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Good luck, Pesciolino!




Il decollo del C-5 Galaxy dalla Vandeberg Air Force Base alle 03:00, ora locale della California, si era svolto senza problemi. I vertici del Comando Strategico avevano preferito alleggerire il più possibile di carburante l’aereo anche se, per completare la sua delicata missione, si sarebbero dovuti effettuare almeno due rifornimenti in volo.

Nella capiente stiva del cargo militare erano stati allocati, dopo uno scrupoloso disassemblaggio, i detonatori della bomba e i contenitori del materiale nucleare, separati adeguatamente gli uni dagli altri per evitare pericolose interazioni.

Il trasporto aereo del carico, coperto da codice di segretezza livello 5, era proseguito normalmente secondo il piano di volo. Nel punto stabilito il Galaxy aveva completato il primo rifornimento di carburante portandosi progressivamente poco sotto la coda dell’aereo cisterna, un KC-10 Extender. Il rifornimento era avvenuto tramite la sonda rigida collegata ad un bocchettone ubicato sopra la cabina di pilotaggio del grosso aeromobile. Al termine dell’operazione, quando le segnalazioni luminose avevano confermato al sottufficiale addetto al controllo della sonda che i serbatoi del Galaxy erano pieni, il tubo era stato ritirato e gli aerei si erano separati.

“Certo che ne è passato di tempo da quando, negli anni venti, sono stati realizzati i primi tentativi di rifornimento in volo!” aveva osservato il comandante del Galaxy, capitano Ronald Driver, rivolgendosi al secondo pilota, tenente Frankie Tarantino.

“Eh già” annuì il tenente pensando al Boeing B50, chiamato Lucky Lady II, che trent’anno dopo, avrebbe effettuato il giro del mondo senza scali intermedi, a dimostrazione dell’efficienza del sistema di rifornimento in volo, grazie anche all’affidabilità di macchine ed equipaggi dell’USAF.

Nelle ore successive, la conversazione tra i due piloti si era dilungata sull’utilizzo che sarebbe stato fatto della bomba più potente mai costruita: “A giudicare dalle dimensioni e dalla voci che circolano”, aveva detto il tenente, “lo scoppio di questa bomba sarebbe in grado di mettere in crisi l’intero territorio degli Stati Uniti”

“Sbalorditivo!”aveva esclamato il comandante, poi però aveva aggiunto: “… ma quanto a potenza distruttiva, caro Frankie, le forze naturali non hanno rivali: terremoti, maremoti, tsunami e uragani sono insuperabili … a proposito … vedi anche tu quello che vedo io nel radar meteo?”

“Gesù, comandante, la formazione di cumuli nembi che abbiamo davanti è enorme! Il suo fronte deve estendersi fino ad una cinquantina di miglia (circa centinaio di chilometri, ndA) … per non parlare dell’altitudine … trentamila piedi (circa diecimila metri, ndA) o forse più.”

“Accidenti!”, era stata la replica preoccupata di Driver: “proprio ora che dobbiamo fare un nuovo rifornimento! … a proposito, Frankie, com’è che l’aereo cisterna non si è fatto ancora sentire? Prova a farlo contattare con il nominativo concordato”.

“Ci penso io, se non ha niente in contrario, comandante; il marconista, sergente Cooper è sceso nel ponte di carico per concedersi un caffè.” L’attrazione del sergente verso la corroborante bevanda, che consumava di continuo in tazze proporzionate alla sua stazza, era nota, pertanto al copilota non erano state mosse obiezioni, anche perché il suo hobby per la radiotecnica non era da meno rispetto alla passione di Cooper per le tazzone di caffè bollente. Indossate le cuffie, Frankie aveva impostato la frequenza e il codice di crittografia digitale sul computer delle comunicazioni.

“Pellicano, Pellicano, da Pesciolino, over”

“Avanti, Pesciolino, qui Pellicano, over”

“Pellicano, cominciamo ad essere un po’ a corto di carburante, over”

“Quanto a corto? Over”

“Abbiamo poco più di un’ora di autonomia, over”

“Pesciolino, siamo nel pieno di una tempesta, l’aereo cisterna non ha potuto decollare dalla base Wheeler. Al momento stanno cadendo chicchi di grandine da 4 pollici (circa 10 cm, ndA), un evento eccezionale per la contea di Honolulu! Over”

“Roger, Pellicano. Qui Pesciolino … allora non abbiamo altra scelta: se non ci sono novità ci dirigiamo all’atteraggio per Wheeler, over”

