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L’autobus volante

aereo giallone“L’autobus volante” è un breve racconto basato sulla fantasia nel quale si associano una serie di valori legandoli tra loro grazie ai concetti di speranza, amore e giustizia. Il protagonista è Vanni, un giovane sognatore che, per puro caso, si ritrova immerso proprio in un sogno ed in questo sogno si parla dell’uomo, della guerra, della solidarietà.


Racconto / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; vincitore del premio speciale offerto dalla rivista “Volo sportivo” per la migliore idea; in esclusiva per “Voci di hangar”

L’autobus volante

Gli piaceva sognare, sognare ad occhi aperti. Gli bastava aprire quei grandi occhi cerulei per ritrovarsi ad esplorare mondi inconsueti, di nessun altro se non suoi … suoi e basta! Era stato proprio per meglio viaggiare in quei mondi fantastici che in un caldo pomeriggio di primavera Vanni aveva deciso di metter su casa in un vecchio autobus in disuso, uno di quelli di un tempo che fu, dalla carcassa color verde oliva. Il sole picchiava duro quel giorno di maggio; l’asfalto sembrava fumare sotto ai suoi piedi stanchi e fu allora che Vanni si accorse di quel torpedone dai fari tondi simili a due occhi tristi e dalle gomme sgonfie come piedi indeboliti dal tempo impietoso. Egli si avvicinò e, con circospezione, introdusse la testolina al di là di una delle porte aperte così da poter perlustrare velocemente l’interno del mezzo. Nulla vi era dentro e la cosa sembrò sollevarlo parecchio, così salì a bordo spedito. Aveva camminato parecchio, Vanni, e proprio per questo, non appena entrato in quell’abitacolo squallido e tuttavia accogliente, si distese sui seggiolini che componevano l’ultima fila e si mise a pensare osservando la vecchia obliteratrice, particolare che gli fece ripensare al suo primo viaggio in autobus da solo, a 10 anni, per puro spirito di indipendenza. Batté le palpebre una volta, poi una seconda e, alla terza, dopo un lunghissimo sbadiglio, stanco come non mai, si addormentò profondamente.

