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La prima termica del mattino

Il sole è tramontato da circa un quarto d’ora quando sorvolo l’aeroporto di Perugia, punto d’arrivo per il conseguimento dell’insegna dei “1000” chilometri. Si sono accese le luci nella piana di Foligno e le acque del lago Trasimeno si sono fatte scure, colore del piombo, appena tinte di rosso dagli ultimi bagliori del tramonto. Data l’ora, il rientro a Rieti, aeroporto di partenza non è più possibile, perciò decido di atterrare a Foligno. Alle 21,16 del 17 luglio, dopo circa undici ore di termiche e traversoni, sono in finale sulla pista erbosa dell’aeroporto in un comprensibile stato d’euforia perché, arrivando a Perugia S. Egidio, ho completato il mio tema. Mi impongo di non esagerare con le manifestazioni di allegria, essendo ancora in volo, ma un bel passaggino del tipo: “un sibilo e un botto” come sentii fare, tanti anni fa da Riccardo Brigliadori Senior, proprio sul campo di Foligno … mi tenta enormemente. Prendendo terra sullo sterminato campo di volo, nel buio della sera non si intravede nessuno, nello scendere dall’aliante ho l’impressione di essere una specie di Robocop cui siano saltati i circuiti degli arti inferiori. Me la prendo comoda e, intanto, faccio due telefonate: la prima a Mattia, mio figlio, cui comunico di venirmi a prendere a Foligno e che merito un recupero veloce avendo fatto “i 1000” e la seconda a Luca Urbani, per confermargli che il muro dei “1000” chilometri, contro il quale si erano infranti i progetti di entrambi per anni, era stato demolito. Testimoni attendibili mi riferiranno che Mattia, ricevuta la mia telefonata, aveva preso a ballonzolare come in preda alla sindrome di San Vito, e che giunto come un razzo in zona Foligno aveva superato l’aeroporto ed era finito in qualche cantina del centro cittadino per evitare che i primi festeggiamenti per l’evento assumessero il tono e l’aspetto di una conventicola di astemi. Nell’attesa assaporo gli odori della circostante campagna e, avvoltomi nella lunga e candida foderina della fusoliera dell’aliante, per proteggermi, in mancanza di meglio, dalla pungente brezza notturna, mi avvio verso l’uscita dell’aeroporto, esempio monumentale, quest’ultimo, dell’architettura del trascorso ventennio. Passando davanti ad un vecchio edificio seminascosto dalla vegetazione, ormai disabitato, ricordo che il mio primo volo di distanza terminò proprio a Foligno dove completai le prove per l’insegna d’argento con il mitico M-100. L’edificio allora, era abitato dal custode del campo, un ex militare gentiluomo che si rivolgeva ai pilotini dei “50” chilometri chiamandoli “comandanti” e offrendo loro, nel suo modesto appartamento, un bicchierino di rosolio … tanto per ingannare l’attesa del recupero per via aerea. Mentre incedo nella mia insolita tenuta (ho la copertura della prua dell’aliante sulla testa come fosse un cappuccio ed il resto del tessuto intorno al corpo, fino a terminare in una sorta di strascico nuziale), vedo venirmi incontro lentamente due luci che da anabbaglianti, divengono abbaglianti. Pensando si tratti della squadra levo le braccia al cielo con un gesto ampio, un po’ per segnalare la mia presenza e soprattutto in segno di entusiasmo. Per tutta risposta la vettura effettua una brusca frenata, poi si rigira e sgomma lasciando intravedere attraverso i finestrini i volti contratti di una coppietta in cerca di luoghi appartati. In quel momento realizzo che il mio aspetto deve avere un che di inquietante. Pertanto, prima di uscire sulla strada che costeggia l’aeroporto, dove ho deciso di recarmi per attendere la squadra, mi spoglio della copertina e, raggiunto un anfratto nel muro di cinta, comincio a riflettere.

