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La prima termica del mattino

Il sole è tramontato da circa un quarto d’ora quando sorvolo l’aeroporto di Perugia, punto d’arrivo per il conseguimento dell’insegna dei “1000” chilometri. Si sono accese le luci nella piana di Foligno e le acque del lago Trasimeno si sono fatte scure, colore del piombo, appena tinte di rosso dagli ultimi bagliori del tramonto. Data l’ora, il rientro a Rieti, aeroporto di partenza non è più possibile, perciò decido di atterrare a Foligno. Alle 21,16 del 17 luglio, dopo circa undici ore di termiche e traversoni, sono in finale sulla pista erbosa dell’aeroporto in un comprensibile stato d’euforia perché, arrivando a Perugia S. Egidio, ho completato il mio tema. Mi impongo di non esagerare con le manifestazioni di allegria, essendo ancora in volo, ma un bel passaggino del tipo: “un sibilo e un botto” come sentii fare, tanti anni fa da Riccardo Brigliadori Senior, proprio sul campo di Foligno … mi tenta enormemente. Prendendo terra sullo sterminato campo di volo, nel buio della sera non si intravede nessuno, nello scendere dall’aliante ho l’impressione di essere una specie di Robocop cui siano saltati i circuiti degli arti inferiori. Me la prendo comoda e, intanto, faccio due telefonate: la prima a Mattia, mio figlio, cui comunico di venirmi a prendere a Foligno e che merito un recupero veloce avendo fatto “i 1000” e la seconda a Luca Urbani, per confermargli che il muro dei “1000” chilometri, contro il quale si erano infranti i progetti di entrambi per anni, era stato demolito. Testimoni attendibili mi riferiranno che Mattia, ricevuta la mia telefonata, aveva preso a ballonzolare come in preda alla sindrome di San Vito, e che giunto come un razzo in zona Foligno aveva superato l’aeroporto ed era finito in qualche cantina del centro cittadino per evitare che i primi festeggiamenti per l’evento assumessero il tono e l’aspetto di una conventicola di astemi. Nell’attesa assaporo gli odori della circostante campagna e, avvoltomi nella lunga e candida foderina della fusoliera dell’aliante, per proteggermi, in mancanza di meglio, dalla pungente brezza notturna, mi avvio verso l’uscita dell’aeroporto, esempio monumentale, quest’ultimo, dell’architettura del trascorso ventennio. Passando davanti ad un vecchio edificio seminascosto dalla vegetazione, ormai disabitato, ricordo che il mio primo volo di distanza terminò proprio a Foligno dove completai le prove per l’insegna d’argento con il mitico M-100. L’edificio allora, era abitato dal custode del campo, un ex militare gentiluomo che si rivolgeva ai pilotini dei “50” chilometri chiamandoli “comandanti” e offrendo loro, nel suo modesto appartamento, un bicchierino di rosolio … tanto per ingannare l’attesa del recupero per via aerea. Mentre incedo nella mia insolita tenuta (ho la copertura della prua dell’aliante sulla testa come fosse un cappuccio ed il resto del tessuto intorno al corpo, fino a terminare in una sorta di strascico nuziale), vedo venirmi incontro lentamente due luci che da anabbaglianti, divengono abbaglianti. Pensando si tratti della squadra levo le braccia al cielo con un gesto ampio, un po’ per segnalare la mia presenza e soprattutto in segno di entusiasmo. Per tutta risposta la vettura effettua una brusca frenata, poi si rigira e sgomma lasciando intravedere attraverso i finestrini i volti contratti di una coppietta in cerca di luoghi appartati. In quel momento realizzo che il mio aspetto deve avere un che di inquietante. Pertanto, prima di uscire sulla strada che costeggia l’aeroporto, dove ho deciso di recarmi per attendere la squadra, mi spoglio della copertina e, raggiunto un anfratto nel muro di cinta, comincio a riflettere.

