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Via!

“Via!” Mi lancio. Non ero pronto, accidenti! Il tuffo è corto! Devo iniziare a contare! Milleuno. Sono fuori e l’aria mi colpisce a duecentoventi all’ora, mi prende, mi gira. Sbatto contro la fusoliera una volta, rimbalzo e vengo proiettato ancora contro l’aereo. Alzo il braccio sinistro, forse per ripararmi. Non regge, si spezza l’omero.

Milledue. Ho l’impressione di aver perso il paracadute, per la leggerezza che provo. E’ il terrore. Il braccio spezzato è inerte e sbatte per la forza dell’aria.

Milletre. Ahaa! Dio che dolore! Non devo svenire, non devo, non devo!

Millequattro. Frrhoop. Le cinghie si tendono. La calotta si sta aprendo. Inizio ad avvitarmi, o meglio a svitarmi, per le funi che si erano arrotolate quando sono uscito dall’aereo.

Millecinque. Hoop. Il paracadute si è aperto. La frenata è maledettamente efficace. Il sospiro di sollievo è troncato dal dolore pazzesco, sto svenendo. Sto urlando.

Non svengo. Devo calmarmi, devo fare tutte le operazioni per cui sono stato addestrato. Mano destra sulla bretella sinistra, giro d’orizzonte con gli occhi in alto, controllo del paracadute, ok, niente effetti reggiseno, le corde sono tutte tese, è tutto ok.

Silenzio. Finalmente silenzio, assoluto. Era il mio terzo lancio, quello del brevetto. L’ho dedicato a Daniela, è San Valentino oggi. Sarò stato emozionato per questo e ho sbagliato tutta la preparazione. Non ho battuto il piede destro e la piroetta successiva non è stata completa, la gamba sinistra non era flessa come doveva e quando il direttore di lancio mi ha dato la pacca sulla spalla dandomi il via, non ero nella posizione corretta che ci hanno insegnato. I risultati si sono visti. Daniela, amore mio, spero di poterti rivedere! Il primo lancio l’avevo dedicato a Marinetti.

Lanciarsi nel vuoto è lasciarsi dietro tutto quello che si è, che si è stati, andando incontro a quello che si sarà. Lanceremo i nostri cuori giù dal cielo come bombe e sapremo scaldarti o misero sole!

Il secondo a Herman Hesse.

Preferisco sentirmi ardere da un dolore diabolico piuttosto che vivere in questo ambiente dalla temperatura sana. Allora avvampa dentro di me un desiderio selvaggio di emozioni intense, di sensazioni, un’ira contro questa vita piatta, sfaldata, normale e sterilizzata, e una voglia di fracassare qualcosa, non so, un magazzino, o una cattedrale, o me stesso; di commettere pazzie temerarie … questo è, infatti, ciò che sempre ho più odiato, aborrito e maledetto: questa soddisfazione, questa salute pacifica, questo grasso ottimismo del borghese, questa disciplina dell’uomo mediocre, normale, dozzinale.

Questo terzo è per te, Daniela. Volevi seguire la caduta libera di una lacrima, avvicinarti alla goccia piangente e cadere in un oceano di rimorsi, onde salate che si infrangono sul cuore di un anarca ferito, e abbracciare il nulla.

Il silenzio. Nessuno può immaginare un tale vuoto ed esserci. Un vuoto in cui non sento neanche più ardere il dolore diabolico che mi sta annichilendo. Un viaggio nel nulla, uno sguardo sul mondo che frana. Voglio fermarmi, rimanere, senza cavi di collegamento, appeso all’idea di riuscire a vincere la Forza, di essere Super, di rimanere Super fino alla decisione, solo mia, di ridiscendere.

Da qui riesco a fottere la Ragione. La vedo franare ad un livello voluto, e riempire l’oceano. Un’attrazione per tutti. Vedo tutto da qui. Il nulla è solo qui. Io sono ciò che riempie il vuoto. E se fossi io vuoto?

Daniela!

Puoi trovare uno spazio libero che non sia un vuoto? Sei tu la chiave del dilemma. Devi trovare lo spazio fertile che c’è in me! Ci troveremmo ad occupare il volume di un unico progetto. Libero, senza limiti, sarà tutto quello che non occupa spazio, o dilaga nel vuoto. Non trovo appigli. Il mondo inesorabilmente si avvicina, piatto.