“Ok, Pesciolino, good luck. Out”

Le notizie ricevute da terra, erano state accolte a bordo del C-5 con una buona dose di apprensione. Il cargo stava trasportando una bomba termonucleare ad altissimo potenziale nel quadro di una serie di operazione NATO top secret. Se la missione non fosse stata portata a termine perché la bomba era finita in fondo all’Oceano Pacifico con il Galaxy, era prevedibile che i mass media di tutto il mondo, venuti prima o poi a conoscenza dell’accaduto, si sarebbero scatenati in una campagna denigratoria delle forze militari NATO senza precedenti. Inoltre se si fosse saputo che la causa dell’incidente aereo era da attribuirsi alla mancanza di carburante, l’intera catena di comando sarebbe saltata senza sottilizzare troppo sulle singole responsabilità.

“Certo che il clima sta impazzendo” aveva osservato il tenente, “Chi l’avrebbe mai detto che alle Hawaii, in questo periodo, sarebbe caduta tanta grandine da imbiancare queste favolose isole!?”. Evidentemente il secondo pilota era più preoccupato della situazione meteo nelle isole che delle conseguenze che sarebbero potute derivare dal mancato compimento della missione.

“Frankie?! … ma ci stai di testa?”, era stata la domanda di Driver, accompagnata da un moto di stizza, “siamo a corto di carburante … tra noi e la base dove dovremmo posare questo pachiderma alato, c’è un fronte temporalesco di violenza inaudita … non possiamo permetterci di girare in tondo in attesa che passi, non abbiamo autonomia sufficiente neppure per raggiungere un altro aeroporto fuori della tempesta … ti pare che sia il caso di stupirti perché le Hawaii sono colorate di bianco?”

Il tenente Tarantino, strette le spalle, aveva chiesto contrito: “E allora cosa si fa, comandante?”

“Tu che ne dici, Frankie?”

Il tenente ci aveva pensato un istante, ed aveva risposto con l’aria di chi la sa lunga: “Alla mala parata, sganciamo tutto il carico, bomba compresa e guadagniamo un altro po’ di autonomia”

La replica del comandante non si era fatta attendere: “Frankie, dimmi la verità”

“Dica, comandante”

“Quando parli … sei in contatto costante col cervello, oppure no?”

Il tenente aveva abbozzato delle scuse, ma il comandante implacabile aveva aggiunto: “ Sai dove siamo? … certo che lo sai … converrai con me che siamo in prossimità di Pearl Harbour. Questo nome ti dice niente?”

“Ehmm …” aveva farfugliato, mentre si affollavano in lui immagini di navi alla fonda centrate dalle bombe come birilli, accompagnate da altre con sciami di aeroplani giapponesi rassomiglianti a cavallette fameliche che assaltavano l’isola …“Non è forse il luogo dove i nostri nonni presero una delle più grandi batoste della storia americana?”

“Bravo, Frankie! … e pensa che bello se, grazie alla tua testa bacata, la storia si ripetesse!? … ma questa volta sarebbe un aereo americano a bombardare Pearl Harbour, e per giunta con una bomba progettata da fisici giapponesi. Almeno in parte”.

Frankie aveva deviato il discorso: “Insomma ha deciso di prendere di petto la tempesta? … che Dio ce la mandi buona!”

“Abbiamo altra scelta, Frankie?”

D’improvviso, il possente Galaxy era passato dalla luce del sole al buio pesto dei cumuli nembi, rischiarato a brevi intervalli da lampi accecanti; il comandante e il suo copilota avevano la sensazione di trovarsi sotto il fuoco di una contraerea furibonda. A tratti era sembrato che una mano gigantesca afferrasse la fusoliera del cargo militare scagliandola verso l’alto e verso il basso, come se il più grande aereo da trasporto dell’arsenale USAF fosse un giocattolo.

“Ma oggi che abbiamo fatto a Madre Natura per renderla tanto incazzata con noi, eh comandante?”

“Chiudi quella boccaccia, dannazione, Frankie … rischiamo di perdere il controllo dell’aereo! Riduco potenza, escludo l’autopilota e passo a comandi manuali! … se ci rovesciamo abbiamo chiuso: la bomba potrebbe sganciarsi dai sostegni, sfondare il ponte di carico e uscire dalla fusoliera!”

“E anche se non ci rovesciamo” aveva rincarato il copilota, “questa fottutissima grandine finirà col bucherellarci tanto da ridurre l’aereo ad una sorta di scolapasta volante!”

