di sogno. Di rosso e d’avorio. Docilmente rispondesti ai comandi come se io e te fossimo il risultato di un’unica colata d’affetto fusa insieme da un abbraccio caldissimo e solenne. Un piccolo tocco sulla cloche per cabrare fino a bucare il cielo. Cloche alla pancia e piede destro a fondo corsa per entrare in vite e scendere girando allegramente fino a sfiorare le cime degli ulivi. “How many times must a man look up Before he can see the sky? Yes, ‘n’ how many ears must one man have Before he can hear people cry? Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows That too many people have died? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Rimessa e motore avanti per passare sugli alberi e riguadagnare velocità. Io e te insieme verso l’ultima barriera. Oltre la fantasia. Un looping a bassa quota con chiusura a pelo di suolo. E finalmente esausti, dall’altezza di tangenza, t’accelerai da capogiro per portarti giù in picchiata verso un orgasmo celestiale. “How many years can a mountain exist Before it’s washed to the sea? Yes, ‘n’ how many years can some people exist Before they’re allowed to be free? Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head, Pretending he just doesn’t see? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Cantai e volai a squarciagola mentre il vento soffiava e scriveva la storia dell’artista con le ali. Accadde lassù, nel profondo blu del cielo azzurro di marzo. Ai confini della mente, al di là dell’ultima barriera.


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Mario Trovarelli

Calanchi

Dal diario del colonnello pilota Mario Gertz

Mercoledì, 29 luglio 1924, ore 12.37

L’aeromobile V90 siglato I-GH76, al cui comando mi trovavo personalmente, è precipitato in un luogo imprecisato della zona dei Calanchi. Il piano di volo prevedeva il decollo da Merty, il sorvolo dei Calanchi, e infine l’atterraggio a destinazione dopo sei ore. Eravamo diretti a Frybur. I danni al velivolo sono ingenti. L’elica quadripala è ripiegata su se stessa in due punti. Il tettuccio è completamente distrutto. Il carrello è fuori uso. La radio di bordo non dà segni di vita. La fusoliera appare sostanzialmente integra ma l’ala destra non è più in sito. Mentre l’ala sinistra è squarciata e risulta tranciata a metà. Quanto alla mia persona, a parte una lieve ferita alla gamba destra, sto bene. Posso muovermi e camminare. Il tenente Gertz appare priva di ferite importanti. Ha il volto insanguinato a causa di una lacerazione esposta alla fronte. Nell’incidente la ragazza ha perso i sensi ed è rimasta svenuta per alcune ore. Quando è tornata in sé ha dato segni di amnesia retrograda e di confusione mentale. La zona dell’impatto è impervia. Il territorio è spettrale. Lo scenario è simile a quello di un deserto ed è privo di ogni forma di vita. Non si scorge neppure un filo d’erba. Il velivolo giace in una strettissima gola circondata da cime alte e acuminate come guglie monumentali. Le creste dei calanchi, dell’altezza di parecchie centinaia di metri, appaiono sottili come lame di rasoio. Non so come ci si possa muovere in questo inferno inospitale di roccia viva, le pareti di basalto sono lisce e nere come specchi. Non disponiamo di viveri e l’acqua recuperata dal bagagliaio dell’aeromobile è contenuta in un’unica bottiglia termica di appena un litro. Al momento non riesco a fare nessuna ragionevole ipotesi sulle possibili cause dell’incidente. La bussola magnetica, poco prima dell’impatto, indicava una prua di 275°. L’equipaggio è formato dal sottoscritto, colonnello pilota Mario Gertz, e dal tenente navigatore Hulja Gertz, mia figlia. Siamo addestrati alla sopravvivenza. Sto riflettendo per valutare la situazione. Che Dio ci aiuti!

Colonnello pilota Mario Gertz


Le squadre di soccorso, giunte dopo diciassette giorni sul luogo dell’incidente, trovarono i due corpi abbracciati. Il colonnello stringeva ancora tra le mani l’unica bottiglia termica in loro possesso, ormai vuota. Nel tentativo estremo di offrire, con quelle ultime gocce d’acqua, la vita alla sua Hulja.  


