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Un passeggero scomodo


Arrivo all’aeroporto, il mio passeggero non dovrebbe tardare. Infatti, eccolo arrivare; si guarda attorno un po’ spaesato mentre attraversa il piazzale con gli aerei. Ora è nel mio regno, per la prima volta si deve fidare ciecamente di me.

Indossiamo i paracadute e chiamo la torre. Mi danno l’ok ed entriamo in pista.

Mi sento addosso uno strano spirito di rivincita: adesso ti faccio vedere come si fa!

In queste situazioni bisogna essere un po’ melodrammatici.

Controlli: “Comandi: gli alettoni ci sono, i pedali ci sono – strano -, la coda coi timoni l’ho vista prima, il filo di lana c’è, gli strumenti … anche, il traino è li, la manica a vento è abbracciata al suo palo, non ci sono peones sulla pista. Cappottina chiusa?”

“Eeeeh…!” Amorfo. Mi volto, la controllo, controllo anche la mia. “Chiuse. Non toccare i pomelli rossi: il sinistro apre la cappottina, il destro la sgancia.”

“Eeee?” Perfetto, capisce al volo ‘sto ragazzo.

Alzo il pollice. Mi alzano l’ala e il volo comincia. E anche lui: comincia ad urlare.

Ha vent’anni e buoni polmoni, e raglia come un asino incavolato. Urla per l’eccitazione di essere per la prima volta su un aliante, aeromobile così piccolo e maneggevole, nella cabina, con i comandi a portata di mano.

I comandi … “Mi lasci liberi i comandi per favore?”.

“Ah sì, scusa” e riprende a farneticare.

Dopo un po’: “Dove andiamo?”

“Dietro al traino”

“E perché non provi a superarlo?”

“Caz … dici?”

“E dove ci porta?”

“Dove gli ho detto” e di nuovo urla: “Cos’è questo? E quello? Questo qui che si muove? Ooops: mi è rimasto in mano …”

“Stai zitto!!”.

Arrivati in quota, sgancio, viro a destra e voliamo liberi. “Dove ti porto?”.

“Boh …”

“D’accordo: andiamo verso la città”. Trovo una termica dove volano decine di cornacchie. Strano, non mi risulta che siano grandi veleggiatrici … infatti: non si sale. Proviamo coi rondoni.

“Posso ordinare una pizza?”

“No”

“Perché? Ho il telefono”

“Primo perché non prende; secondo, perché dove te la fai portare?!”

“Aaaahheeee” urla.

“Basta!”

Urla ancora. In un attimo picchio, cabro e picchio ancora.

“Aargh, cosa succede?”

“Ti do un motivo per urlare.”

“Ma io ho battuto la testa!”

“Tira le cinture”. Rimbambito! … ecco le mie vendette.

Riprende a urlare. Mette la mano leggera sulla cloche, me ne accorgo. “Se vuoi pilotare dillo, adesso l’aliante è tuo, fai quello che vuoi … ma non stallare e non entrare in vite. Per favore”

“Cosa? Come si fa? No, non voglio!” e picchia.

Tiro leggermente la cloche “E vai dritto … non vedi che il filo non è centrato!?”

“Filo?”

“Quello rosso, davanti a te … e hai finito di strillarmi nelle orecchie?”

“Sì, prendilo tu!”

Prendo i comandi.

“E se stalla?”

“Così?” tiro leggermente e la velocità rallenta, rallenta, r a l l e n t a a a a …

“Fermaaaargh!”

“Sì, più o meno …” Carognata! E continuo: “Vabbé, adesso ti faccio vedere la vite”

“La che? Eeeeeeh …”

“ Ho detto: V I T E. Dopo lo stallo, incroci i comandi, un’ala stalla e … va giù.

“Uuuaaahaa, ancora!”

Lo sapevo. “No, adesso questo!” . Picchio per prendere velocità, poi cabro e viro.

“Uuuaauuu!”. Urla ancora. Che strazio! “Guarda l’ala ferma per terra … la vedi?”

“Uauauauau, iiiiiaaaaaha”.

Insopportabile.

“Ehi, ancora!”