Come per magia le porte si chiusero, i motori si accesero e le gomme, di colpo rinvigorite da un getto d’aria imponente, tirarono su quella carcassa stanca. Due colpi di clacson, uno di acceleratore e tutto fu pronto sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. svegliatosi da tutto quel fracasso. Vanni si stropicciò forte gli occhi, quindi udì una voce provenire nitidamente dal vano motore: “Ehm … prova! Ci scusiamo con il nostro unico passeggero per gli improvvisi cali di voce cui saremo soggetti … ma le nostre cinghie vocali potrebbero essersi danneggiate durante questi lunghi anni d’inattività, pertanto le consigliamo di prendere posto sul sedile del conducente e di tenersi forte: potremmo incappare in fastidiose turbolenze!”. “Turbolenze? Ma se in strada il sole sembra cuocere ogni cosa e di vento non c’è neppure l’ombra!” replicò Vanni d’istinto. “In strada no … ma in cielo … chi lo sa?” rispose, misterioso, l’autobus. “In cielo?”. Fu proprio in quell’istante che il bus si mosse cigolando un po’ qua e là emettendo una gran nuvola di fumo grigio. L’avvio fu molto lento ma sempre più deciso. Vanni osservava tutto con incredulità ma con sempre maggior curiosità. Decise di stare al gioco. “Dove si va?” chiese con tono di sfida. “Voglio farti vedere una cosa” gli rispose il mezzo con voce pacata e poi aggiunse: “Credo che tu non sappia tantissimo di ciò che avviene nel mondo. Sei così giovane!!”. “Può darsi, ma si può sapere dove andiamo?” tornò a chiedere Vanni con tono un po’ più preoccupato e meno spregiudicato di prima. “Non preoccuparti! Pensa solo a rilassarti: al resto penserò io!” concluse la voce. Vanni si tenne saldamente ai braccioli e chiuse forte gli occhi. Quando fece per riaprirli si sporse leggermente dal finestrino alla sua sinistra e rimase di sasso. L’autobus sembrava avvolto da un gran batuffolo di bambagia. Il ragazzo non capiva dove si trovasse ma una risposta ai suoi dubbi giunse non appena il vecchio mezzo pubblico riuscì a liberarsi da quello strato di morbida consistenza. Con tono sempre più allarmato quasi urlò sobbalzando dal sedile: “Ma quella è la Sicilia! Mi sembra di guardare un mappamondo! A che altezza siamo?” “In alto! Molto in alto ma solo mantenendoci così alti riusciremo ad accorciare notevolmente i tempi. Di strada da fare ne abbiamo ancora tanta!”. Vanni provò a non far più domande; già che c’era voleva vedere come sarebbe andata a finire quella situazione così strana. Sentì un rombo via via più imponente, fortissimo, poi un suono come di tromba da stadio “PARAPARAPPAPPARAPA’”. Si voltò nuovamente e si trovò a pochi metri da un “Jumbo” che gli parve immenso. Quasi fuse la sua fronte al vetro del finestrino e focalizzò il pilota dell’aereo che si sbracciava come un vigile urbano al centro di un incrocio. Il pilota abbassò il vetro ed urlò: “Se vi fate un attimo da parte magari noi riusciamo a passare!!” A Vanni venne da ridere perché mai avrebbe pensato ad una situazione simile. Dall’autobus la solita voce replicò: “Ma se il cielo è così immenso … !!”. “Si, è immenso”, gli rispose il pilota ad alta voce ma con garbo, “ ma, per mille cornacchie!!! Vi siete messi proprio in mezzo alla nostra rotta!!”. L’autobus, con uno scatto nervoso virò stretto e, finalmente, il “Jumbo jet” passò. Vanni continuò a seguire con lo sguardo l’enorme aereo che si allontanava e notò il braccio e la mano del pilota fuori dal finestrino a mo’ di saluto, in segno di ringraziamento. Anche il loro viaggio riprese, ma più lentamente. Da quell’osservatorio privilegiato, vide mari e monti, meravigliose tinte ed uniche sfumature di verde e di azzurro ed ancora vide foci di fiumi e picchi innevati, coste schiumose e sabbiosi deserti senza fine. Viaggiarono e viaggiarono ancora lambendo le vette più alte. Fu proprio a quel punto che Vanni si ritrovò catapultato verso la sua destra e, mentre stava per protestare per quella manovra azzardata, nuovamente verso la sua sinistra fino a ritrovarsi col sedere nel corridoio, sul duro pavimento del torpedone. “Che succede, adesso?” chiese Vanni. “Sono gli uccelli migratori! Abbiamo beccato un grosso stormo e ci siamo ritrovati proprio in mezzo a loro ma, come avrai notato, l’ho schivato brillantemente come un pugile sul ring sotto i colpi del suo avversario”. “Sì” proseguì Vanni, “ma, caro il mio pugile, ti sei accorto di quel pennuto con la zampa incastrata nel tergicristallo?”. “Oh … mamma mia!!” fu tutto quello che l’autobus riuscì a dire. La grande spazzola iniziò a muoversi alternativamente da destra a sinistra nel tentativo di consentire all’uccello di divincolarsi ma l’operazione non andò a buon fine. Vanni vide un nugolo di penne e piume sollevarsi in aria finché non scorse quel grosso uccello, un po’ stordito, riprendere il suo volo. Finalmente l’autobus si decise a rivelare: “La nostra destinazione è Kabul, caro amico, ma non aver paura: saremo prudenti!”. “Perché proprio una città così pericolosa?” chiese il ragazzo. “Perché dietro a tutto quello che hai visto in tv … beh … potrebbe nascondersi altro”. Vanni annuì fiducioso, appoggiò il capo sul vetro del finestrino e, piano piano, sbadiglio dopo sbadiglio, s’addormentò. “Guarda!!” fu l’esclamazione che lo ridestò. Vanni si stropicciò gli occhi e guardò l’orologio: era fermo! Pensò d’aver sognato ma gli bastò tornare a guardare di lato, attraverso il vetro alla sua sinistra, per rendersi conto che non era affatto immerso in alcun sogno. “Quello lì è un ospedale. Siamo arrivati! Aspetta, atterriamo!”. Il pesante mezzo, leggiadro come fosse un foglio di carta in balìa del vento, fece per girare attorno a sé stesso, poi puntò deciso verso terra. Il passeggero si tappò gli occhi con le mani, impaurito ma anche impaziente di comprendere ciò che non aveva ancora capito. Quando l’autobus toccò terra, finalmente, il ragazzo udì un forte soffio, quasi un enorme sospiro provenire dal motore mentre la voce che gli aveva tenuto compagnia durante quel viaggio dalla durata indefinita riprese a dire, con foga e convinzione: “Vedi? Dietro a quelle mura vi è solo dolore, vi è solitudine, povertà. Dietro a quelle mura vi è l’oscuro lavoro, mai raccontato, di tanta gente generosa che quotidianamente rischia la vita anteponendo la sofferenza degli ultimi, degli ammalati, degli abbandonati ma, soprattutto, ci sono centinaia di occhi come i tuoi: occhi speranzosi che avrebbero potuto creare, inventare, comporre e che, invece, non sono più capaci neppure di comprendere che anch’essi possono aspirare ad avere un domani. Vorrei che ciò ti facesse rendere conto che dietro agli imponenti proclami di giustizia e di nobili propositi raramente attuati può esserci tanta ipocrisia, il dolore mai valutato abbastanza della gente comune, c’è la sofferenza, la morte ma, soprattutto, c’è il potere ed il denaro di chi usa questa gente nascondendone al mondo intero le inumanità subite”. Poi, d’un tratto, la voce si calmò, si abbassò ed aggiunse: “Adesso, se vuoi, ripartiamo”. “No! Io rimango” fece Vanni fiero, issandosi sulle sue gambe col petto tronfio e gonfio di entusiasmo. “Rimango anch’io” replicò il vecchio bus. I fari si spensero come il motore, le porte si aprirono e da quel magico bus corse fuori un nuovo combattente, più forte che mai, deciso ad inondare d’amore e di sogni tanti altri giovani, potenziali sognatori, proprio come lui.

