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Cavalieri impavidi

Guerrieri impavidi di una guerra contro noi stessi, ci raggruppiamo, ordinatamente, come branco per una migrazione. Concentrati attendiamo il nostro destino, anonimi interpreti di una avventura straordinaria. Spalla a spalla vinciamo le nostre paure protetti dal ventre possente del nostro aeroplano. Silenziosi durante l’attesa, trepidanti quando la luce irrompe sui nostri volti, uno a uno ci alziamo decisi, consapevoli dello straordinario momento. Fragore assordante nelle nostre orecchie, silenzio irreale nelle nostre menti, sensazioni sconosciute, esperienze di nuova vita. L’eterno attimo è giunto! Uno a uno, fulminei, ci schiudiamo nell’indaco del cielo assaporando increduli la grandiosità del nostro atto, dolcemente ci culliamo nel vento verso la terra che ci ha creato, noi angeli nell’infinito.

LIVORNO 6 NOVEMBRE 1996


# proprietà letteraria riservata #

§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§


Andrea Rossetto

Chi c’è in decollo

Chi vola in parapendio lo sa bene: l’area di decollo non è in un comodo aeroporto o in un’aviosuperficie attrezzata. Il luogo per effettuare il decollo, chiamato semplicemente “il decollo”, è su in alto, in collina o ancora più in alto, in montagna: un’area possibilmente libera da alberi e da ostacoli, esposta favorevolmente rispetto al vento dominante e aperta verso valle. A volte è un ampio prato in lieve declivio altre un ripido pendio attorniato da alberi o cespugli che lasciano uno stretto corridoio a disposizione dei piloti e poco spazio agli errori.

Nei casi più fortunati si arriva all’area di decollo percorrendo un tratto in auto e poi un breve tratto a piedi con lo zaino sulle spalle. Altre volte lo zaino lo si deve trasportare per una mezz’ora o più di cammino su sentieri ripidi ed accidentati. C’e’ da considerare che quando si parla di zaino da pilota di parapendio non si intende un normale zaino da escursionista del peso di quattro o cinque chili. Quello che i piloti si caricano sulle spalle è uno zaino enorme che pesa tra i 15 ed i 20 chili e che, una volta indossato, li fa sembrare, agli occhi degli spettatori casuali, simili a delle lumache che, faticosamente, si trascinano sotto grossi gusci colorati.

La fatica di portare questo enorme fardello è però premiata dal fatto che esso contiene tutto il necessario per volare: il parapendio, l’imbracatura, la tuta, il casco e gli strumenti. O meglio quasi tutto, infatti, ciò che ancora manca è il posto in quota da dove prendere il volo. Ma, come stavamo dicendo, a quello, con un po’ di fatica e sudore, ci si arriva.

Quando si arriva sul decollo, la prima cosa che si fa è dare un’occhiata alla manica a vento. A dire il vero, in alcuni decolli si trova una vera e propria manica a vento cioè una specie di bandierina di tela a righe colorate fatta a forma di tubo, come quelle che vi sarà sicuramente capitato di vedere in un qualche aeroporto o su qualche autostrada. In altri decolli c’e’ invece solo un fiocco, cioè un ciuffo di strisce di plastica, di quelle bianche e rosse che servono per delimitare i lavori in corso, appeso ad un’asta o ad un lungo ramo piantato nel terreno. Lo scopo del fiocco e della manica a vento è lo stesso: indicare la direzione e l’intensità’ del vento.

Così, se una volta giunti in cima non si vedono dei parapendio già in volo, la prima occhiata va alla manica o al fiocco, per vedere se c’e’ il vento “giusto”, cioè se la sua direzione e la sua intensità sono tali da permettere il decollo. Infatti, il parapendio è un mezzo che deve essere “gonfiato” per volare, cioè la sua struttura deve essere riempita d’aria per garantire che la tela acquisti la forma di un’ala con un ben definito profilo alare e una sufficiente rigidezza tali da garantirgli le caratteristiche di portanza ed efficienza che ne fanno un mezzo volante. Inoltre la manovra di decollo risulta agevole se il vento proviene dalla direzione nella quale si vuole decollare o proviene da una direzione che non si discosta eccessivamente da quella. Al contrario, una condizione di vento alle spalle è molto sfavorevole e può implicare l’impossibilita’ ad effettuare la manovra di decollo.

