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Pensieri sospesi … in mongolfiera


Nell’aria frizzante di un’aurora primaverile in Cappadocia, imbaccuccata negli unici abiti caldi trovati nello zaino, salgo sulla jeep che attende davanti all’albergo coi miei compagni di avventura.

Dopo pochi chilometri di strada tortuosa lasciamo il tracciato per addentrarci su piste battute nella campagna.

È ancora buio e s’intravvedono dei bagliori.

Non sono fuochi, ma le fiammate che fuoriescono dalle mongolfiere, come scopriamo giungendo nella vasta radura.

Enormi palloni aerostatici giacciono sgonfi, adagiati sul terreno in un ammasso di corde, i loro colori sgargianti che spiccano nel chiarore incerto di quei momenti prima dell’alba. I cesti per il trasporto dei passeggeri sono dei grandi canestri in vimini, che ricordano i cesti da picnic.

Ogni mongolfiera trasporterà 16 viaggiatori, disposti a coppie negli 8 settori della cesta. Intorno si muovono con ordine e precisione gli addetti, ciascuno impegnato nel proprio ruolo.

Lentamente, i palloni variopinti si gonfiano e assumono la posizione verticale. Le ultime operazioni sono concluse e il nostro pilota – un turco che ci parla in un inglese dalla forte inflessione americana – dà le informazioni sul volo.

Tutto finalmente è pronto e intorno a noi qualche mongolfiera si è già alzata.

La luce aumenta, mostrando uno spettacolo difficile da descrivere.

Siamo a bordo, le fiammate riscaldano l’aria ancora fredda. Saliamo lentamente, in assenza di vento. Un’ascensione lieve, quasi impercettibile, più dolce di quella di un moderno e silenzioso ascensore.

Siamo sospesi nel vuoto, in un caleidoscopio di 150 palloni aerostatici che popolano il cielo.

È l’alba: il sole si alza e rischiara il cielo rosato e azzurro, delicato acquerello di un pittore innamorato. Sotto di noi, lo spettacolo della Natura si rinnova in un’alternanza di verde e di rocce, e avvistiamo i Camini delle Fate, coi loro comignoli e tetti aguzzi, nei colori sabbiosi del tufo.

La commozione prende alla gola, m’impedisce di parlare.

I miei compagni di viaggio ridono eccitati, parlano, scattano foto. Ma i loro commenti mi giungono indistinti e smorzati, filtrati dall’emozione.

Mi estranio da tutto e ammiro il panorama. Tuttavia non posso esimermi dallo scattare qualche foto. Voglio immortalare nel tempo questa sensazione di sospensione, di attesa, d’immobilità.

Sono in balìa dell’aria e dell’abilità del pilota, che dirige il velivolo e dolcemente lo fa abbassare, mostrando i dettagli di un paesaggio unico al mondo.

Da quassù i pensieri sono diversi, rarefatti. Forse non penso nemmeno ma lascio emergere solo le sensazioni. È incredibilmente affascinante.

Stiamo planando, e il sogno ad occhi aperti s’infrange nella realtà dell’atterraggio. Placidamente il pallone tocca terra. Anzi, no. Siamo atterrati direttamente sul carrello trasportatore del velivolo.

Tutti applaudono alla maestria del conducente. E si scende, per un improvvisato brindisi a base di champagne e le ultime foto di rito con il pilota.

L’avventura è finita. Resta nel cuore quella sospensione dei pensieri, quel pacifico volo nel blu e nell’oro di un’alba turca che non teme uguali.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Paola Trinca Tornidor

L’alba delle fate

Sebbene il processo evolutivo gli abbia negato la dimensione aerea, quello del volo è un sogno che accompagna da sempre il genere umano tuttavia, l’ingegno che lo contraddistingue gli ha consentito di elevarsi comunque al di sopra della dimensione terricola e di guadagnare con dei congegni volanti un mondo che, per sua natura, non gli è congeniale.

Così, benché nel corso dei secoli della storia dell’umanità si annoverino molteplici tentativi di ascendere e solcare gli spazi sconfinati dell’atmosfera – alcuni più probabili, altri avvolti letteralmente dalla leggenda – la conquista dell’aria è avvenuta in epoca abbastanza recente. Se infatti consideriamo una macchina più pesante dell’aria (annuari della storia dell’aviazione alla mano) sappiamo per certo si è involata solo agli inizi del ‘900 mentre una più leggera dell’aria verso la fine del ‘700. Dunque una conquista agognata eppure sfuggente, tecnicamente assai complessa da conseguire.

Oggi sono milioni i passeggeri che viaggiano in lungo e largo attraversando la dimensione aerea a tutte le quote e latitudini, per motivi di lavoro o di piacere, con il risultato che il volo ha perso un po’ del suo fascino ancestrale.

Esistono tuttavia diversi modi di volare: con gli autobus dell’aria, appunto, o con improbabili agglomerati di metalli leggeri assemblati in garage passando per minutissimi gusci d’uovo ma in materiali compositi o per finire ai grandissimi lenzuoli colorati pieni di funi e cordicelle … certo è che il volo rimane un’esperienza unica nel suo genere. E lo è tal punto che per alcune persone mantiene inalterato il suo fascino unico. Forse si tratta dei soggetti più sensibili oppure di quelli meno corrotti dall’abitudine o magari quelli più riflessivi. Semplicemente perché il volo comunica loro un senso di pace, è l’occasione per ritrovarsi di fronte alla visione della Terra dall’alto, per rimuginare sul proprio vissuto o pianificare il proprio futuro con rinnovato slancio.

Ancora un breve passo tratto dal racconto di Agnese Pelliconi: “Si guardò attorno: decine di mongolfiere si erano sollevate in volo assieme alla loro. Ognuna coi suoi colori e coi suoi passeggeri, tutte trasportate dal vento, in silenzio. Non aveva mai visto nulla di simile, era come essere dentro una fiaba. In effetti il paesaggio sotto di loro era veramente uno scenario da favola”

C’è poi un altro aspetto di cui occorre tenere conto. Esistono molti luoghi sul pianeta Terra in cui ci si può involare. Dal Polo Nord, percorrendo i due emisferi fino a giungere all’altro Polo, è ormai possibile volare pressoché ovunque ma è pur vero che ci sono dei luoghi cosiddetti “speciali” dove l’esperienza di volo – già di per sé speciale – assume dei connotati davvero unici quanto memorabili.