Il mio volo di “1038,4” chilometri, in termica sull’Appennino, con partenza nella zona di Rieti, sorvolando in tutto o in parte otto regioni (Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Lucania, Umbria, Marche, Toscana) ha richiesto la combinazione di quattro, anzi, cinque ingredienti fondamentali: la situazione meteo ottimale, la mancanza di impegni (perché assenti o perché rinviati), la disponibilità di un aliante ideale per l’alta performance (come il mio Nimbus 3), la convinzione circa la fattibilità dell’impresa e la preparazione, intesa quest’ultima come capacità di volare abbastanza concentrati per oltre dieci ore su percorsi già esplorati in altri voli. Pensando alle condizioni meteo trovate lungo la rotta mi rendo conto di aver volato per buona parte del tema tra i milletrecento e i milleseicento metri misurati sulla quota dell’aeroporto di Rieti (QFE). La giornata, infatti, era caratterizzata da una distribuzione dei cumuli ravvicinata ed uniforme lungo la rotta, ma con basi relativamente basse, condizione aerologica dovuta ad una depressione presente sui Balcani che convogliava aria umida e moderatamente instabile sull’Italia centrale e meridionale. I costoni inoltre, erano particolarmente attivi perché la situazione meteo, come previsto fin dalla sera del 16 luglio, era caratterizzata da correnti da Ovest, vento ideale per sfruttare in termodinamica i rilievi appenninici. Quante giornate simili si erano manifestate in precedenza? Quest’anno almeno altre due, pensai, nella seconda decade di luglio, quando i voli di distanza sull’Appennino sono favoriti dalle molte ore di insolazione, altra condizione indispensabile per realizzare il maggior numero di chilometri. Pertanto la sera del 16 mi ero convinto che il giorno seguente poteva offrire buone probabilità per effettuare “i miei primi 1000 chilometri”. Sulla scelta dei punti di virata non avevo incertezze: a Sud, dove il sole sorge prima e la giornata matura prima, avrei scelto, al momento di dichiarare il tema prima della partenza, Melfi, distante poco meno di trecento chilometri da Rieti; non un punto più lontano, per evitare il pericolo che, allungando il volo verso Potenza o verso la Calabria, attratto dalle ottime termiche che quelle zone offrono, avrei potuto trovare, al ritorno, situazioni difficili tra Isernia e Castel di Sangro, causate normalmente dall’irrompere nelle ore pomeridiane di aria adriatica, autentica killer di termiche. A Nord avrei scelto l’eremo di Camaldoli quasi al confine con la valle di Borgo S. Lorenzo: un punto di virata che mi offriva un buon appoggio orografico, sia all’andata che al ritorno, distante da Rieti quel tanto che basta per disporre ancora di qualche termica serale dalle parti di Poggio Bustone; infine la scelta del terzo punto: Borgo San Pietro, svincolo autostradale, a Sud di Rieti, mi avrebbe permesso di allungare l’ultimo lato del tema verso Nord di un centinaio di km … giusto quelli necessari per completare il percorso dei “1000”. Restava da individuare il punto di partenza adatto per un rapido aggancio, possibilmente a quota non superiore ai mille metri, per evitare eventuali penalizzazioni dovute alla minore altitudine della zona di atterraggio rispetto a quella di decollo. Purtroppo, a Rieti, come è noto per chi vola in zona, non è facile agganciare a quella quota in ora mattutina; inconveniente che, riducendo la disponibilità delle ore di volo, finisce con l’accorciare le distanze percorse. Comunque la sera del 16 luglio progettavo che per il giorno successivo avrei agganciato a mille metri, confidando nel rapido manifestarsi di ascendenze. In conseguenza dell’annunciato vento da ponente. Anche Mattia, mio direttore sportivo, si era mostrato ottimista. Così, la mattina del 17 luglio, alle ore 09,00 ora locale, l’aliante era già stato portato in linea pronto per il decollo, compreso il pieno dell’acqua, effettuato da Mattia a fatica, perché l’impianto idrico dell’aeroporto, si trovava quel giorno, in una avaria di tipo prostatico. Prima del decollo raccomando al trainatore di portarmi nella zona di sgancio evitando virate strette e peli ai costoni perché, durante il traino, l’attenzione del pilota deve essere concentrata soprattutto sugli eventuali segni che si leggono nel cielo quando inizia l’attività termica. Durante il traino sulla piana reatina, con prua nord verso Polino, non si avvertono segni di attività termica, ma sui rilievi ad est del lago di Piediluco cominciano i primi fremiti dell’aria. Sono da poco passate le 10,00 ora locale: nella zona di Polino si forma un piccolo filamento bianco, appena una sbavatura nel cielo azzurro del mattino, e tanto basta a farmi credere nell’aggancio. Infatti lasciato il traino a mille metri, l’aggancio c’è, anche lì un poco incostante e non facile a causa della zavorra idrica. Impiego circa dieci minuti per guadagnare seicento metri poi mi avvio in direzione del monte Nuria passando davanti al Terminillo. L’attività termica non è granché, mi avventuro verso Campo Felice, nella cui conca entro piuttosto basso, con un margine di quattrocento metri rispetto alla quota dell’altopiano e la quasi certezza che, se sotto il batuffolo che scorgo in fondo alla piana non c’è una termica sfruttabile, il mio volo terminerà con un fuori campo dopo neppure un ora. Fortuna vuole che io mi imbatta in un misterioso flusso laminare, beccato a centro piana con valori che aumentano mano a mano che mi porto sotto al batuffolo. Avvolto nella magia del volo in onda, mi guardo intorno e non posso fare a meno di rimanere incantato dalla bellezza dei luoghi che mi circondano nell’aria tersa del mattino: le cime del Gran Sasso, del Sirente e del Velino con i ripidi canaloni parzialmente in ombra che si protendono verso il cielo elevandosi dagli altipiani de L’Aquila, delle Rocche e di Avezzano, dove la nebbia del mattino si è ormai diradata tranne che dalle parti di Sulmona, ancora immersa sotto una bianca coltre. Raggiunti i duemilacinquecento metri nella zona di Campo Felice, ho la quota necessaria per arrivare ai primi contrafforti dell’orografia tra il lago di Scanno e il Piano delle Cinque Miglia., abbastanza alto, diciamo sui milleseicento metri, per tentare eventuali agganci o planare basso, ma di misura, sfiorando i tetti di Roccaraso, nella sottostante valle del Sangro. Intanto verso Sud si vanno formando due strade di cumuli, una ad ovest, sull’asse Isernia-Ariano Irpino-Melfi, l’altra, spostata ad est di circa cinquanta chilometri. Al termine della prima ascendenza, a sud di Castel di Sangro, registro che la base dei cumuli non supera i milleseicento metri, il valore della salita si aggira intorno al metro e mezzo di media, il vento proviene da Ovest con una intensità di quindici-venti chilometri orari. Con queste condizioni il Nimbus 3 fila via che è una meraviglia e la sua strumentazione aggiornata rende il volo più facile, più veloce, più lineare: da Campobasso a Melfi e poi fino a Camaldoli raggiungo e mantengo la media di centoventi chilometri orari.

