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T – meno

Certi racconti sorprendono, altri deludono, altri ancora suscitano perplessità. Poi ci sono quelli che ci lasciano indifferenti come pure quelli che emozionano. E non mancano, ovviamente, i racconti che entusiasmano al punto da chiederti a voce alta: “Perchè non l’ho scritto io?”

Ebbene la composizione con la quale Massimo Bencivenga ha partecipato alla VI edizione del premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE non appartiene a nessuna di queste casistiche; è uno di quei racconti che sfugge ad ogni logica e a ogni schema convenzionale.

Diciamola tutta: è un testo davvero singolare in termini di formula narrativa e, in parte, anche nei contenuti. Perchè? Semplicemente perchè non capita spesso di poter leggere ben nove racconti nello spazio di uno; nel racconto intitolato: “T-meno” – questo il titolo già di per sè assai originale – è possibile, credeteci.

Titina è sicuramente la cagnolina più famosa nella storia dell’aviazione italiana. Era una splendida femmina di fox terrier che non si separava mai dal generale Umberto Nobile; lo accompagnava in ogni dove: al lavoro, a bordo delle aeronavi da lui progettate, in occasioni mondane o in visita presso le personalità dell’epoca. E’  qui ritratta in braccio al suo padrone in uno di quegli scatti che l’hanno consegnala alla celebrità, antesignana di quella famosa collega sovietica che portava il nome di Laika. Ma questa è tutta un’altra storia.

In circa 25 mila caratteri avrete modo di intravvedere, ad esempio, Wernher von Braun, creatore dei micidiali ordigni che flagellarono Londra durante il corso della II Guerra Mondiale. Sì, ma dal punto di vista del proiettile in canna all’arma da fuoco puntata contro il fratello di Wernher von Braun, certo Magnus, che sta giusto trattando la resa del famoso ingegnere missilistico tedesco. Per inciso, padre delle future missioni spaziali statunitensi.

C’è poi il resoconto drammatico di un giornalista della Pravda che ci confida i piccoli-grandi segreti di Korolev, il Capoprogetto del programma spaziale sovietico, e di Yuri Gagarin, il primo uomo ad aver raggiunto lo spazio e ad essere rientrato vivo sulla Terra.

La leggenda vuole – ma in realtà si tratta di storia documentata – che Nobile, divento famoso a seguito del grande successo della missione polare a bordo del suo dirigibile NORGE, quel giorno fosse alla casa Bianca, ospite del presidente degli Stati Uniti d’America. Titina, per nulla intimorita dall’austerità del luogo o dell’onore concesso al suo padrone beh, si … insomma, la mollò sul tappeto dello studio del presidente con fare assolutamente disinvolto. Non possiamo neanche immaginare quanto fosse contrito l’esploratore italiano, quanto grande fosse l’imbarazzo dello staff del presidente e del corpo diplomatico italiano presente. Invece il presidente Coolidge, proverbialmente uomo taciturno e severo, scoppiò in una irresistibile risata cui fecero eco tutti gli altri convenuti. Il giorno dopo l’episodio era su tutti i giornali d’America e Titina divenne ancor più popolare del suo padrone. La foto ritrae Titina o meglio il corpo di Titina che, dopo la sua morte, fu imbalsamato. Oggi si trova all’interno del Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana di Vigna di Valle (Roma) sul lago di Bracciano. E’ nella teca dove si conservano i cimeli della sfortunata missione polare del dirigibile ITALIA (fonte fotografia: Charter, presente in www.ilvolo.it)

Che dire poi del punto di vista a dir poco singolare di Titina, la cagnetta che accompagnò anche al Polo Nord l’ingegnere-generale-esploratore Umberto Nobile?

Certo, dal punto narrativo, è a dir poco audace far esprimere delle opinioni ad un o-ring (una guarnizione di gomma ad anello) circa il suo tragico legame con il disastro che occorse all’intero equipaggio dello Space Shuttle Challenger nel 1986.

Il sovietico Yuri Gagarin è ricordato come il primo cosmonauta ad aver “volato” nello spazio (e ad essere tornato vivo a terra). La sua missione ebbe successo grazie al lavoro, celato rigorosamente nel più profondo segreto, del Capo progetto spaziale Sergej Pavlovič Korolëv. La foto ritrae appunto Gagarin poco prima del decollo ed è diventata la copertina del libro di cui abbiamo fornito la recensione nella pagine del nostro sito GAGARIN

Vi ricordate poi – tanto per continuare – del famoso codice di errore che apparve nel computer di bordo durante le fasi allunaggio del LEM? Quello con a bordo Buzz Aldrin e Neil Armstrong, per intenderci? Beh, se non ci fosse stato un anonimo ingegnere informatico a confermare che si trattava di un codice di errore insignificante, forse la missione Apollo 11 non sarebbe mai assurta alla gloria dell’astronautica umana. Ebbene, troverete qui il racconto di quegli istanti di trepidazione e la voce ferma di quell’anonimo ingegnere che dichiara: “Go!”, potete allunare.

E questo solo per anticiparvene alcune.

L’unico dato certo che si evince da questo racconto a più voci e molteplici personaggi è la disinvolta capacità dell’autore nel compiere una vera e proprio scorribanda tra le pieghe della storia dell’aviazione e dell’astronautica. E non solo. Le vicende che porta alla nostra attenzione sono spesso delle vere chicche, dei sassolini assai minuti rispetto a episodi ben più noti e celebrati. Perciò fate bene attenzione: a guardarli bene quei sassolini brillano di luce propria, sono di un dorato accecante … caspita! Sono pepite vere!

Appurata la sua agevole gestione della sintassi, l’impeccabile utilizzo della punteggiatura e, indifferentemente, del discorso diretto e indiretto, Massimo Bencivenga dimostra di conoscere davvero la storia e di conoscerla a tal punto da potersi permettere dei punti di vista, delle voci narranti che dire originali è riduttivo.

28 gennaio 1986. In diretta televisiva, dalla piattaforma di lancio 39B dello Kennedy Space Center di Cape Canaveral in Florida, decolla il Challenger. A bordo ci sono sette membri dell’equipaggio per svolgere la cinquantunesima missione nello spazio di una navetta Space Shuttle . 

Pochi istanti dopo, l’esplosione del razzo a propulsione solida di destra mette fine alle loro vite. L’inchiesta appurò il cedimento di una guarnizione tipo o-ring di alcuni centesimi di dollaro di costo. (fotografia NASA)

Forse è proprio questa la forza e il fascino di questo racconto. E forse anche un limite perchè, per dovere di cronaca, la giuria del Premio non lo ha ritenuto meritevole di entrare a far parte della rosa dei fantastici 22 racconti finalisti. Peccato per lui, bene per noi lettori, ammiratori del buon Bencivenga e degli storici dell’aviazione che si ritroveranno ai quattri angoli del pianeta, in epoche diverse, nello spazio temporale della lettura di un racconto.

Questo è un racconto speciale, troppo particolare che lo stesso autore ha così definito:

“T-Meno è un breve, incompleto e onirico viaggio attraverso alcuni momenti importanti dell’aeronautica e dell’astronautica, discipline che rappresentano sicuramente alcune delle più riuscite imprese collettive mai poste in essere dall’Umanità, quella con la U maiuscola, scevra da confini e bandiere.”

Margaret Hamilton, direttrice dell’Apollo Flight Computer Programming presso il Draper Laboratory del MIT, a distanza di qualche anno dell’allunaggio dell’Apollo 11, dichiarò che, probabilmente, se il codice di errore 1201 e 1202 non fosse stato ignorato dal software del computer di guida del LEM, probabilmente la missione non avrebbe avuto il successo che ebbe e dunque non sarebbe mai stata collocata in una delle pagine più memorabili della storia dell’astronautica. In effetti il merito di valutare in pochi istanti la bontà del messaggio di errore del computer di bordo fu degli specialisti all’interno del Mission Control Center di Houston in Texas e, in particolare, dell’ingegnere Jack Garman che diede l’autorizzazione a procedere con la discesa a Steve Bales, il cosiddetto “Guidance Officer”, il quale, a sua volta, confermò il continuare l’avvicinamento alla superficie lunare all’equipaggio del LEM. Fatto salvo l’episodio dei due codici, la cronaca di quegli istanti che precedettero il primo contatto con la Luna, ancora oggi mette i brividii: il LM arrivò “lungo” rispetto al luogo stabilito e il buon Armstrong dovette prendere il controllo del Modulo Lunare. Giunse a terra con solo 25 secondi di propellente utile per l’atterraggio. Questa è la targa che rimase sulla Luna, attaccata alla scaletta del LEM malgrado il codice 1201 e 1202.

 Noi una spiegazione ce la siamo data: siamo di fronte ad un creativo di alto livello, uno sperimentatore, un esploratore della narrativa aeronautica che usa i tasselli della storia per plasmare la sua creatura dalle tante facce, dalle tante storie di vita. E magari questo disorienta il lettore, specie quello che ammette solo consolidate formule classiche di narrazione.