In effetti, se i piloti avessero potuto osservare la scena dall’esterno, oltre a sentire l’assordante rumore dei proiettili di ghiaccio che colpivano incessantemente l’aereo, avrebbero notato, con orrore, le lamiere del Galaxy infossarsi sotto la pressione della grandine che si scagliava contro il metallo alla velocità relativa di 600 km/h.

“Porca puttana, comandante!” aveva esclamato il tenente, non senza apprensione, “Gli anemometri sono impazziti! Le velocità indicate sono in contrasto con le spie di stallo! Alla velocità con cui stiamo procedendo non dovrebbero essere accese. Ammesso che vogliamo credere alle indicazioni del GPS”

“Una volta tanto ti do ragione, Frankie … il ghiaccio deve aver ostruito i tubi di pitot. Nonostante i riscaldatori. E va bene: freghiamocene dell’anemometro e degli avvisatori di stallo. Cerchiamo di tenere l’assetto con l’orizzonte artificiale e con l’indicatore dell’angolo di attacco”

Ad un certo punto, inspiegabilmente, la fortissima turbolenza si era attenuata, anche la grandine era diminuita. Il sottufficiale armiere ne aveva approfittato per salire nella cabina di pilotaggio ed informare il comandante che “Minnie” – appellativo affibbiato affettuosamente all’ordigno nucleare – era ben assicurata e non aveva subito danni. Il sergente, Bobby per gli amici, era un ragazzone del Texas, rossiccio e muscoloso, cresciuto a bistecche al sangue alte due pollici (circa 5 cm, ndA) che a malapena entrava nella la divisa. Non capitava spesso di avere a bordo uno specialista in armi nucleari.

Stavano ancora parlando quando, preceduto da uno schianto terrificante, uno dei finestrini del parabrezza, dal lato del copilota, era volato via causando l’inarrestabile decompressione con il caratteristico risucchio dell’aria pressurizzata verso la più rarefatta atmosfera esterna.

Il sottufficiale che si trovava in piedi, alle spalle del copilota, era stato letteralmente aspirato in direzione della piccola apertura come un piombino sparato da un fucile ad aria compressa. Fortunatamente era rimasto incastrato con il busto fuori della cabina e il resto del corpo all’interno, con le gambe che scalciavano alla ricerca di un appiglio.

Istintivamente il tenente Tarantino, aveva accennato alla mossa di sganciarsi le cinture di sicurezza che lo tenevano ancorato al posto di pilotaggio, nel nobile intento di soccorrere il sergente.

“Frankie, per Dio!” aveva urlato Driver, “Cerca di trattenere il sergente ma resta legato! Indossa la maschera!”. L’ordine, dovuto alla professionalità del pilota, era stato pronunciato senza pensarci su due volte. Anche nel C-5, come negli aeroplani commerciali, era previsto che, in caso di depressurizzazione, i piloti indossassero immediatamente le maschere ad ossigeno poste sotto ciascun sedile, per scongiurare l’anossia e la conseguente perdita di sensi. Ma il tenente, nel tentativo di sottrarre Bobby dalla difficile situazione in cui si trovava, era troppo occupato per dargli retta.

“Comandante, sto tenendo il sergente per le caviglie, non me lo lascio scappare anche a costo di volare fuori con lui!”

Nel frattempo la turbolenza aveva ripreso a strapazzare il gigante dell’aria provocando balzi e scuotimenti incessanti, mentre l’aereo perdeva velocemente quota. Le caviglie di Bobby erano sfuggite alla presa di Frankie che cominciava a sentirsi in debito d’aria. Ormai solo le gambe del malcapitato si trovavano all’interno della cabina  Ma il tenente non si era dato per vinto e aveva spostato la presa sui pantaloni mimetici del sottufficiale. Lentamente l’indumento aveva iniziato a sfilarsi …

Con una rapida giravolta, dopo essersi liberato dalle cinture di sicurezza, Frankie aveva trovato rifugio nel vano della pedaliera, riuscendo senza capacitarsene, a tirarsi appresso il sottufficiale, in apparenza morto e nudo dalla cintola in giù mentre torrenti di acqua gelida si riversavano nella cabina di pilotaggio. Con la coda dell’occhio, al comandante era parso che la postura assunta dai due evocasse una posizione da Kamasutra. Incredibilmente Bobby si era ripreso, un po’ intontito, mezzo assiderato ma vivo.

