Quando ero piccolo

Quando ero piccolo volavo basso sul terreno. Sentivo l’odore delle cose, le vedevo e studiavo bene da vicino. Sentivo l’odore della terra planandole a pochi centimetri. Sentivo il profumo della polvere e del vento, col vento mi mescolavo; sentivo i fiori e il muschio, sui fiori mi posavo; gli aghi di pino e le foglie più alte sugli alberi, li potevo raggiungere senza sforzo, e da li guardare il cielo blu sopra; mi potevo infilare nei covoni di fieno tagliato, contare le bestie al pascolo sugli alpeggi, dall’alto.

Calavo dalle colline come un’orda barbarica, ma con il mio fragore dentro; mi alzavo fino alle fronde degli alberi schivandoli e mi sentivo il cuore esplodere di gioia a tre metri dal suolo.

Sorvolavo i campi come una brezza di primavera, l’odore dell’erba era mio: i fiori, la terra, l’acqua, i sassi (oddio l’odore dei sassi!), le foglie d’autunno nei boschi di montagna, tra la nebbia che avvolge i tronchi: con un passaggio basso e veloce le sollevavo e il loro profumo di funghi mi avvolgeva.

Dentro me urlavo di gioia ad ogni volo, ad ogni planata, ad ogni basso passaggio sul mondo profumato.

Ma la gente non vuole volare: molti hanno paura, e si difendono dicendo che bisogna crescere, smettere di giocare. E allora ho deciso: del volare ho fatto la mia vita.

Un giorno me ne stavo a gironzolare per il pendio di una montagna, quando ho deciso di riposare in una radura col muschio. Mi sono steso e ho alzato gli occhi al cielo. Le nuvole correvano instancabili nel blu, formandosi e sfaldandosi di continuo. Lì ho deciso di volare alto, diventare pilota.

Ho scoperto con dolore che per essere pagato dovevo essere utile, dovevo portare gente a spasso, e per questo mi servivano le lunghe ali di metallo.

Ho detto addio alle prodezze e ai virtuosismi, ho detto addio ai cambi repentini di rotta.

Qui siamo monitorati e vettorati , spiati e guidati; qui ci sono strumenti e spie luminose, qui non si cambia rotta: segui la strada che ti dicono, non si sgarra.

Ora sto seduto in poltrona, il mostro alato vola da solo, docile. Ora, a 25000 piedi, la terra non si vede neanche, non sono più basso al suolo. Ora nelle narici ho l’odore di sudicio della cabina, degli strumenti di bordo, del kerosene al rifornimento, il profumo studiato delle hostess. Ora ho con me centocinquanta persone, e a loro non interessa l’odore dell’aria e delle cose, loro vogliono arrivare in fretta a destinazione. Da una città all’altra senza sosta, senza amore.


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India

Una macchia

La sala cortesia di un aeroporto del nord, di una giornata come un’altra, mentre aspetti che chiamino il tuo volo, bevi qualcosa di alcolico in attesa che l’ennesimo aereo ti porti lontano. Rifletti sulle persone che hai appena lasciato, un’ombra di malinconia ti assale. Dura un istante, lo spazio di un sorso della tua bibita. Vedi le persone che entrano nella sala, le loro facce, il loro aspetto, non ti comunicano nulla. Passano e non s’imprimono nemmeno sulla retina. Improvvisamente qualcosa di inconsueto attrae il tuo sguardo, è una macchia che urla attenzione – sono qui guardatemi! – Osservi con una qualche attenzione l’improvvisa apparizione; non alta, una cascata di capelli neri, un viso gradevole ma non più giovane, rossetto scarlatto, neri occhi vivaci, ed un seno prosperoso che la scollatura della camicetta promette. Ma la tua attenzione è attratta dai suoi pantaloni, quasi una guaina, che strizza le sue gambe e disegnano i contorni del perizoma che evidentemente indossa. Scarpe con tacco alto almeno 20 cm le conferisce un’aria singolarmente instabile, precaria, ma certamente sensuale. Un’immagine ti si disegna netta in mente, mentre lei graziosamente ti sorride (sorride!), tu che ti inginocchi e dolcemente le abbassi con delicata violenza quei pantaloni e la lingua libera di correre veloce fino ad insinuarsi sotto al perizoma che hai indovinato indossato, e l’umore del suo sesso eccitato bagnarti completamente il mento mentre con la lingua la penetri. Invece rispondi al suo sorriso con un educato cenno, e ti avvii verso il gate che ti condurrà al tuo aereo. Prendi posto nella fila in fondo, quella riservata ai fumatori, è completamente vuota. La Macchia dal rossetto scarlatto la vedi avanzare nella tua direzione, deposita il suo bagaglio a mano nello scomparto sopra il tuo posto, prende posto accanto a te, e ti porge la mano -“ ciao piacere sono Manuela”. Sfoderi il tuo sorriso più amichevole e mentre senti il tuo sesso che diventa turgido, le rispondi con un “ciao Manuela sono Vittorio”. Il volo è nelle prime ore normale, solo il contatto casuale tra le gambe sembra promettere qualcosa di più di un vago chiacchericcio da compagni di viaggio. La notte artificiale imposta dalle hostess per aiutare il cambio di fuso orario cala presto. Manuela non ha voglia di dormire. Quasi una metamorfosi avviene in lei, il buio deve avere assopito la signora di mezza età per lasciare libera la creatura che ha scelto quei pantaloni, quella biancheria intima e quel tacco invitante. Manuela offre una sigaretta, e la accetti con una smorfia gentile. E’ lei ad accenderla ed a passarla, è lei che dedica un’artificiosa lentezza nel gesto. Prendi la sigaretta e ne aspiri profondamente il fumo, gliela ripassi. La scena si ripete per qualche volta fino a che nel non avvicini le labbra alle sue, lei ti accetta e la sua bocca si apre per lasciare insinuare la lingua. Senti la sua mano destra che scivola rapidamente sotto la coperta da viaggio che avevate gettato sulle gambe per ripararvi dall’aria condizionata. Avverti la mano di Manuela scorrere sui fianchi dirigendosi verso la cintura dei pantaloni. Con un gesto rapido si insinua nei pantaloni e si muove decisa nel raggiungere e massaggiare delicatamente le palle, e la base del sesso che senti spaventosamente duro in un istante. Le slacci delicatamente i pantaloni ed avverti fortissimo l’odore della sua eccitazione, e la tua mano si fa strada verso la parte che indovini più umida della sua biancheria. Il tuo dito indice si appoggia rudemente sulla parte della sua biancheria dove la clitoride pulsa sotto le mutandine. Il dito é letteralmente ricoperto dal suo umore, lo senti caldo ed umido come se fosse stato immerso in una qualche crema bollente. Manuela estrae la mano dai pantaloni, li abbassa delicatamente e tuffa la testa sotto la coperta. Senti il sesso attirato tra le sue labbra, sbirci sotto la coperta e vedi l’immagine della bocca rosso scarlatto di Manuela che come per magia si allarga per ospitare il membro completamente eretto. Ti colpisce l’immagine di come scompaia entro quella boccuccia rossa scarlatto. Senti che sei prossimo ad esplodere, vuoi che l’eccitazione che ti ha provocato ed il flusso caldo dello sperma che senti impaziente di sgorgare finisca dentro la vagina di Manuela. Le sussurri “andiamo nella toilette … ora … subito!”. Lei si alza, si ricompone frettolosamente, e si avvia verso la toilette. La segui, chiudi la porta dietro del bagno dietro di te, e la vedi in piedi in quello spazio angusto. Le abbassi i pantaloni ti inginocchi e tuffi la lingua in quel caldo ricettacolo che è la vagina di Manuela. Lei ansima, la senti prossima all’orgasmo . Ti sollevi in piedi e con una disperata ansia ed infili il sesso eretto tra le sue gambe. Dura pochi istanti, pochi rapidi movimenti e Manuela viene, con violenza quasi e mentre senti il fiotto caldo del tuo sperma uscire quasi sparato entro di lei, la sua bocca nel culmine dell’ orgasmo avidamente ti succhia il collo.