Il mio volo di “1038,4” chilometri, in termica sull’Appennino, con partenza nella zona di Rieti, sorvolando in tutto o in parte otto regioni (Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Lucania, Umbria, Marche, Toscana) ha richiesto la combinazione di quattro, anzi, cinque ingredienti fondamentali: la situazione meteo ottimale, la mancanza di impegni (perché assenti o perché rinviati), la disponibilità di un aliante ideale per l’alta performance (come il mio Nimbus 3), la convinzione circa la fattibilità dell’impresa e la preparazione, intesa quest’ultima come capacità di volare abbastanza concentrati per oltre dieci ore su percorsi già esplorati in altri voli. Pensando alle condizioni meteo trovate lungo la rotta mi rendo conto di aver volato per buona parte del tema tra i milletrecento e i milleseicento metri misurati sulla quota dell’aeroporto di Rieti (QFE). La giornata, infatti, era caratterizzata da una distribuzione dei cumuli ravvicinata ed uniforme lungo la rotta, ma con basi relativamente basse, condizione aerologica dovuta ad una depressione presente sui Balcani che convogliava aria umida e moderatamente instabile sull’Italia centrale e meridionale. I costoni inoltre, erano particolarmente attivi perché la situazione meteo, come previsto fin dalla sera del 16 luglio, era caratterizzata da correnti da Ovest, vento ideale per sfruttare in termodinamica i rilievi appenninici. Quante giornate simili si erano manifestate in precedenza? Quest’anno almeno altre due, pensai, nella seconda decade di luglio, quando i voli di distanza sull’Appennino sono favoriti dalle molte ore di insolazione, altra condizione indispensabile per realizzare il maggior numero di chilometri. Pertanto la sera del 16 mi ero convinto che il giorno seguente poteva offrire buone probabilità per effettuare “i miei primi 1000 chilometri”. Sulla scelta dei punti di virata non avevo incertezze: a Sud, dove il sole sorge prima e la giornata matura prima, avrei scelto, al momento di dichiarare il tema prima della partenza, Melfi, distante poco meno di trecento chilometri da Rieti; non un punto più lontano, per evitare il pericolo che, allungando il volo verso Potenza o verso la Calabria, attratto dalle ottime termiche che quelle zone offrono, avrei potuto trovare, al ritorno, situazioni difficili tra Isernia e Castel di Sangro, causate normalmente dall’irrompere nelle ore pomeridiane di aria adriatica, autentica killer di termiche. A Nord avrei scelto l’eremo di Camaldoli quasi al confine con la valle di Borgo S. Lorenzo: un punto di virata che mi offriva un buon appoggio orografico, sia all’andata che al ritorno, distante da Rieti quel tanto che basta per disporre ancora di qualche termica serale dalle parti di Poggio Bustone; infine la scelta del terzo punto: Borgo San Pietro, svincolo autostradale, a Sud di Rieti, mi avrebbe permesso di allungare l’ultimo lato del tema verso Nord di un centinaio di km … giusto quelli necessari per completare il percorso dei “1000”. Restava da individuare il punto di partenza adatto per un rapido aggancio, possibilmente a quota non superiore ai mille metri, per evitare eventuali penalizzazioni dovute alla minore altitudine della zona di atterraggio rispetto a quella di decollo. Purtroppo, a Rieti, come è noto per chi vola in zona, non è facile agganciare a quella quota in ora mattutina; inconveniente che, riducendo la disponibilità delle ore di volo, finisce con l’accorciare le distanze percorse. Comunque la sera del 16 luglio progettavo che per il giorno successivo avrei agganciato a mille metri, confidando nel rapido manifestarsi di ascendenze. In conseguenza dell’annunciato vento da ponente. Anche Mattia, mio direttore sportivo, si era mostrato ottimista. Così, la mattina del 17 luglio, alle ore 09,00 ora locale, l’aliante era già stato portato in linea pronto per il decollo, compreso il pieno dell’acqua, effettuato da Mattia a fatica, perché l’impianto idrico dell’aeroporto, si trovava quel giorno, in una avaria di tipo prostatico. Prima del decollo raccomando al trainatore di portarmi nella zona di sgancio evitando virate strette e peli ai costoni perché, durante il traino, l’attenzione del pilota deve essere concentrata soprattutto sugli eventuali segni che si leggono nel cielo quando inizia l’attività termica. Durante il traino sulla piana reatina, con prua nord verso Polino, non si avvertono segni di attività termica, ma sui rilievi ad est del lago di Piediluco cominciano i primi fremiti dell’aria. Sono da poco passate le 10,00 ora locale: nella zona di Polino si forma un piccolo filamento bianco, appena una sbavatura nel cielo azzurro del mattino, e tanto basta a farmi credere nell’aggancio. Infatti lasciato il traino a mille metri, l’aggancio c’è, anche lì un poco incostante e non facile a causa della zavorra idrica. Impiego circa dieci minuti per guadagnare seicento metri poi mi avvio in direzione del monte Nuria passando davanti al Terminillo. L’attività termica non è granché, mi avventuro verso Campo Felice, nella cui conca entro piuttosto basso, con un margine di quattrocento metri rispetto alla quota dell’altopiano e la quasi certezza che, se sotto il batuffolo che scorgo in fondo alla piana non c’è una termica sfruttabile, il mio volo terminerà con un fuori campo dopo neppure un ora. Fortuna vuole che io mi imbatta in un misterioso flusso laminare, beccato a centro piana con valori che aumentano mano a mano che mi porto sotto al batuffolo. Avvolto nella magia del volo in onda, mi guardo intorno e non posso fare a meno di rimanere incantato dalla bellezza dei luoghi che mi circondano nell’aria tersa del mattino: le cime del Gran Sasso, del Sirente e del Velino con i ripidi canaloni parzialmente in ombra che si protendono verso il cielo elevandosi dagli altipiani de L’Aquila, delle Rocche e di Avezzano, dove la nebbia del mattino si è ormai diradata tranne che dalle parti di Sulmona, ancora immersa sotto una bianca coltre. Raggiunti i duemilacinquecento metri nella zona di Campo Felice, ho la quota necessaria per arrivare ai primi contrafforti dell’orografia tra il lago di Scanno e il Piano delle Cinque Miglia., abbastanza alto, diciamo sui milleseicento metri, per tentare eventuali agganci o planare basso, ma di misura, sfiorando i tetti di Roccaraso, nella sottostante valle del Sangro. Intanto verso Sud si vanno formando due strade di cumuli, una ad ovest, sull’asse Isernia-Ariano Irpino-Melfi, l’altra, spostata ad est di circa cinquanta chilometri. Al termine della prima ascendenza, a sud di Castel di Sangro, registro che la base dei cumuli non supera i milleseicento metri, il valore della salita si aggira intorno al metro e mezzo di media, il vento proviene da Ovest con una intensità di quindici-venti chilometri orari. Con queste condizioni il Nimbus 3 fila via che è una meraviglia e la sua strumentazione aggiornata rende il volo più facile, più veloce, più lineare: da Campobasso a Melfi e poi fino a Camaldoli raggiungo e mantengo la media di centoventi chilometri orari.