Ovvio che per un tipo come Massimo Bencivenga un semplice solo racconto possa stargli gli stretto e ne voglia infilare nove in uno … che sia pronto per un romanzo? Beh, noi glielo auguriamo di tutto cuore. Nel frattempo però, facciamo in modo  che giunga in redazione la doverosa copia in visione, eh Massimo!?  Ma giusto per farne la recensione, che avete capito!


Narrativa / Medio-lungo

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§



Attenzione: Non esiste il Tag T - meno

 

 

T – meno

 

 

T uguale a 1995 meno 50 anni – Berlino

Io sono il proiettile. Sono stato concepito per straziare e portare dolore, morte e lutti. A voler essere elegiaci e aulici potrei dire che sono il cavaliere verde dell’Apocalisse, cavalcato dalla Morte e seguito dall’Inferno. Ma non è così: sono il frutto dell’ingegno umano.

Vedo davanti a me un uomo con le mani alzate, riesco a percepire l’odore della sua paura, sento anche la mano del soldato serrarsi di più sul grilletto. Ormai ho imparato a riconoscere la febbrile eccitazione che la caccia all’uomo sa instillare in animi stanchi e abbrutiti da questa Guerra, che più sembra agli sgoccioli e più sembra voler stupire con nuove atrocità, quasi che potesse, al pari d’un organismo, rinnovare il suo vigore usando come carburante l’alito dell’odio fine a se stesso.

«Chi comanda qui? Sono Magnus, il fratello di Wernher von Braun.»  Sento dire in un inglese molto, molto stentato.

«E chi sarebbe questo vonnebroun?» chiede l’uomo mentre la pressione sul grilletto aumenta. Mi sento pronto a esplodere, a partire per squarciare, dilaniare e penetrare carne e ossa. Sono pronto a uccidere.

«Mio fratello è l’uomo che insieme al grande Werner Heisenberg poteva far vincere questa guerra alla Germania. Mio fratello vuole consegnarsi a voi.»

«Cosa? Troppo comodo adesso.» Mi sembra quasi di sentire i pensieri assassini dell’uomo che potrebbe dare il là alla mia corsa a oltre mille metri al secondo.

«Alt!» La voce ha il tono e la punteggiatura del comando. Sento l’uomo girarsi un po’, ma tenendo la volata del fucile ancora sul petto dell’uomo. Da qui posso quasi sentire i battiti del suo cuore; un cuore nel quale spero di immergermi. Non sento più nulla, c’è un fitto conciliabolo in un’esperanto tra tedesco e inglese. Non riesco a percepire quasi più nulla, il soldato ha puntato il fucile verso terra.

«Perché noi?» chiede il nuovo arrivato al fratello di vonnebroun.

«Mio fratello non si fida dei francesi, ritiene i russi dei barbari e non può certo chiedere requie agli inglesi dopo che ha quasi contribuito a radere al suolo Londra. Rimanete voi.»

«Suo fratello è un figlio di puttana che mi piacerebbe infilare in un cannone, ma quel signore lì» e indica un uomo mingherlino, in nero, con l’allure del corvo che sembra essere, uno di quelli pronti a banchettare senza esporsi « è qui proprio per aiutarmi a prendere in custodia Wernher von Braun.»

« Ecco, è tutto suo, signor Smith» sibilò l’uomo calcando le parole sul quasi certo fasullo cognome. «Mi creda, non capisco questa scelta, ma obbedisco», concluse l’ufficiale.

«Obbedisco lo disse una volta anche un grande e fortunato generale italiano, capitano Ryan. Magari le porterà fortuna», ribattè l’uomo in nero sbuffando il fumo della sua sigaretta e guardando attentamente von Braun che saliva su una camionetta.  

«Ma è vero quello che si dice? Che è in grado di costruire dei missili in grado di arrivare anche sulla Luna?»

«Necessità di sapere, capitano. Dovrebbe conoscere questa regola. Forse sarebbe meglio per lei dimenticare quello che è accaduto oggi, ma non credo di dirle granché di segreto se le rivelo che la missilistica sarà la nuova frontiera e la nuova arena di guerra, quando questa terminerà, credo tra pochi mesi. Lui è uno dei profeti della missilistica e l’America non può permettersi di perdere terreno.»

«Ma è vero che è responsabile di tanto dolore a Londra?»

«Già, ma anche questo, temo, non possiamo né potremo dirlo: in guerra, la prima vittima è la Verità!» 


 

T uguale a 1995 meno 34 anni – aeroporto di Khodynka e altre parti in CCCP

«In verità io apprezzo il coraggio degli americani.» Quando l’uomo con i lineamenti scavati nella roccia come una maschera totemica parlava, i militari e i burocrati sovietici non facevano altro che tacere, così, semplicemente, come davanti a una teofania. Era l’uomo dello Sputnik e quello che aveva mandato in orbita Laika.

«Apprezzo il loro coraggio, lo dico sul serio. Devono essere più che coraggiosi per anche solo pensare di salire sulle navicelle progettate da von Braun .» Pausa. Risate nervose dei giovani militari e ridanciane, forse per via della Vodka, degli apparatcik di Partito.

«Anni fa provai a dirlo, ma in pochi mi diedero retta. Un conto è far decollare un missile e farlo cadere, ben altro è mandare in orbita un satellite e tenerlo lassù, con qualcuno a bordo. Quando lanciammo lo Sputnik, il loro responsabile venne svegliato per avere un parere, a loro non sembrava possibile che noi li avessimo preceduti. Affrettarono il tutto e il risultato su un fallimento in diretta: un flopnik , come scrisse un giornalista. L’avesse detto del nostro programma, quel simpatico scribacchino si sarebbe ritrovato in Siberia a spaccare pietre congelate. So di cosa parlo: io adesso per voi sono il Capoprogetto, ma ci sono stato in un Gulag. Sapete come mi chiamano a Washington? Korolev, il dottor Missile o il dottor Stranamore.»

Nuova pausa.

«Siamo qui perché tra di voi c’è l’uomo che andrà nello spazio. Parola di Korolev, il Capoprogetto.»

  Quell’uomo sa indubbiamente affascinare e infiammare gli animi. C’è riuscito anche con me, con Arkady Pelevin, reporter di stato per la tecnologia dell’organo di propaganda Pravda. La verità.

In verità, l’uomo che sapeva infiammare qualche volta sbagliava anche: il tenente Valentin Bondarenko bruciò vivo dentro una camera pressurizzata. Era mio amico Valentin, avrei voluto scrivere di quella morte, degli sbagli che la Scienza esige, ma il Partito me lo impedì.

«Ho capito l’errore: l’ossigeno puro non va bene. Una miscela di ossigeno e azoto è più pericolosa nella fase di rientro, ma non dovrebbe incendiarsi» profetizzò Korolev, che brigò per far assurgere il povero Valentin al rango di Eroe dell’Unione Sovietica e me quale principale pennivendolo per magnificare la sua impresa. In più, fotografai il Capoprogetto mentre tendeva la tuta spaziale a un altro tenente: a Jurij Gagarin.

Ero nella sala controllo con quell’uomo portentoso quando fermò tutto e ordinò una nuova verifica della chiusura stagna: non avrebbe rischiato un’altra vita; anche perché non sarebbe sopravvissuto a un flop adesso che il mondo era al corrente del tentativo. Le cose vanno così, in CCCP.

Io, Arkady Pelevin ho visto e sentito cose…

Ho visto il Capoprogetto sudare per la prima volta; ho sentito Gagarin parlare di quel blu così particolare ed emozionarsi mentre sorvolava l’America, sia pure quella del Sud.

Ho sentito i gemiti da cagna come Laika di mia moglie Olga mentre, infiammata di piacere, veniva inchiodata sul nostro talamo da Sergei,il fratello di Valentin.

Loro non mi hanno visto e io non ho fatto scenate.

Oggi è un giorno di festa: Il paradiso dei lavoratori ha portato in orbita e fatto rientrare sano e salvo un uomo.

Dall’altra parte del mondo i giornalisti possono permettersi anche di riportare le parole arrabbiate e assonnate di Shorty Powers, resposabile della comunicazione della Nasa che, raggiunto alle 4 del mattino, non ha trovato di meglio che dire al reporter Quaggiù stiamo dormendo. Nulla è accaduto al giornalista e neppure a Powers.

Da noi invece succede che io debba tacere una morte e scoprire, in un giorno di festa, mia moglie a letto con un altro. Stanno festeggiando, loro, mentre io sono sbronzo e innamorato.

Troppo innamorato.

Salgo sul tetto del dormitorio e mi lascio dondolare.

Ho sentito il Capoprogetto cianciare del fatto che Jurij ha resistito nel rientro a 8 G.

Un passo e sono nel vuoto: adesso tocca a me sperimentare i G.


 

T uguale a 1995 meno 12 anni – Caiazzo (CE)

Pianeta terra chiama squadra G,

segnale di pericolo, allarme! allarme!