”No, siamo bassi”. Balla colossale. E aggiungo: “Andiamo all’atterraggio, ma prima …”

“Uaaaa …”

In prenotazione metto l’aliante in virata bella stretta e tiro: urla meno, finalmente! “Ti piace?”

“B e l l o”, dice a denti stretti, strizzato sul sedile.

In sottovento la prova diruttori.

“Uahh!”.

Sì, ci sono. “Adesso zitto, se no ti porto sugli alberi”, gli ruggisco.

Vedendoli ora così vicini, non osa disturbare. L’atterraggio è silenzioso, ma dopo la toccata ricomincia ad urlare.

Schizzo fuori come una molla e lo lascio dentro.

Tirato fuori l’aliante dalla pista, vedo papà e con enfasi gli dico: “Portami via tuo figlio dalle mani, altrimenti gli tiro il collo: non sapevo che avesse tanto fiato, non l’avrei portato per aria!”

Mio padre sorride. E’ stato un pilota anche lui.

Il mio passeggero, bianco come un panno lavato in candeggina mi sussurra: “Dai, Diana, fammi scendere da ‘sto coso?! … per favore.”

In fin dei conti , è mio fratello … e gli slaccio le cinture di sicurezza.



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§§    in esclusiva per “Voci di hangar”   §§


India

Quando ero piccolo

Quando ero piccolo volavo basso sul terreno. Sentivo l’odore delle cose, le vedevo e studiavo bene da vicino. Sentivo l’odore della terra planandole a pochi centimetri. Sentivo il profumo della polvere e del vento, col vento mi mescolavo; sentivo i fiori e il muschio, sui fiori mi posavo; gli aghi di pino e le foglie più alte sugli alberi, li potevo raggiungere senza sforzo, e da li guardare il cielo blu sopra; mi potevo infilare nei covoni di fieno tagliato, contare le bestie al pascolo sugli alpeggi, dall’alto.

Calavo dalle colline come un’orda barbarica, ma con il mio fragore dentro; mi alzavo fino alle fronde degli alberi schivandoli e mi sentivo il cuore esplodere di gioia a tre metri dal suolo.

Sorvolavo i campi come una brezza di primavera, l’odore dell’erba era mio: i fiori, la terra, l’acqua, i sassi (oddio l’odore dei sassi!), le foglie d’autunno nei boschi di montagna, tra la nebbia che avvolge i tronchi: con un passaggio basso e veloce le sollevavo e il loro profumo di funghi mi avvolgeva.

Dentro me urlavo di gioia ad ogni volo, ad ogni planata, ad ogni basso passaggio sul mondo profumato.

Ma la gente non vuole volare: molti hanno paura, e si difendono dicendo che bisogna crescere, smettere di giocare. E allora ho deciso: del volare ho fatto la mia vita.

Un giorno me ne stavo a gironzolare per il pendio di una montagna, quando ho deciso di riposare in una radura col muschio. Mi sono steso e ho alzato gli occhi al cielo. Le nuvole correvano instancabili nel blu, formandosi e sfaldandosi di continuo. Lì ho deciso di volare alto, diventare pilota.

Ho scoperto con dolore che per essere pagato dovevo essere utile, dovevo portare gente a spasso, e per questo mi servivano le lunghe ali di metallo.

Ho detto addio alle prodezze e ai virtuosismi, ho detto addio ai cambi repentini di rotta.

Qui siamo monitorati e vettorati , spiati e guidati; qui ci sono strumenti e spie luminose, qui non si cambia rotta: segui la strada che ti dicono, non si sgarra.

Ora sto seduto in poltrona, il mostro alato vola da solo, docile. Ora, a 25000 piedi, la terra non si vede neanche, non sono più basso al suolo. Ora nelle narici ho l’odore di sudicio della cabina, degli strumenti di bordo, del kerosene al rifornimento, il profumo studiato delle hostess. Ora ho con me centocinquanta persone, e a loro non interessa l’odore dell’aria e delle cose, loro vogliono arrivare in fretta a destinazione. Da una città all’altra senza sosta, senza amore.


