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IL club MELC


Un libro usato trovato curiosando su una bancarella lungo la Senna, con in copertina la foto di un P-51 North American Mustang. Delle note al suo interno scritte a matita da uno sconosciuto proprietario … e quel nome “deBoyer”, porzione del cognome della madre di Antonie de Saint-Exupéry.

“Accanto al nome c’era scritto: … domandare a…”.

Uno degli splendidi acquerelli (tra la decina dei disegni un po’ infantili e anche un po’ naïf)  che adorna il libro “Il piccolo principe”. Furono elaborati dallo stesso autore e sono celebri quanto il romanzo (foto proveniente da www.flickr.com)

Marc Fabrien, protagonista della storia, è un pilota di linea che all’età di 7 anni rimase affascinato dal racconto del “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, appunto, tanto da volerne sapere di più su questo scrittore-pilota. Al fascino dei suoi scritti si univa il mistero della sua scomparsa, avvenuta il 31 luglio del 1944 quando si inabissò, con il suo P-38 Lightning, nelle acque di fronte la Provenza; il suo corpo non fu mai trovato. E ora il ritrovamento casuale di questo libro riaccendeva la sua curiosità; allora niente di meglio che rintracciare tre vecchi amici, anch’essi piloti, con i quali condividere questa avventura. Soprattutto il vecchio Luc che per primo gli aveva raccontato la storia del “Il Piccolo Principe”. Marc, Edouard, Claude e Luc : “Il Club MELC”.

La copertina dell’opera universalmente più conosciuta dello scrittore-pilota francese. Quella ritratta è una copia in lingua italiana che risale addirittura al lontano 1965 e che ha alle spalle una storia singolare; il suo proprietario, certo sig Alfredo Liverani dichiara infatti: “Sono molto affezionato a questo libro che mi fu regalato dalla Prof.ssa Rosa C. Ogni anno, quando si avvicina il Natale, lo rileggo”. In effetti, appassionati o non appassionati di volo e di aviazione, chi non ha letto da bambino o da adulto “Il piccolo principe”? Pochi, molto pochi, almeno a giudicare dalle statistiche di vendita di questo libro davvero universale (foto proveniente da www.flickr.com)

Luisa Sala autrice del racconto “Il Club MELC” ha partecipato alla X edizione del concorso “Racconti tra le nuvole” non qualificandosi tra i finalisti. Ancora una volta una scelta della giuria per noi incomprensibile, ma che assolutamente rispettiamo.

Questo racconto è un invito per il lettore a leggere o rileggere, a scoprire o riscoprire quello che è da tutti riconosciuto come il capolavoro di Saint-Exupéry.

“Il Piccolo Principe”, come molti libri per ragazzi ha in realtà una duplice chiave di lettura: una favola per bambini, una riflessione molto profonda per gli adulti. Il senso della vita, l’amore, la solitudine, la mancanza sono i suoi temi fondamentali. Il Club MELC vuole essere una riflessione per coloro che si sono dimenticati di essere stati dei bambini, che hanno abbandonato i loro sogni. Che non vanno oltre le apparenze e la materialità delle cose. Il racconto termina con una dichiarazione d’intenti:

“… Il Club MELC avrebbe realizzato grandi progetti. Ne ero certo. Più che mai”

Più che un finale quasi l’inizio per una nuova storia. Perché la vita è una bellissima avventura da vivere.

Un grazie a Luisa Sala per questo suo racconto, che troverà ospitalità nel nostro hangar, assieme alle altre Voci

Così ha invece riassunto l’autrice il suo racconto:

La vicenda è ambientata in Francia.

“Il piccolo principe” è il soggetto di questo splendido graffito realizzato a Predore (BG) a cura di un grafitaro dal nome Wiz Art. Come tutti i libri destinati all’infanzia, anche e soprattutto questo volume ha diversi piani e/o chiavi di lettura tanto che, a ben leggere, è destinato più agli adulti che ai ragazzi (foto proveniente da www.flickr.com)

Marc Fabrien è un pilota di linea de l'”Air Corsica” ed è stato anche pilota privato per il Club della Camargue in passato. È un tipo insolito che tira sempre dritto per la sua strada.

Gli piacciono le storie e i vecchi libri, quelli usati, già  vissuti e quando va a Parigi  trova sempre il tempo di perdersi lungo il viale dei ‘bouquinistes’.

È appassionato della vita e della leggendaria scomparsa di Antoine de Saint-Exupéry il pilota autore de “Il Piccolo Principe”.

Questa passione risale alla sua infanzia quando, grazie allo zio meccanico aeronautico in un hangar di Marsiglia,  Marc conosce Luc, un pilota che lo avvicina ai misteriosi codici lasciati da Saint-Exupéry nel suo capolavoro. Anni dopo, grazie a un libro acquistato a Parigi, riapre la porta dell’universo dei codici legati alla scomparsa misteriosa del grande pioniere. Le coincidenze si intrecciano.

A testimoniare l’universalità de: “Il piccolo principe”, ecco tutte assieme alcune delle sue più disparate copertine disponibili nelle varie lingue terrestri (si contano circa 505 traduzioni tra lingue e dialetti). Pubblicato il 6 aprile 1943 a New York nella traduzione inglese (The Little Prince) e poi in francese, è evidentemente uno dei libri per l’infanzia più conosciuti al mondo (foto proveniente da www.flickr.com)

Il giorno in cui a Marsiglia Marc incontra Luc e due suoi cari amici, i quattro fondano il loro club esclusivo, il Club MELC per investigare sulla leggendaria scomparsa dello stravagante pilota Saint-Ex. Per suggellare il compito, a bordo del Cessna  di Luc, in silenzio, sorvolano la porzione di Mediterraneo dove Saint-Exupéry si inabissò col suo P-38 Lightning in quel lontano trentun luglio millenovecentoquarantaquattro.


Recensione di Franca Vorano, foto e didascalie a cura della Redazione

Foto di copertina proveniente da www.flickr.com


Narrativa / Medio – Lungo

Inedito

Ha partecipato alla X edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2022


Il club MELC


Ho sempre avuto due punti deboli nella mia vita, da che ho memoria, anzi, tre, ma il terzo è diventato il mio lavoro e quindi non lo conto più. Aggiungo che, col tempo, ho accettato il concetto di debole riguardo ai punti perché lo associo all’impossibilità di resistere loro. Ma questa è un’altra storia. Una vecchia storia.

A ogni modo e a onor del vero sono sempre stati gli altri a definirli debolezze. I punti in questione, intendo.

Credo, e non sono lontano dalla verità, che sia stato del livore. Niente altro che umano livore per i miei progetti. Comunque non mi sono mai agguerrito per trasformare il tutto in un affare di orgoglio. Non seguo troppo i pareri altrui. In un modo o nell’altro faccio sempre di testa mia. Tiro dritto per la mia strada.

Ebbene, in questa vicenda i fatidici tre punti si sono beatamente incrociati. E aggiungo,  coordinati fra loro per dare forma a una delle più  indimenticabili  esperienze della mia vita.

È questo che importa e che ha fatto la differenza.

Se tornassi indietro farei esattamente ciò che ho fatto, comportandomi proprio come mi sono comportato.

 

1.

Il pomeriggio quando tutto iniziò mi trovavo a Parigi. Piovigginava. Era la fine di aprile. Sarei ripartito solo l’indomani quindi ero libero di muovermi come meglio credevo.

Ho sempre prediletto camminare senza meta lungo il viale dei bouquinistes. Lungo la Senna. Curiosare fra i vecchi libri.

Procedevo lento perché ero in anticipo per l’appuntamento con una vecchia amica. Ripeto, non dovevo essere a Parigi, ma all’ultimo avevo sostituito un collega ed eccomi lì.

A proposito mi chiamo Marc. Marc Fabrien. Francese da indicibili generazioni. Pilota di linea della Air Corsica, ma per un bel po’ di tempo sono stato pilota privato grazie al Club aeronautico della Camargue. Periodo splendido quello.

Quando riaffiorano i ricordi mi vengono gli occhi lucidi.

È in Camargue che ho conosciuto due dei miei più cari amici. Tutti e tre noi, piloti.

