Archivi tag: T- meno

T – meno

Certi racconti sorprendono, altri deludono, altri ancora suscitano perplessità. Poi ci sono quelli che ci lasciano indifferenti come pure quelli che emozionano. E non mancano, ovviamente, i racconti che entusiasmano al punto da chiederti a voce alta: “Perchè non l’ho scritto io?”

Ebbene la composizione con la quale Massimo Bencivenga ha partecipato alla VI edizione del premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE non appartiene a nessuna di queste casistiche; è uno di quei racconti che sfugge ad ogni logica e a ogni schema convenzionale.

Diciamola tutta: è un testo davvero singolare in termini di formula narrativa e, in parte, anche nei contenuti. Perchè? Semplicemente perchè non capita spesso di poter leggere ben nove racconti nello spazio di uno; nel racconto intitolato: “T-meno” – questo il titolo già di per sè assai originale – è possibile, credeteci.

Titina è sicuramente la cagnolina più famosa nella storia dell’aviazione italiana. Era una splendida femmina di fox terrier che non si separava mai dal generale Umberto Nobile; lo accompagnava in ogni dove: al lavoro, a bordo delle aeronavi da lui progettate, in occasioni mondane o in visita presso le personalità dell’epoca. E’  qui ritratta in braccio al suo padrone in uno di quegli scatti che l’hanno consegnala alla celebrità, antesignana di quella famosa collega sovietica che portava il nome di Laika. Ma questa è tutta un’altra storia.

In circa 25 mila caratteri avrete modo di intravvedere, ad esempio, Wernher von Braun, creatore dei micidiali ordigni che flagellarono Londra durante il corso della II Guerra Mondiale. Sì, ma dal punto di vista del proiettile in canna all’arma da fuoco puntata contro il fratello di Wernher von Braun, certo Magnus, che sta giusto trattando la resa del famoso ingegnere missilistico tedesco. Per inciso, padre delle future missioni spaziali statunitensi.

C’è poi il resoconto drammatico di un giornalista della Pravda che ci confida i piccoli-grandi segreti di Korolev, il Capoprogetto del programma spaziale sovietico, e di Yuri Gagarin, il primo uomo ad aver raggiunto lo spazio e ad essere rientrato vivo sulla Terra.

La leggenda vuole – ma in realtà si tratta di storia documentata – che Nobile, divento famoso a seguito del grande successo della missione polare a bordo del suo dirigibile NORGE, quel giorno fosse alla casa Bianca, ospite del presidente degli Stati Uniti d’America. Titina, per nulla intimorita dall’austerità del luogo o dell’onore concesso al suo padrone beh, si … insomma, la mollò sul tappeto dello studio del presidente con fare assolutamente disinvolto. Non possiamo neanche immaginare quanto fosse contrito l’esploratore italiano, quanto grande fosse l’imbarazzo dello staff del presidente e del corpo diplomatico italiano presente. Invece il presidente Coolidge, proverbialmente uomo taciturno e severo, scoppiò in una irresistibile risata cui fecero eco tutti gli altri convenuti. Il giorno dopo l’episodio era su tutti i giornali d’America e Titina divenne ancor più popolare del suo padrone. La foto ritrae Titina o meglio il corpo di Titina che, dopo la sua morte, fu imbalsamato. Oggi si trova all’interno del Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle (Roma) sul lago di Bracciano. E’ nella teca dove si conservano i cimeli della sfortunata missione polare del dirigibile ITALIA (fonte fotografia: Charter, presente in www.ilvolo.it)

Che dire poi del punto di vista a dir poco singolare di Titina, la cagnetta che accompagnò anche al Polo Nord l’ingegnere-generale-esploratore Umberto Nobile?

Certo, dal punto narrativo, è a dir poco audace far esprimere delle opinioni ad un o-ring (una guarnizione di gomma ad anello) circa il suo tragico legame con il disastro che occorse all’intero equipaggio dello Space Shuttle Challenger nel 1986.

Il sovietico Yuri Gagarin è ricordato come il primo cosmonauta ad aver “volato” nello spazio (e ad essere tornato vivo a terra). La sua missione ebbe successo grazie al lavoro, celato rigorosamente nel più profondo segreto, del Capo progetto spaziale Sergej Pavlovič Korolëv. La foto ritrae appunto Gagarin poco prima del decollo ed è diventata la copertina del libro di cui abbiamo fornito la recensione nella pagine del nostro sito GAGARIN

Vi ricordate poi – tanto per continuare – del famoso codice di errore che apparve nel computer di bordo durante le fasi allunaggio del LEM? Quello con a bordo Buzz Aldrin e Neil Armstrong, per intenderci? Beh, se non ci fosse stato un anonimo ingegnere informatico a confermare che si trattava di un codice di errore insignificante, forse la missione Apollo 11 non sarebbe mai assurta alla gloria dell’astronautica umana. Ebbene, troverete qui il racconto di quegli istanti di trepidazione e la voce ferma di quell’anonimo ingegnere che dichiara: “Go!”, potete allunare.