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India

Una macchia

La sala cortesia di un aeroporto del nord, di una giornata come un’altra, mentre aspetti che chiamino il tuo volo, bevi qualcosa di alcolico in attesa che l’ennesimo aereo ti porti lontano. Rifletti sulle persone che hai appena lasciato, un’ombra di malinconia ti assale. Dura un istante, lo spazio di un sorso della tua bibita. Vedi le persone che entrano nella sala, le loro facce, il loro aspetto, non ti comunicano nulla. Passano e non s’imprimono nemmeno sulla retina. Improvvisamente qualcosa di inconsueto attrae il tuo sguardo, è una macchia che urla attenzione – sono qui guardatemi! – Osservi con una qualche attenzione l’improvvisa apparizione; non alta, una cascata di capelli neri, un viso gradevole ma non più giovane, rossetto scarlatto, neri occhi vivaci, ed un seno prosperoso che la scollatura della camicetta promette. Ma la tua attenzione è attratta dai suoi pantaloni, quasi una guaina, che strizza le sue gambe e disegnano i contorni del perizoma che evidentemente indossa. Scarpe con tacco alto almeno 20 cm le conferisce un’aria singolarmente instabile, precaria, ma certamente sensuale. Un’immagine ti si disegna netta in mente, mentre lei graziosamente ti sorride (sorride!), tu che ti inginocchi e dolcemente le abbassi con delicata violenza quei pantaloni e la lingua libera di correre veloce fino ad insinuarsi sotto al perizoma che hai indovinato indossato, e l’umore del suo sesso eccitato bagnarti completamente il mento mentre con la lingua la penetri. Invece rispondi al suo sorriso con un educato cenno, e ti avvii verso il gate che ti condurrà al tuo aereo. Prendi posto nella fila in fondo, quella riservata ai fumatori, è completamente vuota. La Macchia dal rossetto scarlatto la vedi avanzare nella tua direzione, deposita il suo bagaglio a mano nello scomparto sopra il tuo posto, prende posto accanto a te, e ti porge la mano -“ ciao piacere sono Manuela”. Sfoderi il tuo sorriso più amichevole e mentre senti il tuo sesso che diventa turgido, le rispondi con un “ciao Manuela sono Vittorio”. Il volo è nelle prime ore normale, solo il contatto casuale tra le gambe sembra promettere qualcosa di più di un vago chiacchericcio da compagni di viaggio. La notte artificiale imposta dalle hostess per aiutare il cambio di fuso orario cala presto. Manuela non ha voglia di dormire. Quasi una metamorfosi avviene in lei, il buio deve avere assopito la signora di mezza età per lasciare libera la creatura che ha scelto quei pantaloni, quella biancheria intima e quel tacco invitante. Manuela offre una sigaretta, e la accetti con una smorfia gentile. E’ lei ad accenderla ed a passarla, è lei che dedica un’artificiosa lentezza nel gesto. Prendi la sigaretta e ne aspiri profondamente il fumo, gliela ripassi. La scena si ripete per qualche volta fino a che nel non avvicini le labbra alle sue, lei ti accetta e la sua bocca si apre per lasciare insinuare la lingua. Senti la sua mano destra che scivola rapidamente sotto la coperta da viaggio che avevate gettato sulle gambe per ripararvi dall’aria condizionata. Avverti la mano di Manuela scorrere sui fianchi dirigendosi verso la cintura dei pantaloni. Con un gesto rapido si insinua nei pantaloni e si muove decisa nel raggiungere e massaggiare delicatamente le palle, e la base del sesso che senti spaventosamente duro in un istante. Le slacci delicatamente i pantaloni ed avverti fortissimo l’odore della sua eccitazione, e la tua mano si fa strada verso la parte che indovini più umida della sua biancheria. Il tuo dito indice si appoggia rudemente sulla parte della sua biancheria dove la clitoride pulsa sotto le mutandine. Il dito é letteralmente ricoperto dal suo umore, lo senti caldo ed umido come se fosse stato immerso in una qualche crema bollente. Manuela estrae la mano dai pantaloni, li abbassa delicatamente e tuffa la testa sotto la coperta. Senti il sesso attirato tra le sue labbra, sbirci sotto la coperta e vedi l’immagine della bocca rosso scarlatto di Manuela che come per magia si allarga per ospitare il membro completamente eretto. Ti colpisce l’immagine di come scompaia entro quella boccuccia rossa scarlatto. Senti che sei prossimo ad esplodere, vuoi che l’eccitazione che ti ha provocato ed il flusso caldo dello sperma che senti impaziente di sgorgare finisca dentro la vagina di Manuela. Le sussurri “andiamo nella toilette … ora … subito!”. Lei si alza, si ricompone frettolosamente, e si avvia verso la toilette. La segui, chiudi la porta dietro del bagno dietro di te, e la vedi in piedi in quello spazio angusto. Le abbassi i pantaloni ti inginocchi e tuffi la lingua in quel caldo ricettacolo che è la vagina di Manuela. Lei ansima, la senti prossima all’orgasmo . Ti sollevi in piedi e con una disperata ansia ed infili il sesso eretto tra le sue gambe. Dura pochi istanti, pochi rapidi movimenti e Manuela viene, con violenza quasi e mentre senti il fiotto caldo del tuo sperma uscire quasi sparato entro di lei, la sua bocca nel culmine dell’ orgasmo avidamente ti succhia il collo.