È con loro che ho affinato la mia indole naturale di generosità genuina, quella che ancora oggi mi rende disponibile a sostituire un collega se ne ha bisogno. Siamo stati inseparabili per due anni. Noi tre a cavalcare i cieli su i Cessna 172. I piccoli monomotore a quattro posti placidi nella loro garbata velocità massima. Ci sentivamo intoccabili. Noi tre a stilare sfide con i numeri di ore di volo. Noi tre a ridere della nostra audacia. Ci sentivamo dei temerari. Più di tutto liberi. Era come se sapessimo sfruttare ogni momento della vita. Ci caricavamo facendo paragoni.

Anche se certe auto sportive regalano sensazioni da brividi – ci dicevamo – con le loro capacità meccaniche, con il gioco impercettibile dei cambi di marcia fra tornanti montani o lungo autostrade infinite, non c’era storia a nostro vedere.

No, non ci lasciavamo abbindolare dalla potenza dei cavalli di certe quattro ruote.

Eravamo così.  Édouard, Claude e io. Uniti.

Poi in piena notte ci ritrovavamo per fumarci in pace una sigaretta e raccontarci a turno i sogni a venire. E guardavamo davvero il cielo scuro.

Per me volare significava  respirare. Anche oggi.

E, scordavo, ero un fumatore quanto basta. Ancora adesso ma forse questo è un dettaglio marginale in tutta la vicenda.

Insomma stavo aspettando Aline e per un verso ero contento fosse lei in ritardo e io  in largo anticipo.

Mi è sempre piaciuto crogiolarmi fra i libri e vecchie storie e questo è un’altra forma di libertà. A rigor di puzzle della vicenda, è il primo dei due punti entrato in scena. Mi spiego meglio.

Sono uno che ama leggere, sfiorare le pagine scritte, raccontare storie. I vecchi libri, quelli passati nelle mani di altre persone, mi procurano misteriosa adrenalina che mette in moto il mio senso dell’avventura.

Ebbene, curiosando qua e là, passavo in rassegna le varie copertine sperando di essere attratto da un’immagine magnetica che per me significava viaggi o esplorazioni. Capitai su un volumetto grigio e piuttosto sgualcito nell’insieme ma con, in bella mostra, un aereo d’epoca. L’avevo riconosciuto senza se e senza ma.

Un caccia  North American P-51 Mustang in voga durante la Seconda Guerra Mondiale. Un gioiello che con la sua apertura alare inclinata e in scala copriva la grandezza della pagina. Mi ritrovai ad accarezzarne le forme con pura delicatezza.  Volevo toccare.

“Posso?” Chiesi al tizio dietro il banco pensile.

“Certo signore , sbirci pure. ” Mi sorrise soddisfatto, credo perché intuii che l’avrei comprato.

“Lo prendo.”

“Cinque euro. Prego e buona lettura.”

Mi sentivo più tranquillo avendolo tra le mani. Quasi come una premonizione liberatoria. Ammiravo quella copertina dai bordi mangiucchiati. Avevano la forma ricamata tipico del lavorio sordido dei pappagallini. Lo so perché ne avevo uno da bambino che si divertiva a rovinarmi i quaderni.

Salutai il venditore con un cenno del libro sollevato a mezz’aria e con il desiderio di appartarmi per divorare quelle pagine. Nascondevano un mistero, ne ero sicuro poiché avevo adocchiato delle mezze frasi scritte a matita fine all’interno, aprendolo casualmente. Il mio animo antico di pilota solitario si era svegliato. E alla grande. In effetti non sono diventato pilota a caso. Ho sempre provato attrazione per gli aerei, per il volo, per la libertà.

Gran parte di questa passione la devo agli anni trascorsi nel sud della Francia. In estate. A Perpignan. Nella casa di famiglia dove a un certo punto non si capiva più chi era chi e chi arrivava o andava. Cugini mai visti. Amici di amici.  Una gran confusione e a me le confusioni non sono mai andate giù, nemmeno in estate. Il caldo torrido, poi,  non l’ho mai tollerato e un mio zio di Marsiglia a quanto pare se n’era accorto e aveva cominciato a salvarmi spesso dalle noie della spiaggia e dai  rumori della casa o forse io salvavo lui.  Non ho mai approfondito.

Mi portava  all’hangar di Marsiglia. Quello nei pressi della Legione Straniera. Un luogo magico per lui. Sia l’hangar sia la Legione.

E magico anche per me.

Zio Xavier era un meccanico con la emme maiuscola. Ci capiva di motori come Monet di colori.

Lavorava in quell’hangar e non avvertiva il bisogno di staccare perché amava il suo lavoro. A dirla bene la vacanza era un dovere e così  forse è più evidente captare il tipo di personalità.

Mi ripeteva spesso:

“Marc, pensaci bene! Pensa molto bene a quel che vuoi fare da grande. Se sbagli lavoro sarai fottuto. Rovinerai la tua vita.”

“Farò un lavoro fantastico.” Rispondevo tanto per rispondere ma non sapevo cosa dicevo. A me, al contrario suo,  importava che le  vacanze durassero il più a lungo possibile.

Avevo sette anni e mezzo la prima volta che toccai con le mani un aereo. Voglio dire, non ci capivo un bel niente. Li vedevo di solito passare in cielo. Tutto qui. E con l’espressione un po’ da ebete allungavo il collo e sgranavo gli occhi su, su fin dentro al cielo e non li staccavo se non dopo che l’aereo di passaggio svaniva dalla mia vista.

Quel giorno invece, con zio, la mia mente cominciò a lavorare a modo suo e non mi lasciò più in pace. Da quell’istante non mi sarei più accontentato di guardarli.

Vedere con gli occhi quelle meraviglie volanti, ascoltare i piloti che sembravano parlare in codice fra loro era rugiada; anche i meccanici apparivano speciali nelle loro tute, nei loro andirivieni, l’atmosfera mi faceva sentire fortunato.

Era un mondo nel mondo.

Altro che stare sulla sabbia, facendo buche, aspettando di fare un bagno.

Nell’immenso capannone, dove mi sentivo una piccola vite, toccavo aerei veri. Veri.

Sarei diventato un pilota. Lo comunicai allo zio nell’istante stesso in cui lo decisi e lui, per suggellare il momento, mi alzò di peso e mi collocò seduto all’interno dell’abitacolo dell’aereo che stava controllando, davanti a un riquadro di pulsanti che per un istante mi fece sobbalzare.

Ecco, tutto quel pomeriggio contribuì a formare il terzo punto di debolezza che con gli anni ho onorato in pieno.

E non finì là. Eh no.

Divenni la mascotte dell’hangar. Conobbi un po’ tutti.

In estate andavo più spesso all’hangar che dal gelataio.

In inverno vivevo come un orso in letargo per accumulare energie da liberare a Marsiglia.

Ognuno di loro – quelli dell’ hangar  ovvio – mi raccontava avventure incommensurabili che facevano brillare gli occhi e uno in particolare. Un pilota che lavorava a tempo pieno per un ricchissimo uomo d’affari e pilotava per lui un jet privato con le ali di uno sfavillante color rosso, mi prese in simpatia. Luc, si era semplicemente presentato così. La seconda volta che mi vide, mi prese per mano e mi portò vicino a due bidoni di un colore blu acceso. Vicino alla grande apertura che si immetteva sulla pista. Su quella traiettoria arrivava il vento che movimentava l’aria calda.

“Conosci Il  piccolo Principe?” Mi chiese a bruciapelo.

“Il libro?”

“Sì proprio il libro.”

Lì per lì rimasi deluso perché all’epoca i libri non mi interessavano anzi li scartavo come regola prioritaria.  Non avevo mai passato cinque minuti di mia volontà con un libro aperto  fra le mani.  Quel libro poi me lo avevano regalato ben due volte in due compleanni diversi. Uno strazio ricevere quel che non si vuole.

Il mio rammarico si vedeva lontano un miglio e Luc riprese la situazione a vantaggio di quel libro.

“Non dico di leggerlo. Se vuoi ti racconto la storia e dopo, sono sicuro che vorrai sbranarlo personalmente.”

“Non credo. Non credo proprio.”

Non avevo nemmeno colto il concetto di sbranare delle pagine.

Ricordo la risata immensa di Luc. Mi strizzò l’occhio e cominciò a parlare.

In capo a dieci minuti lo seguivo con la bocca aperta e rigoletti di saliva pendenti ai lati per quanto rapito dalla storia.

Venni così a conoscenza di uno strepitoso, misterioso Antoine de Saint-Exupéry. Saint-Ex per gli amici, a detta di Luc, quell’Antoine sapeva più di quel che voleva far intendere, e il libro del piccolo principe era un concentrato di simboli e codici da decriptare. Decisamente non era un semplice e bravo pilota.