Ti ritrovi seduto sulla poltrona del posto fumatori, osservando distrattamente il panorama che l’aereo in fase di discesa ti mostra. Ti accorgi appena della placida Macchia che con un bacio sulla guancia si appresta al commiato.


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Indecifrabile

La nuvola d’oro

C’era una volta un gran nuvolone grigio che vagava per i cieli di tutti i continenti portava ovunque tanta pioggia e grandi nevicate; produceva più acqua di tutte le altre nuvole messe assieme e per questo si era meritato il nome di Pluvione. L’acqua aveva una grande importanza per tutti gli abitanti della terra e Pluvione sapeva quanto fossero indispensabili le sue piogge; il suo corpo nuvoloso, spinto dai forti venti dell’Ovest si gonfiava di orgoglio e correva a più non posso dispensando acqua ovunque passasse. Come certo si sarà capito, Pluvione era veramente enorme e non solo perché conteneva tanta pioggia, ma soprattutto perché dentro aveva a un grande e complicato meccanismo che serviva a fabbricare la pioggia; esso veniva manovrato da tante piccole nuvole operaie che lavoravano alacremente. Volina era una di esse e, pur essendo molto piccina, lavorava quanto le altre e anche di più, infatti svolgeva molto bene il suo lavoro perché era velocissima; il suo compito era quello di portare il Pulviscolo dalla Sala di Raccolta al Magazzino di Separazione. Il Pulviscolo serviva per costruire le gocce d’acqua e veniva raccolto setacciando l’aria che Pluvione attraversava. Al Magazzino di Separazione veniva diviso in modo che i pezzi più grandi fossero portati dove si costruivano le gocce più grosse e quelli più piccoli dove si costruivano quelle più piccole. Dalla Sala di Raccolta uscivano carrelli stracolmi di Pulviscolo che però non erano pesanti e consentivano un veloce trasporto. In alcuni paesi, dove il caldo torrido prosciugava i pozzi d’acqua l’arrivo di Pluvione era considerato come un grande avvenimento, per questo quando i venti dell’Ovest annunciavano il suo arrivo le popolazioni di quei territori preparavano grandi feste, ricche di balli e danze, e che erano un modo per ringraziare Pluvione per il suo prezioso dono. Pluvione apprezzava tutte quelle riverenze, ma ciò che lo riempiva maggiormente di soddisfazione era vedere la Terra che si rivitalizzava sotto la sua acqua: il deserto rifioriva, i peschi sbocciavano, i torrenti si gonfiavano d’acqua correndo gioiosamente verso valle, le cime delle montagne diventavano bianche e silenziose sotto la sua candida neve. Questi spettacoli favolosi erano la gioia nella vita di Pluvione e gli davano la spinta necessaria a svolgere sempre meglio il suo lavoro. Un giorno, mentre sorvolavano il Continente Desertico annaffiando generosamente quelle terre riarse, improvvisamente Pluvione s’inceppò; non riuscì più a far cadere una goccia d’acqua e fu come se tutto si fosse fermato. Mentre Pluvione cominciava a correre più velocemente del solito nel tentativo di sbloccare il meccanismo, al suo interno c’era un caos senza senso; le nuvole operaie vagavano senza meta cercando di capire cosa fosse successo e intanto i rilevatori sembravano impazziti. Pluvione era infuriato, ma l’unica cosa che riusciva a fare era correre per i cieli nella speranza di sbloccarsi il più presto possibile. Le ore e i giorni iniziarono a trascorrere senza che si trovasse una soluzione e, intanto, la Terra cominciava a mostrare i primi segni di sofferenza per la mancanza di acqua; quelle constatazioni accrescevano la disperazione di Pluvione che non sapeva più come fare per tornare a produrre la sua pioggia. Volina, come tutte le altre nuvole operaie, era rimasta senza lavoro e girovagava per il nuvolone cercando una spiegazione a quel caos; mentre si trovava in una zona a lei poco conosciuta, vide una vecchia nuvola, poco più grossa di lei, che se ne stava in disparte da tutte le altre. Le si avvicinò incuriosita e quando le fu appresso si presentò: – Salve, mi chiamo Volina e lavoro alla Sala di Raccolta, Voi, invece, cosa fate?- La vecchia nuvola non rispose e addirittura sembrava non essersi neppure accorta della presenza di Volina; lei ci rimase male e fece il verso di andarsene, ma in quel momento la vecchia nuvola si volse verso di lei dicendo: – Salve piccina, io mi chiamo Biancone e sono talmente vecchio che potrei essere tuo nonno!- Volina restò sbigottita; ma come, prima non le aveva neppure risposto e ora le riservava quelle gentilezze! Mah, certe nuvole sono proprio strane, venne da pensare a Volina; ad ogni modo le sembrò educato rispondere. – Ho molto piacere di conoscerti, Biancone, io mi chiamo Volina e lavoro alla Sala di Raccolta. Tu cosa fai? – – Eh? Cosa? Che hai detto? Parla più forte! – urlò Biancone. Ora il mistero dell’indifferenza di prima era svelato, Biancone era sordo! Volina ripeté quello che aveva detto prima, ma questa volta parlò più forte e scandì bene ogni sillaba. – Ehi – disse Biancone quasi interrompendola – non urlare, non sono mica sordo? – Volina trattenne a stento una risata, quella vecchia nuvola era davvero matta, però era anche molto simpatica e restò volentieri a fare due chiacchiere. Biancone costruiva le gocce d’acqua al Laboratorio Precipitonometrico e questo contribuì ad accrescere l’ammirazione di Volina per quella vecchia nuvola poiché era risaputo che coloro che lavoravano al Laboratorio avevano molta esperienza e conoscevano palmo a palmo i cieli ed i loro abitanti. Molte nuvole giovani, come lo era Volina, decidevano di stare con Pluvione per fare un po’ di esperienza prima di iniziare l’avventura solitaria nei cieli, invece le nuvole anziane si stancavano di volare e preferivano prestare la loro opera a Pluvione. Volina era affascinata da quella strana e vecchia nuvola e le fece tantissime domande sul suo passato e su quello che aveva visto viaggiando da sola; Biancone era felice di aver trovato qualcuno che ascoltasse le sue storie e durante gli anni che aveva trascorso volando per conto suo ne aveva viste di tutti i colori. Ma delle tante storie che raccontò a Volina quella che la colpì maggiormente fu il racconto della vicenda che spinse Biancone a lavorare per Pluvione; successe pressappoco così. Biancone aveva appena finito di scaricare il resto della sua pioggia su di una verdeggiante collina quando all’improvviso un forte vento iniziò a soffiargli alle spalle; data la sua modesta mole fu subito sospinto via, ma quel vento caldo non lo infastidiva, anzi, gli creava quasi una sensazione di piacere. Si lasciò trasportare senza opporre resistenza, cullandosi nel tepore di quell’arietta e per un attimo dimenticò i suoi doveri di caricamento per la produzione di pioggia e restò in balìa del vento. Quel dolce viaggio si interruppe bruscamente allorché Biancone si scontrò