Tre ragazzini e un aereo

Negli ambienti aeronautici si dicono tante cose. Alcune sono cose serie, importanti, anche vitali. Altre sono spesso le solite chiacchiere, racconti dei propri voli, delle proprie o altrui prodezze, pettegolezzi, ma anche dei semplici luoghi comuni. E di questi ce ne sono moltissimi. Fanno parte della vita di tutti i giorni, dilagano per gli hangar, nei piazzali, negli uffici, fanno parte del brusio emesso da gruppetti di piloti riuniti qua e là per i campi di volo. Un luogo comune molto in voga suggerisce che la passione per il volo sia una sorta di “virus che si contrae negli aeroporti”. Molte persone che volano oggi (non solo piloti, ma anche specialisti, controllori, paracadutisti ecc), raccontano di quando erano piccoli e venivano accompagnati dal padre o da un altro membro della famiglia, ad osservare gli aerei nel vicino aeroporto. E lì restavano per ore, aggrappati alla rete di recinzione, a vedere decolli ed atterraggi, sognando di diventare, un giorno, un pilota. Altri ricordano di aver volato, da ragazzini, con qualcuno che aveva il brevetto e magari avevano potuto tenere i comandi per qualche minuto. Certo, per un ragazzino deve essere un’esperienza esaltante mettere le mani sul volantino di un aereo e vedere che questo obbedisce ai suoi comandi. Oppure muovere la manetta del gas e sentire il motore che cambia rumore. In verità non è detto che chi vola da piccolo o osserva le operazioni di volo di un aeroporto poi da grande diventi un pilota. Può succedere, ma non è una regola e neanche una garanzia. Diciamo che spesso è così, ma non sempre. Nel mio caso è stato un aereo tipo “cicogna”, monomotore ad ala alta, che è passato sopra la mia testa mentre giocavo sulla piazzetta davanti casa, a farmi scattare la molla. Quella visione mi ha segnato. Avevo forse quattro anni. Se chiedi a tanti piloti come sono arrivati alla passione per il volo ottieni tante risposte diverse, qualcuno ti dirà perfino che ci è arrivato per caso, senza neanche averlo desiderato. Ma tutti sembrano essere stati contagiati dal virus della passione per il volo, all’improvviso, in un momento della loro vita. Da piccoli, ma anche da grandi. Qualcuno si è “ammalato” in età ben avanzata. Nei miei decenni di attività aeronautica ho assistito parecchie volte, di persona, al contagio. Ecco qualche esempio emblematico.

Un mio amico aveva un bel Piper, un PA 24, potente e veloce, con quattro comodi posti. Abbiamo fatto dei bei voli insieme, tanti anni fa. Molte avventure che ogni tanto ricordiamo volentieri, quando ci incontriamo nei vari aeroporti, dalle nostre parti. Uno dei suoi figli veniva spesso con noi. Di solito non faceva una piega, restando tranquillamente seduto dietro, sprofondato sul sedile tanto grande per lui che aveva sei anni e a malapena riusciva a vedere fuori. Durante un volo, una volta, ma solo una, si sporse in avanti, toccò la spalla del padre e gli disse: “papà, ma quando atterriamo”? Si era annoiato, sotto di noi scorreva una campagna piatta, coperta di neve, bellissima per noi, ma per lui era forse un tantino monotona. Quel ragazzino è cresciuto, ha frequentato l’Accademia dell’Aeronautica, è diventato un ufficiale pilota, poi ha fatto l’istruttore e oggi pilota un Boeing in giro per il mondo. In quei voli deve essersi “contagiato” e non è ancora guarito.