Soprattutto mi colpì il mistero della sua scomparsa e del suo aereo sprofondato in mare.  Luc disse testualmente le seguenti parole, parole che imparai a memoria:

“Antoine de Saint-Exupéry sparì da qualche parte nelle profondità marine a largo delle coste della Provenza. Stava pilotando un P-38 Lightning.”

Risposi.  E pensai che lui era un pilota nell’anima. Era l’anima del pilota. Tutto ciò che stavo ascoltando con le mie orecchie faceva galoppare il mio cervello e non avevo nemmeno  nove anni. Traguardo per me lontanissimo ai tempi.

Ovviamente decisi in silenzio che avrei letto parola per parola quel libricino e non lo avrei più considerato una fiaba per bambinetti. Eh no! Le cose erano radicalmente cambiate. Io ero cambiato e quando si cambia è molto difficile tornare indietro. Si vuol solo andare avanti.

È quel che feci da quel giorno grazie a Luc, a zio Xavier ma anche alla brutta casa caotica di Perpignan perché se non fosse stato per lei molto probabilmente non sarei mai diventato pilota e tantomeno  l’uomo che sono.

 

2.

L’universo di Saint-Exupéry non mi ha mai più abbandonato. Con gli anni mi affaccendai nel tempo libero per scoprire sempre più nuove informazioni sulla vita di quel pilota scrittore. In realtà non mi andò mai via dalla testa ciò che mi svelò Luc quel caldo giorno d’estate, ovvero, Saint-Exupéry era sparito. Disperso. Il suo corpo non era stato trovato. Ovviamente lo si considerava morto, ma non c’erano dati inconfutabili né ragionevolmente probatori a dimostrarlo.  Dove era finito ?

Insinuazioni, ricostruzioni non avevano fatto altro che gettare mistero sul mistero.

E c’era dell’altro. Ne erano tutti certi.

Le mie giornate sfuggivano per quanto facevo. Fra il lavoro e le mie ricerche e i libri ero stanco sì eppure profondamente gioioso. Le persone che gravitavano intorno a me non si davano pace. Era fastidiosa la mia esuberanza. Avrebbero preferito un Marc lagnoso. Pessimista. Normale. Controllabile.

Mai stato e mai lo sarò.

Lessi tutti i libri del pilota scrittore. Del mio pioniere preferito. Quelli che in pochi apprezzano perché sembrano diari tecnici. Molto specializzati. Io invece ci scovavo sempre nuovi dettagli geniali. Non che io sia dotato di intelligenza superiore ma, con gli anni, ho compreso che ognuno ha un talento ed è un peccato non alimentarlo. Ho anche sorvolato il Nord Africa seguendo i suoi tragitti. Ho riletto e riletto Il Piccolo Principe senza mai averne abbastanza.

Uno spettacolo. Più procedevo e migliore e forte mi ritrovavo.

È lampante che il secondo mio punto di fantomatica debolezza è Antoine de Saint- Exupéry. Lui e chiunque l’abbia conosciuto.

È gioia pura in me quando rileggo un suo passaggio scritto e non voglio spiegare di più perché guasterei la magia . Ecco l’ho detto. Con i suoi scritti mi ero avvicinato al senso della magia quale mistero insondabile della vita. La stessa magia che provo quando sono in decollo e trasporto sotto mia piena responsabilità un bel numero di persone.

Mi aveva affascinato anche il suo rapporto con la madre.

Madame Marie de Boyer de Fonscolombe. Una contessa. Una donna acuta. Una madre che dopo la presunta morte del figlio ricevette – a quanto si vocifera – una sua lettera nella quale la confortava spiegando che stava bene.

Quale fitto mistero nella vita di quest’uomo!  Come faceva a stare bene se era scomparso, se il suo Lightning si era inabissato, se il cadavere non era mai rinvenuto? Quale orizzonte sconfinato mi aspettava da sondare ? Lui che decollato la mattina per una ricognizione non aveva più dato segnali via radio e il suo aereo, abbattuto da uno nemico, era stato inghiottito dal Mediterraneo?

Senza aprire poi lo squarcio del marinaio che alla fine degli anni novanta scovò un oggetto che rimescolò la già fitta e intricata leggenda della scomparsa di Saint-Exupéry. Strati di misteri.

Decisi che non potevo tenermi tutto dentro. Troppa carne al fuoco. Troppa energia da gestire. Tanta esuberanza. Morivo dalla voglia di confidarmi.  Confrontarmi o semplicemente raccontare quel che ribolliva dentro il mio animo. Ricontattai i miei due amici Claude e Édouard per metterli a conoscenza.

In men che non si dica ricostituimmo il nostro club dei piloti fumatori. E gli anni sembravano non essere trascorsi quando ci vedemmo. Non avrei sperato meglio.

 

3.

L’aperitivo con Aline non sortì l’effetto sperato. Nel senso di trascorrere un paio d’ore in allegria. Quando arrivò si sprigionò disagio fra noi. Forse io non ero più dell’umore dopo aver comprato il libricino che mi rubava tutta l’attenzione. O forse ero più brutto di quel che lei ricordava. Non so che dire su di noi. La stonatura era reciproca.

Aline non era mai stata una bellezza ma aveva un certo fascino, un bel sorriso, la ricordavo buona conversatrice. Non so, non l’avevo, però, mai pensata fuori dai paletti dell’amicizia e probabilmente neppure lei.  Francamente non saprei nemmeno dire perché l’avevo chiamata. L’aggravante stava, comunque, nel libro appena trovato. 

Non avevo dubbi. Non c’ero con la testa. Una donna lo capisce al volo ma per fortuna non me lo fece pesare. Non avevo intenzione di svelarle che un libro aveva appena rapito tutta la mia esuberanza e non ne restava per altro.

Chiacchierammo del più e del meno. Bevemmo il nostro aperitivo e ci salutammo sfiorandoci con tre bacetti sicuri che non ci saremmo mai più cercati.

Del resto certe conoscenze non sanno sprofondare dell’anima e non c’è niente di male in questo.

Mi precipitai in albergo inseguito da una pioggia che si era fatta più prepotente.

Niente di meglio che vedere l’acqua disintegrarsi sui vetri lisci e io  dentro al riparo.

Lessi tutta la notte. Non riuscivo a chiudere occhio. Non tanto per la storia che non era eccezionale quanto per le note scritte dal misterioso proprietario del libro.

La grafia era pessima. Stretta, inclinata. Le lettere erano mangiate. Questi fatti non facevano che esaltare la mia vivacità.

Avevo deciso di trascrivere tutto quanto su un foglio separato. Intendevo dare un ordine e infine una logica.

Il dettaglio sconvolgente fu un nome.

Circa verso la fine, precisamente alla quintultima pagina scritta sul margine esterno, decifrai: “deBoyer”.

Ora, se uno più uno non può mai fare tre, io mi trovavo nel bel mezzo di una straordinaria rivelazione;

“de Boyer” era  la porzione di cognome della madre di Saint-Exupéry. Se non era riferito a lei, era comunque qualcuno della famiglia. Il cerchio era ben ristretto.

Non era tutto. Accanto al nome c’era scritto: “…domandare a …”ˋ

Cosa? E perché ?

E ancora. Seminati fra le pagine erano annotate tante cifre doppie.

A cosa si riferivano quei numeri? E perché così tanti? E perché simili e in successione ? Del tipo: se c’era il trentasette, trovavo anche il trentaquattro e il trentotto e così via.

Sudavo per l’energia ridondante.

Ricordando cosa Luc, il pilota di Marsiglia, mi raccontò circa i numeri sparsi fra le pagine de Il Piccolo Principe non potei concludere altro che quelle annotazioni erano preziosissime e che l’intuito mi suggeriva essere collegate al mistero di Saint-Ex.  Me lo sentivo. Non mi sbagliavo.

Presi il libro fra le mani e cercai la data di pubblicazione,

Millenovecentosessanta.

Annotai dei dati della casa editrice. Non era una di quelle famose.

Dovevo iniziare da qualche parte.

Presi il telefono chiamai il servizio in camera e mi feci preparare, nel bel mezzo della notte, una bottiglia di champagne e due spumose omelettes.

Mi andava così. Ero su di giri. Avevo fra le mani una bomba. Forse sarei divenuto colui scelto dal destino per aggiungere un tassello nuovo al mistero della scomparsa di Antoine de Saint-Exupéry.