Ebbene uno di questi luoghi è senz’altro la Cappadocia in Turchia e, in particolare, il parco nazionale di Goreme, una sorta di museo all’aperto che – non a caso – gode dello status di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

In quel luogo, la presenza di particolari formazioni rocciose denominate: “camini delle fate” e di una moltitudine di mongolfiere che svolgono voli turistici all’alba rende possibile a moltissimi visitatori l’opportunità di vivere un’esperienza memorabile che segnerà loro l’esistenza.

Non ci credete? … beh, allora leggete il racconto di Agnese Pelliconi e di Paola Trinca Tornidor che – incredibile a dirsi – hanno descritto minuziosamente – ciascuna a suo modo, s’intende – la medesima situazione.

Non sappiamo dire se Agnese e Paola abbiamo partecipato assieme allo stesso viaggio, tuttavia entrambe hanno descritto il loro volo in mongolfiera con la medesima vividezza. Così, se la prima ci ha regalato un racconto di più ampio respiro e dal taglio più intimista, la seconda ha preferito un breve racconto dai toni giornalistici piuttosto più che da quelli psicologici; eppure entrambe incuriosiscono il lettore e lo inducono a documentarsi oltremodo.

Una grande verità espressa da Agnese Pelliconi nel suo racconto applicabile più che altro a chi vola con macchine più pesanti dell’aria: “Chi pilota un volo non guarda indietro, guarda avanti.

Un altro aspetto le accomuna: hanno partecipato entrambe alla VII edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE e, purtroppo, entrambe non hanno ricevuto un giudizio benigno da parte della giuria giacché non sono state ritenute meritevoli di accedere alla fase finale del Premio. Peccato.

Poco male, cara Agnese e Paola perché ci è stato concesso l’onore di ospitarvi entrambe nel nostro grande hangar. Perciò ci permettiamo di affermare: grazie giuria!

Occorre aggiungere altro rispetto a quello che narra la protagonista del  racconto “L’alba delle fate”? Probilmente no. Eccolo: “Quel volo continuò per un’ora: il paesaggio si trasformava in continuazione sotto la luce crescente, frutto della mano di un artista che non esauriva la fantasia e aveva una tavolozza di colori infinita. Le mongolfiere nulla toglievano a quel paesaggio, anzi, col loro ondeggiare aggraziato aggiungevano bellezza alla bellezza.”

E’ la prima volta che accade ma, a questo punto, con un’unica recensione vorremmo accennare contemporaneamente al racconto “L’alba delle fate” e a “Pensieri sospesi … in mongolfiera”. Come metterle a fattor comune.

La mongolfiera è un aerostato, ossia una macchina volante più leggera dell’aria, evoluzione di quella che i fratelli Mongolfier fecero volare nel 1783 e rimane ancora oggi un aeromobile non direzionabile, alla mercé dei venti e capace solo di ascendere o discendere a discrezione del pilota. Il volo della mongolfiera è morbido, il suo distacco da terra è dolce e anche la salita in quota avviene nel più completo silenzio (fatto salvo il rumore del bruciatore che provvede a immettere nell’involucro aria calda e i prodotti della combustione del propano) con una fluidità che è tutta una sua prerogativa.

Se questo volo si svolge alle prime luci dell’alba sopra un territorio come quello della Cappadocia con lo sfondo dei “camini delle fate” la magia è compiuta, E se poi ai colori dei primi raggi del sole riflessi sulle rocce si unisce una distesa a perdita d’occhio di mongolfiere multicolori che s’innalzano tutte assieme e tutte attorno, beh … la magia si amplifica a dismisura.

A questo punto però, la recensione si biforca e quella che segue è relativa solo al racconto “L’alba delle fate” di Agnese Pelliconi.

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Così descrive l’ascensione in mongolfiera la protagonista del racconto di Agnese Pelliconi: “Lentamente, un centimetro alla volta, il pallone, il cesto e i suoi occupanti si staccarono da terra. Una sensazione nuova, quell’innalzarsi verso il cielo piano piano. Tutta un’altra cosa rispetto alla roboante partenza di un aereo.”

Dicevamo … per chi e si trova dentro al cesto di vimini della mongolfiera, intento a osservare quell’incantesimo, lo staccarsi da terra e la lenta ascensione diventano la metafora del lasciarsi andare – finalmente -, dell’abbandonare il peso di un’esistenza travagliata e del raggiungere progressivamente una nuova consapevolezza di sé.

La vista, ammaliata da quel panorama indicibile, diverrà così il nutrimento di questa lenta metamorfosi e il silenzio in cui tutto è avvolto sarà il catalizzatore che ci renderà migliori. Chiunque di noi sia in quel momento emotivamente ricettivo e, naturalmente, la protagonista del racconto di Agnese Pelliconi.

Inoltre l’alba sopra ai camini delle fate, il ricordo di quel preciso istante del mattino in Cappadocia, diverranno per lei – e per noi, ovviamente – una fonte inesauribile di energia e di certezze cui attingere nei momenti di difficoltà che – inevitabilmente – la quotidianità le e ci dispensa. Come? … sarà sufficiente chiudere gli occhi e rivivere quei momenti magici per recuperare quella leggerezza del vivere che sarà venuta meno.

Un passo che troviamo splendido: “La luce del sole che sorgeva faceva risaltare la tavolozza dei colori delle rocce: dal bianco all’ocra, dal terra bruciata a tutte le sfumature del rosso. Ad ogni minuto che passava la luce dell’aurora cambiava e i riflessi delle rocce mutavano.”

Il racconto di Agnese, benché di estensione apprezzabile, si legge piacevolmente. Il vissuto e il presente si amalgamano perfettamente tanto che non annoiano a dimostrazione delle indubbie qualità narrative dell’autrice. E’ vero: sono presenti ampie digressioni e il contenuto aeronautico è relativamente blando tuttavia il racconto è armonico, l’avvio incuriosisce e il finale strappa lo stesso senso di sollievo provato dalla protagonista.

