Ely vola

Era un giorno soleggiato, forse troppo, e il chiaroscuro del Sole che filtrava tra le fronde degli alberi disegnava nell’aria satura di polline miliardi di sbarre luccicanti, come il rigarsi della pioggia sui vetri. E io ero triste. Io ero sempre triste quando c’è il Sole: non avevo scuse per starmene in casa, al villaggio di Aleris, come quando pioveva. Se c’era il Sole devo fare contenta mamma: dovevo uscire. Ma la realtà faceva male, e bilanciavo l’allegria dei bambini che si dilettavano con le prime semplici magie con la consapevolezza d’essere solo. E mentre i giovani maghi sollevavano formiche e gonfiavano le rane di passaggio come palloncini con la forza della mente io iniziai a correre, infiltrandomi tra gli alberi; dove Aleris finiva e il Bosco della Fata iniziava. Ma mi avventurai troppo in là, ritrovandomi smarrito in pochi minuti. “Nessuno verrà a cercarmi”, pensai, perché io appunto non avevo nessuno. Allora mi misi seduto su un masso: da lì si vedeva il ruscello, e due uccellini che come foglie svolazzavano al pelo dell’acqua, per gioco. Poi una mano mi toccò la spalla destra, io balzai in piedi abbastanza in fretta da sentire un leggero dolore alle ginocchia. “Un Orco!”, pensai mettendo mano alla spada. I due uccellini fuggirono impauriti, aprendo le loro ali. “Ciao, io sono Ely. Tu chi sei?”. Per tutti i Draghi Bianchi del Regno, mi trovai di fronte una giovane di tale bellezza che per un veloce attimo pensai di morire dalla meraviglia. “Io!?!? Io … sono … credo di … essere … anzi, sono abbastanza sicuro di essere … slo … slowly …”, mi uscì. “Bhé ciao Slowly, se vuoi puoi venire con me, nella mia città, dall’altra parte del Grande Fiume. Porta la mamma, se vuoi. Staremo sempre insieme. Ah, io sono Ely”. E volò via. Io come un imbecille provai a correre più forte che potevo e ad agitare le braccia per starle dietro e spiccare il volo, ma non mi riuscì. Provai a buttare a terra la spada ma non mi riuscì comunque di decollare. Arresomi all’evidenza che mai più avrei rivisto Ely mi appoggiai ad un albero e iniziai a piangere. Tra l’altro venne il buio e io pregai che mia madre venisse a cercarmi. Invece venne la Fata. “Che hai, giovane Slowly? Perché piangi?”. “Ely è volata via, al di là del Grande Fiume. Io non so volare e non posso seguirla”. “La soluzione è intorno a te. Crea qualcosa che possa portarti al di là del Grande Fiume con gli arnesi che ora materializzerò per te!”. E non appena finì di parlare comparirono nelle mie vicinanze una miriade di oggetti strani, luccicanti alcuni, morbidi altri. Tutti senz’altro erano oggetti strani e io non li avevo mai visti prima. Mi avvicinai alle cianfrusaglie sparse a casaccio per il prato, sotto gli occhi di un vecchio gufo, e cominciai ad esaminarle. Presi con la mano destra un oggetto bianco, sembrava una leva. Sul pomello di un materiale a me sconosciuto la scritta nera “FLAP”. Dev’essere stata incisa a caldo, perché per quanto gli sputai addosso e strofinai non riuscii a cancellarla! “Ma quale tipo di inchiostro magico è mai questo!?”, dissi iniziando a divertirmi davvero. Mi dimenticai d’essermi smarrito. E ormai scese il buio. “Stai attento Slowly, non fidarti!”, disse poi il gufo. I suoi occhi accendevano due lucine rosse, l’unico modo che avevo per scorgerlo, sul suo ramo. Continuai a farmi largo tra gli oggetti finché non rimasi estasiato alla vista di due lunghe lame, argentee e perfette nelle dimensioni. Non sarei riuscito ad alzarle, mi sarebbe servita la Fata, con le sue magie. C’erano alcuni pezzi, di uno strano ferro resistente, ma più leggero, più liscio, all’apparenza molto ben levigato. Pensai per un attimo che fosse una nave aliena. Magari la materializzazione di una macchina volante venuta in mio soccorso da un altro pianeta sotto richiesta della Fata. E io dovevo montarla, per meritarmi d’usarla. Certo mi pareva strano che un oggetto così più pesante dell’aria potesse librarsi in volo, ma non mettevo in dubbio che quella cosa sarebbe riuscita a farlo, una volta rimontata. Feci ancora qualche passo e trovai due cilindri, bianchi, con una forma appena abbozzata di cono e due grosse aperture davanti e dietro. Guardai all’interno di una di queste, e vidi le eliche come quelle dei girelli coi quali giocano i bambini non maghi del paese. Solo erano molto pesanti e le eliche certamente non erano di legno…… Sui lati c’erano delle strane scritte, che come quelle della leva erano incancellabili con lo sputo. Recitavano la scritta:

