L’autobus volante

aereo giallone“L’autobus volante” è un breve racconto basato sulla fantasia nel quale si associano una serie di valori legandoli tra loro grazie ai concetti di speranza, amore e giustizia. Il protagonista è Vanni, un giovane sognatore che, per puro caso, si ritrova immerso proprio in un sogno ed in questo sogno si parla dell’uomo, della guerra, della solidarietà.


Racconto / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; vincitore del premio speciale offerto dalla rivista “Volo sportivo” per la migliore idea; in esclusiva per “Voci di hangar”

L’autobus volante

Gli piaceva sognare, sognare ad occhi aperti. Gli bastava aprire quei grandi occhi cerulei per ritrovarsi ad esplorare mondi inconsueti, di nessun altro se non suoi … suoi e basta! Era stato proprio per meglio viaggiare in quei mondi fantastici che in un caldo pomeriggio di primavera Vanni aveva deciso di metter su casa in un vecchio autobus in disuso, uno di quelli di un tempo che fu, dalla carcassa color verde oliva. Il sole picchiava duro quel giorno di maggio; l’asfalto sembrava fumare sotto ai suoi piedi stanchi e fu allora che Vanni si accorse di quel torpedone dai fari tondi simili a due occhi tristi e dalle gomme sgonfie come piedi indeboliti dal tempo impietoso. Egli si avvicinò e, con circospezione, introdusse la testolina al di là di una delle porte aperte così da poter perlustrare velocemente l’interno del mezzo. Nulla vi era dentro e la cosa sembrò sollevarlo parecchio, così salì a bordo spedito. Aveva camminato parecchio, Vanni, e proprio per questo, non appena entrato in quell’abitacolo squallido e tuttavia accogliente, si distese sui seggiolini che componevano l’ultima fila e si mise a pensare osservando la vecchia obliteratrice, particolare che gli fece ripensare al suo primo viaggio in autobus da solo, a 10 anni, per puro spirito di indipendenza. Batté le palpebre una volta, poi una seconda e, alla terza, dopo un lunghissimo sbadiglio, stanco come non mai, si addormentò profondamente.