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Mario Trovarelli

Un aeroplano per amico


Era il pomeriggio del 4 luglio. Il tempo si faceva sempre più grigio mentre mi recavo in aeroporto. Dal finestrino aperto del mio maggiolino annusavo il profumo intimo e inquietante del temporale che si stava preparando.

Ero felice.

E’ incredibile come le strade di periferia, in vista di un acquazzone estivo, si affollino e prendano vita. Le persone si danno da fare alacremente per riporre al sicuro le sedie e i tavolini sparsi nei giardini. Le porte basculanti degli scantinati, le serrande delle rimesse, e le grosse ante dei garages delle villette di campagna si spalancano impietosamente per accogliere gli oggetti da riporre in fretta all’asciutto. E i passanti approfittano per violare, con occhiate indiscrete, le intimità custodite in quei locali, quelle che usualmente restano celate agli occhi degli estranei. Tutti sono indaffarati nel chiudere ombrelloni, mettere cose al riparo, richiamare i bambini dalla strada.

Quel giorno l’aria era ricca di profumi antichi dell’asfalto fresco e dell’erba appena tagliata, mentre guidavo piacevolmente verso la base. Attraversai lentamente la ferrovia. Nel frattempo le nuvole si erano fatte ancora più scure e cariche di presagi. Feci un respiro profondo per assaporare l’aria, e un brivido stimolante mi attraversò la schiena. Era come se stesse per accadere qualcosa di nuovo.

Le prime gocce caddero subito dopo il mio arrivo in aeroporto. Ebbi appena il tempo di parcheggiare la macchina che ricevetti l’ordine di prepararmi immediatamente per il volo.

La missione prevedeva l’ispezione del livello del Piave e dello stato degli argini. Mi fu assegnato il tratto di fiume che dal Montello scende giù, fino alla foce. Mi dissero che era stata segnalata un’enorme onda di piena proveniente dalle montagne. Si temevano eventi ambientali catastrofici. Avrei dovuto volare sul Piave e riferire via radio le notizie alla base. Dai miei rapporti dipendeva l’attivazione di eventuali soccorsi.

Dopo aver ricevuto gli ordini per la missione mi recai nello spogliatoio, indossai la tuta di volo, caricai il paracadute sulle spalle e in meno di dieci minuti ero pronto al decollo. Il vento soffiava forte da est, perciò la corsa di rullaggio fu assai breve.

Per evitare di salire troppo in fretta portai i flaps a zero subito dopo la rotazione. Volevo rimanere basso il più a lungo possibile per sorvolare la soglia di fine pista ad una quota non troppo elevata. La mia casa, infatti, si trovava subito fuori dall’aeroporto, sul prolungamento dell’asse pista. Ed era consuetudine che ad ogni decollo effettuassi un passaggio a bassa quota sulla sua verticale.

Smanettavo sul motore per attirare l’attenzione della mia Tanja. Lei di solito usciva sul balcone e mi salutava. Io ricambiavo il saluto oscillando dolcemente le ali per proseguire poi felicemente verso la missione. Quando la vedevo sul poggiolo il volo diventava più dolce. Era come se la portassi con me. Le parlavo ad alta voce come se mi fosse seduta accanto in cabina di pilotaggio.

Quel giorno non riuscii a vederla. Forse ero passato troppo alto sulla casa e il vento aveva spazzato via il rombo del motore che disperatamente avevo cercato di attivare per richiamare l’attenzione di mia moglie.

Avevo ridotto la velocità al limite dello stallo. Mi ero quasi fermato sulla verticale della mia casa in attesa di lei, lo ricordo molto bene. Ma ero altissimo. Avevo esteso nuovamente i flaps per consentirmi di ridurre la velocità al minimo senza precipitare come un ferro da stiro. Ma questa manovra mi aveva fatto salire più in fretta a causa del forte vento frontale. Mi era venuta voglia di scivolare d’ala per perdere rapidamente un po’ di quota. Ma era pericoloso, e poi comunque avrei perso la posizione. Perciò non lo feci. Con disappunto ritrassi i flaps e accelerai.

Giunsi sul Piave e cominciai l’ispezione. Il fiume era già grosso. L’argine occidentale era quasi completamente sommerso.