E questo solo per anticiparvene alcune.

L’unico dato certo che si evince da questo racconto a più voci e molteplici personaggi è la disinvolta capacità dell’autore nel compiere una vera e proprio scorribanda tra le pieghe della storia dell’aviazione e dell’astronautica. E non solo. Le vicende che porta alla nostra attenzione sono spesso delle vere chicche, dei sassolini assai minuti rispetto a episodi ben più noti e celebrati. Perciò fate bene attenzione: a guardarli bene quei sassolini brillano di luce propria, sono di un dorato accecante … caspita! Sono pepite vere!

Appurata la sua agevole gestione della sintassi, l’impeccabile utilizzo della punteggiatura e, indifferentemente, del discorso diretto e indiretto, Massimo Bencivenga dimostra di conoscere davvero la storia e di conoscerla a tal punto da potersi permettere dei punti di vista, delle voci narranti che dire originali è riduttivo.

28 gennaio 1986. In diretta televisiva, dalla piattaforma di lancio 39B dello Kennedy Space Center di Cape Canaveral in Florida, decolla il Challenger. A bordo ci sono sette membri dell’equipaggio per svolgere la cinquantunesima missione nello spazio di una navetta Space Shuttle . 

Pochi istanti dopo, l’esplosione del razzo a propulsione solida di destra mette fine alle loro vite. L’inchiesta appurò il cedimento di una guarnizione tipo o-ring di alcuni centesimi di dollaro di costo. (fotografia NASA)

Forse è proprio questa la forza e il fascino di questo racconto. E forse anche un limite perchè, per dovere di cronaca, la giuria del Premio non lo ha ritenuto meritevole di entrare a far parte della rosa dei fantastici 22 racconti finalisti. Peccato per lui, bene per noi lettori, ammiratori del buon Bencivenga e degli storici dell’aviazione che si ritroveranno ai quattri angoli del pianeta, in epoche diverse, nello spazio temporale della lettura di un racconto.

Questo è un racconto speciale, troppo particolare che lo stesso autore ha così definito:

“T-Meno è un breve, incompleto e onirico viaggio attraverso alcuni momenti importanti dell’aeronautica e dell’astronautica, discipline che rappresentano sicuramente alcune delle più riuscite imprese collettive mai poste in essere dall’Umanità, quella con la U maiuscola, scevra da confini e bandiere.”

Margaret Hamilton, direttrice dell’Apollo Flight Computer Programming presso il Draper Laboratory del MIT, a distanza di qualche anno dell’allunaggio dell’Apollo 11, dichiarò che, probabilmente, se il codice di errore 1201 e 1202 non fosse stato ignorato dal software del computer di guida del LEM, probabilmente la missione non avrebbe avuto il successo che ebbe e dunque non sarebbe mai stata collocata in una delle pagine più memorabili della storia dell’astronautica. In effetti il merito di valutare in pochi istanti la bontà del messaggio di errore del computer di bordo fu degli specialisti all’interno del Mission Control Center di Houston in Texas e, in particolare, dell’ingegnere Jack Garman che diede l’autorizzazione a procedere con la discesa a Steve Bales, il cosiddetto “Guidance Officer”, il quale, a sua volta, confermò il continuare l’avvicinamento alla superficie lunare all’equipaggio del LEM. Fatto salvo l’episodio dei due codici, la cronaca di quegli istanti che precedettero il primo contatto con la Luna, ancora oggi mette i brividii: il LM arrivò “lungo” rispetto al luogo stabilito e il buon Armstrong dovette prendere il controllo del Modulo Lunare. Giunse a terra con solo 25 secondi di propellente utile per l’atterraggio. Questa è la targa che rimase sulla Luna, attaccata alla scaletta del LEM malgrado il codice 1201 e 1202.

 Noi una spiegazione ce la siamo data: siamo di fronte ad un creativo di alto livello, uno sperimentatore, un esploratore della narrativa aeronautica che usa i tasselli della storia per plasmare la sua creatura dalle tante facce, dalle tante storie di vita. E magari questo disorienta il lettore, specie quello che ammette solo consolidate formule classiche di narrazione.

Ovvio che per un tipo come Massimo Bencivenga un semplice solo racconto possa stargli gli stretto e ne voglia infilare nove in uno … che sia pronto per un romanzo? Beh, noi glielo auguriamo di tutto cuore. Nel frattempo però, facciamo in modo  che giunga in redazione la doverosa copia in visione, eh Massimo!?  Ma giusto per farne la recensione, che avete capito!