con un grande nuvolone nero; d’un tratto si trovò immerso in un mondo che non aveva mai conosciuto prima , all’interno della nuvola c’erano tante altre piccole nuvole che vi lavoravano, un po’ come succedeva da Pluvione. La differenza era che in questo nuvolone nero l’attività era molto più lenta e tutte le nuvole avevano uno strano colore tendente al giallo. Biancone si guardava attorno meravigliato, ma dopo il primo attimo di stupore si accorse che lì dentro c’era una puzza tremenda, impossibile da descrivere. Cercò al più presto di uscirne fuori e solo dopo innumerevoli tentativi vi riuscì; tornato finalmente all’aria pura si voltò per vedere in che razza di coso era stato. Con suo enorme stupore vide uscire da quell’orrendo nuvolone una pioggia giallastra e puzzolente che appena toccava terra bruciava ogni cosa. Biancone scappò via spaventato e continuò a correre finché non fu esausto; si fermò per riposare e cominciò ragionare su quale strano fenomeno potesse aver provocato la trasformazione di quella nuvola; per quanto si sforzasse di ricordare un fattaccio del genere non era mai successo, doveva sicuramente trattarsi di un cambiamento abbastanza recente. Per diversi giorni il pensiero fisso di quella povera nuvola continuò a tormentarlo finché un giorno, mentre dispensava un po’ della sua acqua, si trovò a passare nei paraggi di Nuvola d’Oro e decise di andare a chiedere il suo parere. Fu subito abbagliato dal grande splendore che il suo corpo nuvoloso irradiava, le sue forme avevano un’armonia perfetta ed il suo colore dorato le donava l’aspetto fantastico di cui tanto si parlava. Nuvola d’Oro aveva l’importante compito di far partire le giovani nuvole per il loro primo viaggio solitario: ad esse raccomandava e consigliava i metodi migliori per la produzione della pioggia. Nuvola d’Oro era molto saggia e per questo qualche volta anche le nuvole anziane si rivolgevano a lei per avere consigli utili o trovare rimedi per i loro acciacchi. Biancone decise di raccontarle ciò che aveva visto per sapere se poteva esserci una spiegazione; mentre le parlava Nuvola d’Oro diventava sempre più triste perché non era la prima volta che sentiva racconti come quello, quegli strani avvenimenti si verificavano da quando l’aria si era trasformata e non era più come una volta per cui neppure la pioggia che si produceva aveva le stesse caratteristiche. Purtroppo il Pulviscolo che si trovava nell’aria era pieno di altre sostanze che rendevano la pioggia velenosa; queste sostanze entravano nei meccanismi di produzione che si inceppavano e cominciavano a produrre pioggia velenosa. A volte N Nuvola d’Oro riusciva a sbloccarli, ma quelli che si trasformavano definitivamente non potevano far altro che continuare a produrre acqua insana. Il Nuvolone Nero che Biancone aveva attraversato faceva parte delle nuvole trasformate e niente avrebbe potuto farlo tornare come prima. Ma ci doveva pur essere qualcosa che si potesse fare per migliorare la situazione, si domandava Biancone diventato anche lui molto triste; Nuvola d’Oro disse che il solo rimedio era aiutare Pluvione che con la sua pioggia limpida riusciva a tenere il cielo pulito. Fu questo il motivo per cui Biancone decise di abbandonare la sua vita di nuvola solitaria e di dedicarsi al lavoro con Pluvione. Volina era senza parole, il racconto dell’anziana nuvola la stava sconvolgendo; e se tutte le nuvole avessero cominciato a produrre pioggia velenosa, che fine avrebbe fatto la Terra? Questa domanda la spaventava moltissimo, ma d’un tratto si rese conto che anche Pluvione, ancora impossibilitato a riprendere la produzione di pioggia, potesse avere lo stesso problema che l’avrebbe ridotto come il Nuvolone Nero. Bisognava fare qualcosa prima che la situazione precipitasse definitivamente; ma sì, certo, perché non ci aveva pensato prima! Doveva andare a parlare con Nuvola d’Oro, solo lei avrebbe potuto trovare il modo di sbloccare Pluvione. Immediatamente si confidò con Biancone per sapere se la sua era una buona idea. – Cara Volina, la tua sarebbe un’ottima idea se non fosse che Nuvola d’Oro dista parecchie miglia da dove ci troviamo noi ora. – – Ma io corro veloce, caro Biancone, e prima che tu te lo aspetti tornerò qui con Nuvola d’Oro! – Detto questo Volina partì ben sapendo che la sua era anche una corsa contro il tempo, più si aspettava e maggiori erano le probabilità di un cambiamento irreversibile di Pluvione che sarebbe diventato un produttore di pioggia velenosa. Volina era velocissima e nel cielo sembrava un siluro, molte nuvole si voltavano a guardarla e si domandavano dove andasse con tutta quella fretta. Ben presto arrivò alla sua meta e appena ebbe ripreso un po’ di fiato spiegò a Nuvola d’Oro il problema di Pluvione. – Va bene, Volina, verrò a vedere cosa posso fare e ne frattempo lascerò il mio lavoro a qualche aiutante. – Partirono immediatamente, ma questa volta il viaggio fu più lungo perché Nuvola d’Oro non poteva correre alla stessa velocità con cui Volina era arrivata da lei. Arrivarono quando la situazione dentro Pluvione stava per diventare insopportabile, le nuvole operaie avevano perso la speranza di tornare a lavorare ed alcune avevano già deciso di abbandonare Pluvione al suo destino. Volina accompagnò Nuvola d’Oro da Biancone il quale, appena le vide, si svegliò dal suo torpore e si accinse a far entrare Nuvola d’Oro nel Laboratorio Precipitonometrico. A Volina non era permesso entrare quindi restò fuori ad aspettarli; lente ed inesorabili iniziarono a trascorrere le ore, poi i giorni, e niente di nuovo succedeva. Finché all’alba di un fresco mattino le due nuvole uscirono dal Laboratorio e nello stesso istante le attività si rimisero in moto e le nuvole operaie poterono tornare al lavoro. Volina restò con Biancone e Nuvola d’Oro per farsi spiegare come erano andate le cose. – All’interno del Laboratorio sono stati portati dei Pulviscoli avvelenati che hanno incastrato il meccanismo di produzione della pioggia; li abbiamo individuati ed eliminati ed ora tutto tornerà come prima. – disse soddisfatta Nuvola d’Oro. – Adesso sembra tutto risolto, ma non potrebbe succedere ancora? Potrei addirittura essere io a portare i Pulviscoli avvelenati e saremmo daccapo con lo stesso problema! – ribatté Volina preoccupata. – Questi casi, per fortuna, sono rari, quindi non ti preoccupare del tuo lavoro, continua a farlo tranquillamente come prima; fino ad ora sono state liberate molte sostanze velenose, ma gli abitanti della Terra si sono accorti del danno che facevano ed ora stanno correndo ai ripari. Crediamo che nel futuro questi problemi non esisteranno più, anche se per il momento possiamo solo sperare che quel giorno arrivi il più presto possibile. – Concluse Nuvola d’Oro con un profondo sospiro.