Un altro caso riguarda il “contagio” di un signore che aveva da poco superato i sessant’anni, a dimostrazione che questo virus non risparmia proprio nessuno. Se deve colpire colpisce, senza riguardi per l’età anagrafica. Era un amico di mio padre, sapeva che volavo con gli aeroplanetti a elica e in aliante. Sapeva anche dove, così chiese a mio padre di organizzare un incontro perché voleva che lo invitassi a volare con me. Naturalmente lo accontentai, ben lieto di fargli fare questa splendida esperienza. Venne all’aviosuperficie, gli mostrai i nostri mezzi, gli spiegai tutto quello che doveva sapere sulle operazioni di volo alle quali avrebbe di lì a poco partecipato e poi andammo in volo in aliante. Ero un po’ preoccupato per lui, non volevo che si spaventasse, così durante la salita presi ad illustrargli ogni cosa, avvisandolo prima dello sgancio dall’aereo trainatore. Una volta in volo, dal momento che sembrava tranquillo, gli feci provare i comandi. Fece qualche virata, guardandosi intorno. Altro che spaventarsi, era letteralmente estasiato. Gli piaceva e dimostrava tutta la sua felicità di essere in aria con commenti di apprezzamento. Prima del rientro, mentre ci avvicinavamo al campo per entrare in circuito, mi disse che era stato un volo bellissimo, aggiungendo alla fine, varie volte, la parola “peccato!” come ad esprimere un triste rimpianto. “Peccato di cosa?” gli chiesi. Lui esitò a rispondere, poi disse, mestamente: “Peccato per i miei sessant’anni”. A terra parlammo e gli assicurai che anche a sessant’anni si può incominciare a volare, se davvero si è sostenuti da genuina passione. Passò del tempo, non so quanto. Ma un giorno mio padre mi disse che quel signore aveva sorvolato la nostra casa pilotando un deltaplano a motore e lo aveva salutato agitando il braccio nel vento. C’era un campo di volo ad una trentina di chilometri di distanza dove quel signore aveva fatto un corso di delta-motore. Poi si era comprato un mezzo suo e volava spesso anche sopra casa dei miei, mentre andava a fare un giro sopra il suo paese poco distante. Credo che avesse contratto il virus del volo durante la sua visita all’aviosuperficie, quel giorno.

Questi due episodi riguardano un bambino ed un adulto e sono rappresentativi del fatto che l’età non conta. I miei colleghi di lavoro, controllori del traffico aereo come me, sapevano della mia attività di istruttore. Uno venne a Guidonia con il figlio affinché lo facessi volare. Era un giorno di vento forte. A terra lasciai passare qualche ora e intanto spiegai diverse cose al ragazzo, sperando che il vento, nel frattempo, calasse. Non volevo correre il rischio che una volta in volo si spaventasse per la turbolenza dell’aria. Alla fine dissi che era meglio rinunciare e volare un altro giorno perché il vento era ancora troppo forte ma il ragazzo, e anche il padre, insistettero. Così andammo ugualmente. Fu un volo molto agitato. Il vento rinforzò e la turbolenza pure. Si saliva alla grande e feci un po’ di quota per allontanarmi dal suolo, nella speranza che il vento fosse più teso, meno influenzato dai rilievi sottostanti che provocavano l’agitazione dell’aria. Infatti fu così, ma quando scendemmo trovammo raffiche continue fino a pochi metri dalla pista. Pensavo di aver fatto un bel danno, già era stato un miracolo che il figlio del mio collega non si fosse sentito male. Lui sembrava godersela un mondo, ma si sa, all’inizio i passeggeri fanno così e poi ammutoliscono di colpo e … dopo un poco è fatta: stanno male. Al parcheggio il ragazzo era estasiato. Disse che gli era piaciuto un sacco. Peccato che non avessimo fatto anche un po’ di capriole. Oggi è pilota di linea e quando incontro il padre mi porta i suoi saluti e parliamo ancora di quel giorno. Giorno di “contagio”.

Anche un altro collega venne con suo figlio, a Rieti, per farlo volare con me, nella speranza che prendesse la passione per il volo. La prese. Negli anni successivi andò negli Stati Uniti a conseguire le licenze e oggi anche lui è pilota di linea. Alle riunioni dell’associazione Arma Aeronautica, dove ci incontriamo qualche volta all’anno, suo padre mi viene vicino, telefona al figlio e mi passa il telefono. Così lo saluto e spesso ricordiamo quel primo volo di Rieti.

Ma devo anche dire che alcuni sono, o sembrano, immuni dal “virus degli aeroporti”. Avevo portato un nipotino durante il traino di un aliante con un Robin sperando che un giorno diventasse un pilota. Gli piacque molto, ma oggi ha diciassette anni e tutto pensa tranne al volo. Lui vuole fare l’avvocato, come sua madre. E forse è anche una buona idea. Suo fratello più piccolo ha potuto volare con me su un aereo e provare i comandi. Entusiasta. Gli avevo scattato delle foto mentre teneva la cloche e la manetta del gas. Per il momento credo che abbia usato quelle immagini soltanto per impressionare i suoi amici e le sue compagne di scuola. Se il “virus degli aeroporti” lo ha contagiato, ancora non se ne vedono i segni. Ma ancora non è detta l’ultima parola. Potrebbe essere semplicemente un portatore sano, suscettibile di iscriversi a qualche aero-club tra breve, oppure di fare domanda per uno dei corpi militari che hanno un’aviazione, subito dopo aver conseguito il diploma.

