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Racconti degli autori

Ciao, Kosta!


– Mi scusi?!

– Sì?

– Lei è il signor Nedialkov? … Konstantin?

– Sì, …

– Ah, finalmente! … è davvero in grande onore per me … fare la sua conoscenza.

– Il piacere è mio … signor …

– Oh, mi perdoni … lasci che mi presenti: il mio nome è Otto … Otto Lilienthal.

– Piacere Otto … Lilienthal?! … davvero?

– Sì, certamente, ha ben detto. Eh, si sente che non ha certo problemi di pronuncia: parla correntemente tre lingue e ne comprende almeno altre due!

-Ah sì? E cos’altro sa di me?

– Praticamente ogni cosa! Al mio club lei è continuamente oggetto di appassionate disquisizioni!

– Ma senti! E quale sarebbe questo Aeroclub?

– Qual’è? … ehm … il Glider Center Club Paradise.

– Dov’è, in Australia?

– Australia? … no, non precisamente. Ma tralasciamo questi insignificanti dettagli: parliamo di lei piuttosto! Le dicevo che al mio club si parla continuamente di lei: sa, quanto accade qui … non passa certo inosservato. Inoltre quello che era un suo caro amico, e che da un paio d’anni vola da noi, ci ha parlato così tanto di lei che non abbiam potuto fare a meno dal tenerla “in custodia”.

– Mi scusi ma chi sarebbe questo “caro amico” di cui parla?

– Suvvia, non ha importanza. L’aspetto importante è che lei, per noi, è quella si dice “la persona giusta al posto giusto”, tuttavia “ancora più giusta per il posto più giusto”.

– Mi sembra giusto?!

– Uhm … vede, all’intera moltitudine dei nostri soci è ben nota la sua smodata passione per tutto quanto si libri in cielo, o l’entusiasmo dilagante, la disumana dedizione con cui svolge l’attività di capostage. E poi il pacato autoritarismo, la silenziosa competenza … insomma è inutile che aggiunga altro …

– La ringrazio ma … sinceramente non capisco!

– Comprendo perfettamente il suo imbarazzo: è giunto il momento di esprimermi in modo più esplicito. I soci del mio club, in qualità di presidente onorario – loro sostengono che il Volo a Vela … eh sì, l’abbia creato io! mah?! – … dicevo che i soci mi hanno affidato la non facile missione di contattarla … e di convincerla a trasferirsi da noi prima che sia “troppo tardi”.

– Ma veramente …

– Ascoltami figliolo … mi permetto di darti del tu perché potrei essere il tuo trisavolo …

– Ma sì, prego Otto …

– Ebbene … noi sappiamo per certo che tu pratichi una sola religione: il volo. Sappiamo che sei un’amante della vita, della “buona tavola”, che non disdegni affatto la compagnia altrui, ed in special modo quella delle belle gentildonne … nevvero?

– Beh … in effetti …

– Non ti scusare … son tutti aspetti a tuo favore, che ti consentirebbero di superare in modo agevole “il turno”. Ehm … però non era questo che intendevo dire … sarò più intelligibile. Mio caro … la vita, così come tu la stai vivendo in questo momento, non è che una breve frazione di una lunga esistenza! Questa vita terrena è una specie d’infanzia in cui s’incomincia a crescere, a maturare. Facendo però delle scelte e prendendo delle decisioni che apriranno la strada futura. Arrivati ad un certo punto, tu ne sei cosciente, questo periodo termina con quella che si chiama morte. Tuttavia si tratta solo di una morte terrena perché è proprio da lì che comincia la vera vita …

– Quella in Paradiso!?

– Bada! Non prenderti gioco di me Konstantino: so benissimo quanto sei incline alla burla … riconosco all’istante una tua facezia, anche se pochi qui, riescono a farlo.

– Ma era solo una domanda!

– E dunque ti risponderò: no! … non è quello che voi chiamate Paradiso: non esiste quello che la vostra religione o la vostra fantasia chiama Paradiso. Il vero Paradiso è quello che ci si crea durante la vita terrena, vivendo con rettitudine, in religioso rispetto altrui e dei valori umani. Solo così facendo è lecito aspirare al superamento del “turno”.

– Alla vita eterna?

– Non proprio: si continua a vivere nei luoghi ove si è consumata l’esistenza terrena … in un mondo parallelo, identico in tutto e per tutto a quello che si è lasciato, ma non indefinitamente … solo fin quando la bontà delle azioni compiute nella prima vita non svanirà del tutto oppure fin quando più alcuno sarà memore del nostro nome, anche nei pensieri più remoti. Allora non ci sarà più nessuno a rimembrare … dunque si potrà tornare ad un altra nuova vita terrena. E questo può accadere anche dopo moltissimi lustri. Quel mondo … ha molte finestre su questo mondo …

– Ah, ecco da dove mi spiate!