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Ilaria Gagliardini

Oltre i confini del cielo

Qualcosa dipende da me, ma per niente tutto

I parte

Cercalo dentro: lenticolari

Una mattinata di sole e ventosa è tutt’altro di una notte buia e tempestosa. Questo riuscirebbe a capirlo anche il Presidente di un club di volo, spesso, non sempre, con qualche eccezione.

Quella era una giornata da non lasciar scappare e così con qualche telefonata, nemmeno necessaria, ci trovammo, quel sabato, in cinque in decollo.

Il vento non era favorevole con quel nord che ti veniva alle spalle ma, a ben sperare, uno sbuffo frontale non si nega o al minimo un momento di calma. E poi quella fila di lenticolari mi attirava come nient’altro.

Tutti pronti al decollo alle 12,30, in quel momento consentito dall’aria, decollai.

Vedendo le fatiche compiute e gli artifizi fatti fra abilità e molta fortuna o caso, gli amici del “tutti per uno, uno per tutti” rinunciarono decidendo di aspettarmi in atterraggio. Un rotore mi consentì di compiere un passaggio quasi radente, di sberleffo ai rinunciatari e via in una ascendenza costante, strana, proprio strana verso la lenticolare apparentemente più vicina. Non una termica, ma un 3 metri al secondo costante a salire per ritrovarsi in una nebbia che non doveva e non poteva esserci. Ma così era, e poi luci, suoni, un benessere totale. In quella lenticolare non ero solo, con l’assoluta certezza della presenza di molti altri visitatori.

Mi ritrovai in un praticello ai bordi di un piccolo laghetto di acqua sorgiva, a 30 chilometri alle spalle del decollo. Il deltaplano era a fianco a me che, sdraiato a pancia in aria, prendevo il sole, con le ali quasi a sfiorare cespugli e alberi, un luogo dove nemmeno un elicottero poteva scendere in verticale perfetta. L’occhio sfiorò l’orologio e trasalendo lessi: 12,35.

Dopo circa mezz’ora, ad alcune centinaia di metri, da un’automobile scesero i quattro rinunciatari e iniziarono da metri: “Che fine hai fatto?”, “che è successo? Che fai qui?”. E io: “Perché?”. “E’ da ieri che ti cerchiamo”. “Come da ieri? Che dite? Ma se è l’una.” “E’ l’una di domenica e tu sei decollato sabato”. 24 ore e cinque minuti.

Le lenticolari avevano lasciato il posto ad un azzurro fatto di altro.

 

 

II parte

Cercalo fuori: controlli prevolo

Strano rapporto quello con chi ti manca, fatto di una assenza sorda e rumorosa. Così mi mancava mio padre che da molti mesi aveva deciso di essere solo energia.

Quel pomeriggio il temporale si era formato in valle e aveva incominciato ad allargarsi verso la montagna, poteva passare qualche minuto o al massimo qualche decina, ma tutto si sarebbe chiuso e degenerato.

Prima tappa del mio CAP444, quattrocentoquarantaquattro chilometri in quattro giorni, con l’obbligo di un solo trasporto in decollo e nessun atterraggio in valle, tanto valeva atterrare, subito, sulla cima e lì aspettare gli eventi dell’atmosfera. Tre passaggi, scelto il posto, picchia veloce al pendio, coraggio, veloce e sali, sali, sali, stallo.

Il temporale passa e passa la notte sotto le ali. Alle 12 l’aria sale il pendio. Dopo 1 ora mi sposto, agganciato, di alcuni passi per una posizione di decollo migliore.