Come per magia le porte si chiusero, i motori si accesero e le gomme, di colpo rinvigorite da un getto d’aria imponente, tirarono su quella carcassa stanca. Due colpi di clacson, uno di acceleratore e tutto fu pronto sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. svegliatosi da tutto quel fracasso. Vanni si stropicciò forte gli occhi, quindi udì una voce provenire nitidamente dal vano motore: “Ehm … prova! Ci scusiamo con il nostro unico passeggero per gli improvvisi cali di voce cui saremo soggetti … ma le nostre cinghie vocali potrebbero essersi danneggiate durante questi lunghi anni d’inattività, pertanto le consigliamo di prendere posto sul sedile del conducente e di tenersi forte: potremmo incappare in fastidiose turbolenze!”. “Turbolenze? Ma se in strada il sole sembra cuocere ogni cosa e di vento non c’è neppure l’ombra!” replicò Vanni d’istinto. “In strada no … ma in cielo … chi lo sa?” rispose, misterioso, l’autobus. “In cielo?”. Fu proprio in quell’istante che il bus si mosse cigolando un po’ qua e là emettendo una gran nuvola di fumo grigio. L’avvio fu molto lento ma sempre più deciso. Vanni osservava tutto con incredulità ma con sempre maggior curiosità. Decise di stare al gioco. “Dove si va?” chiese con tono di sfida. “Voglio farti vedere una cosa” gli rispose il mezzo con voce pacata e poi aggiunse: “Credo che tu non sappia tantissimo di ciò che avviene nel mondo. Sei così giovane!!”. “Può darsi, ma si può sapere dove andiamo?” tornò a chiedere Vanni con tono un po’ più preoccupato e meno spregiudicato di prima. “Non preoccuparti! Pensa solo a rilassarti: al resto penserò io!” concluse la voce. Vanni si tenne saldamente ai braccioli e chiuse forte gli occhi. Quando fece per riaprirli si sporse leggermente dal finestrino alla sua sinistra e rimase di sasso. L’autobus sembrava avvolto da un gran batuffolo di bambagia. Il ragazzo non capiva dove si trovasse ma una risposta ai suoi dubbi giunse non appena il vecchio mezzo pubblico riuscì a liberarsi da quello strato di morbida consistenza. Con tono sempre più allarmato quasi urlò sobbalzando dal sedile: “Ma quella è la Sicilia! Mi sembra di guardare un mappamondo! A che altezza siamo?” “In alto! Molto in alto ma solo mantenendoci così alti riusciremo ad accorciare notevolmente i tempi. Di strada da fare ne abbiamo ancora tanta!”. Vanni provò a non far più domande; già che c’era voleva vedere come sarebbe andata a finire quella situazione così strana. Sentì un rombo via via più imponente, fortissimo, poi un suono come di tromba da stadio “PARAPARAPPAPPARAPA’”. Si voltò nuovamente e si trovò a pochi metri da un “Jumbo” che gli parve immenso. Quasi fuse la sua fronte al vetro del finestrino e focalizzò il pilota dell’aereo che si sbracciava come un vigile urbano al centro di un incrocio. Il pilota abbassò il vetro ed urlò: “Se vi fate un attimo da parte magari noi riusciamo a passare!!” A Vanni venne da ridere perché mai avrebbe pensato ad una situazione simile. Dall’autobus la solita voce replicò: “Ma se il cielo è così immenso … !!”. “Si, è immenso”, gli rispose il pilota ad alta voce ma con garbo, “ ma, per mille cornacchie!!! Vi siete messi proprio in mezzo alla nostra rotta!!”