– Sì, in verità è così. Ordunque … siamo certi che tu abbia già compiuto la tua scelta, hai già tracciato il tuo sentiero futuro e … sì, lo confesso, … noi tutti abbiamo dannatamente bisogno di te dall’altra parte! Abbiamo i più arditi piloti, i più fantasiosi ingegneri e meccanici del passato, ma … sono tutti sorpassati … purtroppo.

– Beh, no: sono trapassati.

– E’ vero … sono trapassati!

Tutti i soci godono delle novità recate dall’ultimo arrivato, sia esso un costruttore di alianti o sia costui un pilota pluricampione. Ma ahinoi, ciò non avviene con regolare frequenza e poi ultimamente – occorre riconoscerlo – la qualità sta un po’ scadendo … comunque non c’è aggiornamento fino a quando non giunge un trapassato “fresco”.

– Così volete che io … “passi a miglior vita” prima del tempo stabilito?

– Sì … lo confesso, la proposta in parte è questa. Noi però te ne saremmo particolarmente riconoscenti ed avremmo pensato di dimostrarti questa nostra gratitudine – eh, siamo autorizzati! – ricambiando il tuo sacrificio: fare in modo che tu possa tornare, quando e come vorrai, nel mondo reale …

– Come spirito?!

– Beh, non esattamente … direi piuttosto in qualità di discreto angelo custode – così si chiama, no? – come presenza impalpabile, come essenza immateriale …

– Per fare cosa?

– Mah, non saprei davvero … per suggerire o consigliare i viventi nei momenti perigliosi – molti di noi lo fanno – e voi la chiamate intuizione, sesto senso o qualcuno, in modo pittoresco, “la vocina della coscienza”.

– Ah, allora siete voi?

– Non sempre, beninteso. Tu però, potresti di sicuro dar seguito all’opera d’insegnamento che stai svolgendo qui … e ciò con minor fatica e soprattutto con migliori risultati. Potresti essere con chi vuoi: con i tuoi amici, con i tuoi allievi, in volo come a terra, potresti parlare loro …

– Come una vocina?

– Sì, come una vocina che sussurra dal profondo della mente e ti dice, che so?, cos’è più salutare in quel momento, quale decisione prendere, insomma … in modo da essere loro di conforto e di aiuto. Nei momenti difficili. Starà comunque e sempre a loro seguire quella vocina o ignorarla del tutto. E poi immagina … immagina solamente alle infinite opportunità … come far la conoscenza e colloquiare amabilmente con tutti i tuoi idoli: il prof. Georgii, il tenente Milkov, e poi Wills, Makula e gli ultimi arrivati … Holigaus e Mantelli. Pensa alla possibilità di volare in ogni angolo del mondo reale! Con qualsiasi pilota e a bordo degli alianti o anche degli aeroplani più diversi! Ciò non costituisce forse la realizzazione dei tuoi più reconditi sogni?

– Sì … però …

– Ah, dimenticavo. Posso fin d’ora assicurarti che penseremo a tutto noi: il trapasso sarà perentorio, non proverai dolore. Il modo ed il momento … beh, purtroppo non è nostra facoltà stabilirlo … anche noi abbiamo un limite. Orsù Konstantino, rispondi dunque al mio quesito: accetti la nostra proposta?

– Beh …

– K o s t a n t i n o-o-o …

Scusa Kosta … volevo dirti che domani dovrai fare a meno del PAPA INDIA – dobbiamo fargli l’ispezione – … ah, il fischio sul MUZI era un nastro rotto, ora è O.K. … sei stanco vero?

– No, perché?

– Ehm, parli da solo!

– Quando?

- Adesso! Parlavi da solo.

– Ma che dici? Che da solo: c’è qui Otto … cioè, c’era qui Otto … un momento fa c’era.

– Otto? Otto chi?

– Mah, un tipo strambissimo! Sicuramente uno psicopatico: si spacciava addirittura per Otto Lilienthal.

– Ma chi, il padre del Volo a Vela?

– Sì, nientemeno. M’ha fatto una proposta così oscena! … però … ripensandoci … quasi quasi …

– Va beh, poi me la racconti eh? Va’ a volare va’! Sempre operativo?

– Sempre! … anche dopo la morte!

– Ciao, Kosta.

– Ciao.