Un cane bianco, enorme, arriva di corsa abbaiando, con un’aria tutt’altro che pacifica. Sgancio e come un pinguino goffo mi sposto, prendendo il coltello da una tasca. Lui mi ignora, va alla barra abbaiando e mordendo l’angolo del trapezio. Uno sguardo, che avevo già conosciuto, e girato il garrese scompare dietro un collinotto poco più in basso. Aveva strepitato verso un push di raccordo, che era uscito dalla sua posizione a causa dell’atterraggio del giorno prima.

Non l’avrei notato, non era mai accaduto, se fossi decollato al primo tiro del cavo d’acciaio sinistro avrei raggiunto mio padre.

Quegli occhi erano i suoi. Stava così in pace che aveva deciso di tenermi, chissà per quanto, e comunque ancora per un po’, alla larga.

 

 

III parte

Lo hai trovato: vestilo

Non mi sono mai sognato di governarlo, non più di quanto fosse il minimo indispensabile, tantomeno di domarlo, gestirlo o come si dice? Ah sì, pilotarlo, sì così ho sentito che si dice fra quelli che se ne intendono.

Ho solo deciso di vestirlo.

Un vestito? Certo un vestito si veste.

Si veste ancor più una pelle.

E quella è la pelle che ho deciso di vestire, per hobby? No per vita.

Provaci a vivere tu senza pelle. Le prime ad arrivare sono le infezioni.

Ti infetti ed è finita.

La pelle ti protegge, ti cura e si prende cura di te.

Prendersi cura.

Il mio aliante si prende cura di me.

Della mia salute, della mia vita.

Se vuole può prendersela quando vuole.

Ci terrei che me la concedesse ancora un po’.

 


 

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Nando Ferrauti

Il decollo

Abilitati a un Jumbo intercontinentale, oppure a un caccia supersonico dell’ultima generazione, piuttosto che a un leggero biposto da turismo con poche decine di cavalli di potenza o a un silenzioso aliante, tutti invariabilmente i piloti di aeromobili hanno avuto a che fare con “il decollo”. Si dà infatti il caso che, a un certo punto del processo di iniziazione al volo, colui che sa, vale a dire il Pilota istruttore, dopo un certo numero di voli a doppio comando, giudichi che chi (il minuscolo non è casuale) non sa, cioè l’allievo pilota, sia maturo per il suo primo volo da “solista”. Perciò, di norma senza alcun preavviso, giunge il giorno in cui il primo (l’aquila) dice al secondo (il pinguino): “Adesso vai …”, così, di botto, senza fronzoli né preamboli, magari con malsimulata noncuranza, se non addirittura con ostentata sicurezza; lasciando il pivello tutto solo a districarsi tra leve, pomelli, manette, pedali, interruttori, strumenti e tutte le altre diavolerie in cabina. I preliminari, i metodi didattici e le modalità specifiche possono variare, in ragione di fattori peculiari quali le personalità in gioco, le circostanze, gli aspetti ambientali, il materiale di volo, le condizioni meteorologiche, il traffico nell’ATZ. Ma in genere il decollo consiste in almeno un paio di giretti dell’apprendista pennuto intorno al campo, mentre il Docente se ne rimane a terra, con l’occhio attento a seguire ciascuna fase del volo e – dacché le radiocomunicazioni “TBT” (terra-bordo-terra, ndA) in fonia hanno sostituito le primitive segnalazioni ottiche con razzi, teli e bandierine (nonché i laboriosi messaggi radiotelegrafici in morse), finalmente debellando l’annosa incomunicabilità in tempo reale fra terra e bordo – l’ orecchio in ascolto sulla frequenza locale: pronto a rincuorare o sovvenire il solingo “pulcino” che nel frangente è di norma in più o meno accentuata apprensione. Molti piloti ricordano quell’evento anche a distanza di parecchi anni, e malgrado gli innumerevoli eventualmente interposti; i più anzi non avranno a scordarlo mai, in forza del contradditorio concentrato di ansia, orgoglio, velleitarismo, paura vera e propria, e quant’altro esso abbia a suo tempo rappresentato – in varia composizione – per ciascuno di loro. Dopo il mio giovanile avvio, purtroppo (sostanzialmente per motivi di ordine economico) non tosto seguito da un coerente sviluppo, che tarderà a concretizzarsi quasi una ventina d’anni, da pilota – sia pure ‘della domenica’ – ricordo a mia volta assai nitidamente quel fatidico mattino di una primavera, ahimè ormai lontana; i cui prodromi e stimoli risalivano ad anni ben addietro.

Superate le ultime remore specie grazie alla convincente insistenza dell’amico Erio – reincontrato giusto sul campo di volo dopo lustri di distacco – e superata nella metropoli regionale, sede del mio lavoro, la temuta visita psico-fisiologica preliminare, avevo iniziato a cavallo della Pasqua il corso di pilotaggio, presso l’Aeroclub della tranquilla cittadina natia. Ciò previa ingestione di una montagna di pubblicazioni, testi e manuali di volo, nonché (a titolo propedeutico) di memoriali di piloti di pace e di guerra, connazionali e non. Frequentavo soltanto il fine settimana, dato che nei giorni lavorativi ero incatenato alle mie responsabilità direttive presso un grande gruppo editoriale con sede nel capoluogo della regione. Al pari dell’amico (fin dall’inizio degli studi medi) e ora ritrovato collega nell’apprendimento dell’arte del volo, mi aggiravo nei dintorni del “mezzo del cammin”, senza pur tuttavia avere (almeno consapevolmente) smarrita la “diritta via”. Oltretutto, eravamo animati entrambi dalla più sentita propensione a un sensibile miglioramento delle statistiche demografiche, per quanto di spettanza e nelle modestissime nostre facoltà; e altresì accomunati dal non aver potuto appagare prima quell’antica brama condivisa che ci vedeva appassionati alla follia fin dalla più fresca stagione dei calzoncini corti: lo scrivente ferratissimo nelle nozioni teoriche e nella storia del volo, quanto nostro malgrado ambedue digiuni di esperienze concrete, eccezion fatta per quelle aeromodellistiche e gli sparuti voletti risalenti all’età degli studi medi. Istruttore pilota presso la locale scuola civile di pilotaggio era allora l’ottimo già maresciallo Elio C., purtroppo repentinamente rapito anzitempo da un male subdolo rivelatosi incurabile. Durante la guerra era stato bombardiere sul monomotore Caproni 111 e sui trimotori Caproni CA-133 e SIAI Marchetti SM-81 e SM-79, nell’Africa orientale italiana dov’era poi finito prigioniero degli inglesi; al rientro in patria aveva prestato servizio presso la base nella provincia limitrofa, fino al pensionamento volando su bimotori Beechcraft 18 e monomotori Stinson L-5 da collegamento.