Narrativa / Medio-lungo

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§



Attenzione: Non esiste il Tag T - meno

 

 

T – meno

 

 

T uguale a 1995 meno 50 anni – Berlino

Io sono il proiettile. Sono stato concepito per straziare e portare dolore, morte e lutti. A voler essere elegiaci e aulici potrei dire che sono il cavaliere verde dell’Apocalisse, cavalcato dalla Morte e seguito dall’Inferno. Ma non è così: sono il frutto dell’ingegno umano.

Vedo davanti a me un uomo con le mani alzate, riesco a percepire l’odore della sua paura, sento anche la mano del soldato serrarsi di più sul grilletto. Ormai ho imparato a riconoscere la febbrile eccitazione che la caccia all’uomo sa instillare in animi stanchi e abbrutiti da questa Guerra, che più sembra agli sgoccioli e più sembra voler stupire con nuove atrocità, quasi che potesse, al pari d’un organismo, rinnovare il suo vigore usando come carburante l’alito dell’odio fine a se stesso.

«Chi comanda qui? Sono Magnus, il fratello di Wernher von Braun.»  Sento dire in un inglese molto, molto stentato.

«E chi sarebbe questo vonnebroun?» chiede l’uomo mentre la pressione sul grilletto aumenta. Mi sento pronto a esplodere, a partire per squarciare, dilaniare e penetrare carne e ossa. Sono pronto a uccidere.

«Mio fratello è l’uomo che insieme al grande Werner Heisenberg poteva far vincere questa guerra alla Germania. Mio fratello vuole consegnarsi a voi.»

«Cosa? Troppo comodo adesso.» Mi sembra quasi di sentire i pensieri assassini dell’uomo che potrebbe dare il là alla mia corsa a oltre mille metri al secondo.

«Alt!» La voce ha il tono e la punteggiatura del comando. Sento l’uomo girarsi un po’, ma tenendo la volata del fucile ancora sul petto dell’uomo. Da qui posso quasi sentire i battiti del suo cuore; un cuore nel quale spero di immergermi. Non sento più nulla, c’è un fitto conciliabolo in un’esperanto tra tedesco e inglese. Non riesco a percepire quasi più nulla, il soldato ha puntato il fucile verso terra.

«Perché noi?» chiede il nuovo arrivato al fratello di vonnebroun.

«Mio fratello non si fida dei francesi, ritiene i russi dei barbari e non può certo chiedere requie agli inglesi dopo che ha quasi contribuito a radere al suolo Londra. Rimanete voi.»

«Suo fratello è un figlio di puttana che mi piacerebbe infilare in un cannone, ma quel signore lì» e indica un uomo mingherlino, in nero, con l’allure del corvo che sembra essere, uno di quelli pronti a banchettare senza esporsi « è qui proprio per aiutarmi a prendere in custodia Wernher von Braun.»

« Ecco, è tutto suo, signor Smith» sibilò l’uomo calcando le parole sul quasi certo fasullo cognome. «Mi creda, non capisco questa scelta, ma obbedisco», concluse l’ufficiale.

«Obbedisco lo disse una volta anche un grande e fortunato generale italiano, capitano Ryan. Magari le porterà fortuna», ribattè l’uomo in nero sbuffando il fumo della sua sigaretta e guardando attentamente von Braun che saliva su una camionetta.  

«Ma è vero quello che si dice? Che è in grado di costruire dei missili in grado di arrivare anche sulla Luna?»

«Necessità di sapere, capitano. Dovrebbe conoscere questa regola. Forse sarebbe meglio per lei dimenticare quello che è accaduto oggi, ma non credo di dirle granché di segreto se le rivelo che la missilistica sarà la nuova frontiera e la nuova arena di guerra, quando questa terminerà, credo tra pochi mesi. Lui è uno dei profeti della missilistica e l’America non può permettersi di perdere terreno.»

«Ma è vero che è responsabile di tanto dolore a Londra?»

«Già, ma anche questo, temo, non possiamo né potremo dirlo: in guerra, la prima vittima è la Verità!» 


 

T uguale a 1995 meno 34 anni – aeroporto di Khodynka e altre parti in CCCP

«In verità io apprezzo il coraggio degli americani.» Quando l’uomo con i lineamenti scavati nella roccia come una maschera totemica parlava, i militari e i burocrati sovietici non facevano altro che tacere, così, semplicemente, come davanti a una teofania. Era l’uomo dello Sputnik e quello che aveva mandato in orbita Laika.