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Big Mark

Il volo di Uco

In un ampio alveare naturale nell’alta e verde valle del Sol, viveva una numerosa famiglia di api e tra di esse: Uco il più giovane e piccolo fuco. Trascorreva il tempo imitando gli altri maschi, bighellonando nell’alveare, disturbando le api indaffarate e commentando e sparlando su di loro. Ma i discorsi più frequenti ed interessanti riguardavano il mitico incontro con Ozia, la regina; lui, come molti altri, non l’avevano mai vista eppure s’infervoravano nel descriverla facendo leva sulle proprie fantasie giurando agli altri di averla incontrata veramente. Il più loquace del gruppo era Ioluco, il più anziano, più grosso ed arrogante, vantava incontri si prodigava in descrizioni lasciando gli altri stupiti ed invidiosi; fra i tanti, per l’eccessiva manifestazione di ammirazione, spiccava Soluco che non perdeva occasione per imitarlo ed incoraggiarlo. Il piccolo Uco invece era da lui e da tutti gli altri bersagliato, deriso umiliato e, non potendo competere nei racconti, emarginato e, se chiedeva spiegazioni, gli altri per confonderlo gli indicavano le più goffe fra le api comuni giurandogli: “Quella lì è Ozia!”. I fuchi avevano anche individuato un’area da usare come pista di simulazione dove allenarsi a correre, organizzando fra loro gare informali a cui tutti partecipavano ma che terminavano sempre col medesimo risultato: correttamente o scorrettamente il vincitore era sempre l’ irruente Ioluco tallonato da Soluco. Proprio durante lo svolgimento dell’ennesima gara, la stessa zona fu pervasa da un grande fermento per il passaggio del corteo reale; allora tutto il gruppo abbandonò la corsa e s’accalcò per vedere Ozia, ma la calca rese difficile la visione. Uco giunse per ultimo, trafelato e dovette arrampicarsi sugli altri. “Eccola Ozia” gli disse qualcuno e lui seguendo l’indicazione finalmente la vide. “Questa volta l’ho vista veramente, anzi sono sicuro che lei ha guardato nella mia direzione. E’ proprio bella non come le api noiose che ci ronzano intorno cariche di cibarie!” urlò felice e da quel momento non pensò ad altro, si isolò, sopportò indifferente scherzi ed angherie, non s’impegnò più nemmeno nelle gare preferendo rimanere disteso ad immaginare Ozia. Passò del tempo e venne al momento del volo nuziale: Ozia si liberò nell’aria limpida e tutti i fuchi iniziarono ad inseguirla. Caparbio e rapido Ioluco superò gli altri concorrenti ed ingaggiò un vero duello aereo con la regina e riuscì a raggiungerla ma per meglio impressionarla volle superarla e girargli intorno bruciando così importanti energie ed acconsentendo a Soluco, secondo inseguitore, di agganciare Ozia ed accoppiarsi con lei. Il presuntuoso Ioluco non ebbe nemmeno il tempo di stupirsi ed indignarsi perché venne eliminato e dopo di lui tutti gli altri maschi. Solo Uco continuò a volare indisturbato seguendo una sua propria pista: in tutto il tempo trascorso nell’alveare aveva immaginato l’inseguimento della sua regina e quando la vide ancora più bella rispetto la prima fugace visione, ignorando gli altri, si tuffò all’ inseguimento, per ben due volte la raggiunse ma lei riuscì a sfuggire, al terzo tentativo lui l’anticipò parandosi davanti a lei nei pressi di una cima di ciliegio, si meravigliò e si congratulò con se stesso per aver anticipato tutti (infatti nessun altro maschio era ancora nelle vicinanze). Ma con suo stupore l’ape che stava di fronte a lui l’apostrofò così: “Stai perdendo tempo, devi seguire il corteo degli altri perché io non sono Ozia la regina ma solo Jolia la sua ancella! Quindi lasciami” e tentò di riprendere il volo ma lui non volle sentire ragione e continuò a fiancheggiarla allontanandosi sempre più dalla sfida regale e iniziando a tesserle continui elogi e raffronti: ” La regina non è forse l’ape più bella dell’alveare? Ebbene tu sei la più graziosa e leggiadra delle api! La regina sa eseguire con maestria voli acrobatici? Sono sicuro che tu sia ancora più abile basta che provi!” Lentamente Jolia si lasciò convincere, smise di respingerlo e continuò a volare con lui e quando Uco si fermò stremato ed affamato lei lo preservò e lo nutrì pur di continuare ad ascoltare i suoi incoraggiamenti. Poi lo condusse al riparo in un favo situato vicino all’alveare in modo di poterlo visitare e nutrire tutti i giorni volando con lui per sentirsi Regina. L’accordo fra i due proseguì fino alla successiva primavera con reciproco vantaggio: il fuco ignorato dalle altre api visse indisturbato forte e ben pasciuto; l”ancella rinfrancata dai continui incoraggiamenti iniziò a raffrontarsi veramente con Ozia, durante il passaggio del corteo reale spesso riusciva già ad attirare su di se l’attenzione offuscando la sovrana, riuscì anche a creare attorno a se un clan di api convincendone alcune a lavorare per lei. Quando il tempo fu maturo per un nuovo volo nuziale Jolia si prodigò per interferire col viaggio di Ozia per sostituirsi ad essa e riuscì a trascinare a se molti giovani fuchi, giunta nelle vicinanze della cima del noto ciliegio si ricordò di Uco ( che nei giorni precedenti al volo aveva trascurato) e s’accorse che non era tra gli inseguitori! Infatti Uco sbaragliando tutti aveva raggiunto Ozia e … si era accoppiato con lei.