Ma lasciamo questi tecnicismi e torniamo a quello sguardo fisso sulla manica: una volta che con occhio critico se ne sono studiati i movimenti e che le prime valutazioni sulle condizioni del vento si fanno largo a tentoni nella mente in forte debito d’ossigeno, l’attenzione dei nuovi arrivati, ancora con gli zaini in spalla e con il fiato corto, passa a controllare chi c’e’ e cosa accade lì su. Infatti, l’attività’ dei piloti arrivati in precedenza è un indice di ciò che la giornata prospetta. Se si trovano piloti indaffarati a spiegare le vele, ad imbracarsi, a svolgere fervidamente i controlli pre-volo, allora, se anche nessuno è ancora in volo, significa che le condizioni sono buone e che basterà mettersi in coda per poi decollare. Se, al contrario, si arriva e si trova un po’ di gente seduta a chiacchierare, si vedono gli zaini sparsi qua e là e si respira un’atmosfera rilassata come quella di un pic-nic, si capisce subito che ci si deve armare di pazienza perché, per poter, volare ci sarà da aspettare. Capita spesso, infatti, che, se anche il cielo è limpido e da valle tutto sembra perfetto, una volta arrivati sul decollo le condizioni non siano ancora buone per permetter un volo decente.

In questi casi si procede con calma: si riprende fiato, si scambiano i primi saluti, ci si libera dello zaino e si cerca un posto comodo per sedersi ed aspettare. Praticando il volo libero si scopre come esso risulti essere, a volte, uno sport di attesa che richiede buone doti di pazienza che, in certi casi, possono essere portate anche all’estremo. Si può dire che esso è più vicino al gioco degli scacchi di quanto non si possa pensare! Alcune volte, infatti, si deve mettere in conto che l’attesa in decollo, nella speranza che le condizioni si rendano accettabili per il volo, può durare per delle ore. In alcuni casi, può addirittura accadere che l’attesa non venga premiata dal tanto agognato volo, ma, al contrario, può essere che le condizioni negative permangano, costringendo alla discesa a valle con lo zaino in spalla.

Per un pilota, un ritorno a valle a piedi con lo zaino in spalla suona sempre come una piccola sconfitta, mentre la voglia di volare tempra verso il sacrificio. Così, da bravi e ostinati piloti, anche in quei casi in cui non c’e’ il vento giusto, si resta in cima speranzosi nel miglioramento o fiduciosi nelle immancabili osservazioni ottimistiche di qualcuno dei piloti locali che meglio conoscono i segreti del posto e meglio dovrebbero saper valutare le possibilità di miglioramento.

In ogni caso l’attesa sul decollo non è come una noiosa attesa nell’anticamera dello studio di un dentista. Il clima è ben diverso (e ci mancherebbe!) e si inganna il tempo amenamente con i discorsi sul volo, sulle manovre, sui materiali, sulle prestazioni di questa o quella vela, sui contenuti dell’articolo letto sull’ultimo numero di una rivista specializzata. In gergo questo si chiama “parlapendio” e risulta essere uno sport molto praticato e scevro da qualsiasi rischio: i voli pindarici, infatti, non hanno mai fatto male a nessuno!

Nei casi in cui l’attesa si protrae, capita che la conversazione si scaldi e così viene il momento di tirare fuori i racconti più succulenti: le manovre di decollo azzardate, gli errori clamorosi conclusi con piloti aggrappati ad alberi o cavi elettrici, le manovre acrobatiche al limite della sicurezza o dell’inviluppo di volo del parapendio, gli atterraggi buffi o eseguiti in condizioni di emergenza. Insomma i discorsi diventano coloriti ed oscillano tra il goliardico ed il drammatico: si raccontano i propri voli epici in cui sono state raggiunte quote stratosferiche e sono state percorse distanze sconfinate e poi si parla degli errori madornali commessi in volo, ma sempre da un qualche altro pilota.

