Oggi volo

Oggi volo. Basta volerlo. Basta la concentrazione Sbatto gli occhi. Apro, chiudo le palpebre. Non c’è tempo per i ripensamenti. Mi getto a capofitto in questa avventura. In un impulsivo gesto mi convinco che è questa la realtà che voglio. Devo lasciarmi guidare dal sentimento, non dalle convenzioni. Tutto si può cambiare, ma non cambiano le emozioni. Si può essere diversi. Anche se per gli altri potremo essere giudicati strani. Oggi volo. Ho tutto il coraggio necessario. Non sono più un bambino.

Mio padre mi insegnò l’arte del volo, piegando un semplice foglio di carta. Le mani erano sicure e forti, come la mia meraviglia. L’aereo di carta turbinò nell’aria. Virò e si gettò a capofitto dalla finestra aperta. Non ebbe paura dello schianto. Come se quel volo lo ripagasse di ogni eventuale caduta. In un’adrenalinica percezione della propria sicurezza, si lasciò andare. Si sentiva libero da ogni vincolo. Non c’erano più né se, né ma. Era solo un gioco. Non aveva vita. Era il vento che ammaestrava il suo volo. Lo faceva innalzare. Raggiungere un ramo. Sostare un attimo tra le foglie e poi … ecco riprendere la foga in una disordinata, scomposta traiettoria. Io però lo sentivo vivo. A otto anni si da l’anima alle cose. Quando planò, schiaffeggiato da una folata più energica, quando rasentò la superficie dell’asfalto onice, cupo, lo vidi che ebbe il tempo di specchiarsi in un riverbero di luce, per poi stendersi, schiacciarsi sotto la ruota di un’auto. Allora mi misi a gridare. Scambiai quell’urlo per il suo. “No! L’auto!” Mi misi a piangere. “No! Non voglio!”. Mio padre mi accarezzò i capelli. “Te ne faccio un altro. Vedi, ecco. Ho qui un altro pezzo di carta. E’ semplice!”. Gli strappai la carta dalle mani. Battei i piedi. “No! Voglio quello! Ritornamelo indietro, papà. Non farlo più cadere. Voglio quello che si è rotto. Aggiustalo! Andiamo giù in strada. Salviamolo. Te ne prego!” Lui non capì la mia sofferenza. Non mi accompagnò da quell’esile e gracile amico. Fece altri aeroplani, che io sistematicamente chiusi nel cassetto. Collezionai tanti aerei di carta stipati in un comò, al buio. Non li facevo volare per la paura che potessero cadere e morire. Li custodivo gelosamente. Li accarezzavo. Con un lieve respiro, ci soffiavo sopra. Svolazzavano piano nella camera. Arginavo il loro desiderio di volare. Li tenevo stretti, fermi sul palmo della mano. “Voi non morirete. Voi da me non andrete mai via!”.

Nella volontà di possedere cose, di ammansirle con la mia tenerezza, ho sempre avuto bisogno di trattenere, di chiudere ogni mia emozione. Nel timore che tutto mi scivolasse via, avevo timore delle perdite. Non ho mai voluto regalare nulla, neanche il mio amore. Il regalo di sé stessi presuppone un cedimento dei nostri sentimenti verso un’altra persona. Ed io non volevo soffrire. Anche mio padre, benché fosse l’unica persona che veramente amassi, mi lasciò presto. Per quel suo abbandono gli gridai contro tutta la mia rabbia. Non era colpa sua. No! Ma non doveva uscire dalla curva. Sarebbe dovuto invece rimanere con me, chiuso in un cassetto. L’incidente, lo schianto e poi più nulla.

Oggi volo. Non sento più il pericolo. Mi spalmo addosso tutto il coraggio. Oggi non torno indietro. Lo facci per mio padre. Lo faccio per me stesso. Una specie di riscatto, per non sentirmi più sottomesso.