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Dario Biancotti

18 marzo 1986

Era il 18/3/86, e alle 15.50 decollavo col mio “Spillone” totalmente “pulito” per un volo prova supersonico.  Per un pilota caccia-bombardiere abituato ad andare in giro con tips, pylons, dispenser e talvolta anche razziere, volare con l’avione pulito rappresenta sempre una sensazione particolare! Decollo, salgo come una “spia” ed in men che non si dica mi ritrovo a 37.000 ft.; accelero e, dopo i primi controlli supersonici, salgo a 39.500 ft per il “rush” finale . L’ A/B è ancora tutto dentro, l’avione corre, mach 2.2, la “SLOW” si accende : devo rallentare. Sono di nuovo subsonico, a destra c’è il Conero, un attimo prima c’era il delta del Po. Viro a destra in discesa per quote più “umane” inbound alla base per effettuare gli altri test, e a metà virata una prima luce antipatica: Fix Freq Out (l’F104 ha energia elettrica a frequenza fissa  – Fixed Frequency) e a corrente alternata (A.C.). Fix Freq Out è una luce del pannellino avarie che indica che si è persa l’energia a Frequenza Fissa). Quante volte mi sarà successo nelle (allora)quasi 2000 ore di volo che ho passato sullo Starfighter: premo quel famoso pulsante e tutto torna come prima! E allora lo faccio, ma non succede assolutamente niente, la Frequenza fissa rimane Out. OK, lo faccio di nuovo, e qui cominciano le grandi sorprese. In un attimo mi trovo “al buio”: Gen1 Out e Gen2 Out, completa avaria elettrica. La cosa si fa seria : sono in Emergenza. La dichiaro subito a Romagna APP, e subito si inserisce la SOR (la sala operativa (Squadron Operation Room- Sala operativa del Reparto) per darmi manforte – Biagio che hai ?- – Sono in completa avaria elettrica, adesso imposto il “precauzionale”,e vengo giù. – OK, ricordati che dovrai tirare fuori la “R.A.T.”. (Ram Air Turbine, è un generatore esterno di energia elettrica. Si tratta sostanzialmente di un’elica che viene estratta dalla fusoliera del velivolo e, investita dall’aria, comincia a girare generando, con questo movimento rotatorio, l’energia elettrica necessaria per gli impianti base dell’aeroplano). – Sì, ora applico tutta la procedura e la tiro fuori. Ho già tanta esperienza, ne ho viste di cotte e di crude e adesso devo fare una cosa che non avevo mai fatto prima, devo usare la R.A.T. OK, tiriamo questa maniglietta gialla … quanto rumore, ma almeno le lancette degli strumenti hanno ripreso la loro vita “guizzante”: ho di nuovo energia elettrica. La velocità va bene, fuori i flaps. Intanto scendo, scendo, e scendo ancora : il campo si avvicina. OK, la pista è là davanti, la velocità l’ho ridotta e ora è giusta, 1600 ft, è ora di tirar giù il carrello : OK, è fuori. Cribbio, cos’è questo silenzio improvviso? E perché il muso ha preso a puntare il suolo? – SOR, ha piantato il motore, mi lancio! – OK – NO, HO UN PAESE DAVANTI, CERCO DI SALTARLO E POI MI LANCIO !!! – OK Sto puntando un prato; DIO si avvicina troppo, è ora di tirare la maniglia, quella più vicina !!! Ma quanto tempo ci vuole prima che parta il tettuccio ed io venga cacciato fuori da questa trappola mortale !? Che botta, ho male alla schiena, i fogli del cosciale mi volano attorno, che male alla schiena, sto facendo la capriola, che male alla schiena, un’altra botta, dev’essere l’apertura, guardo in alto, si è aperto bene, ora devo pensare all’atterraggio, ero molto vicino al suolo, guardo in bas … , DIO ho male alla schiena e alla caviglia. Sono sdraiato su di un fianco con gli occhi chiusi, ma dove? In quale mondo? Sono ancora vivo o no? Apro gli occhi, c’è l’autostrada, ci sono delle automobili che corrono, altre si fermano, sono ancora vivo, oppure “di là” ci sono le stesse cose che c’erano “laggiù”. Mi alzo e mi guardo attorno, ho molto male alla schiena, vedo il fumo nero, arriva gente, una donnetta si avvicina con un bicchiere di Sangiovese in mano : ” beva, la tirerà su ” mi dice tutta affannata . Le chiedo : “Dov’è caduto l’aereo, ci sono feriti, morti ?” Ci sono stati tre morti ed alcuni feriti !!! Il seguito è costituito da una storia giudiziaria ed una vicenda umana che si sono protratte per nove anni prima di arrivare finalmente alla completa chiusura la prima, mentre la seconda ha comunque lasciato dei segni indelebili.