L’attesa crea così un convivio piacevole dove il tempo scorre tra racconti di storie e leggende e dove, persone qualunque, che affidano la loro vita ad un lenzuolo di tela colorata ed ad un fascio di sottilissimi cordini di carbonio, esorcizzano le loro piccole, umane e immancabili paure. Ma ecco, nel bel mezzo di quel chiacchiericcio, qualcosa cambia: la manica a vento comincia a sollevarsi con regolarità, il vento si “addrizza” mettendosi, a volte, nella direzione favorevole al decollo. E sì, il vento è fenomeno strano, non è mai lo stesso, si presenta con dei cicli che bisogna individuare ed elaborare. Così gli sguardi di tutti vengono magneticamente attratti dal tubo di tela e dalle sue evoluzioni: si cerca di interpretare la durata e la regolarità dei cicli del vento. Si elaborano le informazioni per decidere sul da farsi.

“Sembra buono.” dice qualcuno con gli occhi fissi sulla manica. “Io aspetterei ancora un po’.” dice qualcun altro che la guarda con più sospetto. “Ecco, ecco sembra che tenga …” aggiunge un altro ancora. Così i commenti sul balletto del pezzo di tela continuano fino al momento in cui qualcuno pronuncia la fatidica frase: “Io apro!” ed alle parole fa seguire l’estrazione della vela dallo zaino. Si porta in mezzo all’area di decollo, apre il pacco di tela colorata dispiegandola accuratamente sull’erba del decollo e poi procede alla cerimonia dei controlli pre-volo: “I cordini A, … B, … C, … D … sono a posto, niente intrecci e nessun nodo.” Quindi indossa l’imbracatura allaccia i moschettoni dei cosciali e quelli ventrali, indossa il casco, aggancia la vela all’imbracatura, da’ un’occhiata allo spazio aereo … “libero” pensa tra sé …

Nel frattempo l’area di decollo, con il vento che sembra regalare le condizioni buone per il volo, è animata da un’agitazione in cui i piloti, prima incerti, ora cominciano a mettere mano ai loro zaini. Le chiusure lampo scorrono e le sacche con le vele vengono fuori dagli zaini. Altri “volenterosi” sono pronti ad iniziare a loro volta le procedure pre-volo. Tutti però sono curiosi di vedere come andrà per quel primo “temerario” che si lancerà in volo: riuscirà a fare quota o, tradito dall’assenza di correnti favorevoli, dovrà scendere placidamente e rapidamente verso l’atterraggio a valle? Così tutti gli occhi sono puntati su quell’unico pilota che, in piedi, con in mano gli elevatori ed i freni, scruta la manica a vento. Deve cogliere il ciclo di vento giusto e forse anche fare qualcosa in più: dimostrare agli altri che il suo fiuto non l’ha ingannato e che la scelta di tempo è stata giusta. Così egli attende, elevatori e freni nelle mani, fronte alla vela e spalle alla direzione di decollo, attende e mentalmente invita il vento a soffiare regolare per quella manciata di secondi necessaria a fargli gonfiare la vela e permettergli, in pochi passi, di levarsi in volo.

Ed ecco che, dopo l’ennesima esitazione, la manica si gonfia decisa mostrando che il ciclo è quello giusto. Il pilota con gesti precisi indietreggia tirando a se la vela: un rumore crepitante di tela cerata e poi un grande arco colorato si dispiega, si gonfia e sale vivo sulla verticale del pilota. Egli rapido la controlla dando un po’ di freno a sinistra o forse a destra, quindi quando l’ha fermato dritto sulla sua testa, velocemente si gira e corre giù dal pendio. Due, tre, quattro passi e un sibilo lieve nel vento accompagna il distacco dal suolo di quella fantastica, semplice e romantica macchina volante. .