Altri tempi quelli in cui, soltanto una dozzina di anni fa o poco più, avevo iniziato ad esplorare il Sud suggestionato dai racconti sui vecchi temi di gara in distanza libera e spinto dalla curiosità di volare con l’aliante in zone sconosciute. Allora, fino all’avvento del GPS, si navigava con la carta geografica, la bussola e il cronometro: la rotta per raggiungere il punto di virata (o “pilone”) veniva divisa in tanti punti osservati sulla carta, ciascuno dei quali, una volta raggiunto ed identificato, serviva come orientamento per il balzo successivo, tenuto conto della bussola e del cronometro, strumenti indispensabili per la rotta da seguire e per sapere dopo quanto tempo dall’ultimo punto sorvolato si sarebbe raggiunto il successivo. Ricordo che l’identificazione delle zone sorvolate, sulla carta geografica, costituiva un momento di grande euforia, mentre uno stato d’animo vicino all’angoscia non mancava di manifestarsi quando sulla carta non si riconosceva la zona dove si pensava di trovarsi. A volte l’osservazione del terreno sottostante veniva complicata anche soltanto dal cono d’ombra proiettato sul paesaggio dalla presenza di un imponente cumulo congesto. In queste condizioni, capitava perfino di non scorgere una cittadina pur essendo nelle vicinanze. Tutto ciò rallentava le medie dei miei primi voli di esplorazione e quindi le distanze percorse, ma era più emozionante e contribuiva ad accentuare nell’attività del volo a vela quelle esperienze che ne fanno un’autentica disciplina. Inoltre nel profondo Sud, da Campobasso in giù, il volo a vela non era praticato (purtroppo non lo è tutt’oggi!) e ci si sentiva solitari (e ci si sente soli tutt’ora) nell’immensità circostante, soprattutto nella zona del Tavoliere dove l’azzurro del cielo si fonde con il giallo degli sterminati campi di grano e con la striscia blu dell’orizzonte marino. Certo un atterraggio fuori campo da quelle parti metteva i brividi pensando alle ore necessarie per ricongiungersi con la squadra, perché, mancando il cellulare potevano passare secoli prima di trovare un telefono.