Agnese Pelliconi ha una facilità di scrittura che – onestamente – le invidiamo. In quello che scrive si legge a caratteri cubitali che in lei c’è talento – quello vero – e che i viaggi sono per lei sono solo il pretesto per inserire uno sfondo verosimile da inserire nelle sue storie. E’ un’autrice che non vorremmo mai incontrare in un premio letterario perché ha tecnica, inventiva e sa tratteggiare come un sapiente pittore luoghi, persone e i loro trascorsi. Tutto nella stessa tavolozza.

Non sappiamo dire quanto di biografico ci sia alla base del racconto di Agnese Pelliconi ma di certo – qualora l’abbia provato in prima persona – il volo in mongolfiera le ha giovato giacché, avendo avuto la fortuna di incontrarla in occasione della premiazione della VI edizione di RACCONTI TRA LE NUVOLE, abbiamo apprezzato la sua giovialità, il suo sorriso radioso e il piacere di vivere che sprizza da tutti i pori.

Un magnifico colpo d’occhio che l’obiettivo della macchina fotografica è riuscito a malapena a riprendere per l’enormità di quanto  gli si prospettava davanti

Rimane però una considerazione a margine dal sapore vagamente campanilistico: Agnese, occorreva per forza andare fino in Turchia per volare in mongolfiera? … hai ragione … affinché la magia si compia occorre sorvolare i “camini delle fate” … vero … e allora replichiamo: perché i camini delle città italiane non funzionano? … sapessi quante fate ci sono in quelle case!?


Recensione  a cura della Redazione


Narrativa / Medio lungo

Inedito;

ha partecipato alla VII edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2019;

§§§§ in esclusiva per “Voci di hangar”§§§


NOTA: le foto di copertina e quelle presenti nella recensione provengono da Flickr.com

L’alba delle fate

Il telefono ruppe il silenzio della stanza con un gracchiare assordante. Non che stesse dormendo particolarmente bene, anzi, la nottata era stata alquanto agitata, ma era riuscita a scivolare in un sonno profondo appena una mezzora prima. Svegliata di soprassalto sollevò la cornetta e dall’altra parte una voce metallica in inglese le comunicò che erano le quattro. Riagganciò la cornetta e fu tentata di ignorare la sveglia e girarsi dall’altra parte…e a questo punto fu la sveglia del cellulare a suonare. Non fosse bastato questo, bussarono vigorosamente alla porta per ricordare, appunto, che era ora di alzarsi.

Incapace di elaborare un pensiero – e soprattutto di valutare se alla fine aveva proprio voglia di affrontare quella giornata – si buttò giù dal letto. Si sciacquò la faccia: il viso era pallido e gli occhi circondati da un alone grigio, segno di un sonno che era venuto a mancare non solo per quella sveglia molto mattutina ma molte volte durante gli ultimi mesi. Per fortuna i vestiti li aveva preparati la sera prima, non sarebbe stata in grado di sceglierli dalla valigia adesso. Uno strato dopo l’altro, pensando alla temperatura fuori, probabilmente di appena qualche grado sopra lo zero. Ma che le aveva detto la testa? Lei odiava il freddo…eppure adesso era qua.

Uscì e con gli occhi ancora semi-chiusi percorse il lungo corridoio: quanto sono tristi i corridoi degli hotel, pensò, pestati da mille piedi che vogliono solo andare da un’altra parte.   

Quasi tutti gli altri erano radunati nella hall: se ne stette in disparte, non se la sentiva di affrontare l’entusiasmo comune per quella levataccia. Un sorriso amaro si affacciò sul volto: in altre circostanza sarebbe stata al centro di quell’entusiasmo…ma adesso proprio le pareva di stare su un altro pianeta.

Entrò un ragazzo con un foglio in mano e fece un rapido appello continuando a dire tra un nome e l’altro che dovevano sbrigarsi. Uscirono dall’hotel e si affrettarono verso il pulmino: era buio pesto e freddo, come previsto. Era in coda al gruppo, le sue gambe avevano la velocità di un bradipo. Il solerte ragazzo le chiuse la portiera alle spalle e per poco il giubbotto non le rimase incastrato in mezzo alla porta. Non imprecò solo perché davanti a lei c’era la più piccola del gruppo, in realtà la compagnia migliore che avesse avuto in quei giorni.

L’avevano soprannominata “Schiacciatina” per quel gioco che si divertiva a fare sui sedili in fondo al pulmino e che consisteva, appunto, nello schiacciarsi l’un altro ad ogni curva. Gli altri si stancavano presto e lei invece mai…anche perché questo le evitava di unirsi ai discorsi degli altri “adulti”. Non che fosse un gruppo noioso, anzi, solo che lei non aveva molta voglia di parlare e soprattutto di raccontare di lei. Giocare con Schiacciatina era un ottimo diversivo e a dirla tutta era gli unici momenti in cui si staccava dal flusso dei suoi pensieri. A parte quei momenti non riusciva a non rimuginare su tutto quello che era successo nei mesi appena passati.

***

Qual era stato il momento in cui tutto era iniziato? O per meglio dire…quando era cominciato l’inizio della fine? Quando l’insofferenza aveva iniziato a serpeggiare? Non sapeva dirlo, quello che sapeva era che ad un certo punto la sua vita aveva iniziato a starle stretta, sotto tanti punti di vista.

Le prime avvisaglie in realtà erano apparse molto tempo prima, ma le aveva ignorate, si era detta che niente poteva essere perfetto e col passare degli anni le cose perdono smalto. Ma tutti quei pensieri perfettamente logici nulla potevano sul peso crescente che sentiva dentro.

Il lavoro innanzitutto: era cambiata la proprietà in azienda due anni prima e le cose erano mutate molto e non in meglio per lei. I nuovi proprietari aveva portato altri manager e pian piano aveva cercato di allontanare “la vecchia guardia”. Un po’ la faceva ridere questa cosa…a 35 anni non è che la definizione “vecchia guardia” te la senti calzare bene…eppure era stato così. Nulla di eclatante all’inizio, tante belle parole, tante rassicurazioni ma alla fine il suo spazio di azione era stato ridotto, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Formalmente non era stato un demansionamento ma nella pratica le avevano tolto risorse e responsabilità; era tenuta fuori dalle riunioni che contavano e dalle scelte importanti. Tanti sorrisi falsi avevano avuto il potere di togliere il suo, di sorriso. Se l’era guadagnata quella posizione: tanto lavoro, tanto sacrificio, tanta grinta. Si era sentita come se le stessero tarpando le ali. Sapeva che non avrebbe potuto resistere e infatti aveva iniziato a cercare altro, finché aveva intravisto una nuova opportunità: diventare partner di una piccola società di consulenza, fondata da un professionista con cui aveva collaborato qualche anno prima. L’idea le era piaciuta sin da subito, sarebbe stata una bella sfida ma avrebbe avuto la possibilità di crescere professionalmente.