. L’autobus, con uno scatto nervoso virò stretto e, finalmente, il “Jumbo jet” passò. Vanni continuò a seguire con lo sguardo l’enorme aereo che si allontanava e notò il braccio e la mano del pilota fuori dal finestrino a mo’ di saluto, in segno di ringraziamento. Anche il loro viaggio riprese, ma più lentamente. Da quell’osservatorio privilegiato, vide mari e monti, meravigliose tinte ed uniche sfumature di verde e di azzurro ed ancora vide foci di fiumi e picchi innevati, coste schiumose e sabbiosi deserti senza fine. Viaggiarono e viaggiarono ancora lambendo le vette più alte. Fu proprio a quel punto che Vanni si ritrovò catapultato verso la sua destra e, mentre stava per protestare per quella manovra azzardata, nuovamente verso la sua sinistra fino a ritrovarsi col sedere nel corridoio, sul duro pavimento del torpedone. “Che succede, adesso?” chiese Vanni. “Sono gli uccelli migratori! Abbiamo beccato un grosso stormo e ci siamo ritrovati proprio in mezzo a loro ma, come avrai notato, l’ho schivato brillantemente come un pugile sul ring sotto i colpi del suo avversario”. “Sì” proseguì Vanni, “ma, caro il mio pugile, ti sei accorto di quel pennuto con la zampa incastrata nel tergicristallo?”. “Oh … mamma mia!!” fu tutto quello che l’autobus riuscì a dire. La grande spazzola iniziò a muoversi alternativamente da destra a sinistra nel tentativo di consentire all’uccello di divincolarsi ma l’operazione non andò a buon fine. Vanni vide un nugolo di penne e piume sollevarsi in aria finché non scorse quel grosso uccello, un po’ stordito, riprendere il suo volo. Finalmente l’autobus si decise a rivelare: “La nostra destinazione è Kabul, caro amico, ma non aver paura: saremo prudenti!”. “Perché proprio una città così pericolosa?” chiese il ragazzo. “Perché dietro a tutto quello che hai visto in tv … beh … potrebbe nascondersi altro”. Vanni annuì fiducioso, appoggiò il capo sul vetro del finestrino e, piano piano, sbadiglio dopo sbadiglio, s’addormentò. “Guarda!!” fu l’esclamazione che lo ridestò. Vanni si stropicciò gli occhi e guardò l’orologio: era fermo! Pensò d’aver sognato ma gli bastò tornare a guardare di lato, attraverso il vetro alla sua sinistra, per rendersi conto che non era affatto immerso in alcun sogno. “Quello lì è un ospedale. Siamo arrivati! Aspetta, atterriamo!”. Il pesante mezzo, leggiadro come fosse un foglio di carta in balìa del vento, fece per girare attorno a sé stesso, poi puntò deciso verso terra. Il passeggero si tappò gli occhi con le mani, impaurito ma anche impaziente di comprendere ciò che non aveva ancora capito. Quando l’autobus toccò terra, finalmente, il ragazzo udì un forte soffio, quasi un enorme sospiro provenire dal motore mentre la voce che gli aveva tenuto compagnia durante quel viaggio dalla durata indefinita riprese a dire, con foga e convinzione: “Vedi? Dietro a quelle mura vi è solo dolore, vi è solitudine, povertà. Dietro a quelle mura vi è l’oscuro lavoro, mai raccontato, di tanta gente generosa che quotidianamente rischia la vita anteponendo la sofferenza degli ultimi, degli ammalati, degli abbandonati ma, soprattutto, ci sono centinaia di occhi come i tuoi: occhi speranzosi che avrebbero potuto creare, inventare, comporre e che, invece, non sono più capaci neppure di comprendere che anch’essi possono aspirare ad avere un domani. Vorrei che ciò ti facesse rendere conto che dietro agli imponenti proclami di giustizia e di nobili propositi raramente attuati può esserci tanta ipocrisia, il dolore mai valutato abbastanza della gente comune, c’è la sofferenza, la morte ma, soprattutto, c’è il potere ed il denaro di chi usa questa gente nascondendone al mondo intero le inumanità subite”. Poi, d’un tratto, la voce si calmò, si abbassò ed aggiunse: “Adesso, se vuoi, ripartiamo”. “No! Io rimango” fece Vanni fiero, issandosi sulle sue gambe col petto tronfio e gonfio di entusiasmo. “Rimango anch’io” replicò il vecchio bus. I fari si spensero come il motore, le porte si aprirono e da quel magico bus corse fuori un nuovo combattente, più forte che mai, deciso ad inondare d’amore e di sogni tanti altri giovani, potenziali sognatori, proprio come lui.