Altri tempi quelli in cui, soltanto una dozzina di anni fa o poco più, avevo iniziato ad esplorare il Sud suggestionato dai racconti sui vecchi temi di gara in distanza libera e spinto dalla curiosità di volare con l’aliante in zone sconosciute. Allora, fino all’avvento del GPS, si navigava con la carta geografica, la bussola e il cronometro: la rotta per raggiungere il punto di virata (o “pilone”) veniva divisa in tanti punti osservati sulla carta, ciascuno dei quali, una volta raggiunto ed identificato, serviva come orientamento per il balzo successivo, tenuto conto della bussola e del cronometro, strumenti indispensabili per la rotta da seguire e per sapere dopo quanto tempo dall’ultimo punto sorvolato si sarebbe raggiunto il successivo. Ricordo che l’identificazione delle zone sorvolate, sulla carta geografica, costituiva un momento di grande euforia, mentre uno stato d’animo vicino all’angoscia non mancava di manifestarsi quando sulla carta non si riconosceva la zona dove si pensava di trovarsi. A volte l’osservazione del terreno sottostante veniva complicata anche soltanto dal cono d’ombra proiettato sul paesaggio dalla presenza di un imponente cumulo congesto. In queste condizioni, capitava perfino di non scorgere una cittadina pur essendo nelle vicinanze. Tutto ciò rallentava le medie dei miei primi voli di esplorazione e quindi le distanze percorse, ma era più emozionante e contribuiva ad accentuare nell’attività del volo a vela quelle esperienze che ne fanno un’autentica disciplina. Inoltre nel profondo Sud, da Campobasso in giù, il volo a vela non era praticato (purtroppo non lo è tutt’oggi!) e ci si sentiva solitari (e ci si sente soli tutt’ora) nell’immensità circostante, soprattutto nella zona del Tavoliere dove l’azzurro del cielo si fonde con il giallo degli sterminati campi di grano e con la striscia blu dell’orizzonte marino. Certo un atterraggio fuori campo da quelle parti metteva i brividi pensando alle ore necessarie per ricongiungersi con la squadra, perché, mancando il cellulare potevano passare secoli prima di trovare un telefono.

Una volta ero finito con un ASW-20 in una sorta di anfiteatro con pareti ad imbuto non molto ripide (non tanto comunque da rendere impraticabile l’atterraggio in salita), intorno al quale non si scorgeva alcuna presenza umana. A carrello estratto, l’ala destra dell’aliante si era appoggiata su un qualcosa di ascendente segnalato poco dopo dal volteggiare di un grosso rapace e da un batuffolo bianco in fase espansiva, poi trasformatosi in uno splendido cumulo a base piatta. Mentre venivo risucchiato verso l’alto si era materializzata, nell’infinita solitudine, una crocetta bianca: l’aliante di Luca (Urbani), del tutto inatteso, che stava tornando dai monti al confine tra la Lucania e la Calabria, dove si era avventurato a mia insaputa. – Ciao Ugo!? – mi aveva detto via radio, sorpreso quanto me. – Ciao Luca! – gli avevo risposto con entusiasmo Poi all’unisono c’eravamo detti: – Si va insieme? L’idea c’era venuta, soprattutto pensando con orrore al pittoresco e starnazzante pattuglione di piloti, perennemente accodato al leader del momento, in cui si è soliti imbattersi, durante le gare di velocità.