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Alberto Biagetti

Ultima aria

La distesa blu notte è interrotta a perdita d’occhio da creste spumose sferzate dal vento, decine di arcobaleni guizzano spinti da raffiche ghiacciate. Gocce sottili come spilli mi bagnano il viso e l’uniforme: in piedi ritto nel mezzo del piatto isolotto respiro l’aria carica di salsedine. Scatto sull’attenti, il generale mi fissa severo, la grossa automatica nichelata che porta al fianco manda lucidi bagliori di morte. -Hai compiuto il tuo dovere? Cerco di rispondere, voglio che sappia il perché di tutto questo ma le parole non escono, inchiodate nel buio dell’anima. Il generale sorride. -So che lo hai fatto, tutti noi siamo fieri di te. Si avvicina sollevando una mano, la medaglia brilla nell’aria carica di umidità. Ho uno scatto improvviso all’indietro. -No! Lasciami in pace! Il freddo mi fa lacrimare gli occhi, il vento si insinua sotto la divisa azzurra, rabbrividisco conficcando le unghie nella pelle. La donna e la bambina si tengono per mano, muovono le labbra ma nessun suono rompe il fischio della tempesta. Cerco ancora una volta le parole, tendo le braccia in avanti le palme rivolte verso l’alto, il sangue gocciola sul terreno roccioso. La donna e la bambina annuiscono lentamente, un vago sorriso illumina i visi devastati. Mi aggrappo con forza a quel sorriso, forse potrò riposare.

I due uomini in camice bianco osservano il vecchio disteso nel letto, il più giovane solleva lo stetoscopio dal petto raggrinzito. -E’ la fine, non passerà la notte. Il colonnello medico si avvicina e prende il polso con delicatezza controllando le pulsazioni. -Ora sembra più tranquillo. Le rughe sul viso del vecchio si distendono, le labbra si aprono lentamente ad assaporare l’ultima aria; sul comodino alla destra del cuscino sei giovani in tenuta di volo sorridono all’obbiettivo in una foto d’epoca, alle loro spalle la scritta ” Enola Gay ” scintilla sulla fusoliera del mastodonte d’acciaio.