Gran navigatore d’istinto (a base della terna occhio, bussola e orologio), tramite il bonario Macchi MC-416 in dotazione al sodalizio, aveva insegnato ad alcuni di noi discepoli talune manovre addizionali a quelle di stretta prassi: quali virare in cabrata accentuata, scivolare d’ala, simulare la virata “d’attacco” dei cacciabombardieri, raccomandandoci di non praticarle se non a quota di sicurezza e in condizioni di buona visibilità; nonché a entrare in nube (accuratamente scelta, entro una ristretta tipologia di cumuletti di ridotte dimensioni e altezza adeguata), con susseguente immediata fuoriuscita tramite inversione di rotta, controllata tramite orizzonte giroscopico, variometro, bussola, altimetro e virosbandometro. Ci aveva pure ammaestrato a destreggiarci nelle dense foschie frequenti nella natia piana settentrionale, teatro di quelle vicende; nonché in presenza di vento sostenuto. Era un autentico galantuomo, vero signore non per censo bensì nell’animo, ben lungi dalla iattanza e supponenza peculiari a certe frange dell’ambiente militare, tanto che aveva ricusato la prospettiva offertagli di adire al ruolo ufficiali. Pacato e paziente oltre ogni dire, valido alla cloche quanto impacciato tra le scartoffie e infastidito dalle pastoie burocratiche, rifuggiva dalle circonlocuzioni sia verbali e sia scritte, ancorché eventualmente finalizzate a diplomatica edulcorazione o tattico smusso di punte spinose. Insomma, inderogabile la loquela, essenziale e lineare, quale regola istintiva naturale: pane al pane, come si usa dire, condito da scarni complimenti giusto quando affatto ineludibili; energici richiami ogni qualvolta reputati viceversa utili a noi discenti. Di umile famiglia toscana – aveva raccontato a pochissimi di noi allievi – prima di arruolarsi volontario nell’Arma, sotto la spinta sia della passione aviatoria e sia del bisogno, aveva dovuto sbarcare il lunario alla giornata: tra l’altro perfino improvvisandosi … generatore umano di corrente, presso la fabbrichetta piemontese che lo aveva ingaggiato per farlo pedalare da mane a sera in sella a una bicicletta vincolata al terreno, ad azionare la dinamo atta a fornire energia ai reparti. Giovanissimo, si era poi brevettato sul “Caproncino” grazie alle provvidenze governative allora vigenti, per essere indi destinato al bombardamento. Talvolta ci ricordava di quel suo maresciallo istruttore – probabile emblema-nemesi di buona parte del sottufficialato volante all’epoca – dal nome di un diffuso cereale, che lo aveva “abilitato” al bombardiere Fiat BR-2 mandandolo per aria da “solista” dopo due soli giri campo in “doppio comando” su quel potente biplanone bizzoso; durante i quali gli aveva consentito di saggiare (con gran cautela) la sola manetta del gas, esclusivamente in volo livellato, senza avergli lasciato neppure sfiorare una volta il volantino!

Soprannominato “democristiano” per il carrello biciclo “inginocchiato”, il “Sedici”, in gentile concessione vitalizia dall’Aeronautica Militare, era dal canto suo un gran buon bestione. Declassato a biposto generoso e tranquillo, efficace come strumento didattico qual’era stato espressamente progettato, incline a un perdono generalizzato – forse sa solo Dio quanti peccati sia naturalmente portato a compiere l’allievo pilota alle sue prime armi – offriva una comoda abitabilità, nell’arcaica rudezza funzionale dell’insieme. Dei centonovantadue originari cavalli, quell’esemplare di costruzione Aerfer dietro sub-licenza Fokker via Aermacchi, residuava ormai modesta porzione, dopo la quasi ventennale intensa attività consumata presso le scuole militari di primo periodo, cioè di iniziazione delle reclute all’ABC del volo. Tuttavia il suo stanco ruggito in pronta risposta alla manetta spinta a fondo corsa suonava ancora di tutto rispetto, così come una certa qual soggezione la incuteva (quantomeno a noi neofiti) quel suo vibrare da cima a fondo a ogni sensibile variazione del numero dei giri, al pari degli scoppi fragorosi che si liberavano dai suoi scarichi ossidati ogni qualvolta si arretrasse bruscamente la manetta al regime minimo. E, in tema di ciclismo, nel rullaggio pre-decollo erano richiesti quasi più polpacci alla Moser che non potenza sull’albero motore, data la necessità di spedalare in continuazione per contrastare – ancor meglio prevenire – la sua inguaribile tendenza a imbardare ora a dritta e ora (assai più frequente e pronunciata) a manca, in conformità alla caparbia renitenza al procedere rettilineo sull’asse longitudinale della pista. Quel caracollare spontaneo si reiterava poi, ingentilito solo di poco, nella corsa susseguente all’atterraggio, allorquando la congenita vocazione anserina del macchinone tendeva di nuovo al volteggio, alternativamente facendogli volgere il muso di qua e di là come fosse un ronzino bolso ma ancor animato da orgogliose velleità battagliere. Il caro bonario “Macchino” – “Maccone”, per chi aveva sott’occhio l’ancora svolazzante minuscolo “308” ligneo della medesima storica casa varesina – imponente e grintoso nella sua livrea argentea da gran guerriero, un poco smunta e qua e là segnata dalla vetustà, era giusto alla soglia delle ultime ore di volo ancora gentilmente concessegli dopo qualche indulgente reiterata proroga, posto che di fatto non l’avesse già abbondantemente oltrepassata (come noi ipotizzavamo, senza neppur soverchia malizia). E di lì a poco avrebbe mestamente figurato comparsa statica in una pellicola di ambientazione storica, debitamente imbellettato a chiazze mimetiche e fregiato di truci svastiche nere, ma (per le stesse inesorabili ragioni di copione) miseramente finendovi in fiamme non posticce. La mia istruzione ai segreti dell’arte di Dedalo era appunto iniziata quasi all’insegna di un allenamento … ciclistico, con i ripetuti monotoni lenti giretti nel circuito standard intorno al caro vecchio nostro campetto erboso delle adolescenziali saghe aeromodellistiche e i correlati decolli e atterraggi dal problematico mantenimento della linearità lungo la mezzeria della pista. Rullaggio, allineamento, tutta manetta, pedalate a non finire, decollo, via i flap, larga virata di novanta gradi a sinistra – “Pallina al centro, non derapi!” -, in affannosa salita al massimo dei giri – “Piano, che va in stallo …” -, quindi sopravvento, livellando a seicento piedi sul QFE – “Perché lo lascia salire? Se vuole andar dritto punti quel ponte, laggiù …” -, poi controbase – “Ora miri allo stadio, come se dovesse bombardarlo …” – seguita dal sottovento – “Vede il campanile di quel paese, là in fondo? Lo mantenga in prua e vedrà che andrà bene, mantenga la quota …” -, virata base: ipersostentatori, motore a discrezione; poscia il finale – “Tenga su … non troppo … non lo lasci scadere … non abbia fretta di toccare … controlli la velocità … punti il muso verso quegli alberi là in fondo alla pista … si regoli con l’altezza … mantenga l’allineamento … su, ora lo sieda per bene, piano … su il muso …” – e finalmente il sudato atterraggio, di nuovo accompagnato da alterne energiche pedalate al timone di direzione e conseguente sculettamento del mansueto paperozzo ritornato terricolo. Il tutto in circa nove minuti, dato che la velocità di crociera dell’esausto I-AENK superava di appena qualche nodo quella di stallo, e che il nostro aeroportino non consentiva il touch and go: involo e atterraggio erano infatti obbligati nel verso rispettivamente opposto, a causa della linea ad alta tensione corrente in fregio alla soglia nord. Ostacolo che uno dei precedenti istruttori, l’ex maresciallo del mio “battesimo” di lustri addietro, aveva una volta malaccortamente saggiato, riducendo il robusto Saiman 202 a un mesto mucchietto di listelli e schegge di legno ammonticchiati sulla parallela strada ferrata sottostante, per fortuna senza neppure un graffio agli occupanti.