Il Galaxy era sceso di diverse migliaia di piedi tanto che l’aria, meno rarefatta, era di nuovo respirabile mentre la pressione in cabina si era riequilibrata con quella esterna. L’effetto risucchio era scemato. Anche la turbolenza e la pioggia si erano attenuate. Il tenente ne aveva approfittato per caricare di peso lo sventurato sergente e condurlo nel sottostante ponte di carico. Alla loro apparizione i commilitoni avevano applaudito a lungo. Comunque le battute sulla perdurante nudità del sottufficiale non si erano lasciate attendere, alcune decisamente oscene.

Rientrando di corsa in cabina, il tenente aveva ammirato l’impegno e l’abilità del comandante nel manovrare il Galaxy. Per tutta risposta, il superiore lo aveva fissato negli occhi con l’aria di uno che deve comunicare una decisione importante, suo malgrado. Poi, con enfasi, aveva sentenziato: “Accidenti, Frankie, ti ho visto sai, e ti farò rapporto …”.

Il tenente, non credendo alle proprie orecchie, aveva ascoltato le parole che avrebbero figurato nel rapporto a suo carico: “Nel mezzo di una tempesta, incurante del pericolo, il tenente pilota Frankie Tarantino afferrava per le gambe il sergente Bobby McKenzy, finito quasi interamente fuori dalla cabina di pilotaggio a seguito della rottura di uno dei finestrini. Nel corso dell’audace manovra, approfittando dello stato d’incoscienza del sottufficiale, rimasto privo di indumenti nella parte inferiore del corpo, si lasciava andare ad atti di indubbia turpitudine sessuale, protetto alla mia vista dal vano della pedaliera. Ma solo in parte”

Frankie era stato al gioco. “Grazie, comandante … ho fatto come si suole dire: di necessità virtù …”

“Frankie … d’ora in poi chiamami Ronald, questa volta una menzione d’onore – e forse una medaglia – non te la toglie nessuno … ma ora cerchiamo di portare a terra questo pachiderma … e se ce la caviamo … giuro che ti proporrò per un avanzamento di grado”.

“Ronald, possibile che la prima volta che ti chiamo per nome mi debba sentire commosso?”

“Risparmia le lacrime Frankie …”, era stata la risposta il comandante, “ci attendono momenti difficili”.

La grandine aveva smesso di flagellare il Galaxy, ma la pioggia era diventata di nuovo fittissima al punto da ridurre quasi totalmente la visibilità. Ad aggravare la situazione c’era l’afflusso continuo di acqua che penetrava con violenza all’interno della cabina di pilotaggio. Frankie, costretto ad abbandonare il suo posto per evitare di passare alla storia come il primo pilota annegato in volo, aveva trovato rifugio sul sedile del marconista, dietro a quello del comandante.

“Per fortuna” aveva confidato Ronald a Frankie, “che al Wheeler sono attrezzati con il GCA (Ground controller Approach, ndA); in mezzo a questo casino, sapere che il nostro avvicinamento avverrà con il controllo del radar e che ci verranno fornite tutte le opportune istruzioni per l’atterraggio mi rende quasi euforico.”

Il tenente aveva fatto un cenno di assenso, ma, al contrario del suo superiore, era tutt’altro che propenso all’euforia.

In quell’istante, era arrivata la comunicazione della torre di controllo di Wheeler che dirottava il Galaxy sull’aeroporto internazionale di Honolulu.

Non ci si poteva credere: un trasporto militare coperto dal massimo livello di sicurezza atterrare in un aeroporto civile! Per giunta con le piste intasate da emergenze e lo spazio aereo zeppo di aeroplani

La risposta del Galaxy non si era fatta attendere  “Roger, qui Pesciolino … non abbiamo alcuna intenzione di buttarci nella mischia di Honolulu in assenza di visibilità e con la strumentazione in avaria! Pesciolino conferma atterraggio di emergenza su Wheeler, over”.

“Negativo, Pesciolino … l’aeroporto Wheeler sarà inservibile per molte ore. Dobbiamo rimuovere un traffico che ha rotto il carrello in atterraggio e ora ingombra la pista!”

Frankie era rimasto esterrefatto: l’aeroporto Wheeler era dell’Army (Esercito, n.d.A.), loro erano dell’AirForce (Aeronautica, n.d.A.), Pesciolino era un nome tipico della Navy (Marina, n.d.A.) e dovevano atterrare in un aeroporto civile: che bella contraddizione!