Sulla strada del ritorno incappo in un primo ostacolo, prima di attraversare la valle del Sangro: la base relativamente bassa delle nubi, circa milleseicento metri, non dà il margine di quota sufficiente per l’aggancio sull’Altopiano delle Cinque Miglia, dalle parti di Rivisondoli. Per giunta davanti a me vedo che la base dei cumuli si abbassa. Rimpiango i tempi in cui, muniti di virosbandometro, congegno oggi escluso dalla strumentazione, entravo in nube tra Isernia e Castel di Sangro, raggiungendo comodamente la quota per l’aggancio a Rivisondoli. Sono le 14,40 circa: rimangono da percorre più di cinquecento chilometri, ho ancora davanti a me sei ore di luce e una prevedibile buona attività termica di tre ore, poco più o poco meno; mi rendo conto che non posso permettermi di tenere una media inferiore, nel complesso, ai novanta chilometri orari, prestazione questa che tende a diventare impraticabile quanto più si allunga il percorso. Dunque non ho altra alternativa che quella di proseguire dritto, perché, deviando verso la Val Roveto, non solo allungherei il percorso di circa quaranta chilometri, dal punto in cui mi trovo, ma finirei con lo spostarmi troppo ad Ovest rispetto al formidabile asse orografico costituito dalla Maiella, dal Morrone , dal Gran Sasso, dal Gorzano e dal Vettore. Quindi mi avventuro in direzione del passo in corrispondenza dello spigolo Sud Ovest della Maiella; man mano che procedo le condizioni su quel varco, sovrastante la valle del Sangro, divengono quasi proibitive, perché una formazione nuvolosa mi si para davanti lasciandomi un passaggio molto esiguo tra la base nube e il terreno montano accidentato. Come se non bastasse, poco prima di imboccare la stretta gola, la visibilità peggiora: “Vado? Non vado?” Il chiarore che si scorge oltre la nube mi rassicura sull’assenza di ostacoli. Questione di attimi: “Vado!”, e sbuco sul costone della Maiella, assolato ed attivo, velocità centocinquanta chilometri orari, vario a zero. Mi dirigo verso il Morrone, dove mi fermo per fare quota fino a duemilacinquecento metri, poi imposto il mio volo costonando il più possibile e raggiungo senza difficoltà la Val di Chiana, in fondo alla quale si trova Camaldoli, secondo punto di virata prefissato. E’ normale che in un volo tanto lungo ci sia qualche difficoltà … ora il nuovo ostacolo è costituito da un enorme congesto, nella zolla del Trasimeno, la cui cuspide, appiattendosi, ha creato una vastissima zona d’ombra lungo la valle del Tevere, proprio dove ero intenzionato a passare. Da quelle parti l’aria è morta; intanto l’ombra del cumulo avanza verso Est ed io mi trovo costretto a deviare verso la zona est ancora assolata ma molto distante, direi troppo, tenuto conto della quota disponibile, pari a millecinquecento metri sulla verticale del passo di Viamaggio. Adesso è il momento che il Tre Tango dia il meglio della sua massima efficienza. Riduco la velocità a cento-centoventi chilometri orari e mi dirigo verso Gubbio. Impiego circa una quarantina di minuti in una interminabile planata. Intanto anche quella zona è andata in ombra mentre mi trovo a circa quindici minuti dalla cittadina. Non posso fare altro che proseguire: ormai ho solo novecento metri, anzi decido di aumentare la velocità perché, al punto in cui sono, mi conviene arrivare sui costoni delle colline di Gubbio il più presto possibile, per trovarli ancora caldi quel tanto che basta per spizzicare qualche ascendenza. A seicentocinquanta metri trovo qualcosa di sfruttabile fino a raggiungere i mille metri. Potrei fare di più, ma non posso attardarmi: mancano ancora duecentocinquanta chilometri per completare il tema e sono già le 18.15. I costoni si rivelano decenti tanto che riesco a percorrere i centotrenta chilometri che mi separano dal terzo punto di virata, Borgo San Pietro, in circa 90 minuti. Dopo aver aggirato il pilone con novecento metri, mantengo la quota fino a Poggio Bustone, dove sullo spigolo Nord-Ovest, centro qualche centimetro a salire fino a raggiungere i millecentocinquanta metri. Alle 20,17 mi separano da Perugia aeroporto … ottanta chilometri. Ora, se la restituzione funziona, ho i “1000” in tasca. E infatti la restituzione, questa autentica magia termica che ti regata la sera … funziona. Alla media di centoventi chilometri orari raggiungo Perugia S.Egidio, perdendo soltanto seicentocinquanta metri! Sono le 20,55: mancano poco più dì venti minuti allo scadere della mezz’ora di volo consentita dopo le effemeridi. Potrei terminare qui il volo … ma ho ancora cinquecento metri, pertanto, opto per un atterraggio virtuale attestato dal registratore di volo (logger) su Perugia aeroporto, per poi effettuare l’atterraggio reale più vicino a Rieti: nel comodo aeroporto di Foligno.