Se la leggenda del “virus degli aeroporti” è vera, allora è probabile che il contagio debba necessariamente avvenire per caso. In altre parole, non può essere provocato. Infatti, mi viene alla mente che, tanti anni fa, avevo portato in volo una mia nipotina, nella speranza di averla come mia allieva alcuni anni più tardi. Ma non è andata così. Oggi mia nipote si occupa di cose che non hanno nulla a che fare con il mondo aeronautico. Lei preferisce occuparsi di arte, ma quella classica, non certo l’arte del volo.

Avrei tanti altri aneddoti da raccontare, e mentre scrivo di uno me ne vengono alla mente di nuovi. Potrei riempire pagine e pagine. Ma ne aggiungerò solo un altro, perché anche questo è emblematico e da quando è successo non me lo sono più dimenticato. Ancora oggi ci penso, ogni tanto. Un giorno all’aviosuperficie venne un signore con tre ragazzini. Due erano suoi nipoti e uno era un loro amichetto, tutti di età compresa tra i sette e i dieci anni. Il nonno si avvicinò e chiese informazioni, ma i tre ragazzini avevano già le idee ben chiare: volevano volare. Qualcuno mi chiamò per fare quel volo. Il nonno sarebbe rimasto a terra e avrei portato in aereo solo i tre piccoli. Uno dei nipotini salì davanti. Il fratellino e l’amichetto salirono dietro. Spiegai loro tutto, perché sapessero cosa stava succedendo e stessero più a loro agio. A quello davanti feci tenere la manina sulla cloche perché, come gli dissi, al momento opportuno l’avremmo tirata un po’ indietro per far staccare le ruote da terra. In volo, addirittura, feci fare qualche virata a lui, mettendo le mie mani ben lontane dalla cloche per fargli vedere che era proprio lui a far muovere l’aereo. E perché lo vedessero anche i due che stavano dietro. Dieci minuti, poi tornammo a terra. I ragazzi scesero felici e andarono dal nonno. Ma il fratellino che era stato dietro e aveva visto quello davanti pilotare l’aereo piantò subito una grana al nonno perché anche lui voleva stare davanti e provare i comandi. Il nonno fece resistenza. Forse non voleva pagare un altro volo, in fondo avevano già volato. Ma il nipotino cominciò a piangere disperato. Il nonno provò a portare via i ragazzi, ma non ce la fece. Dovette tornare indietro, pagò un altro volo e si ripeté la storia di prima. Stavolta con l’altro fratellino “ai comandi”. Tornammo a terra e scendemmo dall’aereo. I fratellini erano soddisfatti e si scambiavano animati commenti su come si era mosso l’aereo pilotato da loro. Il nonno ringraziò e si avviò verso la macchina. A questo punto, l’amichetto che aveva volato due volte, ma era stato sempre dietro, cominciò a protestare. Anche lui voleva stare davanti. Il nonno, che non era suo nonno, stavolta non cedette. Il ragazzino pianse e puntò i piedi. Voleva volare anche lui davanti a tutti i costi. Non voleva andare via. Ma dovette andare. Ho ancora l’immagine di lui che piange disperato mentre entra nell’automobile. Andarono via, ma il suo pianto si sentiva ancora attraverso i finestrini aperti mentre si allontanavano. Non so chi fosse quel nonno e non conoscevo i ragazzini. Nei giorni successivi non tornarono più all’aviosuperficie. Chissà cosa hanno fatto da allora in tutti questi anni. Ma ricordo che quel giorno, mentre se ne andavano, provavo pena per il piccolo che aveva volato sempre dietro. Lui non era stato protagonista. Aveva osservato gli altri due volare da protagonisti e forse, nei giorni successivi, a scuola, avrà dovuto sentirli raccontare le loro avventure senza poter fare altrettanto. Anzi, nella crudeltà tipica di quell’età, chissà che non lo abbiano addirittura preso in giro davanti ai compagni, rimarcando impietosi che lui non aveva mai toccato i comandi. Chissà. Certamente quel giorno si era consumata una brutale ingiustizia. Mentre sentivo senza poterci fare niente quel pianto accorato pensai: “Quello da grande farà il pilota”. Se qualcuno quel giorno doveva contrarre la malattia del volo, era lui. Non saprò mai se è andata così, ma forse oggi, in qualche aereo che sento passare nel cielo, ci potrebbe essere un adulto che tanti anni fa, da piccolo, rimase contagiato dal virus del volo, non per aver volato, ma per non aver potuto sedere nel posto anteriore di un aereo.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”


Evandro Detti

 

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