Una volta ero finito con un ASW-20 in una sorta di anfiteatro con pareti ad imbuto non molto ripide (non tanto comunque da rendere impraticabile l’atterraggio in salita), intorno al quale non si scorgeva alcuna presenza umana. A carrello estratto, l’ala destra dell’aliante si era appoggiata su un qualcosa di ascendente segnalato poco dopo dal volteggiare di un grosso rapace e da un batuffolo bianco in fase espansiva, poi trasformatosi in uno splendido cumulo a base piatta. Mentre venivo risucchiato verso l’alto si era materializzata, nell’infinita solitudine, una crocetta bianca: l’aliante di Luca (Urbani), del tutto inatteso, che stava tornando dai monti al confine tra la Lucania e la Calabria, dove si era avventurato a mia insaputa. – Ciao Ugo!? – mi aveva detto via radio, sorpreso quanto me. – Ciao Luca! – gli avevo risposto con entusiasmo Poi all’unisono c’eravamo detti: – Si va insieme? L’idea c’era venuta, soprattutto pensando con orrore al pittoresco e starnazzante pattuglione di piloti, perennemente accodato al leader del momento, in cui si è soliti imbattersi, durante le gare di velocità.

Sulla strada del ritorno incappo in un primo ostacolo, prima di attraversare la valle del Sangro: la base relativamente bassa delle nubi, circa milleseicento metri, non dà il margine di quota sufficiente per l’aggancio sull’Altopiano delle Cinque Miglia, dalle parti di Rivisondoli. Per giunta davanti a me vedo che la base dei cumuli si abbassa. Rimpiango i tempi in cui, muniti di virosbandometro, congegno oggi escluso dalla strumentazione, entravo in nube tra Isernia e Castel di Sangro, raggiungendo comodamente la quota per l’aggancio a Rivisondoli. Sono le 14,40 circa: rimangono da percorre più di cinquecento chilometri, ho ancora davanti a me sei ore di luce e una prevedibile buona attività termica di tre ore, poco più o poco meno; mi rendo conto che non posso permettermi di tenere una media inferiore, nel complesso, ai novanta chilometri orari, prestazione questa che tende a diventare impraticabile quanto più si allunga il percorso. Dunque non ho altra alternativa che quella di proseguire dritto, perché, deviando verso la Val Roveto, non solo allungherei il percorso di circa quaranta chilometri, dal punto in cui mi trovo, ma finirei con lo spostarmi troppo ad Ovest rispetto al formidabile asse orografico costituito dalla Maiella, dal Morrone , dal Gran Sasso, dal Gorzano e dal Vettore. Quindi mi avventuro in direzione del passo in corrispondenza dello spigolo Sud Ovest della Maiella; man mano che procedo le condizioni su quel varco, sovrastante la valle del Sangro, divengono quasi proibitive, perché una formazione nuvolosa mi si para davanti lasciandomi un passaggio molto esiguo tra la base nube e il terreno montano accidentato. Come se non bastasse, poco prima di imboccare la stretta gola, la visibilità peggiora: “Vado? Non vado?” Il chiarore che si scorge oltre la nube mi rassicura sull’assenza di ostacoli. Questione di attimi: “Vado!”, e sbuco sul costone della Maiella, assolato ed attivo, velocità centocinquanta chilometri orari, vario a zero. Mi dirigo verso il Morrone, dove mi fermo per fare quota fino a duemilacinquecento metri, poi imposto il mio volo costonando il più possibile e raggiungo senza difficoltà la Val di Chiana, in fondo alla quale si trova Camaldoli, secondo punto di virata prefissato. E’ normale che in un volo tanto lungo ci sia qualche difficoltà … ora il nuovo ostacolo è costituito da un enorme congesto, nella zolla del Trasimeno, la cui cuspide, appiattendosi, ha creato una vastissima zona d’ombra lungo la valle del Tevere, proprio dove ero intenzionato a passare. Da quelle parti l’aria è morta; intanto l’ombra del cumulo avanza verso Est ed io mi trovo costretto a deviare verso la zona est ancora assolata ma molto distante, direi troppo, tenuto conto della quota disponibile, pari a millecinquecento metri sulla verticale del passo di Viamaggio. Adesso è il momento che il Tre Tango dia il meglio della sua massima efficienza. Riduco la velocità a cento-centoventi chilometri orari e mi dirigo verso Gubbio. Impiego circa una quarantina di minuti in una interminabile planata. Intanto anche quella zona è andata in ombra mentre mi trovo a circa quindici minuti dalla cittadina. Non posso fare altro che proseguire: ormai ho solo novecento metri, anzi decido di aumentare la velocità perché, al punto in cui sono, mi conviene arrivare sui costoni delle colline di Gubbio il più presto possibile, per trovarli ancora caldi quel tanto che basta per spizzicare qualche ascendenza. A seicentocinquanta metri trovo qualcosa di sfruttabile fino a raggiungere i mille metri. Potrei fare di più, ma non posso attardarmi: mancano ancora duecentocinquanta chilometri per completare il tema e sono già le 18.15. I costoni si rivelano decenti tanto che riesco a percorrere i centotrenta chilometri che mi separano dal terzo punto di virata, Borgo San Pietro, in circa 90 minuti. Dopo aver aggirato il pilone con novecento metri, mantengo la quota fino a Poggio Bustone, dove sullo spigolo Nord-Ovest, centro qualche centimetro a salire fino a raggiungere i millecentocinquanta metri. Alle 20,17 mi separano da Perugia aeroporto … ottanta chilometri. Ora, se la restituzione funziona, ho i “1000” in tasca. E infatti la restituzione, questa autentica magia termica che ti regata la sera … funziona. Alla media di centoventi chilometri orari raggiungo Perugia S.Egidio, perdendo soltanto seicentocinquanta metri! Sono le 20,55: mancano poco più dì venti minuti allo scadere della mezz’ora di volo consentita dopo le effemeridi. Potrei terminare qui il volo … ma ho ancora cinquecento metri, pertanto, opto per un atterraggio virtuale attestato dal registratore di volo (logger) su Perugia aeroporto, per poi effettuare l’atterraggio reale più vicino a Rieti: nel comodo aeroporto di Foligno.