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Umberto Bertani

Dichiarazione in volo

Soltanto una cosa volevo veramente: portarla in volo e svelarle, solo per aria, il sentimento che provavo per lei, dirle che quello era l’unico posto dove mi sentivo padrone delle mie idee. Un detto americano narra però che gli aviatori sono persone confuse, che parlano di donne quando sono in volo e che parlano di volo quando stanno con le donne. Maledizione, è vero. E si tratta di un errore clamoroso, da non fare mai. Era un sabato mattina di quelli bellissimi, quando il cielo di Lombardia, così bello quando è bello, per citare il Manzoni, ti lascia vedere tutte le Alpi e, dal mio campo volo, anche le colline dell’Oltrepò pavese. Ma quelle condizioni meteo, lo sapevo bene, erano solo una fantastica coincidenza: la cosa importante era che lei aveva detto sì, sarebbe venuta con me al campo e, magari, avrebbe deciso anche di sedersi al posto del passeggero Passai a prenderla alle nove in punto. Per arrivare in aeroporto ci sarebbero voluti circa trenta minuti e poi, finalmente, avrei soddisfatto la mia voglia di volare con lei, nmessa a tacere per tutta la settimana. In più c’era Laura, ancora solo un’amica, ma sapevo per poco, almeno considerato il numero di volte che c’eravamo cercati, un po’ al telefono, un po’ via e-mail. Va bene, ve lo dico: è castana, occhi scuri, snella e con un sorriso capace di farti perdere l’assetto. Insomma, quando l’avevo vista per la prima volta, con la minigonna e la camicetta senza maniche un po’ anni Sessanta, mi aveva colpito subito. Anzi, mi aveva abbattuto come un missile aria-aria partito da dietro l’orizzonte. Di lei mi piaceva tutt: la voce, il modo elegante di muoversi, come vestiva, le mani, le caviglie sottili, il didietro e il collo. Ero proprio cotto, anzi, come diciamo noi della combriccola, ero “in bonza”. Mentre andavo a prenderla la mia mente creava pensieri di ogni tipo: i controlli di fare al motore si accavallavano a immagini di Laura, immagini che si manifestavano come lampi di luce improvvisi, velocissimi ma dettagliati in ogni particolare, tanto che a momenti stavo per passare con il rosso proprio sui piedi di un vigile urbano. Concentrazione, soprattutto quella mi mancava, dovevo stare calmo e non farmi trascinare via la mente. Ecco il pensiero giusto: spreme le meningi per scegliere quale canzone avrei dovuto mettere durante il viaggio: Ligabue? gli Ottottotrè oppure qualcosa di più ricercato come i Queen o addirittura un brano alternativo come la Penguin Cafè Orchestra? Mah … Comunque arrivai sotto casa sua, citofonai e mi rispose con un “Arrivo”, così tornai in macchina e aspettai. Comparve dopo i canonici cinque minuti, davvero bella e vestita come l’avrei vestita io, perfetta nei suoi movimenti e nel suo sorridere. Salì in macchina e mi diede subito un bacio sulla guancia, spiazzandomi completamente, mentre io ne uscii con un “Come te la passi?” completamente fuori luogo, ben sapendo che stava attraversando un periodo non troppo spensierato per via del lavoro e dei suoi fratelli. Recuperai con un discorso un po’ troppo verticale, nel senso che mi stavo arrampicando sui vetri, ma si trattava nello stesso tempo di un modo come un altro per saggiare le sue reazioni al contatto con l’ambiente aeronautico. Le chiesi se mi avrebbe aiutato a fare i controlli, lasciandole intuire che fossi, prima di tutto, quel pilota prudente e meticoloso che invece so di non essere, o almeno non mi credo tale. Laura sembrava interessata a tutto, anche alle cose tecniche, in un modo così ortodosso da non sembrare neppure vero, ma completamente circostanziale. Arrivati al campo, attraversammo la linea di volo per arrivare all’hangar numero tre, mentre io, sperando di non incontrare nessuno che potesse rompere la nostra intimità, mi ritrovai invece a salutare anche chi non vedevo da anni, e tutti, chissà perché, trovavano mille argomenti strettamente tecnici e comunque pesantissimi. I cento metri a piedi fino alle porte dell’hangar mi sembrarono un racconto senza fine, un percorso minato. L’unico che aveva capito la situazione era stato il mio istruttore, il quale si era limitato a dire a Laura che ero stato uno dei suoi migliori allievi. Avrei dovuto poi offrirgli da bere, almeno perché ancora mi ricordavo le sberle sulle mani e gli improperi che mi lanciava quando volavo male. “Sai”, dissi a Laura cercando di darmi un’aria modesta, “in realtà, quando sbagliavo qualche manovra mi urlava: – Dio delle tempeste cosa fai! – ” E’ un bravo istruttore il mio, e anche ora che volo da tempo non perde occasione per darmi modo di migliorare. “In realtà la voce dell’istruttore la senti sempre quando voli, un po’ come quella che ti che ti vuole bene, che viene fuori proprio quando stai facendo qualche … “. Incredibile, dissi anche stupidaggine al posto di cazzata, e in quel momento mi congratulai con me stesso per non essere mai stato volgare, ben sapendo invece quali orribili sequenze di turpiloqui sono capace di confezionare. Mi guardò con quei due mondi scuri fissandomi negli occhi, e la voglia di baciarla per un momento fu più forte di quella di volare. Avrei fatto l’amore con lei anche dentro ad u biplano monoposto, oppure a cavallo di un deltaplano a motore proprio lì, nell’hangar aperto Ma come fare? Abbracciarla e tentare di