La battaglia dei pianeti,

spacca e spazza tutti i cieli,

cinque intrepidi ragazzi,

vanno forte più dei razzi,

han le ali come uccelli,

sono liberi e ribelli,

la famosa squadra G,

cinque eroi uniti qui.

Ken, l’aquila,

Joe, il condor,

Pritijen, il cigno,

Jimpei, la rondine,

Ryu, il gufo.

Parole della sigla del cartone animato Gatchaman – La battaglia dei pianeti.

 

Sono in prima elementare, in una multiclasse con un insegnante molto severo ed esigente. E molto manesco.

Mia mamma non voleva che capitassi con un simile individuo, ma non c’era molta scelta nel piccolo paesino di campagna. Di buono c’era che il pulmino ci portava a scuola una buona mezz’oretta prima dell’inizio delle lezioni. Il tutto per far arrivare in orario, per il secondo giro, quelli che andavano alla scuola del centro.

Dietro la costruzione della scuola di campagna c’era un il tronco di un albero abbattuto e stranamente lasciato là.

Le mie compagne (ah, dimenticavo, ero l’unico maschio dei cinque alunni in prima) avevano paura di quell’albero. A una di loro ricordava, con quei rami tagliati disordinatamente una creatura mostruosa.

Per me invece rappresentava il luogo nel quale diventavo Joe, il Condor.  Solitamente, nei cartoni giapponesi, quando si parla di una cinquina (e ce ne sono di esempi), il secondo uomo è quello forte e coraggioso, ma non abbastanza per essere il leader; è spesso l’ombroso e il tormentato del gruppo.

Io non lo ero: ero il secondo perché, più semplicemente, riuscii ad avere ragione di tutti quelli più grandi tranne che di Pietro, che assunse il comando nel segno dell’Aquila. C’è qualcosa di dantesco in tutto ciò, non trovate?

Prima di entrare in classe ci piccavamo d’ammazzare la nostra bella quota di alieni, i quali, dal canto loro, sembravano trovare irresistibile il terzo pianeta del sistema solare. Contando a partire dal sole, of course.

A un certo punto, io arrivai a proporre un nuovo cartone da imitare, una cosa che adesso in molti chiamano fare Cosplayer, anche se noi non avevamo i costuni.

Il nuovo personaggio spaccava, come la sigla. Come tutte le sigle dei cartoni di quegli anni, a volerla dire tutta.

C’era un giro di basso assurdo, e forse la voglia di fare l’astronauta m’è venuta guardando Capitan Futuro: bello, forte, intelligente, la prova provata che la scienza può essere cool. E il tutto anni prima del successo di The Martian.

Capitan Futuro aveva un problema, pur contando una donna c’era il problema che nessuno dei miei cinque amici voleva essere il cervello volante del dottor Wright.

E dire che il cognome Wright ha una certa importanza nella storia del volo. Più che un combattente, Capitan Futuro era uno scienziato e un’esploratore.

 


T uguale a 1995 meno 69 anni – Italia, Polo Nord, Casa Bianca

«Il mio padrone è un esploratore, ma non uno qualsiasi.»

Ora non sono più Joe il Condor, ma una cagnetta. Adesso vesto bene, ma ricordo ancora quando ero randagia e brutta; e quando, magra, affamata e tutta infreddolita avvertii nitidamente l’usta della bontà in quell’uomo che tutti sembravano temere.

Che sciocchi, gli uomini! Se si lasciassero guidare dall’olfatto capirebbero tante cose in più, comprenderebbero tutto, prima e meglio.

Quell’uomo era buono, ma buono davvero. E infatti si commosse e mi prese con sé.

Come in ogni storia d’amore all’inizio ci furono ed eccome delle incomprensioni. Succede con uomini di genio: i geni sono strambi. Io di padroni geniali ho avuto solo questo, ma la genialità anticonformista ed eclettica degli uomini rappresenta il genere di chiacchiere che ci si racconta intorno ad un osso nelle lunghe e fredde sere invernali.

Ricordo ancora la tremarella che mi prese la prima volta che salì sull’uccello volante di ferro. Poi mi sono abituata a quella cosa di essere la prima a salire sulle aeronavi partorite dalle sue meningi. Il genio a volte sa essere anche incredibilmente superstizioso. Strambo, come detto.

Potessi parlare urlerei al mondo: «Io sono Titina, la cagnetta del grande Umberto Nobile ed ero con lui anche al Polo Nord, dove faceva freddo per davvero e io per scaldarmi scorrazzavo avanti e indietro. Ricordo che in quelle notti mi diceva di tener duro, e mi raccontava delle grandi imprese italiane. Del raid di Aisovizza e del Caproni usato per la prima volta in Libia nella guerra Italo-Turca. Questo ed altro direi di quel grand’uomo, se sapessi parlare.»

Oggi mi ha preso da parte e mi ha parlato dell’incontro con un grande Uomo, il più potente del Mondo: il presidente Calvin Coolidge.

Me ne fotto, avrei voluto rispondergli, ma l’ho fatto a nome mio. Quando mi sono stancata dell’odore dolciastro e prepotente di quell’uomo non ho trovato di meglio che pisciare sul carpet della Casa Bianca.

Così impara a non dare il giusto credito al mio padrone.

Quell’idiota di Coolidge s’è messo anche a ridere pensando che la buffa fossi io.

Gli uomini non impareranno mai perché non usano l’olfatto. Imparano poco anche dagli incidenti. E ne avrei da raccontare di incidenti…

 


T uguale a 1995 meno 21 anni – USA e Gilda degli sceneggiatori di Hollywood 

«Oscar c’è stato un incidente. Il pilota è ancora vivo, ma devi decidere in fretta se procedere o meno con il Progetto.»

Io, Oscar Goldman, dirigente dell’Osi (Office of Strategic intelligence) copro con la mano la cornetta del telefono e penso a cosa fare. Mi decido.

“Steve Austin, astronaut. A man barely alive.”

Richard Anderson, in character as Oscar Goldman, then intones off-camera,

“Gentlemen, we can rebuild him. We have the technology. We have the capability to make the world’s first bionic man. Steve Austin will be that man. Better than he was before. Better…stronger…faster.”

Alla fine l’abbiamo fatto: abbiamo il primo uomo bionico, un progetto da sei milioni di dollari al servizio dell’Umanità contro le barbarie, ovunque esse siano, che minacciano la libertà e i diritti fondamentali.

«Oscar, devo sapere se posso usare Steve per attaccare una centrale nucleare in Asia e smantellarla. Devo sapere se è pronto », mi chiede il Presidente degli Stati Uniti.

I presidenti non si rendono conto dell’effetto che fanno sulle persone comuni, fossero anche burocrati d’alto rango, mandarini di Stato come me.

Come si fa a dire no a un POTUS? Come si fa dire che un progetto così costoso potrebbe avere un qualche intoppo? E l’intoppo non è nella tecnologia, ma nella psiche.

In questi mesi ho visto Steve Austin correre e prendere confidenza con le gambe, il braccio e l’occhio. Certo, c’è quel sound quando le parti bioniche entrano in azione a regime, ma non è certo una cattiva musica.

Tecnicamente è a posto, ma psicologicamente è ancora provato, non al meglio.

«Steve Austin è a posto», dico quel che vuole sentire. E devo averlo detto anche con una certa sicumera.

Steve portò a termine tante missioni, contro dittatori e semplice delinquentelli, contro bigfoot e contro veri e propri robot; con il tempo gli affiancammo anche una sua vecchia fiamma, Jamie, bionica anche lei.

Tornava dalle missioni sempre convinto di aver fatto la cosa giusta, per la Bandiera e la Patria, certo; ma più ancora perché era la cosa giusta da fare.

«Oscar», mi disse una volta, «Non sai come mi arrabbio ogni volta che un politico dice Dio è con noi.»

Scosse la testa e aggiunse: «I nostri Padri Fondatori non hanno mai detto una cosa del genere, bensì Dobbiamo stare dalla parte di Dio. La cosa è diversa».

Detto ciò, tempo un tre mesi e tornò più taciturno da una missione in Brasile. Di solito si torna da quelle parti euforici e con una sorta di sandade, di mal di Brasile. Lui tornò scuro, scontroso e malmostoso.

«Steve, cosa c’è?»

«Non credo di aver fatto la cosa giusta, laggiù. Oscar, l’America foraggia le multinazionali e sfrutta quella povera gente per aver una corsia preferenziale nella grande torta della commercio della gomma», rispose accigliato.

Prima di adirarsi e sputare: «L’uomo che mi avete mandato a neutralizzare offriva una speranza a quella povera gente; certo, andava contro gli interessi dell’America, ma a favore degli ultimi. Io… io credo che mi prenderò una pausa. Devo riflettere.»

«Steve, meglio noi die rossi. Credimi.»

«Perché non meglio loro? Perché non li lasciamo liberi di… sbagliare; ma liberi da ogni giogo?»