Salii a duemila piedi per avere un campo d’osservazione più ampio. Subito dopo chiamai la torre di Treviso per fare il mio primo rapporto sommario. Poi scesi a bassa quota sull’argine e cominciai a seguire il corso del fiume verso sud. Il volo a bassissima quota è prerogativa specifica dei piloti dell’Esercito. Siamo addestrati a seguire l’andamento del suolo perché il nostro lavoro consiste essenzialmente nel fornire un supporto a coloro che operano sul terreno.

Mi sembrò di tuffarmi dentro l’acqua tumultuosa e torbida del Piave. Ma in quella direzione le cose andavano progressivamente meglio. La vera onda di piena, quella segnalata sulle montagne, non era ancora giunta a quell’altezza. Perciò feci un secondo rapporto e decisi di virare verso nord per risalire il fiume fino al Montello.

Intrapresi la virata verso destra. Ma quando fui in grado di guardare verso nord venni sorpreso da una visione terrifica. Un muro altissimo d’acqua stava scendendo rapidamente a valle straripando impetuosamente oltre gli argini del fiume e inondando violentemente i territori circostanti.

L’onda mi veniva incontro con una velocità incredibile mentre mi trovavo a bassissima quota. Non più di duecento piedi. Mi parve che l’acqua avesse un’altezza smisuratamente più elevata rispetto alla mia quota di volo.

Restai paralizzato per un istante.

Mi sembrò che una montagna viva mi stesse correndo incontro per sommergermi inesorabilmente. Risposi istintivamente cabrando con uno strappo violento sulla cloche. Tirai la barra alla pancia e il muso si sollevò velocemente. L’aereo cominciò a vibrare. Ero entrato in stallo. L’ala sinistra si abbassò pericolosamente. Ebbi appena il tempo di rendermi conto di essere sull’orlo di cadere in vite.

Gettai un occhiata all’anemometro. Velocità zero!

Riluttante restituii un po’ di cloche avanzando contemporaneamente la manetta del motore fino a fondo corsa. Portai i flaps alla massima estensione. La velocità riprese a salire.

Inserii la leva di riscaldamento dell’aria al carburatore e quella dell’arricchimento miscela. Sostenni il muso ma cercai anche di evitare di stallare nuovamente. Volevo… dovevo salire in fretta senza entrare in vite. Altrimenti sarebbe stata la fine.

Pregai la Vergine.

Invocai la mamma.

Ero un ufficiale pilota osservatore dell’Aviazione dell’Esercito. Ma ero anche un ragazzo. Avevo da poco compiuto ventitre anni.

I piloti dell’Esercito sono perfettamente addestrati a volare alle basse velocità. La guida di colonne motorizzate, l’aggiustamento del tiro d’artiglieria… i piloti osservatori hanno tutto quello che serve per cavarsela in ogni condizione. Per di più io mi trovavo ai comandi di un amico forte e sicuro, il mio Cessna L19E. Lui non mi aveva tradito mai.

Era un moderno e robusto monomotore a pistoni. Un velivolo interamente metallico ad ala alta progettato appositamente per l’osservazione aerea.

Dovevo salire senza stallare. Stimai la distanza dell’onda in un migliaio di metri. In rapidissimo avvicinamento.

Sapevo restare a galla nell’aria, appeso al motore, facendo del mio meglio per guadagnare un po’ di quota. L’avevo imparato atterrando su campi corti ostacolati da alte barriere sulla soglia.

Guardai l’altimetro. Feci un giro di controlli incrociati degli strumenti di bordo e contemporaneamente tentai di tenere sotto controllo la grande muraglia. Ma non la vidi più.

Un istante dopo mi trovai a volare quasi sul pelo dell’acqua. Credetti d’aver perso quota a causa di uno stallo improvviso. Guardai nuovamente l’altimetro. Ma non riuscii a leggerlo perché venni investito da una turbolenza forte e improvvisa.

Cercai di raccapezzarmi. E capii. L’onda d’urto della montagna d’acqua, in rapida discesa, aveva prodotto un moto convettivo. Così le mie ali erano state sospinte verso l’alto. Ero salvo! Il muro d’acqua si muoveva tanto velocemente da non rendermi conto che fosse passato. Perciò il livello del fiume era salito di molti metri.