McDonnell Douglas MD Super82

e più in piccolo:

P&W JT8D-217.

Le scritte non richiamarono in me alcun particolare ricordo, ma certamente erano due parti essenziali della macchina volante. Le scritte comparivano sulla parte destra di uno dei due cilindri, e sulla sinistra dell’altro, quindi ne dedussi che dovevano essere monatti simmetricamente, entrambi con l’apertura più ampio verso il senso di marcia. A cosa dovevano essere montati lo avrei scoperto di lì a poco. Superai l’albero sul quale si aggrappava il gufo, divenuto nel frattempo taciturno. Si girò verso di me per non perdere nulla di quello che stavo facendo. Davanti a me una miriade di pannelli bianchi, appena luminosi nell’ombra fitta in cui ormai era immerso il bosco. Ad intervalli regolari vi erano delle finestrelle circolari, anch’esse di un materiale che certo vetro non era, piuttosto di una lega molto leggera e forse più resistente. Quei pannelli dovevano senza dubbio attaccarsi gli uni altri atri. Ero certo che andavano a formare la zona abitabile della macchina volante. Visti questi componenti capii che doveva essere molto più grande di un qualunque aquilone, e forse potevano salirvi molte persone. Forse più di quelle che il piccolo villaggio di Aleris contava. Forse potevo garantire una vita migliore a tutti gli amici del villaggio, portandoli con me e la mamma al di là del Grande Fiume, a bordo della macchina volante venuta da un altro mondo. Accanto ai pannelli erano messi in fila decine di sedili, tutti blu, tutti uguali. Solo due di questi erano poco più avvolgenti e all’apparenza poco più comodi. Capii che erano quelli sui quali si sarebbero accomodati colori i quali avrebbero, (come ancora non sapevo), condotto la macchina volante. Non appena la Luna si intravide tra le fronde dell’albero del Gufo, e i suoi raggi caddero sui componenti, questi presero ad animarsi. Cominciarono col muoversi autonomamente, gli uni verso gli altri. Leve, pannelli, lucette, sedili, strani fili colorati, le due lunghe lame come ali di un immenso uccello e i due cilindri cominciarono una danza circolare. Iniziarono a unirsi. La luce si fece insopportabile e dovetti ripararmi gli occhi con entrambe le mani per qualche minuto. Poi, la luce e il baccano finirono. Riaprii gli occhi. La macchina volante era completa, e diversi alberi lasciarono posto ad una lunga striscia argentea. Due uomini stranamente vestiti mi guardarono, erano comparsi dal nulla come la macchina volante, non dissero niente e salirono a bordo, entrando in una stanzetta nel muso della macchina volante. Gli altri abitanti del villaggio mi si fecero incontro, chi brandiva pale, chi ombrelli, chi pentolame vario; erano accorsi credendo che qualche mostro stava divertendosi dando alle fiamme il bosco. Li invitai a salire. Non dovetti spiegar loro niente, le loro facce erano strane, nessuno parlava, semplicemente seguirono i miei ordini. Trovammo posto all’interno. I sedili erano posizionati in file, tre sulla destra, due sulla sinistra, e accanto a quelli più esterni una delle finestrelle circolari permetteva di vedere fuori. Le due lunghe lame si posizionarono come braccia protese ai lati della macchina volante. Era chiaro, erano le ali! Esattamente come quelle del Vecchio Gufo, che osservava la scena inebetito. I due cilindri bianchi presero a girare, producendo un gran baccano e spettinando le chiome degli alberi, ma solo dopo essersi saldamente attaccati alla coda della macchina. Altre strani ali, solo più piccole, si posizionarono sulla coda. Poco dopo la macchina prese a correre, veloce, poi molto veloce, infine tanto veloce da farci urlare dalla paura. Si alzò per aria, ci aggrappammo ai sedili. Poco dopo saremmo stati per aria, io verso la mia Ely, i miei amici verso una vita migliore. Tante grazie alla macchina volante e ai suoi uomini che con passione e amore la condussero per aria. Nacquero due bimbi dalla mia unione con Ely: McDonnell e Douglas …