«Perché questo è il Grande Gioco. Perché il potere non ammette vuoti e perché… Perché per quanto possa sembrare incredibile, una delle cifre tecnologiche di questo tempo è la gomma.»

 


T uguale a 1995 meno 9 anni – Washington

Sono fatta di gomma.

Sono una guarnizione 0-Ring. Una come tante, e questa mattina me ne stavo bella bella nel contenitore della ferramenta quando la mia vita è cambiata.

Un uomo è arrivato, ha frugato e mi ha presa tra le mani. È come se avesse estratto il numero giusto da una lotteria. Da quel momento la mia vita è cambiata: sono andata in tv e sono diventata una star.

Io conoscevo quell’uomo: era istrionico, buffo anche, ma una rivista molto attendibile una volta lo indicò come L’uomo più intelligente del mondo. Nonostante amasse e suonasse i bongo e in passato fosse stato, tra le altro cose, anche uno scassinatore provetto.

Però tra le altre cose dell’uomo si possono annoverare anche un Nobel Prize e una teoria molto affascinante.

Roba da togliere il fiato, a patto di capirla. E non sono in molti a sfiorare l’abissale bellezza della QED, l’Elettrodinamica quantistica.

Già, perché l’uomo che questa mattina ha cambiato la vita di una semplice guarnizione relagando nell’olimpo delle star altri non è che Dick Feynman. Ed è malato. Molto.

Qualcuno potrebbe obiettare che è per questo che fa di testa sua e non ha paura di nessuno, ma sarebbe riduttivo. Feynman faceva di testa sua anche a Los Alamos, dove era uno dei più giovani e dove c’erano von Neumann e Fermi, Oppenheimer e quel militare scorbutico di Groves. Non era ancora un Nobel, ma era già Feynman nei modi e nei comportamenti.

Mentre parla alla commissione presidenziale messa su da Reagan per indagare sulle cause del disastro dello Space Shuttle Challenger, a un certo punto, come un consumato illusionista (l’ho già detto che si dilettava anche come mago e prestigiatore?), mi tira fuori dalla tasca a mo’ di coniglio dal cilindro e attacca: «Dick Scobee, Michael J. Smith, Judith Resnik, Ellison Onizuka, Ronald McNair, Greg Jarvis e Christa McAuliffe sono morti per colpa di una guarnizione come questa». Ecco, adesso sì che sono immortale.

Mi stanno fotografando e riprendendo. Sono in mondovisione.

«Ma la colpa non della guarnizione O-Ring in sé, ma di chi non ha saputo prevedere che la stessa non avrebbe funzionato bene a basse temperature. Vite umane e milioni di soldi dei contribuenti bruciati perché qualcuno non ha tenuto conto di una elementare legge fisica. Credo che la Nasa d’ora in poi dovrà prestare più attenzione alle selezione die suoi tecnici, che dovrà essere più rigorosa e meno politica. Meno politica e più competenza.»

 


T uguale a 1995 meno 26 anni – Houston e Base della Tranquillità

È perché sono competente, molto, che sono qui. Ho studiato sodo per questo, mi sono sporcato le mani partecipando sin da bambino a concorsi per aerei e razzi amatoriali, ho sognato questo momento, ma adesso, hic et nunc, vorrei essere altrove e non alle dipendenze di Eugene F. Kranz, vale a dire Gene, Volo (ossia il responsabile del volo) dell’Apollo 11.

Stava andando tutto bene, più o meno bene, visto che gli intoppi in programmi del genere non mancano mai, ma quando dall’Apollo 11 in discesa senti chiedere: “Houston, abbiamo un errore di sistema. È il 1202″ e subito dopo Gene ti guarda e tacitamente ti chiede un ok o uno stop allora capisci che in quel momento vorresti stare a vendere granite.

Guardo nel librone, del sudore mi va a imperlare la fronte. Sento gli occhi su di me in un silenzio che sa di piombo. Forse di morte.

“Ci date un riscontro sull’errore 1202?” chiedono da lassù. Venti secondi dopo.

«Allora?» mi chiede Gene. Adesso anche lui è sudato.

Trovo l’errore ed esulto.

«Go Gene, Go. Luce verde» dico, e sembro quasi convincente.

A 900 m un altro alert dall’Apollo ci fece salire la pressione.

“Houston, abbiamo un errore 1201 adesso, cosa facciamo?”

1201… 1201… 1201…

«Stesso tipo di errore, Gene. Luce verde per noi. Go.»

40 secondi dopo un nuovo messaggio.

“Houston, qui Base della Tranquillità. L’Eagle è atterrato.”

Qualcuno mi abbraccia, ma non ricordo chi. Vedo tazze e fogli volare in aria. Ce l’abbiamo fatta.

L’America ha portato un uomo sulla Luna.

E io, altro che gelati, non vorrei mai essere stato altrove.

«Ma poi cos’erano quegli errori?» mi chiede uno degli ingegneri strutturali.

«Credo che Buzz Aldrin possa aver tenuto accesi contemporaneamente il computer dedicato all’atterraggio e quello per il rendez-vous; ergo, la memoria dell’AGC probabilmente è andata in crash e ha segnalato l’errore.»

«Sai una cosa amico, posso spiegarti l’aerodinamica, ma non ho capito un cavolo di quello che hai detto. Però… cazzo! Ti rendi conto di quello che abbiamo fatto? Per dei secondi siamo stati appesi a te. Grande amico, come ti chiami?»

Stavo per dirgli il mio nome, ma lui è volato via ad abbracciare un altro tecnico.

Già, nessuno saprà mai il mio ruolo nell’allunnaggio. È il destino di tanti. Io ho fatto allunare l’Apollo 11, ma alla conferenza stampa andrà Gene Kranz.

Mi siedo, adesso sono come svuotato.

Non c’è più la pressione di qualche minuto fa.

 


T uguale a 1995 meno 243 anni – Basilea

Questa cosa della pressione del sangue è interessante.

Forse riesco a ricavarne una qualche legge, qualcosa che faccia schiattare di rabbia nella tomba quel borioso di Johann Bernoulli, il grande matematico che si schierò con Leibnitz nelle querelle con Newton (uno dei pochi, questo gli va riconosciuto), ma che nondimeno fu invidioso, molto invidioso quando arrivò l’aquila della matematica, il portentoso matematico Leonard Euler ad oscurarlo.

Ma chi non viene oscurato da Eulero? Il quale, bontà sua!, mi pregia della sua amicizia e stima.

E dire che non sono un matematico, non in senso stretto.

E Johann Bernoulli non era solo invidioso di Euler: una volta mi scacciò dalla sua casa perché a un concorso matematico eravamo arrivati in finale insieme. Anziché essere contento del risultato, visto che i rudimenti me li aveva dati lui stesso, non trovò di meglio che offendere me e la commissione che aveva osato paragonarmi a lui. A nulla servì la mediazione di mia madre, già, perchè io…

Sono Daniel Bernouilli, medico e matematico dilettante, figlio di Johann e nipote di Jacob Bernouilli.

Mio padre mi voleva economista, mercante, poi ha deciso per medico. Tutto, fuorché la matematica. Doveva essere lui il gallo dei Bernoulli.

La pressione dicevo, c’è qualche legge fondamentale che aleggia nell’aria, sembra a portata di mano ma diventa sfuggente. Studio il sangue nelle vene, la magia di questa linfa è straniante, non mi stancherei mai di squartare animali per vedere e studiare il flusso sanguigno, ma percepisco in quelle turbolenze qualcosa di più generale.

Devo studiare quello che hanno scritto sull’argomento dei fluidi i grandi del passato, poi, nel caso dovesse venirmi qualche idea più generale e trovarmi in difficoltà potrei sempre chiedere un aiuto alla macchina per teoremi che si chiama Euler, che è ben contento di aiutare gli altri e per nulla invidioso.

Eureka! Ho trovato (anche con qualche aiutino matematico) l’equazione generale dei fluidi; sono senza parole! In una sola equazione c’è la spiegazione tanto al flusso sanguigno quanto al volo degli uccelli.

Forse un giorno la mia equazione sarà utile anche ai novelli Icaro che vorranno staccarsi dal suolo e andare oltre. Anche oltre i nembi. 

Se solo potesse vedermi mio padre!

Io sarò più importante!

Che vendetta!

Che gioia!

Il protervio matematico battuto nella corsa all’eternità dal figlio che riteneva stupido, quello che aveva relegato alla medicina.

 


T meno 0 – Napoli

«Medicina! Domani vado a iscrivermi per i test di medicina», dico a colazione ai miei. Li vedo tirare un sospiro di sollievo.

«Come mai, Domenico? T’è passata la fissa di fare fisica o provare a fare l’ufficiale dell’aeronautica per provare a fare l’astronauta?» Chiede mio padre, che è un medico. Come mia madre, del resto.