Quando ero un ragazzo, i compagni mi deridevano. Ero gracile. Un’asta conficcata sul terreno arido delle mie insicurezze. Mi prendevano in giro. Sapevano che non avrei reagito. Un debole, un carattere fragile che si lasciava toccare, spaccare con violenza dalle parole, dai gesti. Senza battersi. Senza fare a pugni. Come quella volta i cui costruii un aquilone. Era fatto di carta leggera in tutte le tonalità del rosa. Passava dal fucsia, rosa confetto, fino al pesca. Non avevo trovato altri colori dal cartolaio. Non avevo esitato a comperare quelle veline rosa. In una primavera ventosa potevano benissimo volare. Anche se il rosa deve rimanere nella convenzione di un femminile, per me potevano andar bene lo stesso. Non mi sentivo vincolato dal colore. Mi ero messo in testa di fare un aquilone e l’avrei costruito. Era bello, grande, leggero. Era un portento. Feci una corsetta nel prato vicino a casa. Tenendo alto quel fiore volante. Lo sentivo vivere. Voleva sfuggirmi dalle dita. Aveva troppa irruenza dentro. Una grande fame d’aria che lo faceva sobbalzare ad ogni mio passo, ad ogni mio respiro. Più tenevo stretto e tiravo il filo, più voleva liberarsi. Ecco! Il volo dapprima esitante, prendeva ritmo, entrava in una corrente d’aria. “Così! Dai! Sempre più in alto! Non arrenderti. Prenditi tutto il filo che vuoi. Credi di essere libero, ma sono io che ti do il movimento. Sono io che ti ho creato. Ed ora ti sto dando l’opportunità di vivere. Tu sei mio! Coraggio, così! Vola sempre più in alto”. Gridavo la mia gioia attraverso quelle parole, perché avevo sfatato con quel gesto i tanti aeroplani di carta chiusi nel cassetto. Manovravo il momento a mio piacimento. Senza nessuno che potesse sbarrarmi la strada. Ero io l’artefice. “Più su! Il vento oggi è docile. Si lascia addomesticare. Non aver paura. Più su!”. Le risate mi arrivarono alle spalle. Mentre stavo facendo una virata difficile, perché avevo paura che l’aquilone si infilasse tra i rami de pini. Le risate si facevano più insistenti. “Guarda, guarda il deficiente con l’aquilone rosa …” Ero abituato a essere riconosciuto attraverso degli insulti. “Oltre a stupido, sei anche una checca.” Io non mi voltavo. Il braccio si stendeva. Si sforzava di cambiare rotta. Avrei voluto essere anch’io sull’aquilone per non sentire le risate, le villanie. Per essere altrove. Su nel cielo. Lo spintone arrivò all’improvviso. Marco, il più spavaldo, mi ringhiava addosso la sua prepotenza. Io continuavo a trattenere il mio aquilone. Ad essere impassibile verso quei quattro ragazzi che mi canzonavano e non smettevano di sghignazzare. Marco spaccò il filo. L’aquilone ebbe un sussulto. Diede una svirgolata. Ondeggiò. Rimase un attimo in sospeso. Precipitò con una evoluzione a zig zag repentina, veloce. Si sfiancò. Si gettò a terra. Sembrava un sasso rosa caduto da chissà dove. Mi misi a gridare. “Perché?”. Avevo messo la passione. Ci avevo creduto dopo tanto che volare può rendere felici. Poteva ripagarmi di tutte le rinunce. Di tutti quei sogni rimasti lì a covare senza mai essere realizzati. Non ebbi reazione. Solo un brivido. Avevo paura di andare a vedere il mio oggetto volante. Mi chiedevo come poteva essere ridotto. Malconcio, da gettare via, oppure … La cantilena dei ragazzi si faceva incessante. “Checca. Sei una checca.”. Li guardai smarrito, cercando di incutere in loro un che di misericordia. Loro invece si sentivano nel giusto. Avevano relegato lo strano nel suo angolo. Per loro non avevo il diritto di far volare. Né tanto meno di vivere. Me ne dovevo stare buono attaccato alla terra con la testa bassa, senza fiatare.

Oggi volo. Sto sopra le cose, alla mediocrità della gente. Sto contro le ingiustizie di non essere mai stato trattato come normale. La normalità è omologazione. E’ esercito in catena di montaggio. Io sono diverso. Nella mia diversità, nella eccentricità del mio modo di essere ci sta tutta la bellezza della mia vita. Sono un tipo. Sono unico. Attraverso le battaglie che ho fatto in tutti questi anni mi sono fortificato. La sensibilità non è più zavorra, ma è diventata un dono leggero. Non mi interessa il giudizio. Io sto bene, ora. Ho aperto tutti i cassetti del comò. Ho lasciato volare i miei aeroplani di carta. Ho rattoppato il mio aquilone. Ho tagliato il filo. L’ho lasciato specchiarsi su in alto in un raggio di sole. E so che lui non ha avuto paura di bruciarsi. Basta volerlo. Basta la concentrazione. Mi do la spinta. Corro. Mi lascio andare. Volo. Il parapendio colora di fucsia il cielo. Questa volta non mi tiro indietro. Questa volta io sono con lui. Io oggi volo.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Rita Mazzon

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