# proprietà letteraria riservata #

L’Hanriot HD1

L’Hanriot H.D1 era un apparecchio da caccia francese, costruito in Italia dalla MACCHI ed utilizzato dalle nostre valorose squadriglie contro l’Austria negli anni 1916 e 1917, con ottimi risultati. Con questo apparecchio lo Scaroni ebbe 26 vittorie e il Baracchini 21 e gli altri piloti riportarono moltissime altre vittorie.

Era un biplano monoposto molto raccolto ed era provvisto di una mitragliatrice che sparava attraverso l’elica mediante un congegno di sincronizzazione collegato col motore, che permetteva alla mitragliatrice stessa, di sparare nel momento che le pale dell’elica non si trovavano davanti all’uscente proiettile.

L’aereo era provvisto da un motore rotativo le Rhone di 80 Hp. Questo motore, invece di star fermo fissato alla cellula e far girare l’elica, ruotava su stesso completo coll’elica. Alla cellula era invece fissato l’albero motore che stava fermo. Il motore così si raffreddava molto bene perché girava su se stesso ma l’aereo era estremamente sensibile all’effetto giroscopico del motore rotativo; questa caratteristica che era negativa per i pivelli, si trasformava in mani esperte nell’elemento principale di successo nei combattimenti aerei ravvicinati. Un giroscopio tende a star fermo nello spazio se una forza esterna tende a spostarlo, determina un angolo di scappata nello spazio, come se scivolasse su di un piano inclinato opposto alla direzione della forza esterna applicata al giroscopio stesso. In altre parole, esercitando una pressione sul piede sinistro, l’aereo cambia immediatamente direzione verso destra se lo sostieni colla cloche, di un angolo di rotta che sarebbe impossibile avere nel tempo, agendo sui normali comandi dell’aereo stesso. Per esempio: se passi di coda ad un aereo nemico uscendo da una gran volta e per quanto cerchi di stringere, non ce la fai a centrarlo; sfruttando il momento giroscopico della massa del motore, puoi modificare la tua rotta di un angolo che ti permette di centrarlo in pieno. Come pure, sempre per esempio, quando manca un istante al momento in cui all’avversario è possibile centrarti in pieno, puoi ottenere di variare la tua rotta di un angolo che ti mette fuori tiro. Tu sfruttando il momento giroscopico lo puoi fare, mentre lui non può seguirti utilizzando i normali comandi.

Per le stesse ragioni un piccolo BUM al decollo con vento laterale può mandare l’aereo a gambe all’aria.

Per noi oggi a mente fredda è difficile scoprire l’animus di un pilota di guerra impegnato in questi terribili frangenti, ma a parte le numerose considerazione che se ne possono trarre, dobbiamo pensare che questo pilota non era solo … era in quel momento soltanto l’ultimo atavico combattente della lunga millenaria serie di guerrieri che l’avevano preceduto. Toccava vendicare a lui quelli che erano caduti ed in vista delle migliaia di soldati lo stavano a guardare abbarbicati al terreno che gli stava sotto, … toccava a lui combattere per vincere o morire.