Percepii nuovamente il controllo del velivolo: quota mille piedi, velocità centodieci miglia per ora, la barra di comando ben stretta nella mano destra, la manetta del motore nella sinistra. Guardai il cruscotto. Accarezzai con gli occhi il muso dell’aereo. Gettai un’occhiata sulle ali del mio fido compagno. E ritrovai la mia tranquillità.

Mi predisposi a proseguire la mia missione. Il pericolo era passato.

Cercai il microfono per lanciare il rapporto alla torre. Ma lo scenario al suolo mi colpì così tanto che non riuscii a parlare.

L’acqua dilagava dappertutto sollevando strati di asfalto dal manto stradale. Vidi lunghi tratti di binari ferroviari divelti e sollevati come fuscelli. Alberi sradicati. Grossi animali gonfi trascinati dal tumulto impetuoso.

L’apocalisse in pochi istanti.

Più in là c’erano delle case. Mi diressi sopra di loro. Alcune persone erano salite sui tetti e mi segnalavano la loro presenza. Con disperazione. In pochi istanti l’acqua aveva invaso tutto il territorio a occidente del fiume. E continuava a salire. Tutto il mondo visibile dalla mia quota di volo appariva invaso dall’acqua.

Raggiunsi le case. L’acqua le aveva sommerse fino al secondo piano. Su tutti i tetti c’erano delle persone che cercavano di attirare la mia attenzione.

Verificai il meccanismo di sgancio dei carichi alari per accertarmi di poter effettuare un eventuale rifornimento di generi di soccorso agli alluvionati. Mi abbassai fino quasi a sfiorare i tetti. Desideravo tranquillizzare quelle persone terrorizzate e disperate. Su ogni casa oscillavo le ali in segno di “ricevuto” e di solidarietà.

Feci il mio concitato rapporto alla torre di controllo. E ricevetti l’ordine di rientrare.

L’atterraggio fu particolarmente difficile a causa del vento fortissimo.

Su ordine del comandante del reparto scrissi un rapportino sull’atterraggio. “Lunedì 4 luglio 1966, ore 19.30.

Il tenente pilota-osservatore dell’Aviazione dell’Esercito Mario Trovarelli è atterrato sulla pista erbosa dell’aeroporto San Giuseppe di Treviso ai comandi del proprio Cessna L19E EI 28. Sia l’aeromobile che il pilota sono incolumi.”

Dopo due anni da quell’avvenimento lasciai l’Aviazione dell’Esercito per continuare a volare come pilota civile di linea. Ho volato fino al 1980. Da allora mi occupo di terapia dell’angoscia. Sono diventato uno psicoterapeuta. Ma ho continuato a sognare il volo ogni notte.

Oggi è sabato. Sono trascorsi vent’anni da quando ho smesso di volare, ma sento un forte desiderio di tornare a solcare il vento. Perciò, in compagnia della mia primogenita, mi sono recato su un campo di volo in Friuli. Ho percepito un’inspiegabile attrazione per quel cielo che ho sognato mille volte in tutti questi anni.

L’hangar è pieno di velivoli. Li osservo con nostalgia. Sfioro con trepidazione i loro motori. Guardo gli strumenti di bordo.

Sono pervaso da una dolce commozione nel ritrovare me stesso tra quelle ali e quelle fusoliere. Mi aggiro qua e là. Poi la mia attenzione viene attirata da un aeroplano ad ala alta, dall’aria amica. Lo guardo con incredula curiosità. Ha i colori mimetici che mi sono familiari.

Col cuore in gola mi avvicino lentamente a lui chinandomi per osservarne attentamente la carlinga, in cerca di una traccia. Sotto la nuova sigla s’intravede la coccarda tricolore e la scritta “EI 28”.

La mia emozione, al pari di quella terribile onda alluvionale del lontano ‘66, esplode inarrestabile.

Mia figlia sta effettuando un giro turistico intorno al campo. E noi due siamo qui. Io e il mio aeroplano. Uno di fronte all’altro, come due vecchi amici che si ritrovano casualmente dopo tanto tempo.