Ti ritrovi seduto sulla poltrona del posto fumatori, osservando distrattamente il panorama che l’aereo in fase di discesa ti mostra. Ti accorgi appena della placida Macchia che con un bacio sulla guancia si appresta al commiato.


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Indecifrabile

La nuvola d’oro

C’era una volta un gran nuvolone grigio che vagava per i cieli di tutti i continenti portava ovunque tanta pioggia e grandi nevicate; produceva più acqua di tutte le altre nuvole messe assieme e per questo si era meritato il nome di Pluvione. L’acqua aveva una grande importanza per tutti gli abitanti della terra e Pluvione sapeva quanto fossero indispensabili le sue piogge; il suo corpo nuvoloso, spinto dai forti venti dell’Ovest si gonfiava di orgoglio e correva a più non posso dispensando acqua ovunque passasse. Come certo si sarà capito, Pluvione era veramente enorme e non solo perché conteneva tanta pioggia, ma soprattutto perché dentro aveva a un grande e complicato meccanismo che serviva a fabbricare la pioggia; esso veniva manovrato da tante piccole nuvole operaie che lavoravano alacremente. Volina era una di esse e, pur essendo molto piccina, lavorava quanto le altre e anche di più, infatti svolgeva molto bene il suo lavoro perché era velocissima; il suo compito era quello di portare il Pulviscolo dalla Sala di Raccolta al Magazzino di Separazione. Il Pulviscolo serviva per costruire le gocce d’acqua e veniva raccolto setacciando l’aria che Pluvione attraversava. Al Magazzino di Separazione veniva diviso in modo che i pezzi più grandi fossero portati dove si costruivano le gocce più grosse e quelli più piccoli dove si costruivano quelle più piccole. Dalla Sala di Raccolta uscivano carrelli stracolmi di Pulviscolo che però non erano pesanti e consentivano un veloce trasporto. In alcuni paesi, dove il caldo torrido prosciugava i pozzi d’acqua l’arrivo di Pluvione era considerato come un grande avvenimento, per questo quando i venti dell’Ovest annunciavano il suo arrivo le popolazioni di quei territori preparavano grandi feste, ricche di balli e danze, e che erano un modo per ringraziare Pluvione per il suo prezioso dono. Pluvione apprezzava tutte quelle riverenze, ma ciò che lo riempiva maggiormente di soddisfazione era vedere la Terra che si rivitalizzava sotto la sua acqua: il deserto rifioriva, i peschi sbocciavano, i torrenti si gonfiavano d’acqua correndo gioiosamente verso valle, le cime delle montagne diventavano bianche e silenziose sotto la sua candida neve. Questi spettacoli favolosi erano la gioia nella vita di Pluvione e gli davano la spinta necessaria a svolgere sempre meglio il suo lavoro. Un giorno, mentre sorvolavano il Continente Desertico annaffiando generosamente quelle terre riarse, improvvisamente Pluvione s’inceppò; non riuscì più a far cadere una goccia d’acqua e fu come se tutto si fosse fermato. Mentre Pluvione cominciava a correre più velocemente del solito nel tentativo di sbloccare il meccanismo, al suo interno c’era un caos senza senso; le nuvole operaie vagavano senza meta cercando di capire cosa fosse successo e intanto i rilevatori sembravano impazziti. Pluvione era infuriato, ma l’unica cosa che riusciva a fare era correre per i cieli nella speranza di sbloccarsi il più presto possibile. Le ore e i giorni iniziarono a trascorrere senza che si trovasse una soluzione e, intanto, la