«Apprezzo il loro coraggio, lo dico sul serio. Devono essere più che coraggiosi per anche solo pensare di salire sulle navicelle progettate da von Braun .» Pausa. Risate nervose dei giovani militari e ridanciane, forse per via della Vodka, degli apparatcik di Partito.

«Anni fa provai a dirlo, ma in pochi mi diedero retta. Un conto è far decollare un missile e farlo cadere, ben altro è mandare in orbita un satellite e tenerlo lassù, con qualcuno a bordo. Quando lanciammo lo Sputnik, il loro responsabile venne svegliato per avere un parere, a loro non sembrava possibile che noi li avessimo preceduti. Affrettarono il tutto e il risultato su un fallimento in diretta: un flopnik , come scrisse un giornalista. L’avesse detto del nostro programma, quel simpatico scribacchino si sarebbe ritrovato in Siberia a spaccare pietre congelate. So di cosa parlo: io adesso per voi sono il Capoprogetto, ma ci sono stato in un Gulag. Sapete come mi chiamano a Washington? Korolev, il dottor Missile o il dottor Stranamore.»

Nuova pausa.

«Siamo qui perché tra di voi c’è l’uomo che andrà nello spazio. Parola di Korolev, il Capoprogetto.»

  Quell’uomo sa indubbiamente affascinare e infiammare gli animi. C’è riuscito anche con me, con Arkady Pelevin, reporter di stato per la tecnologia dell’organo di propaganda Pravda. La verità.

In verità, l’uomo che sapeva infiammare qualche volta sbagliava anche: il tenente Valentin Bondarenko bruciò vivo dentro una camera pressurizzata. Era mio amico Valentin, avrei voluto scrivere di quella morte, degli sbagli che la Scienza esige, ma il Partito me lo impedì.

«Ho capito l’errore: l’ossigeno puro non va bene. Una miscela di ossigeno e azoto è più pericolosa nella fase di rientro, ma non dovrebbe incendiarsi» profetizzò Korolev, che brigò per far assurgere il povero Valentin al rango di Eroe dell’Unione Sovietica e me quale principale pennivendolo per magnificare la sua impresa. In più, fotografai il Capoprogetto mentre tendeva la tuta spaziale a un altro tenente: a Jurij Gagarin.

Ero nella sala controllo con quell’uomo portentoso quando fermò tutto e ordinò una nuova verifica della chiusura stagna: non avrebbe rischiato un’altra vita; anche perché non sarebbe sopravvissuto a un flop adesso che il mondo era al corrente del tentativo. Le cose vanno così, in CCCP.

Io, Arkady Pelevin ho visto e sentito cose…

Ho visto il Capoprogetto sudare per la prima volta; ho sentito Gagarin parlare di quel blu così particolare ed emozionarsi mentre sorvolava l’America, sia pure quella del Sud.

Ho sentito i gemiti da cagna come Laika di mia moglie Olga mentre, infiammata di piacere, veniva inchiodata sul nostro talamo da Sergei,il fratello di Valentin.

Loro non mi hanno visto e io non ho fatto scenate.

Oggi è un giorno di festa: Il paradiso dei lavoratori ha portato in orbita e fatto rientrare sano e salvo un uomo.

Dall’altra parte del mondo i giornalisti possono permettersi anche di riportare le parole arrabbiate e assonnate di Shorty Powers, resposabile della comunicazione della Nasa che, raggiunto alle 4 del mattino, non ha trovato di meglio che dire al reporter Quaggiù stiamo dormendo. Nulla è accaduto al giornalista e neppure a Powers.

Da noi invece succede che io debba tacere una morte e scoprire, in un giorno di festa, mia moglie a letto con un altro. Stanno festeggiando, loro, mentre io sono sbronzo e innamorato.

Troppo innamorato.

Salgo sul tetto del dormitorio e mi lascio dondolare.

Ho sentito il Capoprogetto cianciare del fatto che Jurij ha resistito nel rientro a 8 G.

Un passo e sono nel vuoto: adesso tocca a me sperimentare i G.


 

T uguale a 1995 meno 12 anni – Caiazzo (CE)

Pianeta terra chiama squadra G,

segnale di pericolo, allarme! allarme!

La battaglia dei pianeti,

spacca e spazza tutti i cieli,

cinque intrepidi ragazzi,

vanno forte più dei razzi,

han le ali come uccelli,

sono liberi e ribelli,

la famosa squadra G,

cinque eroi uniti qui.

Ken, l’aquila,

Joe, il condor,

Pritijen, il cigno,

Jimpei, la rondine,

Ryu, il gufo.

Parole della sigla del cartone animato Gatchaman – La battaglia dei pianeti.