L’indomani avrei chiamato Claude che avrebbe rintracciato Édouard. Non stavo più nella pelle.

Era evidente. Qualcuno aveva usato un libro qualsiasi e poco attraente per il grande pubblico ma legato al mondo dell’aviazione. Un libro la cui copertina poteva interessare principalmente un certo tipo di persona. Un appassionato di aviazione. Un pilota. Qualcuno poco conforme al qualunquismo. Il libro non era destinato ad andar perso. Sembrava che il tutto facesse parte di un grande piano.  E chi l’aveva trovato?

Io. Me medesimo. Marc. Pilota. Strambo. Appassionato di libertà. Non poteva essere un caso ma non volevo fissarmi su quel dettaglio. Era capitato. Dovevo proseguire a ogni costo.

Esultavo. Non vedevo l’ora di dare un assetto a quel materiale tanto vago quanto intrigante. In seguito sarei andato alla ricerca di qualche “de Boyer”. Di qualche discendente. E poi via, sempre oltre.

Mi addormentai dopo aver svuotato la bottiglia e dopo aver scritto in modo indecente: “Svelare i misteri ma non troppo …”

 

  4.

Quando mi svegliai era tardi. Troppo tardi. La realtà era in trepidazione ma la mia sbornia pesava come cento mattoni sulla testa e non ero in grado di mettere a fuoco un bel niente.

Avevo il volo Parigi-Nizza a breve e le mie condizioni somigliavano a una tenda travolta da una tormenta di sabbia.

Quando si elargiscono piaceri è facile riceverne. Tentai. Andò bene. Trovai il mio  sostituto causa forza maggiore. Intendiamoci non accadono spesso gli scambi ma è altrettanto vero che quando il destino ci si mette non ce n’è per nessuno. O lo si segue o gli ostacoli si moltiplicano.

Più rilassato ma sempre alticcio mi preparai per uscire. Avevo in mente di fare un salto dal tizio che mi aveva venduto il libro. Forse ricordava qualche dettaglio, tipo la provenienza. O addirittura il proprietario.

Per esperienza so che le coincidenze esistono quali movimenti di disegni più grandi. Mi gironzolavano un sacco di idee in testa.

Non ero ancora capace di comprendere la ragione  di tutto questo ma se proprio volevo trovare un aggancio di qualità non potevo che riferirmi a Luc e a quel lontano pomeriggio estivo. Camminavo e mentalmente mi sforzavo di ricordare al meglio.

Anche Luc doveva essere implicato in qualche modo nel grande disegno di questa faccenda vertiginosa poiché non è ordinario né frequente trovare qualcuno che getta l’amo di un importante mistero in una conversazione normale.  Tra l’altro con un bambino. Luc aveva proprio fatto così. Mi aveva visto e senza mezzi termini mi aveva catapultato in un mistero.

Dovevo contattare anche lui.  Per forza. Pur vecchio, ero certo che avrebbe saputo districarsi.

Aggiunsi il suo nome alla mia lista intitolata “il codice” e mi venne il desiderio di rivederlo al più presto.

Mi fermai in un bistrot qualsiasi per mangiare un boccone e per chiamare Claude. Rispose ancor prima che mi arrivasse il menù.

Ci accordammo. Ci saremmo visti di lì a due giorni a Marsiglia. Gli effetti dello champagne stavano dignitosamente svanendo.

La vita ha un aroma davvero speciale quando la si onora.

Pensavo ai numeri trovati nel libro. Masticavo e ripetevo mentalmente. Più ripetevo più si faceva largo l’idea che quelle cifre fossero dati di longitudini e latitudini. Mi rimaneva il compito di collegarli alle lettere stampate del libro accanto alle quali erano state scritte. Quel collegamento lo trovavo un buon punto di partenza.

Quanto lavoro mi aspettava. Quante notti insonni.

A un tratto per riposare la mente strizzai e sgranai gli occhi a intermittenza per mettere a fuoco la vista. Gli scorci di Parigi erano proprio inimitabili.

Mi sembrava di essere il protagonista di un romanzo.

Accesi una sigaretta e mi lasciai andare all’immaginazione.

Mi aspettava un bel carico di avventura.

 

5.

A Marsiglia respirai a pieni polmoni il profumo salato della baia del porto.

Arrivare a Marsiglia era come tuffarsi a ritroso nel tempo. Avrei cenato a casa di Luc. La serata si prospettava al meglio. Sul tardi ci avrebbero raggiunto i miei due vecchi amici.

Non stavo nella pelle. Le mani tremavano ma mi piaceva tremare per motivi positivi.

Ero impaziente e rovesciai anche la birra a un certo punto, bagnando tutto il tavolino al quale ero seduto.

Infine camminai un po’.  A zonzo. Con la testa fra le nuvole. Avevo inserito il pilota automatico per dirla col nostro gergo.

Trovarci insieme dopo tanti anni fu emozionante. Luc mi diede almeno tre pacche potenti sulla spalla. Era il suo modo per dirmi quanto felice fosse di vedermi. Mangiammo senza affrontare il grande argomento. Per quello avevamo deciso di aspettare Édouard e Claude.

Quella notte fondammo il nostro club esclusivo. Il club MELC.

Ovviamente le nostre iniziali accordate per essere pronunciate facilmente.

Pura genialità. Un club in onore di un pilota leggendario fondato da quattro piloti onorati d’esserlo e legati da un profondo rispetto della libertà. Cosa mai potevo chiedere di meglio?

Gettammo le basi del nostro lavoro. Euforici. Decidemmo come sede la casa di Luc.

Abitavamo tutti nel Sud e sarebbe stato semplice incontrarci. Ci dividemmo i compiti della ricerca. Io mi sarei concentrato sulla madre di Saint-Exupéry.

Avevamo una montagna di lavoro ma eravamo certi di arrivare, presto o tardi, a una notevole conclusione. Per suggellare il club, Luc propose di farci un giro col suo Cessna. Tirammo a sorte per pilotare. Toccò a Claude.

Sorvolammo i cieli della Provenza, sopra l’Estérel. In silenzio. Uniti dall’intento di onorare un grande pilota. Saint-Ex.

Il Mediterraneo sotto di noi era scuro come il velluto nero. Dentro lo stesso cielo aveva effettuato il suo ultimo ufficiale volo Saint-Exupéry quel trentun luglio millenovecentoquarantaquattro. Doveva raggiungere Grenoble. Raggiunse qualche altra destinazione dopo che il suo aereo precipitò? Pensavo a questo quando subimmo un leggero scossone. Una semplice turbolenza. Mi risvegliai dal pensiero. Guardai Luc e accennai un mezzo sorriso. Quello tipico degli uomini abituati alle fatiche.

Il Club MELC avrebbe realizzato grandi progetti.

Ne ero certo. Più che mai.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Luisa Sala

Nachthexen


Se il termine tedesco NACHTHEXEN non vi dirà praticamente nulla, siamo certi che, tradotto in italiano, la definizione “Streghe della notte” potrebbe evocare in voi ricordi più consistenti. Ma solo a condizione che abbiate letto almeno uno di questi due libri:

“Le streghe della notte. La storia non detta delle eroiche ragazze-pilota dell’Unione Sovietica nella grande guerra patriottica”

di Gian Piero Milanetti (pubblicato nel 2011) oppure:

“Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte”

di Ritanna Armeni (del 2018).