Terra cominciava a mostrare i primi segni di sofferenza per la mancanza di acqua; quelle constatazioni accrescevano la disperazione di Pluvione che non sapeva più come fare per tornare a produrre la sua pioggia. Volina, come tutte le altre nuvole operaie, era rimasta senza lavoro e girovagava per il nuvolone cercando una spiegazione a quel caos; mentre si trovava in una zona a lei poco conosciuta, vide una vecchia nuvola, poco più grossa di lei, che se ne stava in disparte da tutte le altre. Le si avvicinò incuriosita e quando le fu appresso si presentò: – Salve, mi chiamo Volina e lavoro alla Sala di Raccolta, Voi, invece, cosa fate?- La vecchia nuvola non rispose e addirittura sembrava non essersi neppure accorta della presenza di Volina; lei ci rimase male e fece il verso di andarsene, ma in quel momento la vecchia nuvola si volse verso di lei dicendo: – Salve piccina, io mi chiamo Biancone e sono talmente vecchio che potrei essere tuo nonno!- Volina restò sbigottita; ma come, prima non le aveva neppure risposto e ora le riservava quelle gentilezze! Mah, certe nuvole sono proprio strane, venne da pensare a Volina; ad ogni modo le sembrò educato rispondere. – Ho molto piacere di conoscerti, Biancone, io mi chiamo Volina e lavoro alla Sala di Raccolta. Tu cosa fai? – – Eh? Cosa? Che hai detto? Parla più forte! – urlò Biancone. Ora il mistero dell’indifferenza di prima era svelato, Biancone era sordo! Volina ripeté quello che aveva detto prima, ma questa volta parlò più forte e scandì bene ogni sillaba. – Ehi – disse Biancone quasi interrompendola – non urlare, non sono mica sordo? – Volina trattenne a stento una risata, quella vecchia nuvola era davvero matta, però era anche molto simpatica e restò volentieri a fare due chiacchiere. Biancone costruiva le gocce d’acqua al Laboratorio Precipitonometrico e questo contribuì ad accrescere l’ammirazione di Volina per quella vecchia nuvola poiché era risaputo che coloro che lavoravano al Laboratorio avevano molta esperienza e conoscevano palmo a palmo i cieli ed i loro abitanti. Molte nuvole giovani, come lo era Volina, decidevano di stare con Pluvione per fare un po’ di esperienza prima di iniziare l’avventura solitaria nei cieli, invece le nuvole anziane si stancavano di volare e preferivano prestare la loro opera a Pluvione. Volina era affascinata da quella strana e vecchia nuvola e le fece tantissime domande sul suo passato e su quello che aveva visto viaggiando da sola; Biancone era felice di aver trovato qualcuno che ascoltasse le sue storie e durante gli anni che aveva trascorso volando per conto suo ne aveva viste di tutti i colori. Ma delle tante storie che raccontò a Volina quella che la colpì maggiormente fu il racconto della vicenda che spinse Biancone a lavorare per Pluvione; successe pressappoco così. Biancone aveva appena finito di scaricare il resto della sua pioggia su di una verdeggiante collina quando all’improvviso un forte vento iniziò a soffiargli alle spalle; data la sua modesta mole fu subito sospinto via, ma quel vento caldo non lo infastidiva, anzi, gli creava quasi una sensazione di piacere. Si lasciò trasportare senza opporre resistenza, cullandosi nel tepore di quell’arietta e per un attimo dimenticò i suoi doveri di caricamento per la produzione di pioggia e restò in balìa del vento. Quel dolce viaggio si interruppe bruscamente allorché Biancone si scontrò