Gli americani lo chiamano Bird Dog. Non a caso. E’ come se mi stesse facendo le feste scodinzolando. E io allora lo abbraccio e lo tengo stretto a lungo. Lo abbraccio e lo accarezzo il mio vecchio, fido, stupendo amico. Come se si trattasse di un essere vivente.

Compagno di mille avventure. Testimone e custode del mio entusiasmo di giovane pilota.

Mia figlia, rientrata dal volo, mi riporta alla realtà. “Papà… l’hai ritrovato finalmente. Ho sentito dire che presto sarà demolito.”


Ai piloti dell’Aviazione dell’Esercito




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Mario Trovarelli

Il volo delle pojane

Il livello del carburante è basso e diminuisce a vista d’occhio. Ma non è possibile atterrare su questo suolo terribilmente impervio. Non riesco a trovare neppure una piccola striscia di terreno adatta ad un atterraggio in sicurezza. Ma la notte, per fortuna, è illuminata da un’argentea luna piena. Continuo ad aggirarmi col mio velivolo tra le alture che delimitano questa piccola valle perché le nuvole basse m’impediscono di trovare una via d’uscita verso la pianura. Comincio ad aver paura. E’ stato facile raggiungere la valle, ma poi è calata improvvisamente la notte e le nuvole sono scese ad occultare i passi. E così sono rimasto imprigionato in questa gabbia di monti e di nubi. Ho carburante per un ora, ma se non sarò fuori dalla gola entro quaranta minuti, non riuscirò a raggiungere la pista in pianura, e sarò costretto ad effettuare un atterraggio d’emergenza tra questi dirupi scoscesi. Sono un pilota esperto. Ho volato su aeroplani diversi accumulando un’esperienza di migliaia di ore di volo. Ma rischio di morire qui dentro. In questa meravigliosa trappola della natura, ai comandi del mio piccolo velivolo ultraleggero. Si dice che si snodi un film, con le immagini più significative della propria vita, nella mente di chi sta per morire. Chissà se è giunta la mia ora tra queste cime e resterò vittima del mio errore da allievo pilota! Dal momento in cui ho preso coscienza del pericolo di vita un’immagine persistente e nitida mi torna alla memoria: la quercia sulla collina. Era bella la mia collina. Uscivo poco prima del crepuscolo per raggiungerla. Da lassù potevo dominare tutta la valle. Sapevo che a quell’ora la quiete della campagna invitava al raccoglimento, mentre la campana rintoccava il vespero per rammentare alla gente che il giorno stava per finire nel nome di Maria. Cercavo un posto sulla sommità del colletto per accoccolarmi ai piedi della quercia. E col cuore in pace mi stupivo di quell’incanto. Ogni volta come la prima volta. Restavo a lungo in ascolto di quel silenzio magico e solenne che di lì a poco sarebbe stato interrotto dal fruscio delicato e misterioso delle ali delle pojane. Gli uccelli lasciavano i nidi e i loro piccoli, nei pressi del fiume, per raccogliersi sul cielo della collinetta. E volavano in perfetta formazione, felici di eseguire manovre d’alta acrobazia. Al riparo dalle doppiette fameliche dei cacciatori di campagna. Io li aspettavo in silenzio. In genere avvistavo un grosso esemplare in esplorazione. Poi, un poco alla volta, si formava il grande cuneo che ordinatamente effettuava mille evoluzioni sul cielo dell’altura. Le pojane non amano essere osservate. Sono umili e timide. Non desiderano esibire le loro abilità, perché volano per cacciare. E’ il loro modo di sopravvivere. Perciò me ne stavo rannicchiato sotto la quercia. E imparavo a volare. Mio padre era un pilota da caccia. Fu abbattuto nel cielo delle prealpi carniche nel corso di un combattimento. Nel pieno della guerra. Io non l’ho mai conosciuto. Prima del temporale, in certi pomeriggi d’estate, le pojane si levavano in volo dal greto del fiume per raccogliersi sul mio colle e salutare l’acquazzone con le loro evoluzioni. Da piccolo dicevo sempre che da grande avrei fatto il