Come se fosse nei suoi pensieri, il comandante aveva chiesto al copilota: “Frankie, chi cazzo ci ha affibbiato il nominativo Pesciolino?”

“Per quanto ne so, caro Ronald, è stato un pezzo grosso dell’Ammiragliato, noto per il suo strano umorismo”.

“Beh, sarà contento di aver trovato un nome che, in mezzo a tutta quest’acqua, sembra particolarmente appropriato al Galaxy, se non fosse per le dimensioni. Però se finiamo in mare non ci sarà militare che, incontrandolo, non si toccherà le palle! Come gli è venuto in mente di chiamare Pesciolino un gigante come il Galaxy?”

“Ronald, credo che sia un vezzo femminile. Quello di attribuire diminutivi a cose di grosse dimensioni. Ho visto un film porno in cui lei, forse per rincuorarsi, chiamava pesciolino l’attrezzo di lui, benché misurasse a dir poco, trenta centimetri!”

“Vuoi dire che l’Ammiraglio è una donna?” aveva domandato il comandante.

“Perché no?”

“Già, perché no? … cazzo Frankie, portiamo questa balena all’asciutto!”

Infatti, poco dopo il sole, prendendosi la rivincita sulle nubi, riaccendeva i colori del cielo e dei campi nella contea di Honolulu e sull’isola di Ohau.





Narrativa / Medio-Breve

Pubblicato nell’antologia della I edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2012;  classificatosi al X posto, in esclusiva per VOCI DI HANGAR



Attenzione: Non esiste il Tag Good luck Pesciolino

Il cane

Pomeriggio di fine settembre: ancora caldo, limpido, stupendo. Il sole barbagliava mille raggi sul fiume, sulla vicina città, sulle cime d’attorno, ghiacciate e grigiastre, e, al centro di tutto il paesaggio, sulla grande spianata dell’aeroporto, con l’erba bruciata e disseccata dalla violenza estiva.

Elda spinse con sicurezza il piccolo cancello di legno, piccolissimo rispetto alla grande mole degli hangar che lo affiancavano, ed entrò.Lo zampillo amico della fontanella la salutò chioccolando e le offrì lo spettacolo sempre nuovo e mutevole dei due pesciolini che con graziosi volteggi dorati si mormoravano dolci parole d’amore.

Si mormoravano dolci parole d’amore? Elda non ne dubitava. Era innamorata, Elda, e tutto intorno a lei non viveva che nell’amore. Amorosamente giocherellavano i pesci, amorosamente lo zampillo ricadendo dopo il breve slancio carezzava le stentate foglie di una pianticina acquatica cui la vita sfuggiva di giorno in giorno, con grande dolore del piccolo sottotenente biondo che l’aveva raccolta in uno stagno campestre, e che le dedicava quelle cure che solamente un cuore innamorato della natura in ogni sua forma ed essenza, può dedicare a una piccola cosa inutile. Amorosamente infine il sole si indugiava su di ogni rilievo, e avvolgeva in un tiepido abbraccio la sua eterna amante.

Franco la vide da lontano, dal campo, e le corse incontro.

Anch’egli l’amava, con tutta la sua anima assetata di bellezza e di purità: e nulla può essere così bello e puro come un grande amore. Due sorrisi, una dolce stretta di mano, poi via, di corsa, a braccetto, a “vedere l’aeroplano”!

Il velivolo era là, fermo, piantato solidamente sul prato come un rapace artigliato ad un masso, muso sfidante il sole, stupendo simbolo di forza e di eleganza. Sfavillava ai raggi del sole con barbagli d’argento, e il motore ridotto al minimo aveva un ronzio lieve e continuo, come il calmo respiro di un potente polmone.

I due gli girarono a lungo attorno, soffermandosi ad ogni passo. Piaceva molto, a Elda, il bel caccia di Franco, e, quando veniva al campo, mai si stancava di ammirarlo, di tentarne con la mano i docili comandi, di carezzare lievemente le sue belle ali, con l’animo pieno di quella sensualità vellutata che si sprigiona in noi al contatto di una cosa liscia, lucida, elegantemente armoniosa.

Era bella Elda, e al sole i suoi capelli sfolgoravano raggi caldi e rossastri di oro antico.

Una mano di Franco si immerse in quell’oro, tentò la fragile nuca. L’amore li avvolgeva in una cortina di tentazioni, il velivolo li copriva alla vista dei compagni di Franco e degli specialisti che più in là rifornivano gli altri apparecchi. Le loro labbra si unirono.