In questa immagine appare in tutto il suo splendore (si fa per dire) il Polikarpov Po-2, il biplano che fu utilizzato intensivamente tra le file dal 588° Reggimento da bombardamento notturno composto di sole donne. Costruito in più di 40 mila esemplari, il velivolo entrò in servizio alla fine degli anni ’20 e utilizzato praticamente ovunque nelle basi dell’Unione Sovietica per attività di addestramento e non solo. Prima dell’inizio della II Guerra Mondiale furono ritirati dalla prima linea in quanto ampiamenti obsoleti per poi essere miracolosamente riesumati specie a uso e consumo delle “Streghe” sebbene siano rimasti comunque in attività a tutti gli anni ’60 nei paesi filosovietici dell’Europa orientale. Fu soprannominato dai piloti russi Kerosinka (traducibile con un poco rassicurante nomignolo come “Lampada a cherosene”) per via della sua congenita vulnerabilità al fuoco (struttura in legno e tela) e la completa assenza di protezioni per il pilota/navigatore. Sottopotenziato (motore radiale con solo 115 cavalli) e con cabina rigorosamente aperta, fu utilizzato anche in Corea dove si fece beffa dei piloti statunitensi che, dotati dei velocissimi F-4 Phantom, non riuscivano a colpirli. Più o meno lo stesso problema in cui incapparono i caccia notturni della Luftwaffe tedesca che non riuscivano a inquadrarli facilmente e fare fuoco per abbastanza tempo su di loro a causa della notevole disparità di velocità. Il nemico principale dei PO-2 rimase perciò la Flak, la famigerata contraerea tedesca. Ne furono realizzate un’infinità di versioni e, come avrete facilmente immaginato, quello ritratto è un PO-2 moderno e restaurato come nuovo. Non male per una trappola volante del ’20. 1900. (foto proveniente da www.flickr.com)

In effetti questa è la dinamica in cui sono esattamente incappati i membri della Segreteria del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE (che organizziamo insieme ai nostri amici dell’HAG – Historical Aircraft Group)  quando hanno ricevuto il racconto di Diego Mascherpa intitolato appunto: ”Nachthexen”. Il tutto misto a un genuino stupore giacché, qualche giorno prima, avevano già ricevuto un altro racconto con un titolo ben più impegnativo ma fondamentalmente con lo stesso soggetto: ”Fratellanza – Sorellanza. Il 588° Reggimento da bombardamento notturno. Le streghe della notte” a firma di Gianvincenzo Cantàfora.

Ora, sebbene il libro di Milanetti ci fosse noto per vie traverse, quello di Ritanna Armeni ci è addirittura familiare in quanto ne ha curato la recensione la nostra redattrice Franca Vorano. Recensione che è ospitata in un angolino del nostro hangar all’indirizzo: Una donna può tutto.

La copertina del volume di Ritanna Armeni che, grazie a una lunga intervista concessa da una sopravvissuta che faceva parte del reparto, ricostruisce la storia delle “Streghe della notte”

E’ probabile che entrambe gli autori dei racconti abbiano letto l’uno o l’altro volume in quanto sono quasi gli unici pubblicati in lingua italiana sull’argomento tuttavia, mentre al racconto di Gianvincenzo Cantàfora è stato concessa l’opportunità di accesso alla fase finale del Premio (per poi classificarsi in XIV posizione ed essere pubblicato nell’ambito dell’antologia del Premio), quello di Diego Mascherpa non è stato valutato con la stessa benevolenza … ed eccolo ospitato nel nostro hangar. Per la nostra gioia e – ci auguriamo – anche per l’autore che, sebbene amareggiato per il modesto risultato conseguito in seno al Premio, godrà comunque della soddisfazione di vedere pubblicata digitalmente la sua ottima composizione.

“Streghe della notte”, dicevamo.

Una bella immagine risalente al 1944 che mostra una parte della linea di volo del reparto delle “Streghe” e due pilota nelle loro divise dell’epoca (foto proveniente da www.flickr.com)

Nella breve sinossi elaborata a cura dello stesso autore si legge:

Una ragazzina riflette sul proprio futuro negli anni ’60. Una eterna lotta tra convenzione ed emancipazione. Nei sogni a occhi aperti di questa ragazzina ci sono le gesta di aviatrici del passato, le così dette “Nachthexen” sovietiche.

In effetti raccontare “le streghe” con taglio divulgativo-giornalistico alla stregua di quanto già operato felicemente dal lodevole Gian Piero Milanetti, non avrebbe avuto granché senso (oltre che al limite del regolamento del Premio) … e forse è per questo motivo che Diego Mascherpa ha creato una storia di pura fantasia che vede quale protagonista un’adolescente in un periodo storico in cui le ragazze cominciavano a desiderare un futuro di cui potessero essere artefici esse medesime. Come appunto le famose “streghe” sovietiche. E avendole come fulgido esempio da emulare.

Siamo abituati alle foto che ritraggono piloti accanto ai loro velivoli, ugualmente non è raro incappare in scatti che immortalano le donnine discinte (le famose pin-up) dipinte mirabilmente sulle fiancate dei velivoli alleati, viceversa siamo molto meno abituati (anzi non lo siamo affatto) a vedere dei fotogrammi come questo che ritraggono i membri dell’equipaggio (pilota e navigatore/addetta alle bombe) di un Po-2: due sorridenti ragazze sovietiche in tuta di volo (foto proveniente da www.flickr.com)

Per dovere di storia editoriale, cronologicamente parlando, il primo libro in assoluto pubblicato nel nostro Paese a cura di Marina Rossi e intitolato: 

 Le Streghe della notte. Storia e testimonianza dell’aviazione al femminile in URSS. 1941-1945, 

risale solo al 2003 ma senza destare un particolare interesse nell’ambiente aeronautico e, purtroppo, anche in fatto di lettori. Prima di allora il nulla e dunque, in tutta onestà, immaginiamo che nel 1960 la vicenda delle Nachthexen fosse pressoché sconosciuta in Italia, anche se non è escluso che se ne favoleggiasse negli ambienti della sinistra italiana (Casa del Popolo, circoli culturali comunista, ecc ecc), specie nel Nord, ove sicuramente giungeva eco della propaganda politica sovietica.

Ad ogni modo, in un periodo – quello attuale – in cui gli adolescenti hanno perso un po’ la bussola (allo stesso modo di quanto accade alla protagonista) trarre esempio da personaggi storici così eroiche, vigorose, motivate come le “Streghe della notte” può essere più che mai utile se non addirittura salvifico. Oggi come allora, come pure domani.

Le “Nachthexen” difendevano il loro paese e partecipavano fattivamente allo sforzo bellico mettendo letteralmente a repentaglio la loro esistenza ogni volta che decollavano a bordo di velivoli vetusti, male in arnese, per nulla armati e assolutamente inadeguati all’ambiente glaciale delle lande sovietiche. Ne erano consapevoli? Certamente …  ma erano più forti i loro ideali e il desiderio di costruire il loro futuro. Di libertà, ovviamente.

La pilota del Polikarpov  PO-2 in secondo piano pianifica il volo che eseguirà nel corso della notte: recare scompiglio negli acquartieramenti dei reparti tedeschi di volo impedendo loro di dormire. La foto risale al 1942 e non è escluso che sia stata scattata a uso e consumo della propaganda sovietica (difficile immaginare che andasse in volo con tanto di medaglie appuntate sulla divisa). Rimangono comunque innegabili gli impressionanti dati statistici del reparto: circa 23.000 missioni effettuate, approssimativamente 3.000 ton di bombe sganciate, 31 “streghe” morte in combattimento e infine 23 “streghe” decorate con la Stella d’oro di eroe dell’Unione Sovietica (foto proveniente da www.flickr.com).

Certo, oggi non siamo in stato di guerra (grazie al cielo!) come lo erano le nostre eroine, tuttavia i valori di patriottismo, la difesa della libertà nazionale, personale, politica, religiosa, sessuale e culturale valgono oggi come allora nella lontana Unione Sovietica del conflitto mondiale.

Alla data odierna il mondo occidentale non vede di buon grado l’universo russo (e sottolineiamo russo, non sovietico)  – e ne ha ben donde, aggiungiamo con un certo rammarico – ma la storia è storia e nulla e nessuno ci potrà impedire di divulgare con obiettività e ammirazione le gesta tanto folli quanto eroiche delle donne sovietiche del 588° Reggimento da bombardamento notturno. Perché la storia non conosce colore politico o provenienza geografica. E se si tratta di un evento storico che merita di essere divulgato o del quale riteniamo debba essere mantenuta la memoria, allora non conosciamo barriere linguistiche o confini nazionali.

Tornando al racconto di Diego Mascherpa, la narrazione si limita inevitabilmente ad accennare un singolo episodio, una singola operazione al cardiopalma delle indomabili “streghe”. L’autore così lo sintetizza:

La copertina del libro di Gian Piero Milanetti che meglio ricostruisce, anche grazie al supporto di numerose testimonianze fotografiche, le vicende spesso dolorose ma eroiche delle Nachthexen

Negli anni ’40, tre “streghe” riflettono sulla vita mentre si apprestano ad attaccare un campo tedesco. L’attacco riesce, ma una di loro subisce danni e le altre due rischiano la vita pur di stare con lei nel bisogno.

E sarà pressoché inevitabile che:

La ragazzina degli anni ’60 userà questo come spunto di riflessione per il suo futuro.