Un rivolo di sudore scese lungo la sua tempia sinistra fin sulla sottostante guancia e lo solleticò fino a costringerlo a riaprire gli occhi. Vanni si drizzò sul sedile, lo sguardo corrucciato e i capelli scompigliati di chi aveva dormito profondamente ed aveva sognato … un sogno che gli era parso fin troppo vero. Ancora solo, all’interno del vecchio bus, si sollevò sulle gambe e si avviò verso la porta più vicina; la oltrepassò, si voltò ancora una volta a guardare quel mezzo che lo aveva così ben ospitato e si diresse verso un bar, dall’altra parte della strada. “Buongiorno” fece Vanni entrandovi e rivolgendosi alla cassiera, “ha mica un elenco telefonico?” “Certo! Tenga!” rispose lei porgendoglielo. Deciso come non mai, il giovane lo sfogliò fino a che non trovò ciò che cercava: “Ecco! … Emergency!! 06-688151”. Copiò il numero nella rubrica del suo telefonino ed andò via, complice lo strano sogno che aveva fatto, a dedicare la propria vita agli ultimi, in un paese lontano, laddove però, è molto difficile arrivare con un vecchio autobus volante!


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Ivan Trigona

Ali sull’acqua

1° giorno: …… non più parole, telefonate, spiegazioni, lettere, telegrammi, richieste, ma fatti. Sono affaccendato attorno ad Orville, ho rifornito il serbatoio centrale e sto aggiungendo un po’ di miscela in uno dei due alari. Ho attaccato gli adesivi di Ottocubano stampati un paio d’ore prima a casa, ho effettuato i controlli, caricato bagagli ed olio… sono pronto… che il Raid “Ali sull’Acqua” abbia inizio. Prima meta: l’idroscalo di Vigna di Valle. Si caro lettore, idroscalo, perché Orville, il mio ultraleggero è un anfibio.

Tutto questo è iniziato a gennaio, era freddo a Roma quando, davanti al camino e con un cognac in mano, pensando al centennale del volo ed al settantennale della Crociera del Decennale compiuta da Italo Balbo, immaginammo un raid aereo anfibio per ricordare quando il volo idro era l’unico volo a richiamare l’attenzione. Ci sembrò un piccolo sogno mettere assieme una flottiglia di barcaerei, sorridevamo come bimbi contenti all’idea di organizzare una cosa diversa dal solito. Stasera, mentre scrivo davanti al lago di Bracciano, luce del tramonto soffusa, famiglie di oche bianche e germani reali che solcano l’acqua, i ragazzi del centro velico che giocano agli arrembaggi ed un fastidiosissimo cane che abbaia senza sosta, ripenso a tutte le difficoltà incontrate, ma anche a tutta la gentilezza, a tutta la comprensione e, soprattutto, all’entusiasmo riscontrato nelle persone che, come me, come noi, pensano che il volo sportivo possa e debba essere incoraggiato e sostenuto. L’acqua di Bracciano ormai è cheta, lentamente perde energia, le onde si distendono e scompaiono, come se il lago si addormentasse, eppure oggi durante l’ammaraggio il grande e possente braccio del vento di caduta è arrivato, puntuale ma non inaspettato a schiacciarmi sulla superficie del lago, a ricordarmi che la natura è sempre forte, ho contrastato un po’ col motore e poi Orville ha compiuto la solita metamorfosi: da aereo è diventato barca e siamo andati verso la rampa dell’idroscalo.