con un grande nuvolone nero; d’un tratto si trovò immerso in un mondo che non aveva mai conosciuto prima , all’interno della nuvola c’erano tante altre piccole nuvole che vi lavoravano, un po’ come succedeva da Pluvione. La differenza era che in questo nuvolone nero l’attività era molto più lenta e tutte le nuvole avevano uno strano colore tendente al giallo. Biancone si guardava attorno meravigliato, ma dopo il primo attimo di stupore si accorse che lì dentro c’era una puzza tremenda, impossibile da descrivere. Cercò al più presto di uscirne fuori e solo dopo innumerevoli tentativi vi riuscì; tornato finalmente all’aria pura si voltò per vedere in che razza di coso era stato. Con suo enorme stupore vide uscire da quell’orrendo nuvolone una pioggia giallastra e puzzolente che appena toccava terra bruciava ogni cosa. Biancone scappò via spaventato e continuò a correre finché non fu esausto; si fermò per riposare e cominciò ragionare su quale strano fenomeno potesse aver provocato la trasformazione di quella nuvola; per quanto si sforzasse di ricordare un fattaccio del genere non era mai successo, doveva sicuramente trattarsi di un cambiamento abbastanza recente. Per diversi giorni il pensiero fisso di quella povera nuvola continuò a tormentarlo finché un giorno, mentre dispensava un po’ della sua acqua, si trovò a passare nei paraggi di Nuvola d’Oro e decise di andare a chiedere il suo parere. Fu subito abbagliato dal grande splendore che il suo corpo nuvoloso irradiava, le sue forme avevano un’armonia perfetta ed il suo colore dorato le donava l’aspetto fantastico di cui tanto si parlava. Nuvola d’Oro aveva l’importante compito di far partire le giovani nuvole per il loro primo viaggio solitario: ad esse raccomandava e consigliava i metodi migliori per la produzione della pioggia. Nuvola d’Oro era molto saggia e per questo qualche volta anche le nuvole anziane si rivolgevano a lei per avere consigli utili o trovare rimedi per i loro acciacchi. Biancone decise di raccontarle ciò che aveva visto per sapere se poteva esserci una spiegazione; mentre le parlava Nuvola d’Oro diventava sempre più triste perché non era la prima volta che sentiva racconti come quello, quegli strani avvenimenti si verificavano da quando l’aria si era trasformata e non era più come una volta per cui neppure la pioggia che si produceva aveva le stesse caratteristiche. Purtroppo il Pulviscolo che si trovava nell’aria era pieno di altre sostanze che rendevano la pioggia velenosa; queste sostanze entravano nei meccanismi di produzione che si inceppavano e cominciavano a produrre pioggia velenosa. A volte N Nuvola d’Oro riusciva a sbloccarli, ma quelli che si trasformavano definitivamente non potevano far altro che continuare a produrre acqua insana. Il Nuvolone Nero che Biancone aveva attraversato faceva parte delle nuvole trasformate e niente avrebbe potuto farlo tornare come prima. Ma ci doveva pur essere qualcosa che si potesse fare per migliorare la situazione, si domandava Biancone diventato anche lui molto triste; Nuvola d’Oro disse che il solo rimedio era aiutare Pluvione che con la sua pioggia limpida riusciva a tenere il cielo pulito. Fu questo il motivo per cui Biancone decise di abbandonare la sua vita di nuvola solitaria e di dedicarsi al lavoro con Pluvione. Volina era senza parole, il racconto dell’anziana nuvola la stava sconvolgendo; e se