«No, è che stanotte ho fatto un sogno buffo», rispondo e subito dopo, con la tazza fumante alla bocca, sfoglio febbrilmente il Focus di Agosto 1995. C’è un articolo su due astronauti italiani selezionati dalla Nasa: Umberto Guidoni e Maurizio Cheli.

«Che sogno?» domanda mia madre, sempre attenta al mio lato onirico.

«Non lo ricordo bene, sai com’è con i sogni, ora sei qui ora sei sulla Luna, ora sei un proiettile ora una guarnizione difettosa. Ma si volava, eccome si volava.» «Mah, questa cosa di medicina all’improvviso ci fa piacere, ovvio, ma è una cosa che devi avere dentro. O sei motivato o lasci alla prima autopsia.»

«Oh, ma io sono motivato! Ecco qua, vedi l’articolo? Qui dice che come riserva nel ruolo di Payload Specialist, che significa specialista del carico, degli esperimenti, è stato selezionato anche un medico italiano. Quindi posso diventare medico e astronauta. Così siamo tutti contenti, no?»

Non rispondono.

 

 

 

Nota dell’autore.

Nel mio racconto c’è più verità di quanta possa sembrare a prima vista.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimo Bencivenga

 

Oltre le nuvole il sole


 

Non è facile scrivere racconti, ancor meno è facile scrivere racconti aeronautici. Ecco spiegato il perché apprezziamo molto coloro che, pur essendo dei navigati e talentuosi praticanti della scrittura creativa, si cimentano per la prima volta, non senza una buona dose di audacia, nella narrativa a carattere aeronautico.

“E il bambino, indicando un punto lontano nel cielo, rispose: “Ehi nonno guarda. Lassù, sopra la cima di quella montagna sta passando un aereo che sta andando chissà dove!”. Comincia così il raccono di Bruno Bolognesi intitolato “Oltre le nuvole”. Un’immagine che chissà quante volte vi sarà entrata negli occhi ma che non vi ha mai stimolato a scrivere un racconto. Per la fortuna di Bruno Bolognesi, appunto.

E’ questo il caso di Bruno Bolognesi che, dall’alto della sua pluriennale esperienza di autore di narrativa, ha raccolto la nostra sfida partecipando alla VI edizione del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE organizzato dal nostro sito e dall’HAG.

L’autore – lo confessa nella sua biografia – non è un addetto ai lavori (aeronautici) e, benchè abbia conseguito ottimi risultati in numerosi altri Premi letterari, non ha mai affrontato il complesso mondo dell’aviazione. Dunque, a maggior ragione, gode di tutto il nostro rispetto.

No, non si tratta di una foto fortemente ingrandita del musone di un Boeing 747 … è semplicemente un primopiano assolutamente realistico di un 747 che, se non fosse davvero enorme, non si sarebbe mai chiamato Jumbo Jet, non vi pare?

Purtroppo il racconto non ha goduto dei favori della giuria che lo ha relegato al di fuori dei 22 fortunati finalisti (e dunque pubblicati nell’ambito dell’antologia del Premio), forse a torto o ragione … chi può dirlo? Tutto sta al gusto personale.

Una vista bucolica di un Boeing 747 che ha appena lasciato il campo di margherite attiguo alla pista di decollo

Ad ogni modo, l’idea narrativa concretizzata dall’autore a noi è piaciuta; leggere questo racconto ci ha recato un sottile piacere perché la storia fila via con il supporto di vicende parallele innescate dagli immancabili ricordi di un professionista dell’aria. Inoltre i personaggi sono freschi e genuini, il testo è scorrevole e privo di tecnicismi inutili, anzi, al contrario, ha un certo spessore divulgativo giacché spiega con infantile chiarezza delle nozioni spesso clamorosamente travisate da un certo tipo di giornalismo sensazionalistico. In definitiva: un racconto che si legge tutto d’un fiato in quanto si tratta di una composizione leggera, senza spigoli vivi o pretesti di riflessione profonda.

Nel Boeing 747 tutto è enorme, tutto è fuori dagli standard convenzionali … compreso il quadro strumenti degli impianti di bordo. Questa foto ne fornisce una testimonianza inequivocabile.

Per concludere un racconto che siamo lieti di ospitare nel nostro hangar, fiduciosi che, un po’ egoisticamente, il buon signor Bruno ce ne regali degli altri. Magari con la scusa di proporli al nostro Premio letterario.

Intesi, sig Bruno?

Nel frattempo leggiamoci la breve sinossi di questo racconto preparata dall’autore medesimo:

 

Una mirabile immagine frontale del Boeing 747 Jumbo jet

Un nonno, un nipote, un cane. Comune denominatore dei personaggi che, di volta in volta, si affacciano nel racconto: volare, sfidare la forza di gravità; nutrirsi di storie di aviazione nel bel mezzo di un giardino, per poi costruire nei sogni di bambino, un mondo parallelo, fantastico dove piloti di aeroplani supersonici sfondano il muro del suono e spengono incendi a bordo delle loro macchine volanti. Il nonno pilota traccia la sua carriera di aviatore spezzettandola in tanti episodi avvenuti qua e là per il mondo. Il nipotino approva e si incanta, mentre anche Fido, il bassotto di casa, sembra gradire.

Se vi capitasse di sedere sui sedili lato finestrini … beh questa potrebbe essere la vista che potrebbe motrarsi ai vostri occhi e all’occhio sintetico della vostra macchina fotografica. Viceversa, nel caso non vogliate salire mai e poi mai a bordo di un”autobus dell’aria”, ebbene sappiate che questo potrebbe essere lo spettacolo di cui potreste esservi privati.

Tre personaggi in un continuo viaggio che inizia nella realtà vissuta e che decolla, con le ali della fantasia, per navigare nel meraviglioso mondo dei sogni.

Amen!


Narrativa / Medio – Lungo Inedito;

Ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018


Oltre le nuvole il sole


 

Il piccolo Davide attraversò il giardino in un lampo, raggiungendo suo nonno che dondolava beatamente a mezz’aria, cullato dalla sua amaca acquistata tempo fa al mercato galleggiante di Cai Rang, sul delta del fiume Mekong. Il nipotino, con piccoli colpi sopra la pancia, cercava di recidere quel sottile filo di sonno che avvolgeva il nonno come in una sorta di bossolo. E a forza di insistere ci riuscì.

L’uomo, con un tocco del dito sulla tesa, tirò su il cappello di paglia che gli copriva il viso e, dopo aver messo a fuoco quella piccola figura che gli stava accanto, gli chiese quale fosse stato il motivo per cui l’aveva sottratto alla sua consueta, sacrosanta siesta pomeridiana. E il bambino, indicando un punto lontano nel cielo, rispose: “Ehi nonno guarda. Lassù, sopra la cima di quella montagna sta passando un aereo che sta andando chissà dove!”

“Vieni qui pulce. Sono pronto a soddisfare ogni tua curiosità!” disse l’ex comandante rivolgendosi a suo nipote, che attendeva spiegazioni a bocca aperta.

“Chiudi la bocca che ti entrano le mosche e vieni qui sulle ginocchia” proseguì nonno Elvio, indicando la traccia bianca che, mano a mano, tagliava il fazzoletto di cielo sopra la punta spelacchiata di Monte Cormegnolo.

“Vediamo un po’” – proseguì l’uomo – “se riusciamo a indovinare di che aeromobile si tratta; a giudicare dal rombo e dalla scia … si direbbe un bi reattore; potrebbe trattarsi di un Airbus A 319 per il medio raggio”.

Il bambino era ansioso di saperne di più e incalzò il suo comandante con un altro quesito: “Quanto volano in alto nel cielo gli aerei nonno? E perché lasciano righe bianche, come quella, dietro di loro”? 

“Domanda interessante giovanotto, ora vedrò di spiegarti il tutto”, gli rispose il nonno, sfilandosi i suoi inseparabili Ray Ban a goccia.

Anche Fido, il bassotto di casa, si era accodato al piccolo gruppo, marcando la sua presenza con un bau bau. La lezione poteva iniziare: “Dunque devi sapere, anzi dovete sapere, (il cane prese a scodinzolare) che nell’ambito dell’aviazione civile ci sono due categorie principali: gli aerei a lungo raggio, ovvero quelli che trasportano passeggeri o merci tra un continente e l’altro, che viaggiano a quote che possono arrivare a fino 36.000 piedi di altezza e quelli a corto-medio raggio che volano più in basso, a quote intorno ai 33.000 piedi, ovvero a circa 10.000 metri dal suolo. Fin qui è tutto chiaro per l’equipaggio?”

L’animale, con un doppio bau, evidenziava la sua soddisfazione, mentre il ragazzo voleva saperne di scie, di correnti a getto e di altre diavolerie che regolavano il volo.

L’ex comandante riprese dicendo: “Cerchiamo di spiegarlo nella maniera più semplice: le tracce lasciate dagli aviogetti che solcano il cielo sono chiamate scie di condensazione e si formano per il contatto del gas caldo in uscita dai reattori con l’aria fredda che, a quelle altitudini, può raggiungere i trenta, quaranta gradi sotto lo zero; brrr…un bel freddo non vi pare?”