L’unica cosa che le aveva destato qualche preoccupazione era stato rinunciare a un contratto a tempo indeterminato e diventare una libera professionista. Quando aveva comunicato l’intenzione di cambiare lavoro alle persone care c’erano stati molti dubbi sulla scelta che stava facendo…non si sarebbe aspettata tante resistenze o critiche velate. In fondo che i suoi genitori non fossero contenti di quella scelta se lo aspettava: “Lasciare un posto fisso? Di questi tempi? Non puoi mica pensare di divertirti a lavorare…chi lascia la vecchia via per la nuova…” Era abbastanza normale che fossero preoccupati, erano di un’altra generazione, il posto di lavoro fisso per loro rappresentava la sicurezza, poteva capirli.

Quello che invece l’aveva sorpresa era stata la reazione di molti dei suoi amici…le avevano detto più o meno le stesse cose dei suoi genitori! Anche lei si rendeva conto che sarebbe stato un grande cambiamento, ma dai suoi amici si sarebbe aspettata più incoraggiamento. Erano davvero amici? O erano solo persone che conosceva da tanto tempo? La domanda se l’era posta tante volte in quei mesi… e si era resa conto che molti rientravano nella seconda categoria. Per fortuna alcuni le erano stati vicino e l’avevano appoggiata in questa sua scelta, ma che delusione gli altri! Addirittura alcuni ex colleghi avevano provato a farla sentire in colpa, pur conoscendo la situazione in cui era.

Alla fine, quello che si era rivelato il peggio di tutti era stato proprio lui, Marco.

Marco, quello che diceva di amarla, quello con cui stava da cinque anni, quello con cui era andata a convivere due anni prima. A dirla tutta da quando erano andati a convivere, il rapporto era rapidamente peggiorato. Aveva messo in conto che per la convivenza sarebbe stato necessario un certo grado di compromesso, eppure le era parso di cedere spesso, troppo. Non si trattava solo degli spazi in casa (lui si era trasferito nel suo appartamento)… per tante cose non avevano trovato un terreno comune. I viaggi per esempio: non era un appassionato di viaggi come lei e piano piano si era resa conto che aveva iniziato a viaggiare meno anche lei. Era un uomo colto, intelligente eppure avevano smesso di parlare…di quel parlare oltre l’accordarsi sulle cose quotidiane. Si era un po’ messo le pantofole e aveva iniziato a dare tutto per scontato. Tante cose l’avevano fatta dubitare del futuro della loro relazione, ma il modo in cui lui aveva reagito davanti alla sua intenzione di cambiare lavoro le aveva tolto tutti i dubbi: “Ma cosa vuoi cercare là fuori? Non sei mai capace di accontentarti…adesso che abbiamo raggiunto una stabilità…ma non puoi pensare a fare figli come tutte le tue coetanee?”

Questi erano solo alcuni dei frammenti delle numerose discussioni che avevano avuto in quel periodo, ed erano stati quelli che l’avevano ferità di più. Anche adesso che ci ripensava, mentre il pulmino imboccava stretti sentieri pieni di buche, sentiva un nodo alla gola e ondate di rabbia salirle dallo stomaco. Come aveva potuto parlarle così…e soprattutto…come aveva potuto – lei – metterci cinque anni per capire con che tipo di persona si era messa??

Era quella quindi la fiducia che lui aveva nelle sue capacità? Preferiva saperla triste in un lavoro che ormai non la rispecchiava più, piuttosto che felice affrontando una nuova sfida professionale? A tanto si spingeva il suo bisogno di certezza? Per non parlare del “velato” accenno a fare dei figli…giusto per essere omologati agli altri. A lei non dispiaceva l’idea di mettere su famiglia, ma non per essere “come tutte le sue coetanee”… Adesso capiva bene perché con lui ancora non aveva messo in pista quel progetto…probabilmente il suo istinto l’aveva protetta, capendo con molto anticipo quello che lei aveva visto con chiarezza solo in quel momento.

A dispetto di tutti i pareri contrari, aveva cambiato lavoro…e aveva cacciato di casa Marco. Sorrise pensando all’ultima discussione, quando lei gli aveva detto che erano troppo diversi per potere stare assieme e che era meglio finirla lì. Aveva visto lo sguardo di lui: non c’era stato dolore…anzi, le era sembrato quasi sollevato. Da quanto tempo lui pensava che sarebbe stato meglio porre termine a quella relazione? Non lo sapeva…sapeva che aveva lasciato a lei l’onere della scelta.

Ovviamente il fatto di averlo lasciato le aveva attirato ulteriori strali: “Adesso? Ti pare il momento adesso? Non ti basta cambiare lavoro? Sei impazzita?”

Le sentiva ancora quelle voci, avrebbe voluto cancellarle, eppure le rimbombavano spesso nella testa.

Si era buttata a capofitto nel nuovo lavoro e le cose parevano ingranare bene, ma sentiva che qualcosa la rallentava, le toglieva energie. La sera, quando tornava a casa, la assaliva sempre quella sensazione, un misto di rabbia repressa e delusione. Ripensava a tutto quello che era successo negli ultimi mesi, a tutto quello che le avevano detto, a quanto le persone si erano dimostrate diverse da quello che credeva. Il primo della lista era ovviamente il suo ex, non che le mancasse: quando rientrava da lavoro, la casa vuota per lei era un sollievo. Eppure,  quando ripensava alle sue frasi, le pareva che fosse ancora lì con lei… sentiva che le si chiudeva la gola e si contraevano tutta…come aveva potuto essere così meschino? E come aveva potuto lei essere così cieca?