tutte le nuvole avessero cominciato a produrre pioggia velenosa, che fine avrebbe fatto la Terra? Questa domanda la spaventava moltissimo, ma d’un tratto si rese conto che anche Pluvione, ancora impossibilitato a riprendere la produzione di pioggia, potesse avere lo stesso problema che l’avrebbe ridotto come il Nuvolone Nero. Bisognava fare qualcosa prima che la situazione precipitasse definitivamente; ma sì, certo, perché non ci aveva pensato prima! Doveva andare a parlare con Nuvola d’Oro, solo lei avrebbe potuto trovare il modo di sbloccare Pluvione. Immediatamente si confidò con Biancone per sapere se la sua era una buona idea. – Cara Volina, la tua sarebbe un’ottima idea se non fosse che Nuvola d’Oro dista parecchie miglia da dove ci troviamo noi ora. – – Ma io corro veloce, caro Biancone, e prima che tu te lo aspetti tornerò qui con Nuvola d’Oro! – Detto questo Volina partì ben sapendo che la sua era anche una corsa contro il tempo, più si aspettava e maggiori erano le probabilità di un cambiamento irreversibile di Pluvione che sarebbe diventato un produttore di pioggia velenosa. Volina era velocissima e nel cielo sembrava un siluro, molte nuvole si voltavano a guardarla e si domandavano dove andasse con tutta quella fretta. Ben presto arrivò alla sua meta e appena ebbe ripreso un po’ di fiato spiegò a Nuvola d’Oro il problema di Pluvione. – Va bene, Volina, verrò a vedere cosa posso fare e ne frattempo lascerò il mio lavoro a qualche aiutante. – Partirono immediatamente, ma questa volta il viaggio fu più lungo perché Nuvola d’Oro non poteva correre alla stessa velocità con cui Volina era arrivata da lei. Arrivarono quando la situazione dentro Pluvione stava per diventare insopportabile, le nuvole operaie avevano perso la speranza di tornare a lavorare ed alcune avevano già deciso di abbandonare Pluvione al suo destino. Volina accompagnò Nuvola d’Oro da Biancone il quale, appena le vide, si svegliò dal suo torpore e si accinse a far entrare Nuvola d’Oro nel Laboratorio Precipitonometrico. A Volina non era permesso entrare quindi restò fuori ad aspettarli; lente ed inesorabili iniziarono a trascorrere le ore, poi i giorni, e niente di nuovo succedeva. Finché all’alba di un fresco mattino le due nuvole uscirono dal Laboratorio e nello stesso istante le attività si rimisero in moto e le nuvole operaie poterono tornare al lavoro. Volina restò con Biancone e Nuvola d’Oro per farsi spiegare come erano andate le cose. – All’interno del Laboratorio sono stati portati dei Pulviscoli avvelenati che hanno incastrato il meccanismo di produzione della pioggia; li abbiamo individuati ed eliminati ed ora tutto tornerà come prima. – disse soddisfatta Nuvola d’Oro. – Adesso sembra tutto risolto, ma non potrebbe succedere ancora? Potrei addirittura essere io a portare i Pulviscoli avvelenati e saremmo daccapo con lo stesso problema! – ribatté Volina preoccupata. – Questi casi, per fortuna, sono rari, quindi non ti preoccupare del tuo lavoro, continua a farlo tranquillamente come prima; fino ad ora sono state liberate molte sostanze velenose, ma gli abitanti della Terra si sono accorti del danno che facevano ed ora stanno correndo ai ripari. Crediamo che nel futuro questi problemi non esisteranno più, anche se per il momento possiamo solo sperare che quel giorno arrivi il più presto possibile. – Concluse Nuvola d’Oro con un profondo sospiro.