Il suono prolungato di un clacson mi distoglie dalle mie riflessioni: è arrivata la squadra, abbracci, baci e poi di corsa all’aliante che sonnecchia sfinito sull’erba dell’aeroporto. Mattia fà comparire la bottiglia di prelibato frizzantino, me la mette in mano e sollecita innaffiata e bevuta. Detto, fatto, in un clima di grande euforia, nella notte stellata di luglio.

Sulla strada del ritorno comincia il tormentone: la foto della lavagna sarà venuta? Ricordo che al momento della partenza si era inceppato il meccanismo di scatto. Il logger avrà funzionato? Con raccapriccio mi viene in mente che la memoria dell’apparato non è infinita e che, forse, non tutte quante le undici ore di volo sono state registrate. Cerco di distrarre Mattia che, influenzato dai miei dubbi, comincia ad agitarsi, chiedendogli di indovinare quale è stato il momento più bello del volo e lui di rimando: – Non mi ripetere come al solito … la prima termica!?” – Già, proprio quella … – esclamo, mentre riassaporo la magia della prima aria del mattino che prende vita e leggera, leggera, dolcemente si avventura nel cielo portando con sé … l’aliante ed il suo pilota.


#proprietà letteraria riservata#


A Hug

La prima termica del mattino

angiletto salutaE’ pensabile che l’impresa di volo più memorabile non dipenda dalla preparazione e dalle capacità fisiche e mentali del pilota ma da un vero e proprio miracolo della natura? In versione integrale, il racconto asciutto di uno “storico” volo. Una lettura che lascia letteralmente senza fiato.


Resoconto giornalistico / Medio-lungo Pubblicato: rivista “Volare” e rivista “Volo a Vela” NOTA: in versione integrale presente solo su “Voci di hangar”