Il pilota di linea

«Signore e signori benvenuti a bordo». Quella mattina, come tutte le mattine, mi presentai. Avevo appena ultimato la procedura di decollo, lo ricordo ancora, guardai con attenzione dietro di me. «Slacciate le cinture di sicurezza, il comandante vi augura buon viaggio». Osservai la tensione proprio mentre s’attenuava dentro agli occhi, mi dava grande sicurezza sapere di poterla controllare con due semplici parole. Ripresi i comandi. Pensai al mio lavoro e alle mie responsabilità. Non potevo fare a meno dei miei dubbi. Sono un pilota di linea, porto passeggeri virtuali in giro per il mondo. Niente di male, certo, ma  tutto quello che è è finto: finto l’aereo in cui ci troviamo, finto il paesaggio che si muove attorno a noi,  finti i suoni e i colori, la notte e il giorno. Finto tutto, finte persino le casualità. E poi è tutto previsto, anche il momento esatto in cui cade una foglia, una semplice formula matematica, giusto quattro nozioni di algebra stagionale. Poco più complesso, invece, un prurito al naso: trigonometria del tatto. Il mondo attorno a noi è  un foglio a quadretti che illude la noia, solo un maledettissimo calcolo perfetto.

Sentii un brusio. Mi ritrovai con lo sguardo fisso sulla cloche. Alzai gli occhi: «Cristo!». Montagne vicinissime, pericolosamente vicine. Inevitabili. Vidi lo schianto davanti a me. Non avevo tempo per virare, forse neanche per pensare. Mossi un dito, d’istinto, cambiai uno dei tanti parametri ambientali. Clic. Le allontanai a sufficienza. Ora mi trovavo in una pianura infinita. Le montagne erano laggiù, basse, lontane quel che basta all’orizzonte, innocue. Non è successo nulla. Qui non succede – mai – nulla. Nulla di irreparabile perlomeno. Il brusio calò immediatamente, era complice. Mi rimproverai un po’ per questa paura ingiustificata. Anche se non fu del tutto rilassante, anche se – dopo – tutto è diverso… be’, ricordo che ci divertimmo un sacco per questo fuori programma del listino. Normale quindi, avevo molta simpatia per i miei  passeggeri, e a volte provavo anche compassione.  Avrei voluto dirgli che fuori c’è davvero spazio per tutti. Avrei voluto rassicurare questi occhi allegri, troppo allegri. Ma anche  questo poteva essere previsto, e lasciai perdere.

M’interrogavo sempre sul vero scopo di ogni cosa. Per esempio mi chiedevo se davvero – il fine –  è fatto per noi o se, invece, serve solo per dare lavoro a chi ci conduce sul mezzo. Pensavo a me, al mio lavoro e al mio scopo, guardavo sempre il capolinea di ogni cosa, non riuscivo ad allontanarmi dal dubbio, o meglio, mi sentivo parte integrante di questo dubbio. Proprio come mi sentii, in un primo tempo, quando allontanai le montagne come e dove  mi faceva più comodo. Poi, poco dopo, appena le raggiunsi di nuovo, e recitai.

«C’è turbolenza». Lo dissi perché andava detto, per dare qualche brivido. Azionai il sistema di simulazione di perdita di quota. Anche questa turbolenza era solo una clausola del destino, uno stupido supplemento del biglietto. E io? Io ero davvero un pilota? Forse un volgarissimo e insignificante attore. Indubbiamente una parte di me recitava un ruolo perché doveva adeguarsi al sistema. Ma tutta un’altra parte, invece, ne pativa l’umiliazione, scalciava. S’ingegnava a risolvere. Più che altro, credo, s’infastidiva. Era combattuta tra i miei doveri d’adattato e la mia reale identità. Eccomi lì, invece, versavo da bere a gente assetata di cristalli liquidi, barzelletta di me stesso, costretto a fingere stupore,  strumento di carica per fantasie spente.

Decisi di fare quel che dovevo fare. «Cambierei rotta». Per la prima volta quella soporifera giostra per bambini diventò un aereo. Virai. Virai alla ricerca di un po’ di terrore autentico. E lo trovai eccome, tra le urla, appena arrivarono le prime vibrazioni dello stallo. L’aereo in piedi nel vuoto. L’avvitamento. «Cazzocazzocazzo, questa sì che è paura!». Poi lo trovai ancora, giù, nel vortice della vite, e poi ancora nella mano di qualcuno, nel disperato tentativo di aggrapparsi a me, tra i fogli di bordo arrotolati alle forchette,  nelle tende appiattite sulle pareti, nel rumore sordo dei motori tra l’acuto del terrore, nel precipizio della centrifuga di ogni cosa.  In quella frazione di tempo – il tempo stesso – si dilatò. Ognuno di noi, finalmente, poteva ascoltare le proprie preghiere. Fu la forza dell’incertezza che, se presa sul serio, fa riflettere. Fu il tempo, che, per una volta, nessuno poteva controllare. Forse fu solo una semplice follia, ma – forse – anche solo quello che mancava.

Il viaggio finì presto. Il sistema fermò tutto in automatico, appena in tempo, poco prima dello shock emotivo. Qualcuno mi volle addirittura all’ergastolo, ma anche qui non successe nulla. Pensate, non solo non riuscirono a licenziarmi, ma rischiai anche una dolente promozione. Ora sto volando infatti. E, a dire il vero, proprio adesso avrei la forte tentazione di rifarlo. Ma – oggi come oggi – proprio non potrei più permettermelo: ora che il suicidio virtuale è stato programmato. Ora che anche questo è diventato uno svago.


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Webrezza

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