 

Sono in prima elementare, in una multiclasse con un insegnante molto severo ed esigente. E molto manesco.

Mia mamma non voleva che capitassi con un simile individuo, ma non c’era molta scelta nel piccolo paesino di campagna. Di buono c’era che il pulmino ci portava a scuola una buona mezz’oretta prima dell’inizio delle lezioni. Il tutto per far arrivare in orario, per il secondo giro, quelli che andavano alla scuola del centro.

Dietro la costruzione della scuola di campagna c’era un il tronco di un albero abbattuto e stranamente lasciato là.

Le mie compagne (ah, dimenticavo, ero l’unico maschio dei cinque alunni in prima) avevano paura di quell’albero. A una di loro ricordava, con quei rami tagliati disordinatamente una creatura mostruosa.

Per me invece rappresentava il luogo nel quale diventavo Joe, il Condor.  Solitamente, nei cartoni giapponesi, quando si parla di una cinquina (e ce ne sono di esempi), il secondo uomo è quello forte e coraggioso, ma non abbastanza per essere il leader; è spesso l’ombroso e il tormentato del gruppo.

Io non lo ero: ero il secondo perché, più semplicemente, riuscii ad avere ragione di tutti quelli più grandi tranne che di Pietro, che assunse il comando nel segno dell’Aquila. C’è qualcosa di dantesco in tutto ciò, non trovate?

Prima di entrare in classe ci piccavamo d’ammazzare la nostra bella quota di alieni, i quali, dal canto loro, sembravano trovare irresistibile il terzo pianeta del sistema solare. Contando a partire dal sole, of course.

A un certo punto, io arrivai a proporre un nuovo cartone da imitare, una cosa che adesso in molti chiamano fare Cosplayer, anche se noi non avevamo i costuni.

Il nuovo personaggio spaccava, come la sigla. Come tutte le sigle dei cartoni di quegli anni, a volerla dire tutta.

C’era un giro di basso assurdo, e forse la voglia di fare l’astronauta m’è venuta guardando Capitan Futuro: bello, forte, intelligente, la prova provata che la scienza può essere cool. E il tutto anni prima del successo di The Martian.

Capitan Futuro aveva un problema, pur contando una donna c’era il problema che nessuno dei miei cinque amici voleva essere il cervello volante del dottor Wright.

E dire che il cognome Wright ha una certa importanza nella storia del volo. Più che un combattente, Capitan Futuro era uno scienziato e un’esploratore.

 


T uguale a 1995 meno 69 anni – Italia, Polo Nord, Casa Bianca

«Il mio padrone è un esploratore, ma non uno qualsiasi.»

Ora non sono più Joe il Condor, ma una cagnetta. Adesso vesto bene, ma ricordo ancora quando ero randagia e brutta; e quando, magra, affamata e tutta infreddolita avvertii nitidamente l’usta della bontà in quell’uomo che tutti sembravano temere.

Che sciocchi, gli uomini! Se si lasciassero guidare dall’olfatto capirebbero tante cose in più, comprenderebbero tutto, prima e meglio.

Quell’uomo era buono, ma buono davvero. E infatti si commosse e mi prese con sé.

Come in ogni storia d’amore all’inizio ci furono ed eccome delle incomprensioni. Succede con uomini di genio: i geni sono strambi. Io di padroni geniali ho avuto solo questo, ma la genialità anticonformista ed eclettica degli uomini rappresenta il genere di chiacchiere che ci si racconta intorno ad un osso nelle lunghe e fredde sere invernali.

Ricordo ancora la tremarella che mi prese la prima volta che salì sull’uccello volante di ferro. Poi mi sono abituata a quella cosa di essere la prima a salire sulle aeronavi partorite dalle sue meningi. Il genio a volte sa essere anche incredibilmente superstizioso. Strambo, come detto.

Potessi parlare urlerei al mondo: «Io sono Titina, la cagnetta del grande Umberto Nobile ed ero con lui anche al Polo Nord, dove faceva freddo per davvero e io per scaldarmi scorrazzavo avanti e indietro. Ricordo che in quelle notti mi diceva di tener duro, e mi raccontava delle grandi imprese italiane. Del raid di Aisovizza e del Caproni usato per la prima volta in Libia nella guerra Italo-Turca. Questo ed altro direi di quel grand’uomo, se sapessi parlare.»

Oggi mi ha preso da parte e mi ha parlato dell’incontro con un grande Uomo, il più potente del Mondo: il presidente Calvin Coolidge.

Me ne fotto, avrei voluto rispondergli, ma l’ho fatto a nome mio. Quando mi sono stancata dell’odore dolciastro e prepotente di quell’uomo non ho trovato di meglio che pisciare sul carpet della Casa Bianca.