Un rivolo di sudore scese lungo la sua tempia sinistra fin sulla sottostante guancia e lo solleticò fino a costringerlo a riaprire gli occhi. Vanni si drizzò sul sedile, lo sguardo corrucciato e i capelli scompigliati di chi aveva dormito profondamente ed aveva sognato … un sogno che gli era parso fin troppo vero. Ancora solo, all’interno del vecchio bus, si sollevò sulle gambe e si avviò verso la porta più vicina; la oltrepassò, si voltò ancora una volta a guardare quel mezzo che lo aveva così ben ospitato e si diresse verso un bar, dall’altra parte della strada. “Buongiorno” fece Vanni entrandovi e rivolgendosi alla cassiera, “ha mica un elenco telefonico?” “Certo! Tenga!” rispose lei porgendoglielo. Deciso come non mai, il giovane lo sfogliò fino a che non trovò ciò che cercava: “Ecco! … Emergency!! 06-688151”. Copiò il numero nella rubrica del suo telefonino ed andò via, complice lo strano sogno che aveva fatto, a dedicare la propria vita agli ultimi, in un paese lontano, laddove però, è molto difficile arrivare con un vecchio autobus volante!


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Ivan Trigona

Ivan Trigona

autogiro ulmScrivere è la sua passione di sempre: un amore confessato, una passione involontaria. Scrive da quando era bambino pur non avendo mai partecipato a nessun concorso letterario eccetto che a due edizioni della raccolta di racconti dal titolo: “Parole in corsa” negli anni 2005 e 2006. Ama il genere dei racconti brevi o delle raccolte epistolari non disdegnando anche la composizione in stile poetico.

Per inviare impressioni, minacce ed improperie all’autore:

ivan.trigona(chiocciola)libero.it


Nel sito sono ospitati i seguenti testi:


L'autobus volante

Evandro Detti

Non capita tutti i giorni di ritrovarsi in aeroporto l’autore di un libro che si ha avuto la fortuna e – diciamolo pure – il privilegio di aver appena letto (e quindi recensito) … ebbene, a noi della Redazione di VOCI DI HANGAR,  è accaduto! Sicchè, altro non abbiamo potuto fare che “pretendere” firma e dedica da mostrare poi agli amici/nipoti nei lustri a venire.

In realtà il buon Evandro, frequentatore quasi assiduo dell’aeroporto di Rieti, si è subito spontaneamente prestato a vergare il suo nome sulla copia in nostro possesso, peraltro già ampiamente bistrattata da letture e riletture. E, per giunta, senza neanche particolari minacce.

Lo scatto lo conferma: quasi sorride nonostante abbia appena maturato la consapevolezza di aver guadagnato alcuni lettori assai critici, se non proprio incontentabili.  Infatti, ad un’analisi attenta della fotografia, noterete chiaramente che, quello che gli corruccia il sopracciglio destro, non è un mezzo sorriso … bensì una smorfia di dolore … ma si sa: di questi tempi occorre prendere ciò che capita.  Così, suo malgrado, il buon Evandro si è dovuto subire aspre annotazioni circa, nell’ordine:

– le dimensioni delle foto,

– la sinteticità del testo,

– l’impostazione asettica della narrazione

… e una mezza dozzina di rimproveri ineccepibili che non vi riportiamo per brevità di cronaca.

Pare che il Detti abbia interrotto la ramanzina adducendo impellenti motivi idraulici … e che sia riapparso solo la settimana successiva.

Evandro, hai voluto scrivere? … ora ti becchi i fans che ti meriti!?







Fotografie di: Evandro Detti

Testo di: Redazione di Voci di hangar

Il pilota di linea

«Signore e signori benvenuti a bordo». Quella mattina, come tutte le mattine, mi presentai. Avevo appena ultimato la procedura di decollo, lo ricordo ancora, guardai con attenzione dietro di me. «Slacciate le cinture di sicurezza, il comandante vi augura buon viaggio». Osservai la tensione proprio mentre s’attenuava dentro agli occhi, mi dava grande sicurezza sapere di poterla controllare con due semplici parole. Ripresi i comandi. Pensai al mio lavoro e alle mie responsabilità. Non potevo fare a meno dei miei dubbi. Sono un pilota di linea, porto passeggeri virtuali in giro per il mondo. Niente di male, certo, ma  tutto quello che è è finto: finto l’aereo in cui ci troviamo, finto il paesaggio che si muove attorno a noi,  finti i suoni e i colori, la notte e il giorno. Finto tutto, finte persino le casualità. E poi è tutto previsto, anche il momento esatto in cui cade una foglia, una semplice formula matematica, giusto quattro nozioni di algebra stagionale. Poco più complesso, invece, un prurito al naso: trigonometria del tatto. Il mondo attorno a noi è  un foglio a quadretti che illude la noia, solo un maledettissimo calcolo perfetto.