Il caccia ebbe un sobbalzo, uno schianto, per un secondo il motore urlò, precipitando gli scoppi. Franco alzò il capo, sorpreso. Nulla: tranquilla e regolare l’elica batteva l’aria con le braccia sagomate. Si era senza dubbio sbagliato: l’ebbrezza toglie la giusta percezione dei sensi.

Non era così: al bel caccia si era spezzato il cuore. E ciò che ancora lo faceva fremere e pulsare non era più la vita, perché la vita non può essere che bellezza e bontà, ma un terribile sentimento di rabbioso rancore, di subitanea volontà di vendetta. Anch’egli era innamorato. Di Elda.

Da quando essa aveva cominciato a venire al campo, egli l’amava, con tutta la potenza del suo cuore d’acciaio. Le sue carezze lo inebriavano e facevano fremere di piacere i suoi lucidi fianchi avvezzi solo allo schiaffo dei venti, il leggero peso di lei appoggiato alla fusoliera lo riempiva di estasi, sotto le sue manine morbide i sottili nervi dei suoi comandi si tendevano in uno spasimo di metallica ebbrezza. E l’assiduità di Elda, le sue frequenti visite, avevano illuso il suo animo di guerriero ingenuo. Si era sentito riamato. Aveva creduto che lei venisse per ammirare le sue evoluzioni ardite, le sue audaci acrobazie, e invece essa veniva per l’uomo, per il piccolo uomo che egli accoglieva per compiacenza nella sua sagoma ardita e portava quotidianamente in giro per i cieli.

Si erano beffati di lui, giocando con la sua anima come con quella di uno schiavo senza diritti. Ebbene no, non era uno schiavo senza diritti, e Franco ne avrebbe avuto subito le prove. Il suo rancore non era contro Elda, donna, e perciò incapace di resistere all’amore e all’invito di una bocca amante, ma contro il suo compagno di volo che, pur prima amato, ora avrebbe voluto frantumare con l’elica assetata di sangue.

Franco si preparava rapidamente per la missione. Il casco, gli occhiali, un bacio sulla mano di Elda. Via: la bandiera rossa e bianca diede il segnale.

Tutto gas!

Urlando il velivolo si mosse, avanzò barcollando, poi più sicuro. La coda lasciò il terreno: un attimo, e, libero d’appoggio, si librò nell’aria puntando il muso al cielo. Salì rapidamente.

Franco ne ammirava con gioia la docile potenza, aspirando profondamente il fiotto d’aria proiettato violentemente dall’elica sul suo viso, misto agli inebrianti odori dei gas bruciati.

Toccò i cinquecento, virò, ritornò verso il campo. Sull’erba brunastra, giù in fondo, spiccava con bianca vivacità un punto: Elda. Franco la scorse: essa agitava in cerchio il fazzolettone di seta candida. Per vederla meglio planò leggermente.

L’apparecchio, il muso verso terra, scorse anch’esso il punto bianco. Riarse di scoppio in lui la rabbia con la sete di vendetta, e si condannò a morte. Con l’altro.

Il motore di colpo si rimise al massimo, mutando l’assetto di planata in una veloce picchiata.

La mano del pilota, ferma sulla manetta, non si era mossa. Sorpreso la tirò a sé, la respinse, la agitò bruscamente.

Il motore seguitava a rombare al massimo, e la terra si avvicinava rapidamente.

Franco rialzò l’apparecchio in linea, sempre manovrando la manetta ormai folle, ma il velivolo, interrotto nel suo impeto di assassino, contrasse furiosamente i suoi nervi, e con secco rumore i sottili cavi d’acciaio dei timoni si infransero.

L’apparecchio sobbalzò, sbandò, si inclinò girando rapidamente a sinistra.

Franco impallidì, sentendo la pedaliera inerte sotto i suoi piedi, la barra inutile nella sua mano avvezza al comando. Il caccia, in balia ormai solo di sé, infuriava.

Ora il suo muso picchiava precipitando in baratri fischianti, ora, arrestandosi bruscamente con cigolii e schianti delle fragili ali, risaliva quasi avvitandosi nell’aria per un ultimo sberleffo al sole.

La tragica lotta durò poco. Il caccia decise di finirla. Puntò decisamente il muso al terreno, inchiodò i timoni, e, con un boato orribile, precipitò di schianto rompendosi e frantumandosi in uno strazio di ossature metalliche.