“Così freddo c’è lassù, e i passeggeri dentro l’aeroplano non congelano?”, chiese Davide al nonno con apprensione.

Il narratore, per tranquillizzarlo, passò la sua mano sui capelli biondi del nipotino arruffandoli un po’, poi riprese il tema appena interrotto: “Ma no! Dentro la pancia dell’aereo si sta benissimo; è come viaggiare in una carrozza di un treno. Né caldo, né freddo. Ma torniamo al discorso di prima, …

A quel punto, come dicevamo, il vapore acqueo si trasforma in miliardi e miliardi di minuscoli cristalli di ghiaccio che si attaccano tra loro fino a formare un nastro bianco sospeso nel blu, tanto più lungo se c’è umidità in quota; più corto se l’aria che attraversa è secca. Quello che vedi lassù è abbastanza corto, quindi non pioverà.”.

Il piccolo Davide era entrato a pie’ pari nel mondo aeronautico, tant’è che iniziò a correre per il giardino con le braccia distese a mo’ di ali; dopo alcuni giri sulla pista verde del prato “atterrò” accanto a Fido che, come un missile, si era tuffato dietro la siepe di lauro ceraso, in attesa della cessazione del raid aereo.

Il pomeriggio corse via a velocità di crociera tra le domande a raffica e le risposte; leggi della fisica che permettono ad un bestione come il Boeing 747 da trecentosettanta tonnellate e che imbarca centocinquanta mila chili di kerosene, di volare come un uccello. Poi le differenze tra il volo ad elica e quello a getto che si risolvono in questioni di avvitamento e di fili d’aria, condussero il nonno e suo nipote ad un “atterraggio” in prossimità della veranda, dove ad attenderli c’era una merenda a base di gelato e meringa.  Due merli erano nel frattempo planati sullo steccato pronti a beccare tutto ciò di commestibile, mentre il cane faceva capolino dietro un cespuglio, in attesa di un segnale di via libera.

°

Elvio Bossoli era un tranquillo pensionato che, da qualche tempo, si era ritirato nella sua casa nel paese dove era nato e vissuto fino all’età di diciotto anni. La sua passione, il suo interesse per il volo ebbe inizio alla fine degli anni sessanta, quando era in servizio nel corpo dei paracadutisti nella città di Livorno. La molla gli scattò nella fase di addestramento, tra un lancio e l’altro da uno sgangherato C 119 della Guerra di Corea, condotto, di volta in volta da piloti militari con i galloni ben in vista sui loro giubbotti di cuoio.

Il suo primo brevetto lo acquisì all’Aeroporto dell’Urbe a Roma, al termine di un corso iniziato a cinque mesi dal congedo dal corpo dei Parà. Il primo volo da allievo pilota fu per lui un’esperienza indimenticabile. I’istruttore era un pilota da caccia dall’aspetto asciutto, uno di quelli che: le parole non contano, ma contano i fatti; uno di quelli abituati a stare per aria e a rivoltare a suo piacimento il mondo di sotto, in su e in giù tirando o spingendo semplicemente una cloche.

L’allievo pilota Bossoli Elvio, in quell’occasione, ebbe modo di toccare con mano l’effetto centrifuga dovuto a cabrate e picchiate effettuate dal suo istruttore che, alla fine dei giochi, gli si rivolse dicendo: “Allora ragazzo cosa vogliamo fare? Su prendi tu i comandi e vai, che io me la fumo”! Era stata una grande emozione, grande come il cielo che stava solcando, alla guida di un aeroplano. Il primo.

Si faceva presto a dire: “D’ora in poi voglio stare con i piedi per terra, basta nuvole e vuoti d’aria, basta trasferte continentali, fusi orari: due giorni a Sidney, uno a Dakar, piuttosto che a Oslo. Voglio vivere i miei giorni ben piantato a terra. Ecco cosa voglio. Meglio se al livello del mare, a respirare iodio e mangiare una frittura di pesce in buona compagnia. Beata la pensione!

Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo il mare, anzi no: il cielo. E fu così che l’ex comandante pilota Bossoli tornò a volare, ma questa volta come passeggero, per via di un matrimonio di una sua parente che viveva a Bruxelles. Essere passeggero pagante su un aereo di linea, anziché pilotarlo, faceva un certo effetto; intanto, fuori dall’oblo, il mondo si metteva in movimento e il Boeing 737 dalla livrea gialla e blu, già rullava sulla pista 04-R1 dell’Aeroporto di Ancona Falconara, destinazione Bruxelles – Charleroi.

L’aeroplano prendeva a salire di quota rabbiosamente, poi l’ala si alzò e il Mare scomparì. I flaps rientrarono dentro l’ala e anche il carrello. I motori si placarono quando si raggiunse la quota di crociera; Elvio aveva piena consapevolezza di tutte le fasi del decollo; ma preferiva di gran lunga, godere della luce che splendeva in quota e della serenità che essa infondeva nel suo animo libero da ogni responsabilità. Le nubi fuori dal finestrino erano fiocchi di cotone sospesi nel blu. Ora le poteva ammirare in tutta la loro eterea, impalpabile bellezza. La Svizzera, di sotto, era color tabacco; un fiume lanciava riflessi d’argento, mentre nel corridoio gli idiomi si fondevano come all’interno dei mercati del giovedì nella città di Istanbul. Fino all’atterraggio.

°

“Bentornato comandante, hai fatto un buon viaggio? Finalmente sei qui ho tante cose da chiederti, le ho pensate mentre tu eri via. Le vacanze stanno per finire ed io dovrò tornare in città e ricominciare con la scuola. Che barba!”, disse Davide, mentre correva incontro al nonno che armeggiava con degli attrezzi all’interno della casetta di legno. “Allora giovanotto, cos’è che vuoi chiedermi di così urgente”? Il ragazzo trasse un foglietto dalla tasca dei pantaloncini, lo aprì e disse: “Mi sono fatto degli appunti per non tralasciare nulla; mi piacerebbe sapere di quando pilotavi gli aerei grandi, e quante città hai visto e se hai mai incontrati gli UFO? E tante altre cose.”. Elvio aveva capito che doveva interrompere il suo lavoro di restauro di quel vecchio grammofono a tromba degli anni ’20 che aveva acquistato da un rigattiere a Sidney e caricato in stiva, in occasione di una delle sue innumerevoli missioni intorno al globo.

“Dov’è che iniziamo” disse l’ex pilota al nipotino che sedeva sulla cassa panca appena lucidata con il copale, sopra la quale non tardò ad accovacciarsi anche Fido il bassotto di casa. “Bene, ora che l’equipaggio è al completo, possiamo incominciare”, continuò l’uomo. “Signori dell’equipaggio” disse con velata ironia al ragazzo e al cane “Dovete sapere che il sottoscritto, prima di arrivare a pilotare grandi aerei sulle rotte intercontinentali, ha dovuto superare diversi esami per ottenere brevetti intermedi di primo e secondo grado, con i quali si era abilitati a pilotare piccoli aerei con passeggeri paganti. Nel frattempo, per accumulare ore di volo, si lavorava anche per società che gestivano gli aerei antincendio Canadair 215 e 415. Il ragazzo ascoltava con la meraviglia propria dell’età, e nel contempo immaginava il nonno come una sorta di super eroe, che difendeva la natura dagli uomini cattivi che incendiavano boschi e foreste. L’uomo notò, dall’espressione del viso, che Davide stava già fantasticando nel mondo dilatato della fantasia, dentro la quale ogni gesto, ogni situazione si amplificava come sotto una lente di ingrandimento. “Possiamo continuare giovanotto?”, gli si rivolse il nonno, facendo un gesto con la mano davanti ai suoi occhioni blu. “Vai avanti comandante, noi ti seguiamo, vero Fido?” rispose con prontezza il nipote. Il cane annuì alzandosi sulle zampe anteriori.

Il racconto continuava, come dire, tenendosi a bassa quota, nel senso che si parlava di servizi anti grandine effettuati con piccoli velivoli che si gettavano nel bel mezzo dei temporali sparando candelotti di ioduro d’argento sopra i vigneti del Soave in Veneto o del Chianti in Toscana, oppure di come ci si arrangiava, con altri piloti, con gli aereotaxi, piccoli velivoli a quattro e sei posti con i quali si scarrozzavano i vips da un punto all’altro dell’Italia. Tutto questo, pur di volare e acquisire ore di volo.

Per non appesantire il racconto, non era stata descritta la modalità del conseguimento del brevetto di terzo grado professionale tramite un concorso indetto dal Ministero dei Trasporti e dell’aviazione Civile e di conseguenza i due anni di corso per lezioni pratiche di volo strumentale a bordo di un SIAI MARCHETTI S205 e di un Piper 23 bimotore a elica, oltre alle lezioni teoriche riguardanti l’aereodinamica , il volo simulato, la meteorologia, il diritto civile, i codici di navigazione e, naturalmente, lo studio della lingua inglese. Lingua fondamentale per la navigazione aerea globale.