Non usciva spesso, aveva tagliato i ponti con tanti finti amici…si era fidata…e aveva raccolto ben poco. Le pareva che questa solitudine fosse la punizione per non essersi accontentata, per aver voluto volare più in alto. Stava lottando faticosamente per voltare pagina, ma sentiva che le vecchia zavorre le impedivano di farlo fino in fondo.

Quella vacanza doveva essere una boccata d’ossigeno, il primo viaggio dopo tanto tempo…eppure sentiva che il peso sul  cuore continuava ad esserci: aveva sperato che il mettersi di nuovo in giro per il mondo avrebbe cancellato tutto, ma non era stato così…a parte i giochi con Schiacciatina continuava ad avere la mente occupata da mille pensieri.

***

La brusca frenata del pulmino interruppe il filo dei ricordi. Erano arrivati al “campo base”. Scesero velocemente e furono accompagnati dentro una grande stanza dove venne servito un thè caldo e qualche biscotto. Non ci fu neanche il tempo di finire quella veloce colazione che il loro accompagnatore tornò a prenderli dicendo che dovevano sbrigarsi. Fuori li attendevano le jeep che li avrebbero portati per l’ultimo tratto di sentiero. Con la strada tutta buche, rimpianse anche quella colazione super leggera.

Intanto fuori il buio stava lasciando spazio alle prime luci dell’alba: un debole chiarore prendeva lentamente il posto dell’oscurità.

Finalmente arrivarono in cima alla collinetta e scesero dalle jeep: eccola lì, davanti a lei, la causa di quella sveglia nel cuore della notte, il vero motivo di quel viaggio.

Era ancora a terra, ma già iniziava a sollevarsi dolcemente, sotto la spinta leggera del gas. Un ragazzo si avvicinò al gruppetto sorridendo e disse che sarebbe stato il loro capitano, indicando il berretto sopra la sua testa. Dubitava molto che fosse maggiorenne, poteva avere al massimo 16 anni…ma probabilmente sapeva il fatto suo…o almeno così voleva pensare.

Aveva già fatto molti voli, anche intercontinentali, era stata su elicotteri e anche su un bimotore. Non aveva certo paura di volare, né soffriva di vertigini…eppure, l’idea di salire su quella cesta di vimini le fece venire un po’ di brividi lungo la schiena…e non era per il freddo.

Guardò i colori del tessuto: blu e grigio tenue. Non era la sola a terra: a pochi metri di distanza ce n’erano altre due, una gialla e un’altra con striature rosse. Poco oltre eccone altre: praticamente tutta la collinetta era costellata di ceste e macchie di colore che si intravedevano nell’oscurità. Stessa cosa nelle colline circostanti: era come un risveglio collettivo, sembrava che tutte si fossero date appuntamento per alzarsi assieme, con le stesse identiche movenze, come in un balletto.

Fu il momento di salire: la prima ovviamente fu Schiacciatina. Si sistemarono a bordo, il capitano diede loro qualche breve istruzione, sciolse le funi e, con uno strappo gentile, la cesta si staccò da terra e la mongolfiera iniziò il suo volo.

Lentamente, un centimetro alla volta, il pallone, il cesto e i suoi occupanti si staccarono da terra. Una sensazione nuova, quell’innalzarsi verso il cielo piano piano. Tutta un’altra cosa rispetto alla roboante partenza di un aereo.

Proprio quello la colpì all’inizio: quell’incredibile silenzio, quel librarsi in volo senza rumore, proprio come gli uccelli. Ricordava il volo in elicottero sopra il Grand Canyon, bellissimo…ma questa era tutta un’altra sensazione. Lì c’era il rumore delle pale (e il pilota che come sottofondo musicale aveva messo la “Cavalcata della Valchirie”), qui c’era solo il silenzio. Tutti avevano rispettato quel silenzio, tutti zitti per paura di infrangere quell’incanto. Si erano guardati sorridendo, sempre in silenzio: non c’era bisogno di parole in quel momento.

Si guardò attorno: decine di mongolfiere si erano sollevate in volo assieme alla loro. Ognuna coi suoi colori e coi suoi passeggeri, tutte trasportate dal vento, in silenzio.

Non aveva mai visto nulla di simile, era come essere dentro una fiaba. In effetti il paesaggio sotto di loro era veramente uno scenario da favola. Le aveva intraviste il giorno prima, mentre col pulmino percorrevano quella parte di Cappadocia, quelle curiose formazioni rocciose, che avevano l’aspetto di torri appuntite: secoli di erosione avevano costruito quelle bizzarre figure nel tufo. Erano soprannominate “camini delle fate”, perché con le loro forme pittoresche richiamavano proprio le dimore di creature fatate. Nel passato in effetti erano state le dimore e il rifugio degli abitanti del luogo ma osservandole sembrava fossero ancora abitate e quasi ci si aspettava che un filo di fumo salisse da quei comignoli.

E adesso li stavano sorvolando: la mongolfiera volteggiava dolcemente sulle guglie e ogni tanto si aveva l’impressione che allungando la mano si potesse sfiorarne la cima. Era solo un’illusione: il capitano, sempre sorridente, prestava molta attenzione a mantenere la quota. Eppure, sembrava che in quel mondo incantato tutto fosse possibile. La luce del sole che sorgeva faceva risaltare la tavolozza dei colori delle rocce: dal bianco all’ocra, dal terra bruciata a tutte le sfumature del rosso. Ad ogni minuto che passava la luce dell’aurora cambiava e i riflessi delle rocce mutavano.

Respirava a pieni polmoni l’aria piacevolmente frizzante; respirava a pieni polmoni come non le succedeva da tantissimo tempo.

Era successo qualcosa quando avevano mollato le zavorre per sollevarsi dal suolo: era come se assieme ai sacchi di sabbia avesse lasciato a terra anche tutti i pesi che l’avevano oppressa in quei lunghi mesi.

Via la delusione per il suo vecchio lavoro, via il fastidio per tutti i commenti poco piacevoli di familiari e amici, via la rabbia per la chiusura della storia col suo ex, via tutti i dubbi che le risuonavano nella testa. Via, tutto via. Man mano che la mongolfiera saliva anche il suo animo si alleggeriva. Sentiva che se avesse allargato le  braccia le sarebbero spuntate ali per volare. Sorrise a questa idea.