Era piombato sulla strada, schiacciando un piccolo cane che, fuggito alla villa padronale, sgambettava, finalmente libero, alla conquista del mondo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Pio Grenni

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“40 consigli per scrivere bene”.

Non sappiamo chi l’abbia scritti, ma sono scritti bene. L’importante che non producano in voi il blocco creativo.

40 consigli per scrivere bene

Jet con cartello limite velocitaEcco i 40 preziosissimi consigli per scrivere bene, anzi benissimo.

Vi sembreranno poco seri … non vi preoccupate: è il nostro modo per spiegarvi con leggerezza e farvi ricordare ciò che, diversamente, sembrerebbero inutili nozioni e che dimentichereste appena chiusa  questa pagina.



1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

9. Non generalizzare mai.

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa;ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

15. Sii sempre più o meno specifico.

16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso e! tacòn del buso.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

32. Cura puntiliosamente l’ortograffia.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

34. Non andare troppo sovente a capo. Almeno, non quando non serve.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competente cognitive del destinatario.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

40. Una frase compiuta deve avere.

Norme Dattilografiche

Meccanico con ElicaNon pretendiamo che diventiate delle provette dattilografe, certo che no … ma che adottiate delle sane norme dattilografiche, certo che sì. Lo diciamo nel vostro interesse e soprattutto in quello dei vostri lettori.

E non nascondetevi dietro l’alibi dello stile personale: esistono delle convenzioni universali di scrittura di un testo che devono essere rispettate inderogabilmente. Sempre nel caso in cui desideriate ottenere un aspetto finale accettabile. Se invece vi prefiggete il disorientamento spazio-temporale di chi darà una sbirciata al vostro testo … beh, riuscirete facilmente nel vostro intento, non abbiamo dubbi al riguardo.

Certo, avere dimestichezza e fare buon uso dei programmi di videoscrittura vi permetterà di raggiungere subito ottimi risultati, tuttavia alla base ci sono sempre le solite, ancestrali norme di estetica dattilografica. Sì, esatto, avete intuito bene: quelle nate con l’avvento della scrittura sulle  tavolette di cera, migliorate poi dagli amanuensi medioevali, industrializzate dai tipografi del ‘400 e infine riammodernate con l’avvento delle  prime macchine da scrivere. Oggi come ieri, anche se vi servirete di un pc di ultima generazione, sempre con loro dovrete avere a che fare. Dunque rassegnatevi.

Oh, naturalmente dimenticate la scrittura tipica degli SMS o dei messaggi inviati a mezzo  social network o messaggeria istantanea: quella non è scrittura … è un linguaggio criptato. In letteratura non si usa.






Le norme dattilografiche sono elementari quanto fondamentali. Eccole qui:



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Scegliete un font (tipo di carattere) estremamente diffuso come: “times new roman” o “arial” e che comunque non affatichi la lettura.

Sì, i caratteri che riproducono la scrittura a mano sono tanto  belli quanto illegibili. Riguardo quelli arabescati sono molto esotici, è vero, ma non si abbinano granché al contenuto del vostro romanzo.

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Non utilizzate la funzione di sillabazione automatica: alcune parole potrebbero rimanere irrimediabilmente troncate in due spezzoni (specialmente nel caso di modifica delle dimensioni della pagina o del carattere).

 Il programma di videoscritture distribuirà il vostro amato testo nell’ambito di ciascuna riga, della pagina, del capitolo e dell’intero libro meglio di quanto possiate fare voi. Fidatevi!

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Prediligete la formattazione “giustificato”: la riga si riempirà quanto basta senza lasciare vuoti.

Inutile risparmiare spazio: è già pagato. Usatelo tutto e la pagina non apparirà seghettata e disordinata bensì bella pienotta. Crepi l’avarizia!

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Non andate a capo a fine riga: lo farà automaticamente il vostro programma di videoscrittura. Salvo che non vogliate andare “punto e a capo”.

Se siete nati nell’epoca delle macchine da scrivere quando un campanello vi avvisava dell’imminente fine della riga, beh … avrete la tentazione di andare a capo, è normale. Tranquilli: i pc non hanno campanelli né leve a molla per far muovere il rullo della carta. Provvedono da soli. Volete provare?

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Prestate attenzione alla scrittura di formule matematiche: all’occorrenza usate la funzione “apice” e/o “pedice”.

No, non sono parolacce … è roba per matematici, ingegneri, fisici e via discorrendo. Tutta gente con la quale non dovrete mai avere a che fare. A voi interessano solo lettori ed editori.