Ma ritorniamo alla descrizione di quello bellissimo piccolo caccia: il pilota seduto al centro della fusoliera aveva davanti a sé la mitragliatrice che era installata in modo che praticamente si poteva vedere l’obiettivo attraverso i mirini senza muovere la testa. Insomma avevi una mitragliatrice provvista di ali e motore davanti al naso, già puntata, automaticamente carica (disponibili se non erro 500 colpi, da 5 a 7 al secondo).

L’aereo era molto veloce per quei tempi: 180 km all’ora, era già una bella velocità ma era estremamente maneggevole ed era capace di salire, per allora, molto velocemente. Potevi metterlo in qualsiasi posizione, stava stabile e preciso, potevi picchiare quanto volevi anche al rovescio, faceva fischi assordanti, ma non perdeva i pezzi. Il motore essendo rotante ed alimentato da un carburatore a getto, non mollava qualunque fosse la posizione dell’aereo rispetto al terreno, volo rovesciato continuo naturalmente compreso.

Sulla cloche, oltre alla levetta per far sparare la mitragliatrice, vi era il bottone delle masse dei magneti (contatto) perché, all’atterraggio, data la massa del motore rotativo, ed il carburatore a getto (senza farfalla), si poteva fare soltanto a colpi di motore, cioè escludendo ed includendo i magneti senza togliere la mano dalla cloche.

Se ben ricordo nel 1936 il Comandante FRANCIS LOMBARDI di Vercelli – pilota da caccia 1915-1918, trasvolatore in Africa e Asia, costruttore di aerei, sommo campione mondiale, con gli amici dott. Giulio Sambonet, Vittorino della Role e mio cugino Viazzo Nino ed altri – era riuscito ad acquistare un aeroplano Hanriot residuato di guerra. Provvide quindi a ricostruirlo senza la mitragliatrice, modificò il carrello di atterraggio modernizzandolo, e sulla cellula montò un motore FIAT A.50. a 7 cilindri radiali della potenza di 85 Hp.

Questa volta il motore stava fermo e faceva girare l’elica. Ne venne fuori un Hanriot molto migliore di quello di guerra, e bello, potente, leggero, molto più veloce, docile, manovrabile con visibilità notevole (però volando come ci rincresceva che la mitragliatrice non ci fosse più!).

Insomma il povero sottoscritto, corri giù, corri su da Vercelli, finalmente ottiene il permesso di provare in volo questo monoposto Hanriot, di cui l’amico e maestro Lombardi e gli altri erano gelosissimi. Vado a Vercelli con un aereo di Massazza (allora il centro aviatorio dei Biellesi vagiva sul campo di fortuna di Massazza) vestito come si usava allora sugli aerei aperti, come un palombaro, giacca di cuoio, caschetta, occhiali, paracadute compresi; e finalmente fui autorizzato a decollare sull’Hanriot con mille raccomandazioni: non devi fare questo, non devi fare quello, l’acrobazia ti è proibita perché sei un pivello, etc, etc.

Il motorista compagni di Lombardi sig. Cav. Marino BATTAGLIA, che mi voleva bene, e che aveva praticamente ricostruito e modificato l’aereo, mi spiegò alcuni particolari e mi disse: vada, vada tranquillo, però se vuol divertirsi un po’ si porti fuori dalla vista dei cagnoni, e giochi come vuole, ma non scenda sotto ai 500 metri.