Così impara a non dare il giusto credito al mio padrone.

Quell’idiota di Coolidge s’è messo anche a ridere pensando che la buffa fossi io.

Gli uomini non impareranno mai perché non usano l’olfatto. Imparano poco anche dagli incidenti. E ne avrei da raccontare di incidenti…

 


T uguale a 1995 meno 21 anni – USA e Gilda degli sceneggiatori di Hollywood 

«Oscar c’è stato un incidente. Il pilota è ancora vivo, ma devi decidere in fretta se procedere o meno con il Progetto.»

Io, Oscar Goldman, dirigente dell’Osi (Office of Strategic intelligence) copro con la mano la cornetta del telefono e penso a cosa fare. Mi decido.

“Steve Austin, astronaut. A man barely alive.”

Richard Anderson, in character as Oscar Goldman, then intones off-camera,

“Gentlemen, we can rebuild him. We have the technology. We have the capability to make the world’s first bionic man. Steve Austin will be that man. Better than he was before. Better…stronger…faster.”

Alla fine l’abbiamo fatto: abbiamo il primo uomo bionico, un progetto da sei milioni di dollari al servizio dell’Umanità contro le barbarie, ovunque esse siano, che minacciano la libertà e i diritti fondamentali.

«Oscar, devo sapere se posso usare Steve per attaccare una centrale nucleare in Asia e smantellarla. Devo sapere se è pronto », mi chiede il Presidente degli Stati Uniti.

I presidenti non si rendono conto dell’effetto che fanno sulle persone comuni, fossero anche burocrati d’alto rango, mandarini di Stato come me.

Come si fa a dire no a un POTUS? Come si fa dire che un progetto così costoso potrebbe avere un qualche intoppo? E l’intoppo non è nella tecnologia, ma nella psiche.

In questi mesi ho visto Steve Austin correre e prendere confidenza con le gambe, il braccio e l’occhio. Certo, c’è quel sound quando le parti bioniche entrano in azione a regime, ma non è certo una cattiva musica.

Tecnicamente è a posto, ma psicologicamente è ancora provato, non al meglio.

«Steve Austin è a posto», dico quel che vuole sentire. E devo averlo detto anche con una certa sicumera.

Steve portò a termine tante missioni, contro dittatori e semplice delinquentelli, contro bigfoot e contro veri e propri robot; con il tempo gli affiancammo anche una sua vecchia fiamma, Jamie, bionica anche lei.

Tornava dalle missioni sempre convinto di aver fatto la cosa giusta, per la Bandiera e la Patria, certo; ma più ancora perché era la cosa giusta da fare.

«Oscar», mi disse una volta, «Non sai come mi arrabbio ogni volta che un politico dice Dio è con noi.»

Scosse la testa e aggiunse: «I nostri Padri Fondatori non hanno mai detto una cosa del genere, bensì Dobbiamo stare dalla parte di Dio. La cosa è diversa».

Detto ciò, tempo un tre mesi e tornò più taciturno da una missione in Brasile. Di solito si torna da quelle parti euforici e con una sorta di sandade, di mal di Brasile. Lui tornò scuro, scontroso e malmostoso.

«Steve, cosa c’è?»

«Non credo di aver fatto la cosa giusta, laggiù. Oscar, l’America foraggia le multinazionali e sfrutta quella povera gente per aver una corsia preferenziale nella grande torta della commercio della gomma», rispose accigliato.

Prima di adirarsi e sputare: «L’uomo che mi avete mandato a neutralizzare offriva una speranza a quella povera gente; certo, andava contro gli interessi dell’America, ma a favore degli ultimi. Io… io credo che mi prenderò una pausa. Devo riflettere.»

«Steve, meglio noi die rossi. Credimi.»

«Perché non meglio loro? Perché non li lasciamo liberi di… sbagliare; ma liberi da ogni giogo?»

«Perché questo è il Grande Gioco. Perché il potere non ammette vuoti e perché… Perché per quanto possa sembrare incredibile, una delle cifre tecnologiche di questo tempo è la gomma.»

 


T uguale a 1995 meno 9 anni – Washington

Sono fatta di gomma.

Sono una guarnizione 0-Ring. Una come tante, e questa mattina me ne stavo bella bella nel contenitore della ferramenta quando la mia vita è cambiata.

Un uomo è arrivato, ha frugato e mi ha presa tra le mani. È come se avesse estratto il numero giusto da una lotteria. Da quel momento la mia vita è cambiata: sono andata in tv e sono diventata una star.

Io conoscevo quell’uomo: era istrionico, buffo anche, ma una rivista molto attendibile una volta lo indicò come L’uomo più intelligente del mondo. Nonostante amasse e suonasse i bongo e in passato fosse stato, tra le altro cose, anche uno scassinatore provetto.