Il suono prolungato di un clacson mi distoglie dalle mie riflessioni: è arrivata la squadra, abbracci, baci e poi di corsa all’aliante che sonnecchia sfinito sull’erba dell’aeroporto. Mattia fà comparire la bottiglia di prelibato frizzantino, me la mette in mano e sollecita innaffiata e bevuta. Detto, fatto, in un clima di grande euforia, nella notte stellata di luglio.

Sulla strada del ritorno comincia il tormentone: la foto della lavagna sarà venuta? Ricordo che al momento della partenza si era inceppato il meccanismo di scatto. Il logger avrà funzionato? Con raccapriccio mi viene in mente che la memoria dell’apparato non è infinita e che, forse, non tutte quante le undici ore di volo sono state registrate. Cerco di distrarre Mattia che, influenzato dai miei dubbi, comincia ad agitarsi, chiedendogli di indovinare quale è stato il momento più bello del volo e lui di rimando: – Non mi ripetere come al solito … la prima termica!?” – Già, proprio quella … – esclamo, mentre riassaporo la magia della prima aria del mattino che prende vita e leggera, leggera, dolcemente si avventura nel cielo portando con sé … l’aliante ed il suo pilota.


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A Hug

Rischio di collisione

aeroplano avviamentoIn quel momento non poteva rispondere. Stava attraversando una tempesta emotiva di quelle forti. E questa volta rischiava veramente di soccombere. Dovevamo parlare, anche a rischio di scontrarci duramente. Prima o poi la nostra situazione doveva trovare un chiarimento. Così l’avevo pregata di sedersi accanto a me, nella poltrona lasciata momentaneamente libera dal pilota di sinistra. Il velivolo s’inclinò leggermente a sinistra. Di una quantità quasi impercettibile. Pochi gradi sull’orizzonte artificiale, ma di un tanto che bastava per imprimere all’aeroplano una lentissima virata, leggera e inesorabile. Me ne resi conto ma non intervenni! Lei stava seduta con le gambe distese e la pancia in fuori. Come se avesse appena fatto un pranzo luculliano. Bellissima come sempre! Improvvisamente aprì le gambe come fanno le ballerine quando stanno per fare una spaccata. Sul principio pensai che volesse buttare tutto in ridere mimando un passo di danza, ma poi, sempre più catturato dalla sua gonna cha continuava a scivolare verso l’alto, restai ipnotizzato come un cretino. Il panorama si fece sempre più avvincente: in cima ad un bel paio di cosce schiuse apparvero delle accattivanti mutandine d’un sorprendente blu intenso. Un colore perfettamente intonato alla sua uniforme da hostess. Restai inchiodato come in una trance ipnotica.

Il grosso quadrigetto, nel frattempo, stava continuando a virare lentamente a sinistra. Quando avvistai il bimotore che ci veniva incontro era ormai tardi. Volavamo su rotte di perfetta collisione. Terrorizzato afferrai con forza il volantino, premetti il tasto giallo col pollice destro e sganciai l’autopilota. Spinsi più che potetti verso il basso inclinando contemporaneamente le ali verso destra. L’inerzia era enorme. Prima di ottenere una risposta significativa dai comandi di volo trascorsero degli istanti interminabili. Mi resi conto che l’equipaggio dell’executive non ci aveva avvistati. Infatti l’aeromobile continuava imperterrito a mantenere quota e prua invariati. Mentre la donna urlava terrorizzata io mi sentivo paralizzato da una tensione parossistica. In un baleno i due aerei furono così vicini che riuscii a scorgere con precisione la sagoma del copilota del piccolo jet. Con disperazione continuai a spingere il volantino verso il basso e verso destra … Improvvisamente mi accorsi di non aver ridotto i motori al minimo. Un errore tanto grave quanto inesplicabile. Entrai in uno stato di confusione.

Mi svegliai in un bagno di sudore e guardai la sveglia sul mio comodino: erano le cinque del mattino. Potevo dormire ancora un ora prima di alzarmi per prepararmi alla partenza.

Nel 1978 ero un primo ufficiale pilota di B 747. Quel giorno il mio turno di volo prevedeva due tratte: Roma – Milano, Milano – New York. Il volo si svolse regolarmente.


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Mario Trovarelli

L’ultimo volo

aeroloopingA quest’ora la sabbia dovrebbe essere tiepida, ma i miei piedi nudi non se n’accorgono nemmeno perché non percepiscono niente.

Talvolta ti scorgo in lontananza mentre corri sulla spiaggia di notte. Elegante e fugace. Il tuo pareo è ancora sommariamente annodato sul fianco. E sotto il drappo rosso indossi ancora il tuo bel costume azzurro intriso di salsedine. Ormai asciutto.