Ora il mondo è ancora più quieto, una nutria nuota e si ferma puntata verso di me, sembra un segugio acquatico, si direbbe che mi fissi, mah. Un gabbiano vola bassissimo, oops non mi ero mai accorto che in volo radente con l’ala potesse toccare l’acqua, guardo nel punto di contatto, piccoli cerchi concentrici si allargano mentre il gabbiano vola via… un aeroplano sarebbe rimasto lì, con l’estremità dell’ala a far da perno al resto… grande impareggiabile natura.

Abbiamo raccolto le carte ufficiali, sono più di un fascicolo, raccoglieremo tutte le e-mail, anche tutti i fax, ma tutte le emozioni provate? Emozione: tremito interiore, carezza sullo spirito, dolorosa frustrazione, solitaria preoccupazione, fremito di rabbia, soddisfazione infinita… tutte emozioni! Onde non solo sull’acqua ma dentro lo spirito, parole su parole per muovere, convincere, chiarire, spingere… ogni volta tassello nuovo di un puzzle in inarrestabile crescita…. Sensazioni di riuscita, di vittoria o di frustrazione per implicazioni soggettive ed oggettive…. quanti piccoli momenti nei quali mi sono riflesso in uno specchio sempre mobile nel tentativo di fissare un’immagine e di capire, che arduo lavoro. Eppure tutto ciò è passato, oggi c’è il lago davanti a me, baratro buio circondato da luci, e questo lago significa una cosa sola: riuscita, successo. Si, oggi Ali sull’Acqua ha preso vita ed Orville, il mio barcaereo, è salito sulla rampa dello storico idroscalo di Vigna di Valle!!!!!

2° giorno: Briefing di partenza. Avremmo dovuto essere nove, ma l’obbligo di rispettare strettamente le regole ha abbassato il quorum, avremmo dovuto essere sei, ma uno non ha avuto i giorni liberi, avremmo dovuto essere cinque, ma la pigrizia ne ha tagliato un altro, avremmo dovuto essere quattro, ma l’ospedale ha finalmente chiamato e dopo tanto tempo che si aspetta non si può rifiutare, avremmo dovuto essere tre, ma il black out ha costretto il pilota-imprenditore a rimanere in azienda, avremmo dovuto essere due, ma il maltempo su Savona ha rallentato di 24 ore l’ultimo … Sicché siamo soli, Orville, Fred – il mio copilota ed io, pochi ma buoni, mi viene in mente la canzone: se prima eravamo in otto a ballare l’alligalli … Sono le 09:00, gli amici ci sono, i parenti anche. Dei tre patrocinatori l’Aeronautica Militare è rappresentata dal Gen. Parma, dal Col. Daniele e dal TCol Mondini, direttore del Museo Storico che ci ospita, Alitalia Express dai Dott. Bernardo e Mura, l’Aeroclub d’Italia è stato trattenuto … dopo i briefing e gli scambi di reciprochi “pensierini” riusciamo a strappare all’“affecionado” Diego la lettura della preghiera dell’Aviatore, ancora emozioni e commozione … ricordi. Poi si torna operativi: acqua ed aria … alla fine dello scivolo dell’idroscalo Orville ritorna barca, lentissimo flottaggio e poi tutta potenza, la chiglia si erge, spruzzi d’acqua, apprua ed inizia la planata, infine ci separiamo dalla nostra ombra che rimane lì, impotente sull’acqua … speriamo che non se ne vada in giro da sola….

Trasimeno all’orizzonte …. oasi d’acqua in mezzo al verde, ma perché l’acqua mi piace così tanto? Che sia lago, fiume, mare, laghetto, torrentello, ha sempre una connotazione propria, è sempre una interruzione della continuità del suolo.

Sul lago ci accoglie una brezza leggera, lievi increspature, ondine accennate, l’isola Maggiore è davanti a noi, lontana, il Club Velico del Trasimeno sulla sinistra. Iniziamo a scendere, l’ombra si affretta, contatto con l’acqua del lago ci ricongiungiamo con lei di nuovo poi, rapidamente, lo scafo si immerge ed il lago si ricorda di adempiere al suo compito e ci restituisce “la spinta dal basso verso l’alto …..“ ormai siamo barca, muoviamo verso la terra, scende il carrello, ci arrampichiamo sul giardino del club velico.