Cento metri. Lo spazio si restringe, il vuoto si colma, il sogno svanisce. Il dolore si risveglia. Il desiderio ancestrale di salvezza mi scuote.

Trenta metri. Sento l’odore della terra, repulsivo.

Venti metri. Sento il braccio inerte vibrare dalla tensione.

Dieci metri. Sento irrigidirsi la parte sinistra del corpo. La destra rilassarsi. Aha! A destra, a destra!

Mi affloscio a destra, lasciando il braccio sinistro appoggiato al tronco. Il dolore è fortissimo, al limite della coscienza. La calotta si rigonfia per il vento, le corde si tendono ancora. Comincio lentamente a strisciare sulla terra dura. Mi lascio trascinare senza alcun interesse a resistere.

Sono in un vuoto energico, mentale, volontario. Sento mani che mi afferrano, salde. Soffocano la vela che mi stava trasportando. Voci che mi interrogano, inutilmente. Sento mani che mi sollevano, mi caricano. La sirena lacerante, dolorosa, mi accompagna.

L’unico desiderio, adesso, è tornare su un aereo e lanciarmi ancora. Non voglio pensare che mi possa essere impedito. Voglio solo tornare a volare, nell’aria, con il silenzio intorno, circondato dal nulla. In un letto all’ospedale aspetto il rimarginarsi delle ferite. La radio annuncia: “Patrick de Gayardon è morto sfracellandosi al suolo, il suo paracadute non si è aperto alla fine di un lancio d’allenamento”. Incredulità, dolore, un altro mito che svanisce. L’uomo che vola, il realizzarsi di una mutazione sognata da sempre, è finito come ci si aspettava che finisse. La Morte non si distrae mai. Quando si naviga all’estremo margine della Vita basta un soffio leggero per arrivare oltre. Di qua rimane l’involucro biodegradabile.

Le mie aspettative crescono, dalla costernazione nasce il desiderio di emulare il campione. La sfida con la Morte deve continuare, occorre trovare chi riuscirà a sconfiggerLa. Il prossimo lancio lo dedicherò a Patrick. Per ora mi accontento di ripercorrere con lui quanto di più spettacolare ci ha lasciato: infilarsi in volo nel Gran Canyon. Centrare la cruna del mondo, passare dallo stato gassoso a quello solido. Continuo a sognare.

Nel letto d’ospedale le ferite si rimarginano, ora più rapidamente. Anche gli uccelli con le ali spezzate tornano a volare. Esercizi, esercizi, devo tornare ad essere forte.

Quando rientro al lavoro, in banca, sento materializzarsi la compassione dei colleghi, la diffidenza dei superiori. Per tutti non merito rispetto, le pratiche si sono accumulate come se tutto quello che mi concerne possa essere stato contaminato dalla Follia. Sono diventato una presenza ingombrante. Il mio paracadute è sempre gonfio, sottrae aria ai presenti. Conciliare il mio ottimismo con quello grasso di questi mediocri, normali, dozzinali borghesi.

Vivere una vita piatta, sfaldata, normale e sterilizzata.

E’ un’altra sfida che mi si presenta, amara e sarcastica, che vorrei evitare, come un vigliacco, perché so più difficile da risolvere che non quella sportiva. Vogliono efficienza, anche qui, come se il rischio di un errore possa essere mortale. Denaro, più di quello che la normalità esigerebbe, questo è l’obiettivo.

Al venerdì sera mi capita di fuggire, letteralmente, dal magma vischioso della banca, prendere il primo aereo per raggiungerti, Daniela, per tornare a respirare l’aria indispensabile del provvisorio, del confronto. Marinetti, Hesse, de Gayardon, Daniela.

“No!” “Continuerò a volare e a lanciarmi con il paracadute.” “ Si! Certo.” “No! Le dimissioni non le darò!” “A risentirci, signor direttore.”


#proprietà letteraria riservata#


Maurizio Casamassima

Via!

tidentIl volo può essere anche “dolore”, nel senso fisico del termine. Ma forse il “dopo volo” è ancor più doloroso … Questo racconto ne è la chiara testimonianza.


Racconto / Medio- breve Pubblicato in un sito web (momentaneamente non disponibile).