I sogni sono degli squarci sul mondo della verità.

La morte è un sogno interminabile.

Intorno a me c’è tanta acqua blu e profonda. Trasparente.

Il tempo è sospeso. Non vedo mai il sole.

Spesso compare la luna, e le nuvole si tingono di bianco-neve. Mentre la spiaggia diventa un incanto desolato e nostalgico.

“Abbraccia la mia anima e proteggila dalla sofferenza. Come facevi un tempo”. T’imploro.

Percorro miglia e miglia di tiepida sabbia avendo tuttavia la strana sensazione di restare fermo. Nella consolazione d’una vita difficile e durissima, densa d’affetti e di poesia, ho fatto di tutto per ritrovarti.

Di tanto in tanto m’appari. Ora là, dietro i cipressi. Ora qua, sul bagnasciuga. A volte mi sembra d’intravedere la tua figura amata sullo specchio di mare blu. Mentre cammini sull’acqua.

Ma ormai è tardi. Io abito qui, in questa casa di sogno. Ogni volta è più bella, sempre diversa, sempre più ricca e spaziosa.

Le stelle per soffitto, l’aria per pareti, la spiaggia per pavimento. Il mare sullo sfondo. Io sto qui, su questa spiaggia sterminata, ovattata e priva di suoni. Accanto al mio velivolo spezzato.

Quando ti vedo passeggiare sulle onde intuisco una melodia che non riesco a sentire. E immediatamente la tua immagine svanisce fra le onde come la musica di uno stereo rotto si spegne nella camera da letto.

Più in là, oltre la spiaggia, filari di cipressi alti e verdi ondeggiano alla brezza di questo crepuscolo perenne.

Campi sterminati di lapidi, attorno ai cipressi, si perdono lontano fino all’orizzonte infinito. Sto qui da solo, in compagnia del tuo bianco foulard di seta indiana. Unico cimelio del nostro ultimo volo. Magicamente il mio pensiero tende a trasformarsi in azione, e torno a quella notte.

Il volo radente sulla sabbia e sul pelo del mare fino a sfiorare l’acqua. L’ala destra inclinata per infilarmi nel solco disegnato dall’onda. Alti spruzzi d’acqua salata sollevati dal ruotino di coda.

“Guarda verso dritta, – ti sento gridare – la luna sta nascendo sul mare”. “E disegna un’incredibile scia d’argento sull’oceano di notte”. Penso nella foga del volo acrobatico. Trasformo mille figure d’alta scuola con elegante bravura. “Ti amo”. Urli nel vento. “Come?” “TI AMO…”. Urli più forte.

Ti avevo sentito benissimo, ma volevo sentirtelo dire di nuovo.

Scivolo lievemente d’ala a sinistra e poi a destra, per attenuare un po’ la tensione delle violente accelerazioni acrobatiche. Ma subito dopo… motore avanti tutta con manetta a battuta. Quattromila giri sul motore stellare. Velocità da capogiro. Elica al passo alto per mordere aria e acqua contemporaneamente. Ora metti la pallina al centro e tieni l’aeroplano livellato mentre raggi lontani di luna sul mare s’intrecciano col biancore del tuo magnifico foulard. Il motore romba dentro il rosso biplano e mi rimbomba nel petto in sintonia col cuore in tumulto di passione. Per il volo e per te.

Amore e volo!

Sono felice.

Una leggera virata a sinistra cabrando lentamente per guadagnare quota. Livellamento a quattrocento metri e poi giù per trasformare la quota in velocità. Un looping a cerchio perfetto si disegna nel cielo della notte stellata.

Ora immagino la sabbia calda sotto i tuoi piedi nudi. E mi sembra di volare ancora nella scia del tuo profumo di gelsomino. Il vento m’inebria della tua fragranza.

Sono un pilota in gamba. Sono il migliore. Tonneau a bassa quota a pelo d’acqua. Volo rovescio sulla spiaggia. Ala destra tra due lunghi filari di cipressi. Cabrata a candela. Picchiata da brivido. Impennata con avvitamento verticale. Vite a caduta libera con giri infiniti. Otto lento. Virata di scampo. Volo lento con tutto fuori.

Librarsi sul mare blu… è come fermare il tempo.

Non ho mai volato da solo. O con te immaginata nel sedile anteriore o con la bottiglia sul cruscotto. Ti portavo con me anche quando non c’eri.

Quella notte ero più ubriaco del solito. Di vino, d’amore e di volo.

Ti sollevai per sistemarti sul mio rosso biplano. Davanti. Al posto d’onore. T’avrei dato il battesimo dell’aria. Finalmente insieme. Liberi nel cielo di sera, nel blu profondo e terso.