Che bella cosa l’ospitalità. La conosciamo tutti, ma poi quando è il momento, è tutto bello, un sorriso, una stretta di mano, il tradizionale caffè, tutto ti fa sentire benvenuto. Seduti all’ombra di un albero aspettiamo che l’aria si riempia del rombo del motore di Gustavo, trattenuto dal cattivo tempo Nel frattempo si avvicina Gianni: “Scusa, non ho mai volato, me lo faresti fare un giro?”

Un battesimo dell’aria!! Guardo Orville, sorride il barcaereo, acconsente ottimista e voglioso di dare l’emozione del volo al maturo istruttore di vela. Rimaniamo ancora un po’ sotto l’ombra a rimirare il lago, sono le 14.00, è caldo, l’aria freme e si stacca in bolle dalla sabbia sulla nostra sinistra, nel silenzio si sente tutto, anche quella specie di sospiro dal prato della bolla d’aria che si stacca … lei non ha ombra, mah, diverrà una termica??? Andiamo a battezzare Gianni. Un breve giro, i suoi occhi sempre più grandi, i commenti che ti fanno veramente sentire che gli hai fatto un regalo grande, “possiamo fare un giro dalle parti di casa mia”? Fatto 30 si fa anche 31, poi torniamo, di nuovo nel lago.

Finalmente arriva Gustavo l’argentino, abbracci e baci chiacchiere in italiano ed in spagnolo, poco dopo torniamo in volo, voglio provare il decollo assieme, non è né formazione né coppia, solo un paio di decolli assieme per poter ben figurare ad Orbetello. Scorre il pomeriggio, poi quando ormai la palla rossa inizia ad avvicinarsi alla linea orizzontale decidiamo di fare del turismo serotino. L’aria è “collosa”, decolliamo dal lago che si sta fermando. Puntiamo verso l’isola Maggiore, le giriamo attorno, è tutto immobile, pochi gabbiani attorno a noi, man mano che giriamo l’ombra ci insegue, oppure ci sorpassa, deve aver letto del Gabbiano Johnatan anche lei, il giorno volge alla fine, il dio Ra conduce il suo carro sempre più in basso, è ora di tornare, torniamo. Sera a cena con l’Associazione Volo Trasimeno e, indovina un po’ di cosa s’è parlato?

3° giorno. Sorridenti, riposati e riforniti. Abbiamo appuntamento con gli altri due anfibi al campo Flying Buttero, finalmente saremo in quattro …. Giorgio ha sistemato l’Azienda e Massimo, che è fatto di ferro, è guarito e sta bene. I motori al solito motorano e l’elica, al solito, elica … Il lago è immobile, grande specchio di un cielo senza nuvole. Carrello retratto, da aereo a barca, flottiamo pigri e lenti in avanti. La superficie ci accoglie e ci agguanta, quando non ci sono ondine è tutto più vischioso. Gustavo è accanto a me, segno della mano … VAI per il decollo. Ci siamo accordati, lui parte davanti ed io rimango accanto, quindi motore che serve per rimanere leggermente defilato, però … Gustavo rimane barca …., non capisco, lo accompagno per un po’, poi spingo la manetta in avanti ed effettuo la solita transizione da barca ad aereo, decollo, lui è ancora a far la barca. Lo vedo provare e riprovare, alla fine decide: scarica il passeggero e decolla …