Strizzai l’occhio al Battaglia e mi portai in testa alla pista e frenandomi con tutte le mie forze, detti gas molto, molto lentamente, tutto signorino, e decollai come se fossi ritornato al primo volo da solo. Poi detti tutto gas e su, su, su che era una bellezza nella direzione di Casale, raggiunta in un baleno una bella quota, provai l’aereo in tutti i modi: velocità minima, stallo, centratura a bassa velocità, vite sinistra e uscita, idem a destra, stallo in salita a tutto motore (praticamente sembra di essere quasi fermi appesi al motore) poi chiudi il motore e lasci gradualmente picchiare tenendo l’aereo ben dritto; poi andai al volo rovescio, appeso alle cinghie delle spalle, tutto bene, salvo qualche rattè di motore (Battaglia me lo aveva detto di non insistere perché il carburatore non era adatto al volo rovescio senza forza centrifuga) poi un poco di acrobazia: la gran volta credo non avesse un raggio superiore ai 60 metri, pulita, però tirando anche più stretto possibile … una bicicletta etc etc.

Non vi voglio tediare io non sono un pilota di acrobazia, non lo so fare bene. Insomma tutto felice mi porto su Massazza, faccio un bel giro sul Biellese con omaggio alla Madonna d’Oropa e poi da circa 2000 metri di quota plano su Vercelli con motore relativamente ridotto.

In vista poi del campo di volo di Vercelli, alla quota di circa 200 metri ridò motore per fare un regolare giro di campo, come in allora prescritto, l’Hanriot a un certo momento si mette a correre a tutto motore. Branco la leva del gas e tento di ridurre i giri, niente da fare, mi rendo conto che la leva del gas non era più collegata alla leva della farfalla del carburatore, e il carburatore così scollegato aveva aperto tutto la sua farfalla per l’intervento di una apposita prevista molla automatica.

Che fare?

Non vi era che agire sui contatti che mettono a massa i magneti fermando il motore. Se si staccano i contatti il motore gradualmente rallenta e poi si ferma, ma se prima che si fermi ridai i contatti il motore riparte a tutto gas.

Quindi io continuai il volo a colpi di motore sin che potei infilare la pista, e sono riuscito, ad atterraggio eseguito, a raggiungere, sempre a colpi di motore,(cioè togliendo e rimettendo i magneti come sopra spiegato) la piazzola davanti alle Aviorimesse dove potei finalmente fermare il motore.

Stavo aggeggiando per sfilarmi le cinghie, al calmo ancora seduto nel posto di pilotaggio, quando eccomi investito da Francis Lombardi il quale da buon Comandante mi spiffera una solida e buona pipa: “Cosa credi di essere? Sai benissimo che il nostro motore FIAT si danneggia molto a fare delle riprese a pieno gas. E’ ora di finirla di darti delle aria di pilota da caccia atterraggio a colpi di motore come facevamo noi che eravamo costretti a farlo in guerra col motore rotativo le Rhone, mentre tu eri ancora un pivello. E’ questo il modo di comportarsi e di trattare una aereo che abbiamo avuto la debolezza di lasciarti pilotare?” Etc …

Come tutti i Comandanti, quando ti fanno una buona pipa, la ripetono, ripetono sempre la stessa anche sette volte … e tu subalterno devi stare zitto, non devi rispondere, devi stare tutto il tempo sull’attenti, fermo, senza muovere le orecchie … se vuoi evitare guai.

Dopo intervenne il Giulio Sambonet = pipa più dolce da Vice Comandante. Dopo intervenne il Vittorino = pipetta ma anche curiosità … io sempre zitto … poi mentre si stavano allontanando arriva il Battaglia, io esco dalla posizione di trance in cui mi avevano inchiodato, mi sporgo dalla fusoliera e gli dico: “Battaia a l’à distaccasi l’astina del carburator, a t’è dismentiate ad biteie la cupìa”.

Ma poiché ero un po’ sordo dopo un ora di volo (il motore aveva gli scarichi liberi e faceva in volo un rombo che era una goduria) dissi queste parole in piemontese a voce alta e tale che raggiunsero le orecchie del Comandante Lombardi, del Vice Giulio Sambonet e del caro Vittorino.

Battaglia con la mano appoggiata alla fusoliera, le spalle verso i nostri superiori, e senza muovere la testa mi fece un bel sorriso e ci strizzammo l’occhio.