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Claudio Palmieri

Nella cabina di pilotaggio

Arrivo all’aeroporto con largo anticipo per scoprire che il genio delle prenotazioni mi ha prenotato sul volo Londra-Roma invece che il Roma-Londra (nonostante la mezz’ora di telefonata, i dati del biglietto e la mia richiesta di ricontrollare la prenotazione quarantacinque volte perché non mi quadrava l’orario d’arrivo). A quel punto (nelle migliori tradizioni) i voli sono strapieni. Vado a protestare e mi consigliano di spedire una lettera. Mando il tipo della direzione a quel paese. Al check-in sono più gentili. Mi dicono di aspettare la chiusura del volo. Poi alle cinque e un quarto mi comunicano che il volo è chiuso e non sono rientrata (ero la sesta in lista, sono saliti i primi cinque…), ma visto che non ho bagaglio, posso provare ad implorare direttamente all’imbarco (mi consigliano vie crucis e autoflagellazioni che in epoca di Giubileo fanno la loro parte). Mi precipito in volata all’uscita C2 ma niente da fare. Attendo attendo. Mi mettono in lista d’attesa per il volo successivo. Sono la undicesima. Trasferimento all’uscita C11 con sosta ai cessi per fumarmi una sigaretta. Sono in formato omino Michelen, e bagaglio con il peso d’una tonnellata di parmigiano, caffè e libri, un caldo da paura. Mi destratifico mentre corro. All’uscita C11 ritrovo gli stessi di prima che ormai hanno preso a cuore il mio caso (ai limiti del patologico). Speranze pochissime ma mi dicono di non disperare.

Assisto ad un’inglese isterica che ricopre di vituperi un’addetta all’imbarco a causa dei disguidi che ha subito per i voli cancellati, prenotazioni a scatafascio, biglietti a rimpiattino. Lei ascolta con una pazienza certosina. Poi arriva un tassista che ha rincorso per mezzo aeroporto una coppia di anziani inglesi che si sono oooops … dimenticati di pagarlo. Mi offro da interprete, cambio le sterline in lire ai due smemoranti, liquido il tassinaro che si è fatto straripagare della dimenticanza al limite della rapina a mano armata. I due pagano quello che lui chiede tra l’imbarazzo generale. Intanto il volo è imbarcato. Per me posti Nix.

Arrivano altre tre persone a cercare di risolvermi l’incresciosa situazione. Infatti se non salgo su quest’aereo, sul successivo è da escludersi che ce la faccia. Ma come si fa? Manco un posto libero. Alla fine a qualcuno viene l’idea dello strapuntino. Il capitano dice occhei. Voilà. Vai, corri. Infilo il corridoio in volata e mentre corro mando un messaggio al coniuge “arrivo”. Poi chiamo di corsa mia madre “stopartendotispiegoquandoarrivo”. Entrata, si chiudono le porte. Saluto e ringrazio il comandante e mi accomodo nella cabina di pilotaggio…

La cabina di pilotaggio è un gioco pirotecnico di lucine, lucette, pulsantini, levette, manovelle, rotelle, numerini, numeretti, sigle, siglette, voci confuse dagli speakers. L’armamentario mi circonda mi aggira: sopra, sotto, davanti, di dietro. Ho paura di muovermi previo toccare qualcosa di vitale importanza, onde deriverebbe sfrittellamento del velivolo con tragedia inumana non riportata dai tempi di Ustica. Titoloni di giornale: Aereo precipita sulle Alpi. Qualcuno ha mandato in tilt i due motori. Non si conoscono le cause del disastro. E’ accertato che il pilota non beveva. Forse ad un passeggero è andato di volta il cervello. La scatola nera non è stata ritrovata.

– Senti, mi fa un piacere – mi fa il comandante, come se si trattasse di un incarico di vitale importanza – mi chiudi la porta così mi fumo una bella sigarettina. Eseguo all’istante. Lui s’accende la sua sigarettina tranquillo e beato, apre il finestrino laterale e si sbraga alla grande: Ahhhhhhhh!!!!!!! Mi vengono in mente tante cose, ma dico solo: – Fantastico! Il comandante per me è già un mito. Osservo attentamente il finestrino aperto a manovella e mi rendo conto che in fondo ‘sta cabina di pilotaggio più che fantascientifica mi sembra una 500 coreografata a mo’ di alberello di Natale.

– Tutto ok? Tutto ok. Vabbé. Chiudiamo ‘sto finestrino e partiamo.- Lancio di sigaretta all’esterno. Leggo i titoli: aereo esplode in rifornimento. Non se ne conoscono le ragioni. Tric e tracche, spintarella, cazzottino, tiratina, rumore di ferraglia. – Eh maccheccazzo ‘ste guarnizioni! Ce l’hai i dati. Sì sì, c’ho tutto. Facciamo 235? sì sì va be’. 564, 675, 98 62. VHF, RIFF RAFF e Patrac. Voce dallo speaker incomprensibile. Movimenti frenetici. Gira deqquà, manovra dellà, tira un leva su, due leve giù, spingi questo, alza quell’altro. – A Londra c’è un tempo schifo. All’arrivo faremo il balletto. Vabbé intanto partiamo.