baciarla? In modo casto o via di pennello? No, avrei rovinato tutto, anche in volo, che magari non ci sarebbe neppure stato. Meglio sorriderle, prenderla per mano e dirle: “Vieni!” portandola davanti al mio aereo, la cosa della quale vado più fiero, come se fosse l’unico al mondo, anche se so benissimo che dovrei cambiare l’elica ammaccata, reintelarlo e magari riparare quel conta-ore che è fermo da sempre. “Che bello quello lì” disse però Laura contrastando la mia camminata, “che bella linea, che bei colori, è bellissimo”. Ce l’aveva con quella meraviglia di aereo francese del Verilli, 300 all’ora da volare dentro un salotto, con tanto di stereo. Accidenti, perché le donne ti devono sempre mettere in competizione con la realtà? Quel gioiello della scienza e della tecnica costava 140 milioni che il padrone aveva pagato con un solo assegno, mentre io per comprare il mio accrocchio di tubi e tela c’avevo messo tre anni facendo sacrifici disumani, perdendomi tante serate con i ragazzi e un numero incalcolabile di prime visioni. Le dissi la verità, che costava molto denaro e che io non me lo sarei potuto permettere almeno per trent’anni. ma che il mio coso colorato le sarebbe piaciuto di più. Non ci crederete, ma quando lo spinsi fuori e il sole accese il colore delle tele, lei mi disse che era il più bello, il più colorato e il più tenero perchè, al posto di una linea e una livrea aggressive, era un po’ “sgarrupato”, come il suo padrone, e dicendo questo mi accarezzò i capelli, mentre io sentii la gioia riempirmi anche i polmoni. Ma durò poco, perché disse anche che non ci sarebbe mai salita. Ancora una volta sentii dentro di me la sensazione di essere stato abbattuto, ed ero tanto preso a cercare di rimettermi dalla “vite piatta” in cui mi trovavo che qyuasi non mi resi conto che Laura aveva detto qualcosa d’altro. “Scusa, non ho capito” dissi con dolcezza “stavo controllando le condizioni di questoi cavetto”. “ho detto che se prima fai un giro tu magari vedendoti poi mi convincerei a provare”. “Occhei” risposi sorridendo, e aggiunsi “farò un giro campo e poi atterro, ritorno qui al parcheggio e spengo. Se ti va prendi il casco e ti siedi qui, non preoccuparti delle cinture, te le allaccerò io.” Completai i controlli che mi sentivo già in volo. Del resto tutto il mio progetto di dichiararmi in aria stava per avverarsi; dovevo fare solo un giro campo, come per l’esame pratico: decollo, virata, volo in sottovento, virata in base, allineamento finale ed era fatta, da Laura mi separavano solo quattro manovre. Avviai il motore e le sorrisi. E sapendo che mi stava guardando feci tutto come da manuale, compresa la prova motore. Dopo la corsa staccai e salii con un angolo piuttosto basso ma costante, virai in modo perfetto, con una coordinazione degna del migliore autopilota e poi completai il circuito senza la minima oscillazione. Dopo poco più di un minuto ero in finale, perfettamente allineato e deciso a fare il migliore atterraggio della mia vita: via motore in corto, assetto tre gradi sopra l’orizzonte e ali livellate. Sulla soglia pista avevo circa un metro e mezzo di quota, lasciai scendere l’aereo ancoira un momento e poi, dolcemente, ricentralizzai la barra per la richiamata. L’ultraleggero obbediva: con la ruota anteriore alzata toccai la pista con una dolcezza quasi commovente, non sentii neppure le ruote appoggiate per terra, cominciarono solo a rotolare velocemente. Misi giù anche il ruotino e quindi lo lasciai rallentare un po’, fino a quando non frenai con decisione e diedi piede sinistro per liberare la pista. Mentre rullavo per il parcheggio cercavo Laura, doveva essere lì a guardarmi ma non la vedevo. “Eppure sarà qui, non può certo essere andata via, magari ha avuto bisogno di andare in bagno ma porca miseria, proprio adesso?” Le uniche persone che vedevo erano nascoste dalle porte dell’ahangr, ma una cosa individuai subito: la camicetta. Ora ero geloso, chi era quell’individuo vestito da topgun che le stava parlando? Per un attimo cercai nella memori chi, fra i piloti, non avrebbe perso l’occasione di tacchinarmi l’amica, anche se ormai ero abbastanza vicino per riconoscerlo: era il pericolosissimo Verilli, viscido quanto ricco ma maledettamente abile nel rimorchiare le fanciulle. Ero in pericolo, avevo un asso in coda pronto a tritarmi le penne, e cercavo dentro di me il modo per eliminarlo nel più breve tempo possibile. Spensi, scesi e mi tolsi il casco in fretta, mi avvicinai ai due, lanciai un ciao a lui sorridendo a denti stretti e dissi a Laura con un tono meravigliosamente calmo: “Eccomi, se te la senti andiamo”. Annuì. “Mi ha spiegato che con il suo aereo si può arrivare all’isola d’Elba con meno di due ore …” “Bè, sì, è molto veloce” blaterai “però anche con questo, in meno di due giorni ce la possiamo fare …” “andiamo dai” aggiunsi “il cielo ci aspetta”. Avevo fretta di portarla via dal campo visivo del Verilli, così, senza badare al suo stato d’animo, le misi il casco in testa e le feci sedere sul seggiolino. Le spiegai che cosa non doveva fare e dove non doveva mettere le mani, quindi mi infilai di nuovo il casco e mi sedetti. Con un gesto lento inserii gli spinotti dell’interfono  e dissi: “Mi senti?Tutto bene?” “Sìì” rispose, e mi sembrava che il tono della sua voce fosse tranquillo, un po’ emozionato ma nulla di più. “Se