Andiamo verso Orbetello … Un brivido di soddisfazione: quanto io abbia voluto/desiderato ammarare lì nel pieno rispetto della più totale legalità, nel ricordo dei grandi che da lì compirono imprese eroiche, è irraccontabile; ma alla fine ci siamo riusciti, merito di tanti, dalla nostra Associazione Ottocubano, alla sensibilità del dirigente della Provincia di Grosseto. Continuiamo il volo, Gustavo è lì, ora a sinistra, ora a destra, defilato e più in alto. Non abbiamo nessun contatto radio. Scavalliamo le colline, arriviamo in Toscana. Il campo è lungo la strada che porta all’Argentario… lo adocchio, viro, giro la testa alla ricerca di Gustavo … ma non lo vedo, magari mi ha superato, guardo in giro, no, trovo solo la mia solita ombra … atterriamo, Gustavo non c’è. Ci telefona dopo un po’, piccola avaria, overtemperatura al motore, è atterrato in un campo un po’ prima, nulla di grave, ma preferisce far vedere il motore prima di ripartire … Siamo in tre. Piccolo briefing a Giorgio ed a Massimo. Tre Buccaneer, tre barcaerei, colori diversi, ma stesso spirito. Dà motore Giorgio. Respira possente la natura proprio in quel momento: wind-shear! Giorgio fatica a controllare il mezzo che sembra si rifiuti di volare, assistiamo impotenti e attoniti ma Giorgio fa il miracolo, porta il velivolo a terra in un campo poco più avanti. Lo vediamo venire verso di noi a passo affrettato, sta benone, ma … siamo in due. Decollo io, Massimo segue, avanziamo verso Ansedonia, le ultime termichette poi il mare, grande, immenso amico blu. Puntiamo verso Capo Pertuso, siamo autorizzati al sorvolo della Laguna Feniglia dall’Ente Nazionale Aviazione Civile ed alla navigazione marittima dalla Capitaneria di Porto di Santo Stefano. Viriamo a destra, Massimo è in ala sinistra, immobile. Una magia. Il moto relativo esercita il suo fascino su coloro che ci guardano da terra … 300 piedi, passaggio, poi Massimo rompe a sinistra, dovremo salire la rampa col vento in coda, io conto fino a 10 e seguo. Ammara davanti a me, vento da sinistra. Ammaro anch’io, sale sulla rampa, salgo sulla rampa. Guardo avanti: siamo arrivati, ci siamo… sorrido fra me e me, Orbetello, finalmente, il carrello si appoggia al cemento, do’ motore per superare la ripidità della rampa, siamo in cima, abbiamo un po’ d’abbrivio, tolgo motore e … accade l’inaspettato. Fulminati dalla legge di Murphy (se qualcosa può andare storto, lo farà) il sistema di blocco del carrello si dissalda proprio davanti al comitato d’accoglienza ed Orville collassa, poco elegantemente, di botto si unisce in maniera definitiva all’ombra che era lì sotto. La sorpresa è enorme, tardo anche a capire, poi stacco i magneti.

Forse la Laguna di Orbetello di nuovo solcata dai barcaereo non vuole che si vada via? Oppure sarà il Gen. Balbo che ha accettato il saluto che gli vogliamo rendere? Oppure non è contento? Forse vuole che si vada in USA anche noi?

Ora per Orville, parcheggiato definitivamente sul cemento dell’idroscalo, finisce la poesia ed inizia il lavoro del manutentore. Manutenzione del metallo e dello scafo che non poteva solo appoggiarsi alla sua ombra, ma sul cemento della rampa ha trovato un bel chiodo d’acciaio che ha inferto una ferita lunga e profonda. Se ne accorgerà nel primo pomeriggio Angelo giovanissimo copilota e nipote di Massimo che nonostante i suoi 8 anni ha uno spirito di osservazione ineguagliabile. Telefono al Presidente dell’Associazione Aeronautica di Viareggio, ci aspettava sulla riva del Lago di Massaciuccoli, e spiego la situazione. Prometto che andrò entro settembre a fare loro visita e, rassegnato, mi dedico ai dettagli della manutenzione. Cena al baretto della Canottieri, in riva alla Laguna, Antonio rimane con Fred e me, una buona serata … overall.

Ultimo giorno. E’ il giorno della fatica. Vincenzo il Presidente della Canottieri Orbetello fa di tutto ed anche di più per aiutarci, ma il carrello non può essere riparato qui, alla fine di tutto decido di tornare a casa decollando dall’acqua con il carrello bloccato. Dell’arrivo sulla pancia non mi preoccupo, lo scafo è molto robusto, a Sutri il manto erboso è molto curato e, tanto per sicurezza mi faccio una bella chiacchiera con l’ombra di Orville e le assegno un compito: all’atterraggio dovrà fare un po’ da cuscinetto. Deliziata di collaborare ha risposto: “Sarò ben felice di esservi utile”.

Ci aiuta una consistente brezza pomeridiana. Orville esce dalla densa acqua salata della laguna quasi da solo, virata di obbligo con saluto e poi destinazione casa passando, come previsto, per Vigna di Valle seguito dal campo di atterraggio. Colpo di telefono per assicurarsi di non mandare nessuno all’alternato. Ci aspettano, Fernando ha preparato persino l’estintore, ma niente cuscinetto di schiuma, tanto c’è l’Orvillombra. Il resto è senza storia, tranne l’enorme fatica per hangarare Orville senza il carrello fisso, ma siamo in due fino alle 23.00 – grazie Fred.