Poi via daccapo. La lezione tipo durava poco meno di mezz’ora, per i tre canonici decolli e atterraggi, senza diversivi né varianti di sorta. Attenti a quota e velocità, mantenere la prua, controllare i giri, periodica occhiata a pressioni, temperature e livelli, ecco là il ponte della tratta sopravvento, indi lo stadio e la piscina pubblica in controbase – ma perché mai la capricciosa pallina scappa sempre di qua e di là? – poi il campanile della virata base – “Perché inclina così? Lo sostenga … attento alla velocità … non si lasci portare dall’aeroplano, cerchi di farlo andare dove lei vuole …” – e fuori i flap – il ligneo bottone in capo alla tubolare leva metallica si gonfiava per l’umidità (perciò quasi ogni volta), talché sarebbe occorsa la mano notoriamente d’acciaio di Sandokan per sbloccarlo quando l’atmosfera non fosse ben secca, cioè assai spesso – giù il muso, ruotino di coda bloccato – “Abbiamo vento da destra, vede la manica? Abbassi l’ala …”, seconda tacca – “Richiami … bene così, un po’ di piede … adesso su … troppo, tenga il muso allineato … – bum! (oddio, qui si spacca tutto …) -, “Fermo lì! … manetta … piede contrario, ora attenzione … pazienza, tiri tutto, ora si ritocca …” – e di nuovo ogni cosa da rifare, ancora una volta ricominciando con calma dall’inizio. Per fortuna, delle scarne comunicazioni radio si occupava l’istruttore, lasciando così noi allievi liberi di concentrarci sulle manovre, che era già un impegno esaustivo di per sé.

Accumulai in breve una decina di ore, alla media di una la settimana: mezzora il sabato, altrettanto la domenica e gli altri giorni festivi, capricci del tempo maggiolino permettendo. E appresi lo stallo con relativa rimessa, nonché la riattaccata e la simulata emergenza motore sia da millecinquecento e sia da tremila piedi di quota sul campo. Non senza qualche tribolo, imparai alfine a eseguire correttamente la richiamata dopo il plané finale: il resto andava abbastanza bene, nel competente giudizio del Maestro. Ma la mia paura permaneva elevata, specialmente durante la fase di decollo, con il motore urlante a pieno regime. Mi rendevo tuttavia conto che con il procedere delle lezioni a doppio comando andavano gradualmente diradandosi gli interventi del paziente insegnante, dapprima manuali (e pure … pedestri), in seguito soltanto verbali. Finché, quella domenica mattina di mezzo giugno radioso …

… siamo impegnati nel solito circuito standard intorno al campo, inanellando uno dopo l’altro tre giri stretti nella familiare piccola ATZ, con altrettanti decolli e atterraggi. Il taciturno maresciallo appare distratto, guarda fuori dal suo lato senza parlare; l’aria è calma e il sole comincia a farsi sentire. Dopo il terzo atterraggio, che al pari dei primi due riuscì discretamente, il brav’uomo si slaccia cintura e bretelle; e mentre sto riallineando il pacifico bestione borbottante, apre il tettuccio e mi apostrofa senza preamboli: “Io vado a prendermi un caffè; lasci pure in moto, e si faccia un altro giretto intorno al campo …” Pausa. Il cruscotto vibra vistosamente mentre la massiccia elica lignea seguita a girare al minimo (ptc-ptc-ptc …). “ … no, signor C. (guai a chiamarlo con il grado da militare!) … ci vengo anch’io, al bar …” Il granitico sottufficiale di terza classe non riesce a trattenere un batter di ciglia e a mascherare un impercettibile serrar di mascelle, per qualche attimo restandosene impalato con mezzo busto fuori dall’abitacolo, massaggiato dal flusso dell’elica che continua a macinare aria fresca, a rompere quella fattasi greve in cabina e ritmare quel nostro silenzio denso di pathos …

Fu così che il mio decollo andò ignominiosamente buco. Da parte mia sgomento, più che perplessità. Pur tralasciando l’apprensione, in realtà non mi sentivo affatto in piena salute: forse avvertivo già i primi sintomi della faringite che mi avrebbe costretto a letto per la mezza settimana susseguente, o – chissà – forse il mal di gola mi avrebbe viceversa assalito giusto in conseguenza di quello shock, mah … Sta di fatto che la vista della poltroncina di destra d’un tratto libera, seppur implicitamente in preventivo fin dall’inizio del corso, mi aveva messo addosso i tremori. E l’incontrollabile Io intimo aveva preso a martellarmi insistente: “Aspetta, non andare, non sei maturo …”, in sincronia con i giri dell’elica e le palpitazioni del cuore, prostrandomi in un vuoto mentale del pari mai conosciuto prima. Il paziente buon uomo ci era rimasto palesemente maluccio dal canto suo, dissimulando a stento il proprio disappunto sincero. Non me lo fece pesare allora, né avrà a ricordarmelo in seguito, ma con tutta probabilità non gli era mai capitato un siffatto imprevedibile quanto determinato rifiuto irrazionale: caso forse addirittura unico negli annali della storia universale dell’uomo che vola, comunque più singolare del celebre diniego che a suo tempo aveva guadagnato fama tuttora viva all’emblematico pontefice Celestino V.