Aggiungiamo di più: se ai lettori del racconto verrà sicuramente la voglia di approfondire le vicende del famigerato reparto da bombardamento composto da sole donne, ai noi ha instillato l’idea di fare delle donne in aero/astro nautica il tema suggerito della prossima edizione di RACCONTI TRA LE NUVOLE.

E poi dicono che le “streghe” sono pericolose!? Di più!



Narrativa / Medio – breve

Inedito

Ha partecipato alla X edizione del Premio letterario “Racconti tra le nuvole” – 2022


Nachthexen


Una palla infuocata in cielo, era il luglio del Sessantadue.

Tutto era normale.

Lena era abbandonata su di una poltrona di vimini. Il sole bruciava le ante chiuse di una finestra arsa da anni di irradiazione, dietro alla quale lei si riparava durante una inutile ricerca di fresco.

Ovvio, non erano gli Stati Uniti: inutile pretendere un sistema di condizionamento. Un sogno irraggiungibile e impensabile nella calura agreste norditaliana degli Anni Sessanta.

Era uno di quei pomeriggi dove era solita cedere all’ozio, alla ricerca di un barlume di fresco e di una motivazione per il prosieguo della giornata.

Lei poteva: era figlia di possidenti terrieri. Poteva permettersi di oziare nella ricerca di un po’ di refrigerio, all’ombra proiettata dalle persiane arroventate dal sole. Un minimo sollievo le era concesso dalla sensazione di frescura dovuta alle folate di aria calda, capaci di generare improbabili momenti di ristoro rispetto alla totale immobilità aerea.

Lena rimpiangeva l’alba, quando la nascente rugiada si mischia ai rimasugli del fresco notturno e quest’ultimo si riversa poi nelle lande bruciate da un sole implacabile; palliativo poco utile a mitigare la calura giornaliera di un’estate che si preannuncia rovente.

Combatteva a modo suo la sua guerra con il caldo: una vestaglietta era la sua uniforme, leggera e bianca a celare una sottoveste nera appena visibile.

Tutto ciò racchiudeva una chiara lotta tra pudore adolescenziale e conformità contro la seduzione sognata e percepita di una ragazzina. Una lotta coi canoni della società, ancor prima che col caldo di quella giornata. Il ricordo andava ai Clark Gable e i Roger Moore visti al cinema.

Pensieri che scorrevano al ritmo del lento sorseggiare di una bibita fresca attraverso una cannuccia stretta tra le labbra, sottili acerbe e senza rossetto a indicarne la reale età di Lena. Il ricordo di Audrey Hepburn in quel film: Colazione da Tiffany, altra eroina del grande schermo che alimentava i suoi ideali di seduzione. Le sembrava così sensuale e adulto quel bere sbarazzino e seducente da una cannuccia, quasi la promessa di un avvenire nuovo ed elettrizzante, come nella Lolita di Kubrik.

Era evidente la freschezza di una maturità non ancora raggiunta, immaginata più che vista, attraverso gli ideali del grande schermo. Una sorta di emulazione del mondo dei grandi, quel periodo carico di sogni e aspettative che è una fase di passaggio verso la maggior età. Un tempo di confusione, dove tanti ideali si mischiano tra di loro e il risultato non è così certo.

Ciò che Lena non voleva vedere né accettare era il suo destino già scritto. Cruccio di un’adolescenza non ancora proiettata verso un futuro troppo stretto.

Negli anni Sessanta del profondo Nord Italia, lei era pervasa da quel desiderio di emanciparsi più che ovvio per una sedicenne con la vita già scritta: diploma, marito, figli, Messa alla domenica e una sorta di rispettabilità sociale.

Nessuna emozione, nessuno scossone. Un futuro già scritto per lei in cui non avrebbe trovato posto la ragazzina con quel rivolo di sudore che le scende dai capelli, con in sé il gioco e il desiderio della donna che ha il destino nelle proprie mani e i sogni di avventura in giro per il mondo.

I progetti troppo statici che non facevano per lei: il sogno di avventure di altri tempi la perseguitava. Voleva scrivere il suo nome nella storia del mondo e con la sua mente si perdeva in avventure e gesta di donne del passato, che avevano avuto la motivazione e il coraggio di farlo.

Un altro pensiero le frullava nella testa: quello di donne vere e rudi, come Hanna Reitsch e Marina Mikhailovna Raskova. Un tipo diverso di donna, sicuramente non la esile e ingenua casalinga americana, ma le rudi combattenti di 20 anni prima.

La diatriba tra i due tipi di donna si stagliava anche sul suo futuro: queste erano vere guerriere, non ingenue casalinghe. Un dualismo tra neo-amazzoni verso la figura riverente e sottomessa della donna di casa.

Da una parte merletti e ciglia curate, dall’altra giubbotti di pelle e occhialoni sporchi d’olio di chi va in aria a rischiare la vita.

“Le donne non volano, stanno a casa a cucinare!”

Immaginava sarebbe stata questa l’accoglienza alle sue idee di gloria da parte dei genitori. Era più auspicabile Il modello casalinga del midwest, con tutta la rispettabile tranquillità che sognavano per lei.

Ma forse quella noiosa, rispettabile tranquillità non era quello che Lena voleva per sé stessa.

Le donne avevano lasciato un segno nella storia, rompendo le convenzioni. E le donne nell’aviazione si ricordavano poco, ma erano state così incisive… Fondamentali, vien da dire.

Sognava le gesta delle Nachthexen, come venivano chiamate dai loro nemici tedeschi. Le Streghe della Notte, sue eroine fin dalla tenera età. Era venuta recentemente in possesso di un albo che ne narrava le gesta e quindi fantasticava di far parte di un terzetto di biplani Policarpov, arrivare di notte e colpire i tedeschi invasori. Avventure eroiche create dalla sua mente di adolescente per estraniarsi ai doveri che da lì a poco le sarebbero stati richiesti.

Lena si impossessava pian piano di questo sogno ad occhi aperti: gesta eroiche e record di volo, la spregiudicatezza di chi vuole scrivere il proprio nome nella storia e lasciare un ricordo di sé.

Tutto questo turbinio di decisioni e sogni si sviluppava dietro a una persiana, al primo piano di una casa colonica di architettura post bellica, con attigua un’aia cementificata e bruciata dal sole di un pomeriggio di luglio.

Ma nei suoi sogni ad occhi aperti lei era nelle pianure russe.

 “Irina, è la tua prima missione, stai tranquilla e non strafare. D’accordo che non sei una novellina e vieni da un’altra unità, ma un morto non ci serve.”

Mi dice così Polina, mentre siamo sedute nel campo di volo accanto al fuoco acceso, l’unico rimedio per combattere l’umidità e il buio incombente di un crepuscolo estivo.

Ci troviamo vicino al Dnepr ed è risaputo: l’acqua genera quella frescura, che diventa via via più densa, ad annunciare l’arrivo della notte.

Io, Irina, la tenera ragazza e la temibile pilota strega. Quanti campi distrutti, per non parlare dei “Fritz” uccisi. La mia mutazione è stata così rapida…

L’aria fresca porta gli ultimi momenti di tranquillità prima della consueta azione notturna. Come sempre, le Streghe arrivano di notte. Magari lo sanno anche i camerati tedeschi qui ad invaderci e che ci apprestiamo a visitare.

Polina è diversa da me. Maschile, rude e sicura di sé. Il prototipo della “donna nuova”: schietta e decisa, così è il nostro comandante. Provo un senso di ammirazione e una flebile e inconscia attrazione verso la sua persona. Se fosse un uomo parlerei di desiderio. Ricorda un ragazzo che avevo conosciuto e che mi era piaciuto. Tutto questo prima della guerra.

“Può darsi che ci guadagneremo un altro Ordine dell’Armata Rossa!” Sbotta Polina; per lei esistono solo il bombardare e distruggere l’invasore.

I miei dubbi si fanno sentire, perplessità di una giovane ragazza che bilancia la sua nuova vita con la vecchia. Ricordi di un passato ormai lontano.

È la prima uscita di guerra con quel nuovo reggimento e non sarà una passeggiata, ma le ragazze si sono dimostrate subito buone compagne e piloti di qualità. Non fanno rimpiangere le colleghe di sempre.

Le Streghe si muovono all’unisono, non importa a quale reggimento appartengano. Buio, incertezza, spari della contraerea. Due di noi a fare da bersaglio ai loro colpi, distrarli per sgombrare il campo. La terza a colpire le camerate tedesche con le FAB.