Promesse Il Raid Ali sull’acqua è stata una novità assoluta nel mondo dell’Aviazione Sportiva: un raid dedicato agli ultraleggeri anfibi. Già l’Alto Patrocinio dell’Aeronautica Militare, dell’Aeroclub d’Italia e di Alitalia Express hanno in qualche modo dimostrato che – facendo le cose con attenzione – le istituzioni dimostrano la propria sensibilità, invogliando gli organizzatori a fare ancora di più. Nel frattempo abbiamo costituito Ottocubano ad Associazione Aeronautica – ed ho una promessa: la nostra attenzione agli anfibi non è finita qui.


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Hangar con Biplano e Honda - Nate Stevens
Paolo Vittozzi

Un aliante

Non hai bisogno di un motore perché per motore c’è il vento. Non hai bisogno di grandi ruote perché sei piccolo e leggero.

Hai un corpo sottile e delle lunghe ali, ma non sei un uccello. Giri spesso sopra le montagne e da lassù guardi le case sotto di te.

Una mano forte ti guida in mezzo alle nuvole e non hai paura di cadere. Puoi rimanere su per ore senza mai stancarti, chissà quante cose belle puoi vedere!

Vieni a prendermi, voglio volare anch’io fin lassù! Voglio immergermi in quelle nuvole così dense da sembrare panna montata.

Piano piano scendi, atterri sulla pista, hai finito anche oggi il tuo giro ed ora vai a riposare.

Domani ti alzerai ancora, trainato da un aereo a motore e volerai sopra le cime montuose per ore ed ore…

18 luglio 1999


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Sabina

Aeroporti

“Il tempo passa e le cose cambiano”, già e’ proprio vero, arrivi in aeroporto, scendi lentamente la scaletta dell’aereo, senti l’aria fresca sul viso e il sole caldo sulle mani. Non si direbbe di essere arrivati a Milano, sembra un altro posto. Questa volta non hai dentro un lieve senso di smarrimento come ti succedeva quando per lavoro lasciavi casa per andare in un posto che non era casa tua, o che non era ancora casa tua. In quelle occasioni avevi sempre la voglia di vedere posti nuovi, conoscere, curiosare, ma in fondo c’era sempre un senso di vago timore, legato al fatto di essere via, essere lontano dai tuoi, dalle tue cose e dal tuo ambiente. A volte ti era capitato di desiderare di non essere lì, di guardare attraverso i vetri dell’autobus che lentamente ti conduceva al terminal, con il vago pensiero di farti portare su un altro aereo e tornare indietro.

Arrivato all’aerostazione, vicino al nastro per i bagagli, l’attesa ti costringeva a guardarti intorno, a curiosare a paragonare le strutture di quel particolare aeroporto: “a quale terminal assomiglia questo posto? Forse a quello di Chicago, no, … no, a quello di Monaco, asettico, vetro e acciaio, freddo su freddo”. Poi, dopo le strutture, la tua attenzione passava sulla gente: il manager che aspetta i bagagli senza celare l’impazienza perché il suo, all’imbarco, non glielo hanno fatto più caricare in cabina. La signora anziana, elegante e distinta, che va a trovare i figli; l’inconfondibile famiglia di turisti con bambini che corrono qua e là mentre papà e mamma cercano di ricordare il nome dell’albergo e il modo di dirlo nella lingua del tassista; il commerciante che ha un braccio impegnato dal suo prezioso campionario e l’altro ormai diventato un prolungamento del suo cellulare. E poi ragazze sole, vestite in modo quasi sciatto, che sembrano capitate lì per caso: forse fanno del turismo o invece stanno per raggiungere qualcuno che le aspetta; uomini d’affari che tornano dalle famiglie o che arrivano, come te, in quella città per lavoro. E poi pensi: “ma io come sono? Impaziente come il manager, o simile a uno di quegli uomini d’affari?” “No, non sono così elegante, viaggio sempre comodo, o forse è meglio dire, mimetizzato.” “Chissà se chi mi guarda capisce che sono qui per lavoro? E chissà se la mia espressione tradisce i miei dubbi o se invece sembra assorta, come quella di uno sicuro di se che sa cosa fare e dove andare in questa città?”