Andammo insieme al bar attiguo all’aula didattica del piccolo aeroporto domestico: lui a sorseggiarsi l’usuale bicchiere di latte tiepido, io pleonasticamente farfugliando che non mi sentivo in forma, che ancora non mi ritenevo pronto nello spirito, se non quanto agli aspetti teorici della preparazione. Mi sentivo invero la gola secca e la mente confusa; goffamente, mi scusai come meglio mi riuscì (deve essere stata una scenetta penosa), trangugiando un brandy nostrano di pessima qualità; che non apportò alcun sollievo né allo spirito né alla condizione fisica. Da quella squisita persona sensibile che era, egli comprese … al volo; non rincarò la dose, anzi minimizzando l’accaduto. Fumai tre sigarette di seguito, prive di filtro e parimenti di produzione nazionale a prezzo popolare, mentre andavo rimuginando il paradossale episodio. Codardo era l’epiteto più mite che mentalmente mi venisse da affibbiarmi. Egli non mi mise il muso; almeno in apparenza i nostri ottimi rapporti non parevano essersi guastati. Eppure, riflettevo in silenzio, non era stato il medesimo valente istruttore a inculcare in tutti noi allievi che ciascun pilota deve fare solo e nulla più di quanto non si senta di volta in volta di fare? Bene, io non me l’ero proprio sentita, di decollare quella mattina di domenica. E ciò, nonostante il mio lunghissimo vagheggiamento dell’ intera materia, oltreché il connaturato desiderio ardente di dominare i cieli senza tutori-pedagoghi di sorta al fianco. Semplice, no? Almeno a dirsi.

Guarito che fui almeno nella gola e un poco rilassato, il secondo sabato successivo mi risolsi a ripresentarmi sul campo di volo. Non senza previo travaglio decisionale, ben conscio com’ero di ciò che colà mi avrebbe atteso senza più scappatoie percorribili. I tre canonici giretti in doppio comando filarono infatti lisci come olio; quindi via: “Se la sente, adesso? …”, seguito dal mio ritardato sibilo afono che stava per un sì senza calore né convinzione, seppur non improvvisato, tantomeno estorto. Due circuiti stretti stretti intorno al campetto, come al solito ma evitando accuratamente di lasciar cascare l’occhio sul desolatamente vuoto sedile di destra: due decolli da manuale, stacco dolce, direzioni e quote precise, pallina al centro, virate impeccabili, l’aereo sensibilmente più leggero dell’usuale; e due atterraggi pennellati alla vaselina, il secondo bagnato da uno spruzzo di pioggia capricciosa. “Decollo bagnato, volo fortunato”, non mancheranno di chiosare poi a terra. E, confortante, inusitata la serenità goduta fin dal primo istante del “tutto gas” per l’abbrivio sullo scorrevole manto erboso, subentrata alla propedeutica tensione che sempre aveva presieduto ai decolli istruzionali. Indi subito le felicitazioni degli astanti, con il rituale brindisi al neo aquilotto ma, soprattutto, il largo sorriso del buon signor C., a gratificazione sopra ogni altro apprezzamento.

A distanza di tanto tempo, tuttora palpita la viva memoria di quei sedici eterni minuti del volo forse più bello di tutti, a bordo dell’aeroplano più fascinoso del mondo sull’aeroporto più delizioso, nel giorno più intenso della mia vita di aspirante aviatore. E pensare che qualche anno dopo il mio secondogenito – il primo era pilota civile già da qualche anno – è “decollato” all’età di diciassette anni appena fatti, dopo sole sei ore di doppi comandi su un “Cessnino” da cento cavalli, almeno in apparenza senza alcun patema (lui)! E’ pur tuttavia vero che quell’indovinato aeroplanino ha il più facile carrello triciclo anteriore e che la pista bitumata dell’ aeroporto sul quale ha fatto la scuola è libera da ostacoli presso ambo le testate, perciò esente da vincoli, per cui vi è consentito il “tocca e riparti” che comporta soltanto un mezzo giro intorno al campo in luogo dell’intero circuito che noi dovevamo invece compiere, con conseguente più che raddoppio dei tempi. Ma altrettanto vero è che a distanza di una buona mezza generazione i metodi didattici sono cambiati, contemplando una pratica che anziché anteporre l’apprendimento di decollo e atterraggio privilegia l’esecuzione di altre manovre in volo, per cui i tempi dell’istruzione a doppio comando tornano ad allungarsi. E non è meno vero che il ragazzo è ancor più riservato e introverso del genitore, e sa simulare con naturalezza la più fredda indifferenza anche in situazioni delicate. Buon per me che, diversamente dal solito, quel giorno non l’avevo accompagnato io all’aeroporto, bensì il fratello maggiore. Tanto che, appresa l’inaspettata notizia al mio rientro serale, mi dibatterò a lungo fra l’incredulità e un’apprensione a posteriori, nel rimuginare in silenzio lo scansato accoramento e, insieme al primogenito, meditare intorno a certe differenze generazionali, oltreché di ordine anagrafico. Come del resto già provato anche dal decollo e dal brillante superamento delle tappe ulteriori da parte del primogenito stesso, nello storico aeroporto non lontano dal capoluogo sede del mio lavoro.

In seguito superai altri “decolli”, durante le successive abilitazioni a specifiche macchine, sempre della categoria monomotori da turismo e sport, fino alla potenza di duecentosessanta cavalli: analoghi i preliminari voletti in doppio comando, ma – nonostante la novità del mezzo – di volta in volta incomparabilmente più disteso il primo involo da “solista” a bordo di ciascuna di esse.


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Carlo Alberto Ferandini

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