Pensò a tutte le generazioni di uomini che avevano desiderato volare e alla fine c’erano riusciti. Guardati come matti i primi che avevano tentato…e probabilmente un po’ matti lo erano. Anche lei era stata considerata “matta”  per il suo desiderio di cambiare la sua vita, matta perché non aveva voluto restare a terra, matta perché aspirava a volare più in alto.

Aveva ignorato la leggenda di Icaro, punito per aver voluto volare verso il sole. Ma come rinunciare a questa sensazione di libertà immane? All’ebrezza di sollevarsi da terra, di mollare tutti i pesi e librarsi nell’aria, per godersi la leggerezza del cielo.

Senza un motore sotto, questa sensazione diventava ancora più intensa: con la mente sgombera lasciava che le forme e i colori delle rocce e delle nuvole le riempissero gli occhi.

“Ma ci sono davvero le fate dentro i camini?”

“Certo Schiacciatina, solo che non si fanno vedere”

“E fanno le magie sul serio?”

“Sì, anche se a volte non ce ne accorgiamo….” Sì, di quante magie non si era resa conto? L’essere di nuovo in viaggio, per esempio, l’aver saputo cercare la sua strada nonostante i pareri contrari, l’essere riuscita a capire quali erano le persone che voleva attorno a lei…non essersi arresa al “vola basso”, ma avere scelto di seguire un altro vento…

Quel volo continuò per un’ora: il paesaggio si trasformava in continuazione sotto la luce crescente, frutto della mano di un artista che non esauriva la fantasia e aveva una tavolozza di colori infinita. Le mongolfiere nulla toglievano a quel paesaggio, anzi, col loro ondeggiare aggraziato aggiungevano bellezza alla bellezza.

L’atterraggio fu dolce, così come era stato il volo: la cesta di vimini si avvicinò piano piano al suolo e depose gli argonauti a terra senza scossoni. All’arrivo li attendeva una medaglia, un attestato (primo volo in mongolfiera!) e naturalmente una bottiglia di spumante. Erano partiti all’alba e quindi erano solo le otto, ma il brindisi spumeggiante fu apprezzato da tutti (ovviamente aranciata per Schiacciatina).

Cosa sarebbe successo adesso che aveva rimesso i piedi a terra?

Per un attimo temette che il ritorno sulla terraferma avrebbe cancellato il senso di leggerezza provato in volo, ma fu solo per un fugace momento. La giornata, nonostante la levataccia, proseguì benissimo e il resto del viaggio pure. Si aprì di più con i suoi compagni di viaggio, aveva voglia di conoscere meglio le persone con cui aveva condiviso quell’incredibile volo.

Anche il rientro alla vita quotidiana andò bene, forse non era una leggenda, forse qualche essere magico abitava ancora in quelle terre o forse qualcosa dentro di lei si era risvegliato…fatto sta che quel senso di leggerezza non l’abbandonò più, neanche nella routine di tutti i giorni.

Era lei ad essere cambiata, aveva lasciato il risentimento quando si era staccata da terra sollevata dal pallone, aveva mollato quel peso fatto di aspettative deluse, di tristezza e di rabbia. Non le serviva quella zavorra: alcune persone ormai non facevano più parte della sua vita, altre le aveva perdonate e comprese. Aveva perdonato anche se stessa…aveva capito che non poteva volare in alto se continuava a rimuginare su quello che era stato. Chi pilota un volo non guarda indietro, guarda avanti.

C’erano ancora momenti in cui sentiva che il peso tornava e allora chiudeva gli occhi e ritornava su quella mongolfiera: rivedeva le forme delle rocce, punteggiate dai colori vivaci delle mongolfiere, la luce nelle mille sfumature di rosa, sentiva il dolce oscillare del cesto di vimini, respirava a pieni polmoni ed ecco che tornava la sensazione di leggerezza e tornava tutta la magia dell’alba delle fate.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Agnese Pelliconi

 

 

Di padre in figlio

Esame scritto d’italiano. Tema dell’esame maturità del ’87 (1900, beninteso).

Citazione di un certo Noberto Bobbio (prima d’allora, almeno per me, un perfetto sconosciuto).

Sulla base della citazione di Norberto Bobbio esprimere concetti e considerazioni personali.

Ancora oggi mi domando cosa diavolo m’inventai o che caspita di boiate scrissi … fatto è che, all’esame orale d’italiano, la professoressa della commissione esterna mi sorrise.

Che provenisse da uno dei più prestigiosi licei classici romani era certo mentre io, ancor più certo, ero un’insignificante studente di uno corso di costruzioni aeronautiche in uno dei più vecchi (e disastrati) istituti tecnici statali romani.

“Il suo tema “ mi disse compiaciuta “è ottimo, il migliore del corso … e sa perché?”

“Perché?” le domandai come un babbeo.

“Perché mi sono riposata.”

Il P-38 Lightning è uno dei due velivoli evocati in questo racconto. La sua vista frontale, immortalata da Geoff Collins (https://www.flickr.com/photos/geoffsphotos/249683193) in questo formidabile scatto del 2006, rende onore alla strepitosa originalità del progetto della Lockeed. Il “fulmine”, traduzione letterale di lightning, era un caccia pesante bimotore statunitense a largo raggio d’azione che trovò un massiccio impiego durante tutta la Seconda Guerra Mondiale.

 

All’inizio non compresi cosa intendesse dire; provò a spiegarmelo ma, onestamente, ero troppo preso dalla prova orale per darle ascolto.

Ebbene, seppure alla distanza siderale di tanti anni, quando ho letto il racconto di Davide Gubellini è nato in me lo stesso stato emotivo, ho provato la stessa sensazione che provò l’insegnante di allora. Giunto all’ultima riga ho esclamato: “Che riposante!”