Io sono un bravo pilota. Ho le ali disegnate addosso. Ho compiuto mille imprese memorabili.

Ma giunse il tempo della congiunzione fatale. Il volo e l’ebbrezza non si combinano insieme. Tante volte sono andato in volo in compagnia della bottiglia. Ogni volta che non potevo averti. Mi vantavo di saper mantenere le ali livellate o di virare in modo perfettamente coordinato tenendo la bottiglia costantemente incollata sul cruscotto.

Tu avevi gli occhi dell’amore. Io le ali disegnate sul corpo. Il motore nel petto. La potente elica a passo variabile nel pensiero.

Io sono potente come il mio aeroplano.

Ma la notte s’illuminò di stelle. E i suoni scomparvero improvvisamente.

I morti vedono Dio ma non possono vedersi tra loro. Questa è la mia condanna in questo limbo. E’ la fine del tempo.

Questo spazio di lapidi e di cipressi sembra sterminato perché forse non c’è. Il mare, la spiaggia, tu… probabilmente siete solo nella mia mente. I vivi sono altrove. Nel tempo e nello spazio.

Questa non è una vita alternativa. Non ho più il mio biplano.

Questo è l’altro mondo. Un istantaneo sogno lunghissimo, una sensazione dolce e pungente, una sospensione del tutto nel niente, una dimensione senza spessori.

Qui dentro il dritto è uguale al rovescio, il dentro assomiglia al fuori, il veloce appare lentissimo.

Miglia e miglia di volo in un solo momento.

Credevo di ritrovarti qui. Pensavo che fossi tu a venirmi incontro. Tutte favole da vivi!

In quest’orto suggestivo, di fiammelle sempre ardenti, una pace di silenzi si alterna a percezioni sempre nuove. E sorprendenti. Noi siamo condannati a vagare su questa spiaggia per l’eternità perché siamo morti senza sepoltura. Questo è il limbo dei piloti. Un mondo traslucido di sensazioni, senza dolore e senza gioia.

L’ironia vuole che a pochi passi da qui c’è un grande cimitero. Ti ho dato il battesimo del volo e anche la morte.

Sono un grande pilota.

Il rimorso mi accompagnerà perennemente per averti separata da me e dal mondo per sempre.

Ho cominciato a sognare da bambino. Dapprincipio erano sogni spaventosi di cadaveri nei cassetti e acqua minacciosa. Ma poi sorsero bellissime cattedrali e dolci colline silenziose. Ho visto l’inferno e il paradiso. Ma questo è un luogo d’indifferenza. Creato per chi non ha grandi meriti né colpe gravi. Qui non c’è luce perché manca il buio su cui appoggiare i raggi luminosi.

Tutto è pervaso da un perenne crepuscolo.

Quello che i vivi non sanno è che si può morire migliaia di volte nell’arco dell’intera esistenza. Si muore ogni volta che si dorme e si sogna.

La vita è una condizione mentale, mentre la morte è una condizione totale. Quando si sogna si esce dalla mente e si entra nell’altro mondo.

Quando si muore si esce da tutte le possibilità. E si entra nell’assoluto.

L’ala destra nell’onda. L’ala sinistra fra i cipressi. Volo radente sull’acqua salata. Volo rovescio sulla sabbia. Vite stallata a spirale. Richiama! Non lasciarti tentare dal gioco della rimessa all’ultimo momento. Sono già morti troppi piloti dopo cinquanta giri di vite. E’ pericoloso. Richiama più in alto. Datti una possibilità.

Ma io sono il miglior pilota del mondo.

L’impatto fu inevitabile. E ti persi per sempre fra le onde giocose di questa tiepida spiaggia. In una notte memorabile d’amore e di volo.