Però tra le altre cose dell’uomo si possono annoverare anche un Nobel Prize e una teoria molto affascinante.

Roba da togliere il fiato, a patto di capirla. E non sono in molti a sfiorare l’abissale bellezza della QED, l’Elettrodinamica quantistica.

Già, perché l’uomo che questa mattina ha cambiato la vita di una semplice guarnizione relagando nell’olimpo delle star altri non è che Dick Feynman. Ed è malato. Molto.

Qualcuno potrebbe obiettare che è per questo che fa di testa sua e non ha paura di nessuno, ma sarebbe riduttivo. Feynman faceva di testa sua anche a Los Alamos, dove era uno dei più giovani e dove c’erano von Neumann e Fermi, Oppenheimer e quel militare scorbutico di Groves. Non era ancora un Nobel, ma era già Feynman nei modi e nei comportamenti.

Mentre parla alla commissione presidenziale messa su da Reagan per indagare sulle cause del disastro dello Space Shuttle Challenger, a un certo punto, come un consumato illusionista (l’ho già detto che si dilettava anche come mago e prestigiatore?), mi tira fuori dalla tasca a mo’ di coniglio dal cilindro e attacca: «Dick Scobee, Michael J. Smith, Judith Resnik, Ellison Onizuka, Ronald McNair, Greg Jarvis e Christa McAuliffe sono morti per colpa di una guarnizione come questa». Ecco, adesso sì che sono immortale.

Mi stanno fotografando e riprendendo. Sono in mondovisione.

«Ma la colpa non della guarnizione O-Ring in sé, ma di chi non ha saputo prevedere che la stessa non avrebbe funzionato bene a basse temperature. Vite umane e milioni di soldi dei contribuenti bruciati perché qualcuno non ha tenuto conto di una elementare legge fisica. Credo che la Nasa d’ora in poi dovrà prestare più attenzione alle selezione die suoi tecnici, che dovrà essere più rigorosa e meno politica. Meno politica e più competenza.»

 


T uguale a 1995 meno 26 anni – Houston e Base della Tranquillità

È perché sono competente, molto, che sono qui. Ho studiato sodo per questo, mi sono sporcato le mani partecipando sin da bambino a concorsi per aerei e razzi amatoriali, ho sognato questo momento, ma adesso, hic et nunc, vorrei essere altrove e non alle dipendenze di Eugene F. Kranz, vale a dire Gene, Volo (ossia il responsabile del volo) dell’Apollo 11.

Stava andando tutto bene, più o meno bene, visto che gli intoppi in programmi del genere non mancano mai, ma quando dall’Apollo 11 in discesa senti chiedere: “Houston, abbiamo un errore di sistema. È il 1202″ e subito dopo Gene ti guarda e tacitamente ti chiede un ok o uno stop allora capisci che in quel momento vorresti stare a vendere granite.

Guardo nel librone, del sudore mi va a imperlare la fronte. Sento gli occhi su di me in un silenzio che sa di piombo. Forse di morte.

“Ci date un riscontro sull’errore 1202?” chiedono da lassù. Venti secondi dopo.

«Allora?» mi chiede Gene. Adesso anche lui è sudato.

Trovo l’errore ed esulto.

«Go Gene, Go. Luce verde» dico, e sembro quasi convincente.

A 900 m un altro alert dall’Apollo ci fece salire la pressione.

“Houston, abbiamo un errore 1201 adesso, cosa facciamo?”

1201… 1201… 1201…

«Stesso tipo di errore, Gene. Luce verde per noi. Go.»

40 secondi dopo un nuovo messaggio.

“Houston, qui Base della Tranquillità. L’Eagle è atterrato.”

Qualcuno mi abbraccia, ma non ricordo chi. Vedo tazze e fogli volare in aria. Ce l’abbiamo fatta.

L’America ha portato un uomo sulla Luna.

E io, altro che gelati, non vorrei mai essere stato altrove.

«Ma poi cos’erano quegli errori?» mi chiede uno degli ingegneri strutturali.

«Credo che Buzz Aldrin possa aver tenuto accesi contemporaneamente il computer dedicato all’atterraggio e quello per il rendez-vous; ergo, la memoria dell’AGC probabilmente è andata in crash e ha segnalato l’errore.»

«Sai una cosa amico, posso spiegarti l’aerodinamica, ma non ho capito un cavolo di quello che hai detto. Però… cazzo! Ti rendi conto di quello che abbiamo fatto? Per dei secondi siamo stati appesi a te. Grande amico, come ti chiami?»