Non sono preoccupata: confido nelle donne al mio fianco. Di lì a poco sarà solo oscurità e fiducia. Il conflitto generato dalla mia ambivalente, figura: quella di esile e dolce vergine, calata nel ruolo di amazzone assassina e senza pietà.

È difficile stabilire cosa resti del passato e cosa sboccerà nel mio futuro: quale strada prenderò. La dacia sul Volga, l’essere una casalinga e una buona madre. Tutti sogni di un passato che non trovano posto nella crudeltà di questa guerra. Sembra che la tenera me stessa sia sparita, per lasciare il posto alla disillusa aviatrice. Ma il ricordo della “dolce ragazza” resta come un barlume di attaccamento a un tempo che ormai sta scomparendo.

“Le Streghe della Notte non volano per piacere, ma per uccidere o per essere uccise”.

Lo sappiamo bene: questo è il nostro presente; questo è l’ingiusto baratto col nostro passato.

Tra piloti, anche di opposte fazioni, c’è una sorta di filosofia cavalleresca e rispetto. La stessa però non si trova tra i serventi della contraerea nei confronti degli uomini volanti. Ogni storia ha due figure a incarnare il bene e il male: ma in questo caso sono io, una Strega, a portare il peso di entrambe.

Anche stanotte non sarà un duello alla pari, ma quello di un cavaliere contro un gruppo di arcieri.

Ma non è il tempo della filosofia e dell’etica: addosso non ci sono né armature né armi da taglio, ma solo la spessa pelle dei giubbotti e dei calzoni da volo.

“Pronta Irina?” Chiede Polina, già proiettata all’azione.

Rispondo con un cenno affermativo.

Ci avviciniamo agli aerei a bordo pista. La formazione è composta da me, Polina e Nina. Io e il capo abbiamo il compito di distrarre la contraerea, in pratica saremo a tiro. Saremo noi i bersagli, mentre Nina colpirà con le FAB 100, le fugasnyye aviabomby, bombe aeree ad alto potenziale esplosivo.

I nostri Po-2, tre vecchi biplani Policarpov, ci attendono. Le Streghe della Notte agiscono in formazione da tre aerei: silenziose, lente e letali.

In cuor mio spero che questa guerra abbia fine rapidamente: sono stanca di morte e distruzione. Voglio credere al miraggio di una vita più ordinaria: un matrimonio, dei figli e un lavoro. Sicuramente un’esistenza pregna di monotonia, meno pericolosa del bombardare i campi tedeschi; una vita meno appagante, ma più sicura. Un sogno di normalità a cui mi aggrappo per tollerare la brutalità di questa guerra.

Il discorso è ben presente nella mia testa: pagare la sicurezza con la moneta della monotonia; la mitezza e la tranquillità con noia e banale sussistenza.

La vita pericolosa ed incerta da belligerante non durerà per sempre: una scelta andrà fatta, ma l’esperienza militare sembra irreversibile, non sono sicura di poter tornare l’ingenua ragazza vissuta fino a prima della guerra.

La mia famiglia ora è composta dalle Streghe: quel gruppo di aviatrici che vivono con me, che condividono morte e vita, freddo e paura. Tutto in comune: pasti frugali, il pericolo dell’azione, la ferocia e quella costante presenza di morte. Per loro farei di tutto, anche uccidere… se questa non fosse la prassi.

La cosa più sensata sarebbe stata il restare l’adolescente senza pensieri, ma il richiamo della Patria e la prospettiva di una vita avventurosa sono state irresistibili.  È stata una scelta onerosa, ma il compito da svolgere è ben presente: tre donne, nell’ombra, che si apprestano a passare il Dnepr ed a scaricare un po’ di morte sull’invasore. Tre Streghe moderne.

Era questa la fantasia ad occhi aperti di Lena: pensieri di chi in fondo ignorava la brutalità della guerra ma sapeva che in futuro questi sogni di gloria sarebbero morti. Si rese conto all’improvviso che anche per le sue eroine gli argomenti ricorrenti erano gli stessi di lei: stabilità e sicurezza contro incertezza e soddisfazione.

Il sortilegio è pronto.

Un cenno di intesa e poi nessuna comunicazione da parte di Polina fino al ritorno dalla missione: un biplano aperto non facilita le comunicazioni radio né il buio semplifica le cose, rendendo poco visibili i gesti della capo formazione.

Sole coi nostri pensieri e le nostre paure. Questa è l’anteprima alla concitazione del bombardamento. L’addestramento ci porta a effettuare i controlli pre-decollo in modo automatico, senza dubbi.

Infilata nella carlinga, legata a un salvifico paracadute, stretta dalle cinture effettuo un ulteriore breve controllo: motore acceso, giri costanti, prova magneti, temperature dell’olio. Strumentazione visibile grazie alla flebile luce di bordo che presto sarà spenta: non vogliamo certo farci individuare dai Fritz.

Tutto a posto: un cenno di conferma alla capo formazione. Lei è il nostro mentore, noi seguiremo e replicheremo le sue manovre. Sempre a una decina di metri dall’ala di Polina: le sue decisioni saranno legge per il tempo dell’attacco. Questa la filosofia del volo in formazione.

Un continuo controllo di posizione e strumenti. Altimetro regolato, anemometro a zero, giri regolari e temperatura dei cilindri corretta. Luce spenta. Allineate alla pista, pronte al decollo e via per aria.

La consueta ora di volo: ecco cosa ci aspetta prima di agire. Un’ora passata con i propri pensieri e i propri demoni interiori. Questo non può accadere in un frenetico attacco: lo spirito di sopravvivenza annulla ogni pensiero, ogni riflessione. A volte il viaggio è più doloroso e sconvolgente dello scontro diretto, ma è il prezzo da pagare alla congrega delle Streghe.

Si fa lontano il tempo di merletti, dei chioschi di dolci, del civettare e conoscere gente nuova. Sbiadito è il ricordo del ragazzo coi baffetti che mi piaceva: chissà dove è adesso; magari a combattere nel fango per la gloriosa Unione Sovietica.

Sono lontani i tempi in cui esisteva una ragazza giovane e spensierata, dove il problema più grosso era il colore dello smalto. Quella ragazza è il passato.

Non esiste più quel tempo, ma è un ricordo a cui restare ancorata nel buio della pianura russa, un ricordo che mi aiuta a tollerare l’angelo della morte che sono diventa in questa guerra.

Lena si chiedeva se avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Lasciare tutto per combattere su di un vecchio biplano?

Ammirava quelle donne, la loro sagacia e il loro coraggio nel fare qualcosa di più grande di loro. Non per abnegazione o senso del dovere, ma per un ideale; per la fede in qualcosa di più importante della loro stessa vita.

Era tutto così romantico, così accattivante. Le ricordava la figura dei patrioti ottocenteschi studiati a scuola e letti per diletto: Mazzini, Micca, Pellico e tante altre figure magari minori ma non meno importanti.

Occhialoni e olio in faccia. Questo è quanto offre la Russia alle proprie combattenti; altro che cipria e vestiti alla moda! Certo quella dell’aviazione è una vita migliore di quella della fanteria: anzi, si combatte proprio per i compagni laggiù. Tutte hanno un marito, un fratello o un amante nel fango.

Una luce in lontananza mi distoglie dai pensieri e richiama al presente, il ritorno alla realtà è repentino: un campo avanzato della Wehrmacht. Un tremito al cuore, il sangue che fluisce alla testa e quel fresco, quella sensazione di onnipotenza.

Tutti gli strumenti a posto, nessuna luce accesa e visibile. La sagoma della capo formazione ci indica col pollice di scendere e colpire. Si preannuncia un’azione magica.

Chissà se saremmo amiche in un contesto non bellico. Una domanda innocua, forse, ma necessaria a spezzare la tensione. Così rude e schietta, fatico a immaginare Polina in un abito primaverile a passeggio mano nella mano di un giovane funzionario. Nella sua rude mascolinità, lei mi ricorda di quell’amico che mi piaceva: anche lui brusco e dinamico nel compiere il suo dovere.

Il passato mi segue anche qua. Anche se ho messo migliaia di chilometri tra me e quel mondo ormai lontano, chiuso. Se sopravviveremo, ci spetta il dovere di costruire un avvenire nuovo, a misura delle persone che conosciamo e a cui dobbiamo qualcosa. Questo sarà il nostro compito dopo la guerra.