Ecco il secondo velivolo che viene “nominato” tra le righe di questo racconto. In verità è’ qui ritratto il De Havilland  DH.113 NF.54 (con matricola militare MM 6152), versione biposto del blasonato DH.100. Ha le insegne della Scuola Caccia Ogni Tempo di Amendola e si trova esposto presso il Museo storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, sulle rive del  Lago di Bracciano. Le sue condizioni,  complice anche la struttura in legno della fuoliera,non sono esaltanti e forse meriterebbe un restauro della livrea,

Intendiamoci: la VI edizione del Premio RACCONTI TRA LE NUVOLE ci ha regalato delle splendide composizioni –  le migliori di sempre, almeno a detta dell’editore – sebbene intricate, pregne di dettagli e di minuti indizi narrativi. Sono stati numerosi i testi lunghi e articolati (per non dire intricati) con finali pirotecnici e personaggi di grandissimo spessore storico. Potrei spendere diversi aggettivi a proposito dei racconti presenti all’interno dell’antologia 2018 … tutti fuorché riposanti.

“Di padre in figlio”, questo il titolo del racconto incriminato è invece davvero “riposante”.

Così l’autore riassume il suo racconto:

Questo invece è effettivamente un DH.100. La foto è stata scattata da Martin Wippel (www.Flickr.com) in occasione del 50° anniversario delle Frecce Tricolori, il 12 settembre 2010 a Rivolto, presso la base delle “Frecce”. Il Vampire costituì la ripresa delle attività aeronautiche non solo per la rinata Aeronautica Militare Italiana ma anche per la rediviva industria aeronautica italiana. all’indomani della fine del II conflitto mondiale, diverse decine di Vampire furono infatti costruiti o comunque assembalti dalla Macchi e dalla FIAT mentre nei reparti già erano giunti un cospicuo numero di macchine provenienti direttamente dalla Gran Bretagna. Non a torto, dunque, costituisce il velivolo della rinascita e anche il passaggio ad una nuova generazione di velivoli: i jet. 

“I1 servizio militare in Aeronautica é stato per Gabriele una scuola di vita.

Quasi trenta anni prima, anche il suo babbo Giancarlo assolse gli obblighi di leva in Aeronautica, imparandone un mestiere.

Il racconto descrive questo percorso condiviso, partendo dalla comune passione per il volo e il cielo in particolare. Al punto da divenire l’elemento caratterizzante i1 rapporto tra due generazioni.”

Il contenuto è di chiara matrice autobiografica mentre i protagonisti sono anticipati dal titolo. L’ambientazione è contemporanea; la trama si sviluppa su un solo piano narrativo ed è davvero priva di qualunque sussulto. Salvo il flashback iniziale, è assolutamente lineare.

La prosa è fin troppo giornalistica, di una semplicità esemplare che rasenta quella infantile sebbene sintassi e grammatica siano rispettate in modo invidiabile.

Dalle note biografiche dell’autore comprendiamo il suo stile essenziale e il suo narrare senza orpelli: egli è un giornalista pubblicista iscritto all’albo dei giornalisti da diversi anni e ha all’attivo alcuni libri di storia economica.

Forse uno degli esemplari meglio conservat in museo in Italia. L’esemplare è esposto presso il Parco e Museo del Volo di Volandia (nei pressi dell’aeroporto di Malpensa – Milano) e mostra le insegne di un FB.52A del 154º Gruppo del 6º Stormo di Ghedi (BS). In realtà la sua provenienza e le sue origini sono tutt’altre … c’è da ammettere però che il suo restauro è stato davvero notevole. Lode a Volandia 

Certo il suo scrivere somiglia più ad un’autobiografia che a una composizione in cui, da regolamento, si può dare libero sfogo alla più sfrenata fantasia purché incanalata nell’ambito aeronautico; certo da Davide ci saremmo aspettati qualcosa di più, qualcosa di più ardito e originale, tuttavia siamo fiduciosi che, dopo qualche “rullaggio” incerto, saprà stupirci nella prossima edizione del Premio.

Anche perché, ad onor di cronaca, la giuria della VI edizione di RACCONTI TRA LE NUVOLE, non ha ritenuto meritevole “Di padre in figlio” di accedere alla fase finale relegandolo al XXI posto assieme a tutti gli altri non finalisti. D’altra parte, considerata la caratura media dei racconti finalisti – elevatissima -, sarebbe stato impensabile un risultato diverso.

 

La fotografia (tratta da https://forum.warthunder.com/index.php?/topic/413378-p-38g-captured-by-the-italians/) ritrae il primo velivolo Lockeed P-38 Lightining entrato in possesso della Regia Aeronautica. Sì, avete letto bene: Regia Aeronautica e non la rinata Aeronautica Militare Italiana. Dal forum apprendiamo che giunse in Sardegna, nell’aeroporto di Capoterra a causa di un grossolano errore di navigazione occorso al pilota alleato durante un volo di trasferimento da Gibilterra all’sola di Malta. Era il giugno 1943. In effetti, fatto salvo questo episodio, il P-38 furono poi consegnati agli aviatori italiani all’indomani della fine del II Conflitto Mondiale. Le condizioni dei velivoli erano piuttosto deteriorate e dunque la loro rimessa in efficienza fu lunga e laboriosa. Entrarono in servizio nel ’46 per essere radiati solo 10 anni dopo nel corso dei quali furono coinvolti in numeroso incidenti di volo. Premesso che ai piloti italiani non piacevano granchè (a causa della presenza del volantino al posto della cloche, del carrello triciclo anzichè biciclo e della elevata velocità di atterraggio) i Lightning italiani soffrirono molto i frequenti problemi ai motori Allison che, anche quando erano stati utilizzati dagli alleati, non avevano mai brillato in affidabilità.

Egoisticamente, a noi, questo risultato apparentemente sconfortante, giova in quanto ci consente di ospitarlo nel nostro hangar, convinti che si tratti solo il simulacro di un velivolo con ambizioni ben più stupefacenti, sicuramente da modificare e rendere volante.

Siamo infatti certi che Davide Gubellini sia in grado di scrivere col cuore e con la fantasia oltre che con il piglio e la schiettezza del giornalista, dunque, per il momento ci accontenteremo di un racconto “riposante” poi, siccome è conclamato che le vie del cielo siano infinite, confidiamo che  anche quelle della creatività lo siano. Messaggio ricevuto, Davide?