Ci siamo. La pista è davanti gloriosa e trionfante. Lunga lunga una quaresima, ed io sto là, occhi spiaccicati in avanti che me la gusto tutta in allungata, impennata e virata. Ciao Roma. Intanto proseguono le manovre i pigiatasti, contanumeri, fogliettini, manuali, inserimento dati, l’altimetro che ci porta in un battibaleno sui trentamila piedi. Dopo quindici minuti, il dado è tratto. Ai due non resta più niente da fare. Il comandante si dedica alla lettura del giornale. Io faccio salotto con il secondo pilota. Sorvoliamo le Alpi, passiamo Ginevra. Un bambino chiede di vedere la cabina. Mi tolgo dai piedi e m’intrattengo con la capo hostess che ha un raffreddore di quelli schiantacervello. All’altezza della Manica mi riaccomodo. Si comincia la discesa. Ricominciano le voci e il pigia deqquà e pigia dellà. – Accidenti che mestiere che fate! – Ehm sì. E’ un po’ difficilino. Per lo più è automatico ma ci sono situazioni in cui è… non vorrei sembrare immodesto… quasi eroico.

Il tempo è infausto. Si comincia a ballare. Comincio a capire come funziona la questione. Riconosco ormai i vari tasti e a che cosa servono. Mi sento come ad un corso accelerato di pilotaggio. – Sì, i dati va bene – dico – ma scusate la domanda da ignorante… ma come fate a non sbagliare strada? Scoppio di risa. – Ehm, in effetti non è poi così insolito. C’è chi ogni tanto sbaglia rotta di due o trecento chilometri… L’aereo balla che è una meraviglia. Il vento (me lo comunica il comandante) tira a centocinquanta all’ora. Porca puttana piove! – Eh lo vedo. – No. No. Piove dentro. – Ahi, cazzo, piove pure di qua. Aspetta. Mettiamoci un fazzolettino. Le falle ai finestrini vengono arginate a furor di kleenex.

– Altro giro, altro regalo. Ma ‘ndo cazzo ci stanno mandando questi di Stansted? in Cornovaglia? – Giro giro tondo. E pensare che eravamo in anticipo. Addio cenetta. Ci tocca ripartire subito. Vita infame. Scopro che a causa del maltempo l’aereo che ci sta davanti è stato dirottato su un altro aeroporto. Sembra di stare sulle montagne russe. Anzi, mi corregge il secondo pilota: è un rodeo. Io sobbalzo sul seggiolino. Yahooo!!!

Veniamo agganciati da Gatwick. Il controllore di volo comincia a dare ordini e portare l’aereo giù: 10000 piedi, 8000, 5000, 3000. A 1500 usciamo dalla coltre di nubi e la pista compare in tutto il suo clamore. – Che facciamo comandante? Cerchiamo di centrare la pista? – Vabbé. Proviamoci almeno.

La pista si avvicina in modo preoccupante sulla destra. L’aereo è spinto verso sinistra dal vento che ha raggiunto i centottanta chilometri orari. – Cazzo come siamo storti. Che facciamo? atterriamo di lato? Silenzio di tomba. I due sono un concentrato di succo di spremuta di concentrazione. 1000, 800, 500. A 300 stiamo per toccare. Siamo nel pieno d’una tromba d’aria. Maronna qua se schiantamo. Il comandante cerca di buttare l’aereo a destra, il vento ci ributta a sinistra. PING PONG PING PONG PING PONG. Tre, due uno… virata all’ultimo secondo. L’aereo si raddrizza e atterra dolcemente, senza uno sbandamento, una sbavatura. Sei milioni di nervi mi si distendono contemporaneamente.

Il comandante si volta e mi fa: – Ti ricordi quando ho detto che a volte il nostro mestiere è automatico e a volte invece…

Segue lettura della mappa dell’aeroporto. – Gira qua. – No, no aspetta è di là. – Sì ma dove sta? Ah sì sì è di qua. – Vabbé, vai di là.