Stavo per dirgli il mio nome, ma lui è volato via ad abbracciare un altro tecnico.

Già, nessuno saprà mai il mio ruolo nell’allunnaggio. È il destino di tanti. Io ho fatto allunare l’Apollo 11, ma alla conferenza stampa andrà Gene Kranz.

Mi siedo, adesso sono come svuotato.

Non c’è più la pressione di qualche minuto fa.

 


T uguale a 1995 meno 243 anni – Basilea

Questa cosa della pressione del sangue è interessante.

Forse riesco a ricavarne una qualche legge, qualcosa che faccia schiattare di rabbia nella tomba quel borioso di Johann Bernoulli, il grande matematico che si schierò con Leibnitz nelle querelle con Newton (uno dei pochi, questo gli va riconosciuto), ma che nondimeno fu invidioso, molto invidioso quando arrivò l’aquila della matematica, il portentoso matematico Leonard Euler ad oscurarlo.

Ma chi non viene oscurato da Eulero? Il quale, bontà sua!, mi pregia della sua amicizia e stima.

E dire che non sono un matematico, non in senso stretto.

E Johann Bernoulli non era solo invidioso di Euler: una volta mi scacciò dalla sua casa perché a un concorso matematico eravamo arrivati in finale insieme. Anziché essere contento del risultato, visto che i rudimenti me li aveva dati lui stesso, non trovò di meglio che offendere me e la commissione che aveva osato paragonarmi a lui. A nulla servì la mediazione di mia madre, già, perchè io…

Sono Daniel Bernouilli, medico e matematico dilettante, figlio di Johann e nipote di Jacob Bernouilli.

Mio padre mi voleva economista, mercante, poi ha deciso per medico. Tutto, fuorché la matematica. Doveva essere lui il gallo dei Bernoulli.

La pressione dicevo, c’è qualche legge fondamentale che aleggia nell’aria, sembra a portata di mano ma diventa sfuggente. Studio il sangue nelle vene, la magia di questa linfa è straniante, non mi stancherei mai di squartare animali per vedere e studiare il flusso sanguigno, ma percepisco in quelle turbolenze qualcosa di più generale.

Devo studiare quello che hanno scritto sull’argomento dei fluidi i grandi del passato, poi, nel caso dovesse venirmi qualche idea più generale e trovarmi in difficoltà potrei sempre chiedere un aiuto alla macchina per teoremi che si chiama Euler, che è ben contento di aiutare gli altri e per nulla invidioso.

Eureka! Ho trovato (anche con qualche aiutino matematico) l’equazione generale dei fluidi; sono senza parole! In una sola equazione c’è la spiegazione tanto al flusso sanguigno quanto al volo degli uccelli.

Forse un giorno la mia equazione sarà utile anche ai novelli Icaro che vorranno staccarsi dal suolo e andare oltre. Anche oltre i nembi. 

Se solo potesse vedermi mio padre!

Io sarò più importante!

Che vendetta!

Che gioia!

Il protervio matematico battuto nella corsa all’eternità dal figlio che riteneva stupido, quello che aveva relegato alla medicina.

 


T meno 0 – Napoli

«Medicina! Domani vado a iscrivermi per i test di medicina», dico a colazione ai miei. Li vedo tirare un sospiro di sollievo.

«Come mai, Domenico? T’è passata la fissa di fare fisica o provare a fare l’ufficiale dell’aeronautica per provare a fare l’astronauta?» Chiede mio padre, che è un medico. Come mia madre, del resto.

«No, è che stanotte ho fatto un sogno buffo», rispondo e subito dopo, con la tazza fumante alla bocca, sfoglio febbrilmente il Focus di Agosto 1995. C’è un articolo su due astronauti italiani selezionati dalla Nasa: Umberto Guidoni e Maurizio Cheli.

«Che sogno?» domanda mia madre, sempre attenta al mio lato onirico.

«Non lo ricordo bene, sai com’è con i sogni, ora sei qui ora sei sulla Luna, ora sei un proiettile ora una guarnizione difettosa. Ma si volava, eccome si volava.» «Mah, questa cosa di medicina all’improvviso ci fa piacere, ovvio, ma è una cosa che devi avere dentro. O sei motivato o lasci alla prima autopsia.»

«Oh, ma io sono motivato! Ecco qua, vedi l’articolo? Qui dice che come riserva nel ruolo di Payload Specialist, che significa specialista del carico, degli esperimenti, è stato selezionato anche un medico italiano. Quindi posso diventare medico e astronauta. Così siamo tutti contenti, no?»

Non rispondono.

 

 

 

Nota dell’autore.

Nel mio racconto c’è più verità di quanta possa sembrare a prima vista.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimo Bencivenga