Recensione  a cura della Redazione


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

§§§§ in esclusiva per “Voci di hangar”§§§


NOTA: la foto di copertina ( di Henry Ryder su Flickr.comritrae lo splendido P-38F-5G basato a Salisburgo e che è anche l’unico P-38 volante in Europa; è stato acquistato anni fa dalla Reb Bull e sottoposto ad un mirabile restauro che l’ha riportato agli antichi splendori; da allora vola con i Flying Bulls e partecipa ai diversi saloni dell’aria o manifestazioni aeronautiche in giro per il continente europeo. Tirato inverosimilmente a lucido è davvero unico al mondo, anche in considerazione del fatto che di P-38, nel mondo, non ce ne sono di così belli e così ottimamente mantenuti

 

Di padre in figlio

Come tutti i figli coscienziosi, Gabriele parlava sempre volentieri di suo babbo Giancarlo, bolognese da sei generazioni.

Aveva seguito le orme del padre, assolvendo gli obblighi del servizio militare in Aeronautica.

Ambedue avevano terminato la leva con il grado di Primo Aviere.

Come il babbo, Gabriele amava osservare le nuvole.

Pensava che salendo dalla terra al cielo in quanto gocce terrestri condensate, le nuvole fossero un tramite tra noi e l’ignoto, forse anche tra la vita terrena e quella dello Spirito.

Grazie al servizio militare, sia il padre che il figlio avevano trascorso un periodo di tempo lontano da casa, rispettando i doveri e le gerarchie, imparando un mestiere.

Insomma, erano partiti ragazzi ed erano tornati uomini.

In aeroporto il padre era stato autista, impegnato nel 1953-1954, prima a Como, poi a Vicenza.

Fu una esperienza utilissima perché una volta congedatosi, Giancarlo poté utilizzare l’abilitazione di guida conducendo autocarri per il trasporto merci.

Gabriele invece era stato dattilografo, nel 1980-1981, a Macerata e a Padova.

Anche per lui fu un periodo proficuo, perché per molti anni, dopo il servizio militare, lavorò come impiegato.

Purtroppo, a loro non era consentito di volare, appartenendo al personale impegnato a terra.

Motivi assicurativi, dicevano.

Però, l’amore per l’aviazione, e per il volo in generale, rimase sempre una costante, nella loro vita.

Il babbo Giancarlo, con i suoi modi socievoli, era riuscito a farsi benvolere anche da un paio di piloti che svolgevano servizio sui caccia in dotazione alla base.

Nel tempo libero, si mise a costruire modellini di aeroplani, in ferro pressofuso.

Allora si usava così, tra i militari di leva.

Erano pezzi unici, colati su uno stampo che riproduceva le proporzioni degli aerei allora più conosciuti.

I modelli più riusciti erano un bimotore a elica, il Lightning P38 della Lockeed, e il caccia Vampire, della De Haviland.

Giancarlo era molto giovane e sognava un futuro radioso, come tutti in quel periodo, e come poi accadde per il nostro Paese, cosa che ancora ricordiamo.

Di lì a poco, qualche giorno prima del congedo, la sua ragazza gli confidò di essere in dolce attesa.

Si sposarono immediatamente, come si faceva allora, e il loro fu un matrimonio felicissimo, allietato anche dal secondogenito, Gabriele.

Nella sua infanzia, Gabriele giocava spesso con i soldatini.

In definitiva, l’ultimo conflitto era concluso da poco tempo, e come tutti i bambini dell’epoca, poteva conoscere la storia della Seconda Guerra Mondiale grazie ai film che venivano prodotti in grande quantità.

Il babbo gli permetteva raramente di “usare” i suoi ricordi del militare.

In particolare, gli negava i due aerei di metallo, pesanti e potenzialmente pericolosi con le sporgenze contundenti in ferro battuto.

Quando però Gabriele riusciva ad ottenerne il consenso all’utilizzo, la sua fantasia di scatenava e si ritrovava immediatamente tra le nuvole, nel cielo più azzurro, come cantava una popolare canzone dell’epoca.

Passarono gli anni e venne anche per Gabriele il tempo della “cartolina rosa”, la chiamata alle armi.

Fu fortunatissimo, ricevendo l’invito dall’Aeronautica Militare, come il babbo.

Finita Ragioneria, si era iscritto con poco entusiasmo a Statistica, all’Università di Bologna.

Sapeva che, a breve, avrebbe dovuto partire per il militare.

Non ne aveva molta voglia, come quasi tutti del resto, all’epoca.

Gabriele aveva da poco iniziato a lavorare in banca, dopo aver vinto un concorso, e lasciare il posto gli sembrava una perdita di tempo.

“Vedrai che quando avrai terminato il servizio militare, ti sentirai arricchito dalla esperienza fatta”, disse il babbo per incoraggiarlo.

Furono parole profetiche.

Come per tanti allora, il servizio militare rappresentava la prima vera esperienza lontano da casa.

A Gabriele fu assegnato un ruolo presso l’Ufficio del Personale della 1° Aerobrigata, sezione Statistica.

Si impratichì con le logiche amministrative e gestionali.

Nel tempo libero, grazie all’aiuto dello stesso Ufficio Personale, organizzò per la truppa un “Corso per Quadri Intermedi a livello aziendale”, con il sostegno della Regione Veneto.

Per premio, ottenne un volo in elicottero, da Padova a Ghedi, il suo battesimo dell’aria, su un elicottero Agusta.

Fu lì che si innamorò del cielo, e delle nuvole, in particolare.

Cominciò a fotografarle a ore diverse, con luci e colori mai simili, sempre sorprendenti.

Crescendo, le foto più belle le scattava in volo, durante i numerosi viaggi che Gabriele si concesse, quando la professione intrapresa lo permetteva.

Canada, Cuba, Islanda, Egitto, Australia, Isole Samoa, Nuova Caledonia; in tutti i cieli era il passaggio del giorno la cosa che più lo entusiasmava.

Dalla luce all’oscurità, le nuvole e l’orizzonte assumevano colori imprevedibili, cangianti, con striature degne dei quadri più preziosi mai dipinti da alcuno.

La luce che si fa stupore.

Fu così, pubblicando quelle foto, che Gabriele volle rendere omaggio alla memoria di suo padre Giancarlo.

Ricordando una passione comune.

L’amore per il Cielo, più vicino a noi, grazie al volo.

Un amore da passare di padre in figlio.                                                                 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Davide Gubellini