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Ilaria Gagliardini

Oltre i confini del cielo

Qualcosa dipende da me, ma per niente tutto

I parte

Cercalo dentro: lenticolari

Una mattinata di sole e ventosa è tutt’altro di una notte buia e tempestosa. Questo riuscirebbe a capirlo anche il Presidente di un club di volo, spesso, non sempre, con qualche eccezione.

Quella era una giornata da non lasciar scappare e così con qualche telefonata, nemmeno necessaria, ci trovammo, quel sabato, in cinque in decollo.

Il vento non era favorevole con quel nord che ti veniva alle spalle ma, a ben sperare, uno sbuffo frontale non si nega o al minimo un momento di calma. E poi quella fila di lenticolari mi attirava come nient’altro.

Tutti pronti al decollo alle 12,30, in quel momento consentito dall’aria, decollai.

Vedendo le fatiche compiute e gli artifizi fatti fra abilità e molta fortuna o caso, gli amici del “tutti per uno, uno per tutti” rinunciarono decidendo di aspettarmi in atterraggio. Un rotore mi consentì di compiere un passaggio quasi radente, di sberleffo ai rinunciatari e via in una ascendenza costante, strana, proprio strana verso la lenticolare apparentemente più vicina. Non una termica, ma un 3 metri al secondo costante a salire per ritrovarsi in una nebbia che non doveva e non poteva esserci. Ma così era, e poi luci, suoni, un benessere totale. In quella lenticolare non ero solo, con l’assoluta certezza della presenza di molti altri visitatori.

Mi ritrovai in un praticello ai bordi di un piccolo laghetto di acqua sorgiva, a 30 chilometri alle spalle del decollo. Il deltaplano era a fianco a me che, sdraiato a pancia in aria, prendevo il sole, con le ali quasi a sfiorare cespugli e alberi, un luogo dove nemmeno un elicottero poteva scendere in verticale perfetta. L’occhio sfiorò l’orologio e trasalendo lessi: 12,35.

Dopo circa mezz’ora, ad alcune centinaia di metri, da un’automobile scesero i quattro rinunciatari e iniziarono da metri: “Che fine hai fatto?”, “che è successo? Che fai qui?”. E io: “Perché?”. “E’ da ieri che ti cerchiamo”. “Come da ieri? Che dite? Ma se è l’una.” “E’ l’una di domenica e tu sei decollato sabato”. 24 ore e cinque minuti.

Le lenticolari avevano lasciato il posto ad un azzurro fatto di altro.

 

 

II parte

Cercalo fuori: controlli prevolo

Strano rapporto quello con chi ti manca, fatto di una assenza sorda e rumorosa. Così mi mancava mio padre che da molti mesi aveva deciso di essere solo energia.

Quel pomeriggio il temporale si era formato in valle e aveva incominciato ad allargarsi verso la montagna, poteva passare qualche minuto o al massimo qualche decina, ma tutto si sarebbe chiuso e degenerato.

Prima tappa del mio CAP444, quattrocentoquarantaquattro chilometri in quattro giorni, con l’obbligo di un solo trasporto in decollo e nessun atterraggio in valle, tanto valeva atterrare, subito, sulla cima e lì aspettare gli eventi dell’atmosfera. Tre passaggi, scelto il posto, picchia veloce al pendio, coraggio, veloce e sali, sali, sali, stallo.

Il temporale passa e passa la notte sotto le ali. Alle 12 l’aria sale il pendio. Dopo 1 ora mi sposto, agganciato, di alcuni passi per una posizione di decollo migliore.

Un cane bianco, enorme, arriva di corsa abbaiando, con un’aria tutt’altro che pacifica. Sgancio e come un pinguino goffo mi sposto, prendendo il coltello da una tasca. Lui mi ignora, va alla barra abbaiando e mordendo l’angolo del trapezio. Uno sguardo, che avevo già conosciuto, e girato il garrese scompare dietro un collinotto poco più in basso. Aveva strepitato verso un push di raccordo, che era uscito dalla sua posizione a causa dell’atterraggio del giorno prima.

Non l’avrei notato, non era mai accaduto, se fossi decollato al primo tiro del cavo d’acciaio sinistro avrei raggiunto mio padre.

Quegli occhi erano i suoi. Stava così in pace che aveva deciso di tenermi, chissà per quanto, e comunque ancora per un po’, alla larga.

 

 

III parte

Lo hai trovato: vestilo

Non mi sono mai sognato di governarlo, non più di quanto fosse il minimo indispensabile, tantomeno di domarlo, gestirlo o come si dice? Ah sì, pilotarlo, sì così ho sentito che si dice fra quelli che se ne intendono.

Ho solo deciso di vestirlo.

Un vestito? Certo un vestito si veste.

Si veste ancor più una pelle.

E quella è la pelle che ho deciso di vestire, per hobby? No per vita.

Provaci a vivere tu senza pelle. Le prime ad arrivare sono le infezioni.

Ti infetti ed è finita.

La pelle ti protegge, ti cura e si prende cura di te.

Prendersi cura.

Il mio aliante si prende cura di me.

Della mia salute, della mia vita.

Se vuole può prendersela quando vuole.

Ci terrei che me la concedesse ancora un po’.

 


 

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Nando Ferrauti