Ai piloti dell’Aviazione dell’Esercito


#proprietà letteraria riservata#


Luca Brumurelli

E’ scritto nel vento

Vagavo senza meta. Fui dapprima uno sciuscià e poi un giovane bruciato. Ma presto mi crebbero i capelli e presi a fumare coi figli de’ fiori. “We shall overcome” Suonavo la chitarra e cantavo con Joan Baez e Bob Dylan. “Blowin’ in the wind” Ma nel cuore c’eri solo tu. Unico amore della vita mia. Vagai a lungo finché … …oltre il limite della fantasia, quando il sogno si congiunse col cielo, ti trovai. Vestita di rosso con rintocchi d’avorio. Dalle gambe snelle e forti. Le braccia lunghe e spiegate come eleganti ali affusolate. La linea armoniosa. Mi fermai ad ammirarti con l’emozione d’un bimbo che scopre il suo primo regalo col cuore battente. Quando tornai in me ti girai attorno per mangiarti con gli occhi. E quando ritrovai coraggio m’avventurai più vicino per guardarti il grembo. Caldo e accogliente. E morbido al contatto. Nonostante mi sentissi indegno anche solo di sfiorarti, tremante m’avventurai dentro di te. Restai in estasi per infiniti istanti. Finché compresi d’esser l’unico pilota che tu aspettavi da sempre. Sentii d’esser giunto alla meta. D’esser diventato un uomo. “How many roads must a man walk down Before you call him a man? Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand? Yes, ‘n’ how many times must the cannon balls fly Before they’re forever banned? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Fu così che ruppi ogni indugio e decisi d’avviare la tua elica mordente. Ci levammo in volo dopo una breve corsa sul prato. Salimmo insieme nel blu per dipingere il cielo di figure superbe con le tue ali di sogno. Di rosso e d’avorio. Docilmente rispondesti ai comandi come se io e te fossimo il risultato di un’unica colata d’affetto fusa insieme da un abbraccio caldissimo e solenne. Un piccolo tocco sulla cloche per cabrare fino a bucare il cielo. Cloche alla pancia e piede destro a fondo corsa per entrare in vite e scendere girando allegramente fino a sfiorare le cime degli ulivi. “How many times must a man look up Before he can see the sky? Yes, ‘n’ how many ears must one man have Before he can hear people cry? Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows That too many people have died? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Rimessa e motore avanti per passare sugli alberi e riguadagnare velocità. Io e te insieme verso l’ultima barriera. Oltre la fantasia. Un looping a bassa quota con chiusura a pelo di suolo. E finalmente esausti, dall’altezza di tangenza, t’accelerai da capogiro per portarti giù in picchiata verso un orgasmo celestiale. “How many years can a mountain exist Before it’s washed to the sea? Yes, ‘n’ how many years can some people exist Before they’re allowed to be free? Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head, Pretending he just doesn’t see? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind”. Cantai e volai a squarciagola mentre il vento soffiava e scriveva la storia dell’artista con le ali. Accadde lassù, nel profondo blu del cielo azzurro di marzo. Ai confini della mente, al di là dell’ultima barriera.


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Mario Trovarelli

Calanchi

Dal diario del colonnello pilota Mario Gertz

Mercoledì, 29 luglio 1924, ore 12.37

L’aeromobile V90 siglato I-GH76, al cui comando mi trovavo personalmente, è precipitato in un luogo imprecisato della zona dei Calanchi. Il piano di volo prevedeva il decollo da Merty, il sorvolo dei Calanchi, e infine l’atterraggio a destinazione dopo sei ore. Eravamo diretti a Frybur. I danni al velivolo sono ingenti. L’elica quadripala è ripiegata su se stessa in due punti. Il tettuccio è completamente distrutto. Il carrello è fuori uso. La radio di bordo non dà segni di vita. La fusoliera appare sostanzialmente integra ma l’ala destra non è più in sito. Mentre l’ala sinistra è squarciata e risulta tranciata a metà. Quanto alla mia persona, a parte una lieve ferita alla gamba destra, sto bene. Posso muovermi e camminare. Il tenente Gertz appare priva di ferite importanti. Ha il volto insanguinato a causa di una lacerazione esposta alla fronte. Nell’incidente la ragazza ha perso i sensi ed è rimasta svenuta per alcune ore. Quando è tornata in sé ha dato segni di amnesia retrograda e di confusione mentale. La zona dell’impatto è impervia. Il territorio è spettrale. Lo scenario è simile a quello di un deserto ed è privo di ogni forma di vita. Non si scorge neppure un filo d’erba. Il velivolo giace in una strettissima gola circondata da cime alte e acuminate come guglie monumentali. Le creste dei calanchi, dell’altezza di parecchie centinaia di metri, appaiono sottili come lame di rasoio. Non so come ci si possa muovere in questo inferno inospitale di roccia viva, le pareti di basalto sono lisce e nere come specchi. Non disponiamo di viveri e l’acqua recuperata dal bagagliaio dell’aeromobile è contenuta in un’unica bottiglia termica di appena un litro. Al momento non riesco a fare nessuna ragionevole ipotesi sulle possibili cause dell’incidente. La bussola magnetica, poco prima dell’impatto, indicava una prua di 275°. L’equipaggio è formato dal sottoscritto, colonnello pilota Mario Gertz, e dal tenente navigatore Hulja Gertz, mia figlia. Siamo addestrati alla sopravvivenza. Sto riflettendo per valutare la situazione. Che Dio ci aiuti!

Colonnello pilota Mario Gertz


Le squadre di soccorso, giunte dopo diciassette giorni sul luogo dell’incidente, trovarono i due corpi abbracciati. Il colonnello stringeva ancora tra le mani l’unica bottiglia termica in loro possesso, ormai vuota. Nel tentativo estremo di offrire, con quelle ultime gocce d’acqua, la vita alla sua Hulja.  


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Mario Trovarelli