Forse l’insicurezza viene dal fatto di non essere attesi lì dove si va. Di essere lì da “stranieri”, trovarsi a dover presentare se stessi a tutto ed a tutti. A non trovare un luogo o un volto familiare. A pensare alle persone care come distanti. “Pensa al lavoro” Ti senti dire a te stesso. “Pensa alla presentazione che dovrai fare domani. Hai preso tutto con te? Qual’e’ l’agenda?” Queste sono le cose che cerchi di forzarti in mente per fugare tutti i pensieri “strani”. Ma non basta… Le valigie tardano, le persone sempre più impazienti rendono l’atmosfera ancor meno accogliente. Il terminal si riempie di squilli di telefoni cellulari, di risposte canoniche in lingue diverse: “si sono arrivato, … tutto bene, … il volo era in orario, e voi come state …”.

Niente ti aiuta a superare quei momenti di freddo lieve, di incertezza latente. Ma ecco le valigie; scorrono lente davanti ad un pubblico impaziente, che non applaude. Un pubblico che rapisce una ad una le protagoniste di questa muta sfilata di bagagli variopinti. Le valigie passano, ma non le tue. Non si capisce mai come accada che i propri bagagli siano sempre in ritardo. Non escono mai per primi da quei sipari di gomma nera. Non accade mai che la propria valigia esca fiera, prima tra tutte. No, essa ti lascia aspettare. Prima di te la piccola suora prende la sua valigia spropositata che tu immagini piena di rosari e icone della Madonna. Poi un fiume di beautycase e valigie firmate; sono quelle degli immancabili turisti americani. Passa perfino il sombrero “tipo familiare” del turista reduce dalla vacanza in Messico, ma la tua valigia, pigra, non vuole venire fuori. Anche lei indugia, anche lei si trattiene sul carrello, nascosta tra le altre, nella speranza di essere reimbarcata per tornare a casa. Alla fine, eccola, non ultima, ma sempre attesa troppo a lungo. La guardi, la prendi la soppesi: “si è la mia” ti dici, e a questo punto niente più ti trattiene nell’aerostazione.

Devi cominciare a muoverti verso la città e cercare. Cercare un taxi, cercare l’albergo, cercare un ristorante per la cena, cercare di capire a quale zona corrisponda l’indirizzo del posto che dovrai raggiungere per il meeting, cercare di ambientarti in camera, cercare di prendere sonno. Devi solo cercare, non trovi nulla già pronto in un posto nuovo. Non trovi nessuno ad aspettarti. E’ vero, non e’ la prima volta. Sai già che l’indomani il lavoro da un lato e la tua curiosità dall’altro ti faranno passare tutti questi vaghi timori. Sai già che ti basta poco per poi farti prendere dall’interesse per i luoghi e per tirarti fuori da quella palude di blanda tristezza. Ma deve ancora passare … ancora un piccolo sforzo.

Invece, tutto è diverso quando arrivi in un posto in cui sai che troverai qualcuno che ti aspetta e che non vedi l’ora di rivedere. Il viaggio ti ha portato via da qualcosa, ma ciò che ti aspetta e’ ciò che tu desideri di più. Il sole sulle mani, il vento sul viso, sensazioni piacevoli fuori dall’aereo e che ti accompagnano fino alla navetta che lentamente, troppo lentamente ti porterà al terminal.

Ed ora lì nell’attesa delle valigie sei come il manager, impaziente di veder arrivare il tuo bagaglio. L’attesa ti mette in tensione, cerchi con lo sguardo la toilette, la trovi e la raggiungi come faresti con un’oasi a lungo cercata nel deserto. Ti trattieni lì il più possibile, guardandoti nello specchio, sciacquando e risciacquando le mani per poter usare tutto il tempo necessario a che le tue valigie arrivino sul nastro. E questa volta il trucco funziona: sei riuscito a farle arrivare! Eccole lì spuntare e tu rapido a rincorrerle. Così valigie alla mano, te ne vai verso l’uscita seguendo le inutili indicazioni gialle: “So la strada, so benissimo dove andare, oggi qui, non ho nulla da cercare!” Uno sguardo distratto al terminal, un ricordo vago di quella sensazione spiacevole, ma solo un ricordo; oggi sai che non e’ così. Oggi l’impazienza è dolce, l’aeroporto è amico, niente può metterti di cattivo umore. Oggi rivedrai qualcuno che conosci. Oggi finalmente rivedrai qualcuno che ti stava aspettando. Oggi rivedrai qualcuno che ami e che ti ama. Oggi potrai baciarla di nuovo. Oggi rivedrai Eleonora.

 


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Claudio Palmieri