Intanto, in avvicinamento, si profilava l’ora di cena; la narrazione venne rimandata al domani, e l’equipaggio composto da: Elvio, Davide e il bassotto di casa, si fecero guidare dal profumino che proveniva dalla cucina, dove nonna Carla era regina incontrastata. La notte che seguì mise tutti a nanna. Davide, che si sentiva un po’ come il comandante in seconda, pensò bene di appiccicarsi sulle spalline del pigiama due rettangoli di carta sui quali aveva disegnato tre strisce color d’oro. Saltò sotto le coperte e Morfeo se lo prese in carico subito dopo, ancor prima dell’imbarco sull’aeronave dei sogni.

°

“Eppure l’avevo messo qui dentro quest’armadietto; dove può essersi cacciato”, Elvio, già di buon’ora, era all’interno della casetta di legno, alla ricerca di un album fotografico con dentro una serie di fotografie scattate nel corso della sua lunga carriera di pilota commercale.

“Eccolo qua, sapevo che c’era”! Un soffio sulla copertina fece alzare una polvere densa come borotalco che si disperse nell’ambiente circoscritto dello stanzino.

“Vieni pulce, siedimi accanto che ho qualcosa di interessante da farti vedere”, disse l’ex pilota al nipote che, finito di far la sua bella colazione, era appena uscito dalla veranda e si era precipitato al quartier generale per il briefing mattutino. A ruota, un po’ sonnecchiante, lo seguiva l’inseparabile Fido. Nonno Elvio appoggiò il massiccio raccoglitore sul tavolino invitando Davide a prendere visione del contenuto.

Due piccole mani cominciarono a sfogliare pagine e pagine sulle quali suo nonno aveva appiccicato momenti significativi della sua carriera; pezzi di vita ritagliati su una fotografia in bianco e nero, oppure a colori. Pagina sette, in alto a sinistra: Allievo paracadutista Elvio Bossoli, fotografato in assetto di lancio sulla pista di un aeroporto militare; accanto, sempre l’allievo pilota ritratto in primo piano davanti un Piper 23 bianco con delle linee fiammeggianti ai lati della carlinga.

Il ragazzo manifestava molto interesse per quelle fotografie, e si vedeva da come i suoi occhi blu le scrutavano in ogni loro particolare.

“Questa mi piace nonno, ecco ti ho riconosciuto, sei quello con le cuffie che ascolta la radio e dentro la cabina ci sono altri due piloti. Quanti aggeggi e luci colorate”!

Il nipotino rimase col dito piantato sulla fotografia, aspettando che l’ex pilota gli descrivesse il contesto. La risposta non si fece attendere: “Qui tuo nonno aveva acquisito da poco il brevetto di terzo grado e fu una vera svolta nella sua carriera.

La cabina che vedi è quella di un DC-10 Mc Donnell Douglas in rotta su Roma Dakar – Dakar Rio de Janeiro. Io, come terzo ufficiale, controllavo il pannello degli impianti; qualche volta il comandante mi lasciava la cloche dell’aereo, forse gli facevo un po’ di compassione.”.

Sentendo quello che il nonno gli aveva appena detto, la sua faccia si imbronciò, ma il nonno lo rasserenò quando gli disse che la cosa durò circa un anno, dopo di ché diventò co pilota su un DC-9 operante su rotte europee.

Il ragazzo fu colpito da un’altra foto a colori, dove il suo comandante posava davanti la turbina di un aereo gigantesco con la sua bella uniforme con i tre galloni dorati cuciti sulla giacca blu scuro. Davide non tardò a colmare la sua innata curiosità di bambino, commentando la foto sulla quale si era soffermato.

“Stai ammirando il bestione, uno degli aeroplani più grandi mai costruiti al mondo; questo gigante dell’aria si chiama: Boeing 747 Jumbo jet, pesa trecento settanta tonnellate e imbarca cento cinquantamila chilogrammi di carburante. Da quel momento in poi ho messo il mondo nelle mie tasche: Pechino, Sidney, Mosca. E dimenticavo Chicago, che è uno degli aeroporti più trafficati al mondo, dove la torre di controllo non sempre ti capisce…”

“Dimmi di un altro aereo grande che hai pilotato nonno, e che ti è piaciuto!”, chiese ancora il ragazzo.

Elvio aggrottò la fronte per la concentrazione, poi sparò di getto la sua risposta sul viso colmo di curiosità di suo nipote, che ormai era entrato a pieno titolo a fare parte nel suo equipaggio. Insieme a Fido naturalmente.

“Un aeromobile che non si può scordare è l’MD-11 e tu mi chiederai il perché? Facile. Ti rispondo, è velocissimo e nervosissimo, ha tre motori, ognuno dei quali in fase di decollo si beve diciotto mila chili di kerosene e la capacità dei suoi serbatoi è di centoventimila chilogrammi. Il velivolo può ospitare trecento passeggeri e la sua velocità di crociera (tieniti forte) raggiunge tranquillamente i novecento cinquanta chilometri l’ora.

Ricordo, come fosse adesso, quella volta che incontrammo le correnti a getto sull’Oceano Atlantico ad una latitudine di 75°nord, sulla rotta siberiana, che rese necessario il rimescolamento del carburante dentro le ali per evitarne il congelamento.

Un altro cavallo di razza, un altro gigante che ho avuto il piacere di pilotare è stato il Boeing 777, corredato da due motori turbofan, ognuno dei quali sviluppava una potenza pari a cinquanta mila cavalli. Rendo l’idea?”.

Elvio si compiaceva nel raccontare le sue avventure al piccolo Davide e talvolta sul racconto ci metteva un po’ del suo, allo scopo di rendere più accattivanti le avventure di -mister Elvio l’uomo volante-.

Il piccolo Davide era felice e contento e, in cuor suo, sperava di ripercorrere le orme di suo nonno e anche di più ma, vista l’ora tarda, i viaggi interplanetari e gli incontri ravvicinati con gli UFO li rimandò ad un’occasione più propizia.

Fido era saltato sul suo letto, ma il ragazzo non se ne rese conto, preso com’era a ipotizzare rotte ortodromiche e trasvolate intercontinentali magari a bordo di un cargo zeppo di automobili di lusso da consegnare a New York, o di imbarcare una dozzina di cavalli di razza per facoltosi professionisti in attesa all’aeroporto di Detroit.

Ma adesso era giunto il momento di planare: giù i flaps e il carrello, destinazione mondo dei sogni, di quelli colorati che solo i bambini riescono a concepire.

Nonno Elvio gli rimboccò le coperte e con un buffetto salutò il bassotto che lo guardò scodinzolando, senza fiatare.

La notte, con le sue nere ali, avvolse il sonno del piccolo Davide, e lo fece in modo discreto, per non disturbare la sua navigazione nel cielo alto, fin sopra le nuvole dove splende sempre il sole. Una luce bianca, rarefatta. La luce dei sogni.

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Bruno Bolognesi

Geo Chavez, alata avventura


Esistono tanti modi per fare divulgazione storica come pure esistono soluzioni originali per insegnare ai bambini la storia, per appassionarli alle vicende e ai personaggi che hanno animato il passato.

Uno splendido primo piano del motore e dell’elica che spinsero il velivolo Bleriot XI di Geo Chàvez fin sopra le Alpi. Il motore era un radiale rotativo a 7 cilindri Gnome Omega capace di sviluppare soli 50 cavalli di potenza. Era raffreddato ad aria (il motore ruotava assieme all’elica per migliorare il raffreddamento) e lubrificato con olio di ricino. L’elica bipala di legno produceva la trazione necessaria a farlo volare ruotando al massimo a 1250 giri al minuto. Ovviamente elica e motori ritratti nella fotografia non sono originali ma appartengono al velivolo replica di quello con il quale effettuò il volo Geo Chàvez.

Rosa Danila Luomi, insegnante elementare in pensione, ce ne fornisce un esempio illuminante con il suo singolarissimo racconto “Geo Chàvez, alata avventura” con il quale ha partecipato, senza godere dei favori della giuria, alla VI edizione del Premio fotografico/letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

La composizione non è stata ritenuta meritevole di avere accesso alla fase finale dell’iniziativa promossa dal nostro sito e dall’HAG, tuttavia approda nel nostro hangar con grande giubilo da parte nostra. Inutile negarlo. Certo, l’autrice ne se sarà amareggiata, ma sappia che gode del nostro più sincero apprezzamento giacchè ci consente anzitutto il privilegio di leggere un racconto inusuale e poi, soprattutto, ci concede l’opportunità di poter ricordare le gesta di Geo Chàvez, appunto, che è poi è lo scopo ultimo di questo cameo narrativo.

Ma andiamo con ordine.