hai paura me lo dici e scendiamo, senza afferrare i comandi e soprattutto senza panico” “Va bene” rispose, e per la prima volta mi resi conto che ce l’avevo quasi fatta. Avviai il motore, controllai i comandi, che i caschi fossero allacciati, mi guardai in giro e tolsi i freni. Rullavamo tranquilli verso la testata pista, dove mi fermai per controllare che il circuito fosse libero e poi, con un “Andiamo!” diedi tutta manetta. Mentre acceleravamo le parlai, spiegando che stavamo per ruotare e quindi, ecco il momento, che ci eravamo staccati da terra. Presi quota con estrema dolcezza, le chiesi se andava tutto bene e rispose di sì, quindi virai verso il fiume per raggiungere un punto preciso, un posto che avevo trovato durante i miei voli in quei paraggi. Il mondo scorreva lento sotto di noi, ogni tanto rompevo il rumore di sottofondo con qualche commento sul paesaggio o sulla lettura degli strumenti, quando mi ricordai di aver preparato un’arma segreta: la musica! Diedi motore per prendere un po’ più di velocità, mi frugai nella tasca più grossa del giubbetto e trovai al tatto la presa della cuffia del lettore CD. Avevo masterizzato una compilation romanticissima: ora toccava a loro, a Baglioni, Phil Collins e Vasco aiutarmi, per trasformare quel volo in qualcosa di irripetibile. Cominciai col dire nel microfono: “Metto un po’ di musica” e spinsi sul pulsante play. Volare con la musica è qualcosa di stupendo, di indescrivibile. Del motore non rimangono che le vibrazioni e tutto sembra diverso, un po’ come vivere in un film. Eccoci, cercai il suo sguardo e lo trovai, volevo il suo sorriso ed era lì, era il momento di dirle tutto ciò che dovevo. Ancora un momento, oltrepassare quella collina e poi, la vista della cascata e della valle avrebbero fatto tutto, mentre io dovevo solo aprire la bocca e dirle le tre parole che avrebbero messo la musica in sottofondo e mandato il mio cuore ancora più in alto. Vedevo la collina, Laura, le ali, ma smisi di sentire l’accompagnamento del motore, che dopo aver borbottato per qualche interminabile manciata di secondi si spense. Laura mi guardò quasi incuriosita, mentre io mi voltai e capii subito: “Che pirla, la benzina!”. Mi ero dimenticato di fare carburante, possibile, proprio io? Eh già, prima volevo controllare tutto facendo quel circuito, poi c’era stato quel cretino di Verilli da evitare, ma accidenti, la colpa era solo dannatamente mia. “Tranquilla! Dobbiamo atterrare ma non è niente di grave” dissi in modo perentorio, “abbiamo quota e spazio a sufficienza”. La quota l’avevo, e tanta, ma su quelle colline lo spazio non lo vedevo proprio, e agitando la testa per vedere meglio trovai un prato in leggera pendenza, apparentemente senza fili elettrici in giro. Alla fine c’era una casa, se avessi messo giù il mezzo lì magari ci avrebbero soccorso subito, almeno lo speravo. Spensi l’interruttore generale, chiusi il rubinetto della benzina e, già con la barra a scendere,virai stretto per allinearmi al prato. Molti pensieri si accavallavano nella mia mente: ero preoccupato che non ci facessimo male, la figura di merda che ormai era inevitabile, e le parole di un vecchio pilota che volava in montagna, il quale un giorno mi aveva spiegato come atterrare sulle piste in pendenza. Picchiai il più possibile, incrociai i comandi per perdere quota e sentii Laura urlare. Le dissi di stare tranquilla ma con un tono irreale. Eccoci, ecco l’erba, ero ancora lungo ma non potevo farci niente, la collina era davanti a noi, sotto di noi, dieci metri di quota ed ero picchiato, richiamai e cercai di buttare giù le ruote ma eravamo troppo veloci, ci inclinammo a destra, provai a correggere ma toccai con il ruotino davanti. Il colpo fu forte, rimbalzai sul carrello principale, cercai di allineare e stavolta toccai giusto, eravamo per terra e interi, ma tutt’altro che fermi. C’erano arbusti che volavano dappertutto, rami che si spaccavano, ero andato troppo a sinistra e l’ala aveva toccato sui rami, diedi piede ma ci stavamo già girando e andavamo dritti verso un grosso cespuglio verde. Buttai le braccia verso di lei come per proteggerla ma sentii solo una gran botta, l’ultraleggero che si rialzava e poi un’altra botta terribile. Fermi. Riaprii gli occhi e vidi il viso di Laura con le lacrime. “Stai bene?” Un singhiozzo precedette un sì, “Riesci a muoverti?” “Sì” “Ti slaccio le cinture” aggiunsi, ma quando tentai di muovere il braccio sentii un dolore bestiale alla spalla. capii che un montante dell’abitacolo si era piegato e che il punto della piega era esattamente la mia clavicola. Usai l’altro braccio, mi alzai scavalcando tubi e rami e quindi la tirai fuori. Aveva un graffio sulla fronte che sanguinava un po’ ma stava bene. Un avolta in piedi tirai fuori il telefonino e le dissi di chiamare i suoi, dicendo loro che avrebbero dovuto accompagnarmi al pronto soccorso, ma non riuscii a finire la frase. Mi svegliai in ospedale ascoltando un brano di quel disco, avevo il collare rigido e una spalla fasciata. Lei era in piedi vicino al al letto, con un cerotto sulla fronte e il sorriso sulle labbra sottili. Le stesse che incontrarono le mie qualche secondo dopo.


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© 2001 Alberto Benchimol – Libreria Benchimol – Bologna << estratto dal volume “Azzurro Perfetto” >>


Sergio Barlocchetti