Sentii un brusio. Mi ritrovai con lo sguardo fisso sulla cloche. Alzai gli occhi: «Cristo!». Montagne vicinissime, pericolosamente vicine. Inevitabili. Vidi lo schianto davanti a me. Non avevo tempo per virare, forse neanche per pensare. Mossi un dito, d’istinto, cambiai uno dei tanti parametri ambientali. Clic. Le allontanai a sufficienza. Ora mi trovavo in una pianura infinita. Le montagne erano laggiù, basse, lontane quel che basta all’orizzonte, innocue. Non è successo nulla. Qui non succede – mai – nulla. Nulla di irreparabile perlomeno. Il brusio calò immediatamente, era complice. Mi rimproverai un po’ per questa paura ingiustificata. Anche se non fu del tutto rilassante, anche se – dopo – tutto è diverso… be’, ricordo che ci divertimmo un sacco per questo fuori programma del listino. Normale quindi, avevo molta simpatia per i miei  passeggeri, e a volte provavo anche compassione.  Avrei voluto dirgli che fuori c’è davvero spazio per tutti. Avrei voluto rassicurare questi occhi allegri, troppo allegri. Ma anche  questo poteva essere previsto, e lasciai perdere.

M’interrogavo sempre sul vero scopo di ogni cosa. Per esempio mi chiedevo se davvero – il fine –  è fatto per noi o se, invece, serve solo per dare lavoro a chi ci conduce sul mezzo. Pensavo a me, al mio lavoro e al mio scopo, guardavo sempre il capolinea di ogni cosa, non riuscivo ad allontanarmi dal dubbio, o meglio, mi sentivo parte integrante di questo dubbio. Proprio come mi sentii, in un primo tempo, quando allontanai le montagne come e dove  mi faceva più comodo. Poi, poco dopo, appena le raggiunsi di nuovo, e recitai.

«C’è turbolenza». Lo dissi perché andava detto, per dare qualche brivido. Azionai il sistema di simulazione di perdita di quota. Anche questa turbolenza era solo una clausola del destino, uno stupido supplemento del biglietto. E io? Io ero davvero un pilota? Forse un volgarissimo e insignificante attore. Indubbiamente una parte di me recitava un ruolo perché doveva adeguarsi al sistema. Ma tutta un’altra parte, invece, ne pativa l’umiliazione, scalciava. S’ingegnava a risolvere. Più che altro, credo, s’infastidiva. Era combattuta tra i miei doveri d’adattato e la mia reale identità. Eccomi lì, invece, versavo da bere a gente assetata di cristalli liquidi, barzelletta di me stesso, costretto a fingere stupore,  strumento di carica per fantasie spente.

Decisi di fare quel che dovevo fare. «Cambierei rotta». Per la prima volta quella soporifera giostra per bambini diventò un aereo. Virai. Virai alla ricerca di un po’ di terrore autentico. E lo trovai eccome, tra le urla, appena arrivarono le prime vibrazioni dello stallo. L’aereo in piedi nel vuoto. L’avvitamento. «Cazzocazzocazzo, questa sì che è paura!». Poi lo trovai ancora, giù, nel vortice della vite, e poi ancora nella mano di qualcuno, nel disperato tentativo di aggrapparsi a me, tra i fogli di bordo arrotolati alle forchette,  nelle tende appiattite sulle pareti, nel rumore sordo dei motori tra l’acuto del terrore, nel precipizio della centrifuga di ogni cosa.  In quella frazione di tempo – il tempo stesso – si dilatò. Ognuno di noi, finalmente, poteva ascoltare le proprie preghiere. Fu la forza dell’incertezza che, se presa sul serio, fa riflettere. Fu il tempo, che, per una volta, nessuno poteva controllare. Forse fu solo una semplice follia, ma – forse – anche solo quello che mancava.

Il viaggio finì presto. Il sistema fermò tutto in automatico, appena in tempo, poco prima dello shock emotivo. Qualcuno mi volle addirittura all’ergastolo, ma anche qui non successe nulla. Pensate, non solo non riuscirono a licenziarmi, ma rischiai anche una dolente promozione. Ora sto volando infatti. E, a dire il vero, proprio adesso avrei la forte tentazione di rifarlo. Ma – oggi come oggi – proprio non potrei più permettermelo: ora che il suicidio virtuale è stato programmato. Ora che anche questo è diventato uno svago.


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