L’operatore inglese del tunnel sbaglia l’attracco. Sbadabang! – Che è successo? – Niente comanda’ l’inglese c’ha sfasciato il portello. Niente Venezia. Restiamo qua. Conosce qualche ristorantino a Londra? – Aspetta che mo’ ce riprova. Questa volta il tunnellista fa centro. – Peccato. Non l’ha sfasciato del tutto. Solo qualche graffio. Ci tocca ripartire. Conosce qualche ristorantino a Venezia?

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Il coniglio si prende senza correre

Era la sua centotreesima ora di volo per quella compagnia. Duecentodue in tutta la sua giovane carriera. Sua moglie si chiamava Patrizia ed era di Pachino, provincia di Siracusa. Era siciliana come lui, con la differenza che, compiuti sei anni, la sua famiglia l’aveva trascinata a spasso per il nord del paese, Lombardia prima (Monza, Milano, Lodi), a Torino ed Asti, in Veneto poi (Verona). Salvo scelse il continente dopo aver completato gli studi tecnici nella sua città natale, Messina. Servizio militare nell’aeronautica italiana, poi la decisione di voler fare il pilota. Era rimasto nell’esercito dai diciotto ai ventinove anni, poi il matrimonio con Patrizia, la casa a Verona (di lei), il passaggio agli aerei civili nella più grande compagnia nazionale. Pilotare aerei era per lui un lavoro come gli altri. Se fosse rimasto nella sua città probabilmente sarebbe finito su di una nave traghetto a solcare giornalmente lo Stretto di Messina; aveva scelto il cielo al mare. Salvo e Patrizia non avevano avuto figli, per volontà di lei. Patrizia non aveva mai lavorato, era laureata in Economia e Commercio ma, tranne qualche timido tentativo nello studio di un suo zio commercialista di Asti, aveva preferito fare la casalinga. Salvo era il suo secondo marito. Il primo si chiamava Enrico ed era un avvocato milanese con interessi lavorativi in Veneto. Salvo aveva trentasette anni quando si sposò con Patrizia. Patrizia ventinove. Enrico cinquanta quando si separò da Patrizia dopo due anni di pacata convivenza coniugale. Nessun figlio nemmeno dal primo matrimonio. La scatola nera appartenuta all’aereo pilotato da Salvo e precipitato la mattina del diciannove Settembre fu ritrovata nel mare Adriatico solo sei giorni dopo. Tutti i corpi dei passeggeri e dell’equipaggio furono restituiti dal mare dopo tre giorni di ricerche da parte delle squadre di soccorso. Tutti tranne il corpo del capo pilota, Salvo. L’aereo si era inabissato nell’Adriatico alle ore sette e trentadue minuti. Nessuna perturbazione in corso, nessuna comunicazione via radio, nessun segnale di difficoltà. Nulla. A bordo vi erano centotrenta passeggeri e sette membri d’equipaggio. Ecco quanto è stato reso noto dell’ultimo dialogo fra il secondo pilota, Paolo Anselmi, e Salvo. Sono le ore sette e cinque minuti di Martedì diciannove Settembre: – Paolo – “Sette per sette?” – Salvo – “Quarantanove…” – P – “Sette per sei?” – S – “Quarantadue…noiose le tabelline eh!!!” – P – “Allora…Vediamo un po’…Picasso?” – S – “Il Foggia di Zeman” – P – “Stagione?” – S – “Mmmm non lo so.” – P – “Adesso tocca a te” – S – “Il coniglio si prende…?” – P – “Cosa???” – S – “Il coniglio si prende?” – P – “Ah…Il Coniglio si prende…Senza correre…!!! Giusto?” – S – “Si. Facciamo perdere quota all’aereo, ci schiantiamo e moriamo tutti in un botto?” – P – “Solo se finiamo in mare!” – S – “Lo faccio piano piano così lì dietro non se ne rendono conto.” – P – “Ci vorrà un tocco vellutato!!” – S – “Chiudi la Porta e ti faccio vedere io!” – P – “OK!” – S – “Riprendiamo il gioco intanto” – P – “OK! Secondo me fra poco inizieranno ad accorgersene…” – S – “Gerico?” – – P – “Mmmmm, non lo so…” – S – “A te!” – P – “Non mi viene niente, si può passare?” – S – “Non lo so. Facciamo di no.” – P – “Va bene, trovato!” – S – “Spara!” – P – “With a little help for my friends?” – S – “Joe Coker” – P – “Sbagliato, Beatles!” – S – “No no, Joe Coker!!!” – P – “Prima Beatles…” – S – “Conosco solo la versione di Woodstock. Li senti? Hanno incominciato a sbraitare!” – P – “Continuiamo il gioco”.