pilota. Come papà. E quando divenni grande volai. Fui un pilota militare ed ebbi l’aquila d’oro. Mentre il comandante del corso me l’appuntava sul petto mio padre era lì con me. Avevo una sua fotografia in tasca. E la portavo sempre nella tasca della tuta di volo quando mi alzavo in missione. Continuai a volare anche quando diventati più grande, come pilota di linea. Poi frequentai l’università e, in occasione della laurea, feci una grande scoperta. Imparai che le pojane avevano ispirato i pionieri dell’aria a costruire le prime macchine volanti della storia! Ma non devo aver imparato la lezione delle pojane né quella di mio padre: la sicurezza innanzitutto! Sono decollato dalla pista in pianura troppo tardi nel pomeriggio. Poi mi sono infilato in questa gola perché mi sembrava la stessa in cui fu abbattuto mio padre. Non mi sono accorto del calar della notte. E delle nubi che si abbassavano sulle cime. Mio padre è morto da eroe. Io morirò da allocco. La benzina scarseggia. Sotto di me vedo sempre e solo montagne. Picchi alti come pinnacoli acuminati e creste affilate come lame taglienti. Nessun praticello per poggiare il fragile carrello del mio aeroplano. Dentro la pancia sento caldo. Sopra la schiena ho un freddo intenso. Sulla testa ho come un peso opprimente. Percepisco rivoli di sudore attraversarmi la fronte. Laggiù, nella mia terra, il campo di girasole è diventato giallo. I semi sono maturi. Il raccolto dovrà essere stivato, altrimenti andrà perduto. Basta sognare… col naso sempre in su, e con gli occhi perennemente rivolti al cielo. Papà è morto da eroe. Me lo dicono tutti. Il campo di girasole è diventato bruno per la grande pioggia che ne ha umiliato le corolle. E le foglie scarne non ricoprono più il terreno né lo proteggono dal sole d’agosto. Ma il sole non c’è più. Quassù fa freddo. E la benzina è agli sgoccioli. Mi sembra di scorgere qualcosa che mi vola accanto! Ispeziono lo spazio circostante. E’ un volatile… A questa quota! Soltanto le pojane raggiungono le vette. Non sono più solo adesso. Andrò a morire in compagnia di una pojana. Mi sembra una magia. Ma ne vedo un’altra… due… quattro… tante… Una formazione di pojane sta volando sul mio fianco sinistro. E punta decisamente verso una nube. La mia mente è attraversata da un conflitto atroce. Ma alla fine decido di affidarmi ai falchi. Ed entro nelle nuvole con loro. Nel buio di questa nube intensa mi sembra d’esser cieco. Procedo mantenendo quota e velocità. Le pojane posseggono un altissimo senso d’orientamento. Volano di notte per cacciare. Non possono fallire. Vanno verso la vita. Con esse posso salvare me stesso e salvaguardare l’incolumità di questo piccolo e prezioso aeroplanino. Ora la luna riappare tra le nuvole frastagliate. E la visibilità si apre a dismisura come una festa. Vedo la salvezza! I piccoli falchi cominciano a scendere lentamente. E io con loro. Ormai docile alle loro indicazioni. Riduco lentamente i giri del motore e seguo la formazione. Mi chiedo se sto sognando. No. Le pojane vanno verso la pianura per procurarsi il cibo. Ecco la spiegazione! E il mio piccolo velivolo è stato inserito nella loro formazione. Il motore continua a girare ma so bene che dovrò appoggiare le ruote al primo tentativo d’atterraggio. Non avrò carburante per una riattaccata e un secondo giro. La “Master Light” è ancora accesa. C’è ancora qualche goccia di benzina dentro l’ala. Sento nella pancia la serenità della planata. La fronte è fresca come l’aria della sera. Il suolo è illuminato dalla luna piena. Sono in avvicinamento finale alla pista zeronove, la visibilità è ampia, il vento è calmo, e sono perfettamente allineato con l’asse. Riposa in pace papà! So che stai vegliando su di me. Sto atterrando con l’aiuto delle pojane che tu mi hai mandato per salvarmi.


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Mario Trovarelli