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Ci sono dei caratteri di punteggiatura che devono essere attaccati alla parola che li precede e separati da quella che segue. Essi sono:

– il punto (.)

– il punto e virgola (;)

– la virgola (,)

– il punto esclamativo (!)

– il punto interrogativo (?)

– il simbolo di percentuale (%)

– l’apostrofo (‘)

– gli apici o virgolette chiuse (“)

– le parentesi tonde ) e quadre ] chiuse

– il segno di uguale (=)

Tutto chiaro? Volete scrivervi un promemoria da attaccare sul bordo del monitor? Fate pure … non c’è nulla di scandaloso in questo.

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I caratteri di punteggiatura che devono essere attaccati alla parola che li segue e separati da quella che li precedono sono:

–    apertura di apici o virgolette (“)

–    parentesi tonda ( e quadra aperte [

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Non usate l’apostrofo per accentare le vocali minuscole come: a,e,i,o,u. La scrittura corretta è: “à, è, é, ì, ò, ù”, mentre la scrittura: “a’, e’, i’, o’ u’” non va mai usata.

La tastiera standard italiana è già dotata di vocali minuscole accentate: usatele! Sono pagate.

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Il discorso diretto può essere introdotto con il trattino (-) o con le virgolette (“). E’ assolutamente vietato l’uso dei doppi segni matematici di “maggiore di” (>>) o quelli di “minore di” (<<).

Le freccette usatele nei pub nel corso di tornei all’ultimo punto … in letteratura non si usano. Pungono. Inoltre esteticamente sono orribili, inguardabili.

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Nel caso del trattino, possiamo permetterci di non chiudere il discorso diretto con un’altro trattino a fine riga, ma solo se quella successiva comincia con un altro discorso diretto.

Esempio:

– Buongiorno, dottore.

– Buongiorno a lei, dottoressa.

Dite la verità: dopo aver letto questa norma dattilografica è diventato un buongiorno anche per voi?

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Nel caso delle virgolette dovranno essere aperte e chiuse delimitando il discorso diretto, altrimenti lasceranno interdetto il lettore. Fate attenzione nel mettere quelle di apertura attaccate alla parola che le segue mentre quelle di chiusura dovranno essere attaccate alla parola che le precede.  Ad esempio:

“Buongiorno, dottore!”, esclamò entusiasta la giovane ortopedica mentre il luminare delle ossa replicò annoiato:

“Buongiorno a lei, dottoressa”

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I puntini di sospensione possono essere collocati indifferentemente attaccati alla parola che li precede o li segue, oppure essere separati da queste tramite uno spazio.

Personalmente trovo questa ultima soluzione (rendere equidistanti i puntini dalla parola che li precede e da quella che li segue) crea ancora più sospensione, non credete? … creano attesa … una pausa di riflessione … ma non occorre esagerare … altrimenti diverrà un salto tra i puntini.

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Il testo deve avere una sua estetica armoniosa, a prescindere dal contenuto. 

Un blocco monolitico contenente un fiume di parole difficilmente giova alla lettura. Il lettore deve avere il tempo di respirare, di elaborare quanto gli occhi hanno visionato affinché si generino nella sua mente quelle sensazioni che l’autore intende trasmettergli. Ammucchiare le parole non produce un ritmo narrativo più incalzante. Inoltre i costi di stampa non diminuiranno  granché.

Vi siete resi conto che abbiamo volutamente compresso i suggerimenti? E non è un bel leggere … 

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Andare a capo indiscriminatamente non renderà più lungo il testo. 

Se il vostro racconto/romanzo è striminzito non allungate il brodo.

Un consiglio: lasciate da parte la vostra composizione e raccogliete le idee.

Soprattutto leggete, leggete, leggete e poi, se proprio avete desiderio di farlo, riprendete a scrivere.

Forse siamo andati a capo un po’ troppo spesso!

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La “d” eufonica va inserita (in genere) solo quando due parole finiscono/cominciano con la stessa vocale. “Solo” dove occorre, non deve cadere ovunque indiscriminatamente come il prezzemolo. 

Ed ecco un esempio di d eufonica corretta”. 

Non scrivereste mai: “e ecco”, giusto? 

Ed allora perché la piazzate ovunque’?” Vi risulta che la vocale “E” di “ed” sia la stessa vocale di “allora”?

Altri esempi:

Ad amministrare la d eufonica non è facile. Tutti concordi. E invece voi che fate? Eccola spuntare a ogni dove!