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Graziano Delorda

Con gli occhi di dentro

Posso raccontare cose che voi piloti nemmeno immaginate. Forse le avete viste, con gli occhi della presunzione, dell’arroganza, di un narcisismo senza limiti e confini, costruito con le frustrazioni che cercate di affogare nel volo, sollevandovi per qualche tempo da terra. Certo percepite no. Se le aveste percepite le ali non avrebbero preso portanza e la resistenza sarebbe stata insuperabile. Ho visto e sentito lingue e linguaggi, significati e significanti che avrebbero fatto arrossire postriboli e bordelli thailandesi e vietnamiti, che celavano ansie ed angosce costruite sulla castrazione e l’impotenza, senza futuro di remissione. Ho visto deltaplani decollare da soli per un rotore in decollo, e ne ho visto uno con un braccio attaccato ad un cavo ed il suo proprietario rotolarsi a terra perdendo l’attimo della bellezza in aria. Ho visto un pilota storpio, e senza una gamba muoversi mostruosamente verso il decollo, la liberazione, e librarsi in volo come una farfalla, leggera, senza peso, con l’anima che si protendeva avanti alla prua, su un angolo di naso oltre 135°. Ho visto una mascella inferiore appesa su un palo di cemento di una vigna, segno di fertilità, che continuava a muoversi, con quella superiore, altrove, appesa al naso, vicino agli occhi sbarrati e due ali infrante che continuavano a vibrare pensando di volare via. Ho visto schiene spezzate da piccoli spuntoni di albero in atterraggio, e un cavallo che galoppava con ali sulla groppa ed un uomo con una spalla appesa. Ho visto bimbi e donne che vegliavano morti in mezzo alle rocce. Ho visto corpi appesi ai fili delle torri elettriche lanciare scintille, sull’erba verde e profumata di primavera. Ho visto uomini boccheggiare nell’acqua, per un moschettone nascosto od una cerniera bloccata. Ho visto il mio amore come una marionetta con le braccia senza ossa, e poi lo ho rivisto, così un’altra volta ancora e, sempre e comunque con un sorriso che diceva: “che vuoi che sia”. Ho passato notti e notti cogliendone il sospiro e leggendone i sogni sempre fatti di cielo e di aria. Ho visto e sono testimone della storia di un modo di volare fatto di imbecilli, teneri e cari. Ho visto atterraggi che rimanevano vuoti e decolli improvvisati dove l’incoscienza dominava sul coraggio e la follia sulla realtà. Ho visto e ne sono testimone ed interprete, perché il volo ha sempre rappresentato, la condivisione di un amore senza limiti e confini. Ho sentito il suono di un variometro trasformarsi in grida, urla e lamento e ali bianche rincorrersi in un roccolo la cui destinazione era il nulla, fatto di alcuni metri in più o in meno. Ho visto alianti trattati come stracci, da piloti irriconoscenti di un dono che era stato distribuito a pioggia e la pioggia, si sa, bagna anche chi non lo merita. Posso raccontare di voli visti con gli occhi di lui e ancor più attendibili e chiari perché partecipati di un’altra emotività, fatta di due gambe in aria e due gambe in terra. Ho visto passarmi addosso gli ultimi anni come una brezza da pendio, una termica calda che ti accarezza, come la dolce restituzione che ti accompagna a casa d’estate. Ho visto il mio amore condividere ogni sospiro con me ed io con lui, nell’unico respiro dell’eternità, con umiltà e riconoscenza per un dono ricevuto, come un anello invisibile che non ci separerà mai. Ho visto e continuerò a vedere e volare per sempre.


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Carmen Coia