Che il Bleriot XI sia un aeroplano fotogenico è evidente … ma che il fotografo sia stato al posto giusto nel momento giusto e pure con una buona macchina fotografica beh … questo è indiscutibile. Il titolo di questa foto: “Azzurro” (da Flickr.com). Qualora vogliate sapere di più dell’impresa di Geo Chàvez o vi affascini la figura di questo ingegnere con genitori peruviani, nato a Parigi ma adottato dagli italiani, vi suggeriamo di visitare l’ottimo sito web http://www.jorgechavezdartnell.com che costituisce una vera fonte di divulgazione di storia aeronautica. 

Siamo nel 1910 e, se da una parte, l’aviazione è considerata ancora una pratica pericolosa riservata a pochi rompicollo dell’aria, dall’altra, per gli audaci pionieri del cielo si sono appena aperti sconfinati orizzonti di gloria.

E’ ancora vivida, ad esempio, l’impresa compiuta nel luglio del 1909  che ha consentito all’ardimentoso pilota francese Louis Bleriot di attraversare La Manica, lo stretto braccio di mare che separa il continente europeo dall’isola britannica. Per la cronaca, impiegò la bellezza di 36 minuti volo alla media di 64 km/h; oggi lo stesso tratto si percorre in un tunnell sotterraneo in una manciata di minuti, comodamente seduti nelle poltrone di un confortevole convoglio ferroviario …

Il Bleriot XI è un velivolo che ha stabilito diversi primati nell’ambito della storia dell’aviazione mondiale. Anzitutto, pilotato dal suo costruttore Louis Bleriot, attraversò il canale della Manica, quindi, per merito di Jorge Chávez Dartnell superò le Alpi. Questo come impiego civile … ma per uso militare? Ebbene nel 1911 fu utilizzato durante la Guerra di Libia per il primo volo di ricognizione della storia militare. A pilotarlo era il capitano italiano Carlo Maria Piazza. Ma non solo: qualche giorno dopo lo stesso pilota/velivolo si cimentarono nel primo bombardamento aereo effettuando il lancio (a mano) di bombe di 2 kg. sugli accampamenti nemici. Qualche mese dopo, sempre il Cap. Piazza con un Bleriot XI, furono i primi ad effettuare una ricognizione fotografica aerea. A bordo c’era una macchina fotografica Bebé Zeiss. Niente male per un aeroplano di 350chili a vuoto fatto per lo più di frassino e di tela di cotone!

Ma non divaghiamo … sull’onda dell’impresa di Bleriot, dicevamo, i continentali europei potevano essere da meno? Certo che no! Ed ecco allora che, l’Aeroclub di Milano e il Corriere della Sera, in occasione del Circuito Aereo Internazionale di Milano del settembre 1910, mettono in palio un congruo montepremi per chi per primo riuscirà a valicare le Alpi. Ebbene quell’uomo sarò Jeorge Chàvez Dartnell, ricordato confidenzialmente da tutti come: Geo Chàvez.

Per dovere storico siamo tenuti a precisare che Geo decollò da Briga, in Svizzera, e, dopo aver effettuato due tentativi infruttuosi (a causa delle avverse condizioni meteo), atterrò rovinosamente a Domodossola dove precipitò al suolo da un’altezza di circa 20 metri.

A ricordare il luogo dove si compì il tragico destino di Geo Chàvez c’è oggi questo cippo. Il pilota peruviano riportò ferite gravi ma non gravissime tanto che fu trasportato ancora in vita presso l’ospedale San Biagio di Domodossola dove rimase ricoverato ben quattro giorni prima che le sue condizioni si aggravassero irrimediabilmente. Aveva riportato fratture agli arti e svariati tagli. Le prime gli furono ridotte o steccate mentre le seconde gli furono suturate. Alla luce delle moderne conoscenze mediche forse, e sottolineiamo forse, la vita di Geo sarebbe stata salva ma all’epoca, evidentemente … Anzitutto non venivano praticate trasfusioni nè somministrazioni di liquidi via endovena, figurarsi l’erogazione di ossigeno. Nella cartella clinica risultano invece: olio canforato, tinta di digitale e liquore anodino di Hoffman, acquavite tedesca e poco più, Alle ore 14,55 del 27 settembre 1910, Jorge Antonio Chàvez Dartnell venne dichiarato morto per arresto cardiaco. Aveva solo 23 anni. Il suo corpo terreno ci aveva lasciato per sempre, il suo mito era appena decollato verso i cieli della storia.

Il suo monoplano Bleriot XI, costruito per lo più in legno e tela, era stato messo a dura prova dai voli in montagna e incappò in quello che oggi chiameremmo: cedimento strutturale. Le semiali si chiusero sulla fusoliera e Geo fu letteralmente ritrovato, neanche gravemente ferito, sotto ai rottami del suo stesso velivolo.

Era il 23 settembre 1910 e un’altra tappa della storia dell’aviazione era stata scritta.

Ora, ricordare brevemente le vicende di Geo Chavez, ospiti in un hangar come il nostro, tra appassionati di volo o anche tra semplici curiosi di aviazione, apparirà alquanto banale; viceversa, tutta altra sfida è farlo con dei bambini, proverbialmente disinteressati e oggi fin troppo tecnologici, più inclini ad appropriarsi del proprio futuro che non a recuperare il passato altrui.

Benché siano stati costruiti ben oltre 130 esemplari di Beriot XI (alcuni su licenza dall’italiana S.I.T. – Società Italiana Transaerea di Torino), quello ritratto in questa foto è l’unico volante, fatto salvo che non si tratta di un velivolo originale bensì di una replica costruita dallo svedese Mikael Carlsson per conto dell’imprenditore italiano Giuliano Marini. Lo scopo, peraltro raggiunto, era di farlo volare in occasione del 100° anniversario della traversata delle Alpi nel corso di una memorabile manifestazione tenutasi a Masera. In verita esso fu concesso in prestito a Volandia a fare bella mostra di sé all’interno di uno splendido stand del museo dell’aeronautica (e non solo) di Milano Malpensa ma vederlo in aria è tutta un’altra storia, non trovate?. Rimanendo in tema di musei, occorre precisare che, in Italia, c’è un solo museo dell’aria che annovera un Bleriot XI nella sua collezione. Si tratta del Museo storico dell’Aeronautica Militare Italiana di Vigna di Valle (Roma) che dispone di un rarissimo quanto preziosissimo velivolo biposto originale ma, evidentemente non volante.

Come fare, cosa fare?

Inventare una storia? Dare un alito di vita al personaggio? Coinvolgere l’interlocutore sempre distratto stimolandone la fantasia? Fargli rivivere le medesime sensazioni che l’eroe-protagonista provò realmente? Recandosi nei luoghi che lo videro compiere quelle sua gesta? … ebbene “Geo Chavez, alata avventura” è la cronaca di questo esperimento, è il resoconto di come sia possibile far appassionare un nipotino di soli nove anni a una storia lontana più di cento.

Complice l’ottimo fondale,  avremmo potuto tranquillamente additare il velivolo ritratto come quello originale con cui Geo Chàvez compì la sua impresa … in realtà si tratta di una replica e lo scatto risale al 2016 e all’interno di Volandia, uno dei più grandi musei dell’aria del nostro paese. Questo Blériot XI è una riproduzione costruita in Svezia da Mikael Carlsson per Giuliano Marini per il 100° anniversario della traversata delle Alpi. Monta il motore rotativo Gnome Omega n° 1057. (foto proveniente da www.flickr.com)

E di questo siamo grati alla nostra Rosa Danila perchè, almeno con noi, che nove anni li abbiamo compiuti da qualche lustro, ha funzionato. Non farà testo, ma il suo racconto ci ha appassionato, ci ha costretto ad appronfondire, a cercare le foto e i siti web che celebrano o comunque ricordano la figura del giovane pilota peruviano. E brava Rosa: missione compiuta!

E per concludere questa breve scheda critica, vi riportiamo la breve sinossi elaborata dalla stessa autrice:

“Una storia vera raccontata con semplicità , la storia di Geo Chavez  ricostruita  per far nascere curiosità ed entusiasmi.

Questo eroe dell’aria per tanti anni dimenticato, in occasione del centenario della sua impresa, si è riproposto quasi prepotentemente all’attenzione di tanti e per lui sono stati organizzati spettacoli, celebrazioni, gemellaggi.

Tutto il Verbano, Cusio e soprattutto l’Ossola hanno  ripercorso passo passo la storica trasvolata delle Alpi e magicamente Geo Chàvez ha ripreso vita comunicando gioia e spirito d’avventura.

I magici giorni che ho vissuto con Giacomo ripensando e rivivendo quel volo straordinario sono stati unici ed emotivamente intensi: oggi quando insieme ne parliamo quasi non ci sembrano veri . Ma è successo ed è stato uno dei tanti regali che Giacomo ha saputo farmi. Gliene sarò sempre grata.

Perché ho scritto questa storia? E’ semplice … perchè temo di dimenticare .”


Narrativa / Breve

Inedito;

ha partecipato alla VI edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2018;

in esclusiva per “Voci di hangar”