Penso a Marija, la mia amica di San Pietroburgo. All’assedio che là infuria ed al suo sogno di maternità. Mi diceva che uno dei suoi figli si chiamerà Vladimir.

Ma penso anche a quei poveri ragazzi tedeschi: avranno qualcuno che li aspetta a casa. Ma sono nemici, ci hanno attaccato. Mi spiace per Fritz, non rivedrà la sua Helga. Le Streghe stanno arrivando.

Il pollice di Polina continua a indicare il basso, il da farsi era semplice: io e lei distrarremo la contraerea con la danza dei nostri aerei, mentre Nina colpirà con le sue bombe da 100 kg.

La discesa è vorticosa, costellata dai colpi delle mitragliatrici che ci grandinano addosso. I traccianti brillano come gemme, e mi ricordano quelle di una collana ereditata da ragazzina

Quei maledetti non stanno usando gli 88, sembrano piuttosto 20 mm. Lo deduco dalla velocità e dalla densità delle raffiche. La conferma arriva dalla poca illuminazione che rende ben visibili i traccianti. Gli 88 infatti sono cortesia riservata ai bombardieri d’alta quota.

Un’accoglienza per nulla galante per delle ragazze che vengono a far visita. Tre giovani donzelle appaiono all’improvviso e l’accoglienza è a suon di proiettili. Che gente questi tedeschi!

Polina e io richiamiamo con successo l’attenzione della contraerea, mentre le bombe di Nina creano l’inferno nelle camerate teutoniche.

L’azione è completata con successo, e questo ci rende fiere di lei e del nostro lavoro.

Nina, la nostra consorella più giovane, quella con meno esperienza, ha fatto un lavoro perfetto. Penso a lei e provo un sofferto senso di ambivalenza: da un lato protezione, a ricordo di un passato che non c’è più e a cui però istintivamente noi tutte tendiamo; dall’altro disillusione perché un giorno anche lei diventerà cinica come noi. Che peccato.

Ma…Polina!

Che succede? Non capisco.

Aumento di quota per guadagnare luminosità: devo individuare il problema.

Una raffica di AA le ha staccato un pezzo d’ala sinistra e forse colpito il motore, a stento riesce ad allontanarsi. Deve metterlo giù in sicurezza, ora. Non ha tempo. Ovunque, ma lontano da quel campo bombardato e dal fronte.  Il problema è l’oscurità: un covone, un fosso sono sempre in agguato.

Polina arranca, seguita da noi due con gli aerei fortunatamente in salute. Non segnala ferite o bisogno di un aiuto immediato, solo mi spaventa quel fumo nerastro che esce dal motore. Ha tutta l’idea di essere olio.

Passati dieci minuti, quindi circa venti km dal fronte: un cedimento all’aereo di Polina, fumo consistente dal motore, ce la farà il suo aereo a portarla a terra sana e salva?

È la speranza di tutte noi. Lei è una nostra sorella, la nostra capo formazione, e ad unirci è la danza notturna delle Streghe.

La prua del suo aereo punta finalmente verso uno di quei campi sterminati, tipici della pianura Russa occidentale, ai quali non mi abituerò mai. Non credo abbia molto tempo per decidere cosa fare.

Dalla nostra posizione in alto nel cielo, la luce del sole nascente è flebile, appena sufficiente a rischiarare l’ambiente, ma ancora nulla al suolo.

La decisione di Polina è per quel campo, ma prima di atterrare ci fa segno di sloggiare: ora per lei metterlo giù è una nuova battaglia, e due sono un po’ troppe per una sola notte di guerra. Purtroppo non possiamo aiutarla, quel combattimento è solo suo. A me e a Nina non resta che seguire gli ordini e puntare verso il nostro aerodromo.

Ma non si lascia indietro nessuno, specie le amiche. Questo è il pensiero della nuova Irina, non della ragazzina di anni fa.

Una virata di 180° e via verso quel campo immenso, alla ricerca di Polina. Questa è la mia scelta: forse illogica, non da militare, ma quella che sento più giusta.

Anche Nina mi segue. Deve aver intuito la cosa, una sorta di comunicazione telepatica tra me e lei: ci chiamano Streghe per qualcosa. Nina ha tutta la mia stima: benché abbia poca esperienza, è pronta a giocarsi la vita con noi.

Raggiunto il campo, le luci dell’aereo di Polina sono fioche ma visibili, accese per rendersi individuabile dagli alleati. Un breve circuito e il finale. Non si vede niente: atterrare a una certa velocità nel buio più assoluto è da folli, specie con un aereo integro ed efficiente e poi in un campo non preparato.

Anche nella Russia atea, in cuor mio la preghiera è verso quel Dio così lontano e osteggiato dai nostri governanti. Un Dio che fortunatamente vede di buon occhio i piloti; l’atterraggio avviene a regola d’arte: nessun ribaltamento, nessun danno apparente. Anche per Nina tutto bene.

Scendiamo e ci precipitiamo a raggiungere Polina.

“Ma siete pazze, vi avevo fatto segno di rientrare!”, ci grida lei.

Proprio un’accoglienza riconoscente, degna della sua ben nota mansuetudine. Mi piace questo suo aspetto. “Non si lasciano indietro le amiche, proprio no.” Le rispondo di rimando. È tutta intera, nervosa come sempre. “Stai bene?”

“Tutto a posto. Sono stata colpita: non erano le solite 20 mm. Ci ho rimesso un pezzo d’ala, ma devono aver preso anche il motore perché i giri hanno iniziato a diminuire all’improvviso. Alla fine l’aereo faceva un po’ di bizze: la soluzione più ovvia era metterlo giù in un campo, non ci arrivavo in aerodromo.”

Tiro fiato. La spiegazione ci calma, ma lo sguardo di Polina mi fa capire che sta per arrivare anche la ramanzina.

“Ma voi perché siete venute qua? Vi avevo ordinato di rientrare! Avete messo a repentaglio la vostra vita di aviatrici e i mezzi della gloriosa VVS!”

L’unica risposta che mi viene in mente è: “Vero, tutto vero, ma dimentichi una cosa. Non si abbandona un’amica e la nostra amicizia si vede perché abbiamo rischiato la vita per te. Io e la povera Nina, che sta in silenzio perché scossa oltre misura: è inesperta e tu lo sai, poteva rientrare, ma ha preferito giocarsi la vita per te.”

Polina non aggiunge altro e ci abbraccia: “Streghe per sempre…”

In lontananza, sentiamo le voci della nostra fanteria, mandata a vedere cosa è successo. Sicuramente vengono da un campo avanzato.

“Ci recupereranno, ma ci aspetteranno 200km di camion… Che sulle strade russe non sono così agevoli.” Detto da chi ha appena rischiato un paio di volte la morte. La solita visione positiva di Polina, che poi però puntualizza: “Però è bello rivedervi!”

Nel caldo di luglio, nella Pianura Padana, Lena sognava questo. Un mondo di eroismi, di azioni memorabili, la messa a repentaglio della propria vita per la Patria. Sognava di essere nell’abitacolo di quel biplano, sentiva cloche e manetta nelle sue mani. In Italia, negli anni Sessanta le donne non avevano accesso alla carriera in aeronautica militare, ma potevano formarsi a livello sportivo. Dare lustro e orgoglio al proprio Paese.

Sì, quello sarebbe stato il suo destino.

La prima missione? Convincere i genitori.

Giusto parlarne subito, ma con la coda dell’occhio vide per un attimo tre giovani aviatrici che la guardavano compiaciute.


Nota dell’autore:

Esistono due versioni che vogliono le “nachthexen” in equipaggi da 1 o 2 persone, con differenti modalità di attacco. Non essendo le due versioni concordanti e il racconto di fantasia, l’autore ha scelto quella di equipaggi singoli.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Diego Mascherpa

Diego Mascherpa


Laureato in chimica, già perito chimico.

Dal 1996 al 2010 pilota di aliante (Cremona e Novi Ligure), nel 2010 la carriera di pilota si interrompe a causa di un tumore alla testa, che lo ha reso invalido. Continua, però, il lavoro di ingegnere in campo petrolchimico.

Diego Mascherpa a bordo di un aliante

Nel 2022 ritiene che un tumore alla testa, 17 interventi, diplopia, atassia, disartria e una leggera emiparesi non sono scuse per smettere di volare.

Sta attualmente conseguendo l’attestato di VDS.


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diego.mascherpa (chiocciola) gmail.com




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