I tre grandi capi scomparvero, si volatilizzarono … e fecero bene … non potevano fare altrimenti, perché preoccupati dagli eventuali danni che avesse potuto subire il loro motore FIAT col trattamento a colpi di motore, avevano direi dimenticato una cosa che sapevano benissimo e cioè che mantenere una quota e specialmente atterrare a colpi di motore, di un motore che era un arrabbiato e non mezzo addormentato nelle accelerazioni come il motore rotativo: non era facile con una aereo monoposto leggerissimo e relativamente fine, e che aveva i contatti dei magneti sul cruscotto e non sulla cloche.

Dopo questa avventura potei ancora volare sul magnifico Hanriot senza neanche chiedere il permesso, tacitamente me lo ero guadagnato e tacitamente mi veniva concesso.






#proprietà letteraria riservata# §§ in esclusiva per “Voci di hangar”


Riccardo Sella

Coppia

Appena alzato, ancora con occhi gonfi di sonno, andai a sbirciare fuori della finestra: sereno e calma di vento!

Perfetto, pensai, situazione ideale per il programma della giornata.

Sapevo che quella non sarebbe stata una giornata qualsiasi: avevo in mente qualcosa che mai avrei pensato si potesse avverare e che solo un anno prima avrei considerato pura pazzia anche solo immaginare.

Nel frattempo anche mia moglie si era alzata: anche lei andò a guardare fuori dalla finestra, a controllare il cielo, una cosa che fino a qualche tempo fa non le sarebbe passata per la mente.

La vidi fare un leggero un cenno di assenso.

Dopo una rapida colazione ci mettemmo in macchina, direzione Sabaudia. Viaggio lunghetto, più di ottanta chilometri dai Castelli Romani, un viaggio diventato frequente negli ultimi tempi. Con la radio accesa su un canale di musica e la moglie immersa nello studio di un manuale, mi abbandonai ai miei pensieri, che mi riportarono alla concatenazione di eventi all’origine di quella giornata particolare.

Pilota dell’ Aeronautica Militare, all’atto del pensionamento, chiesto anticipatamente, avevo appeso il casco al chiodo. Pensavo di avere chiuso con il volo, che pure aveva caratterizzato la mia vita ed era stato il motivo fondamentale che mi aveva convinto ad intraprendere la carriera militare. Anche se la vita da pilota operativo era stata breve, in un modo o nell’altro il volo era sempre rimasto parte significativa della mia attività, anche quando avevo dovuto occuparmene prevalentemente da dietro una scrivania. Ora, però, non riuscivo ad individuare motivazioni adeguate per proseguire l’attività di volo nel mondo civile.

L’idea di andare presso un Aeroclub di gente con la puzza al naso, a volare su un trespolo ad elica, spendendo un sacco di soldi per fare un giretto intorno al campo, non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. Già l’entusiasmo per il volo negli ultimi anni di servizio in Aeronautica era andato scemando, fino a raggiungere uno stato di profonda delusione.

L’attività di un pilota degli enti centrali era limitata a sole 6 ore di volo al semestre. Dopo un paio di anni di attività così scarsa anche a Decimomannu, una base aerea in Sardegna che avevo comandato a lungo e dove, come pilota, godevo di una certa considerazione, non mi consentirono più di volare da solo. Non potevo biasimare una simile decisione: era del tutto ragionevole mettere un pilota allenato dietro ad un arrugginito pilota di scrivania, anche se il velivolo con cui facevo la mia attività non era più l’F104 del reparto operativo ma il Macchi 339, facile come una bicicletta.

Per un paio d’anni, da solo, mi ci ero divertito a fare capriole a pelo terra o a razzolare nei valloni dietro il Gennargentu: ma dopo, con il pilota giannizzero seduto dietro, scendere sotto i 2000ft sembrava essere diventato un azzardo, ed infilarsi nei bellissimi orridi della zona est della Sardegna un’assurdità. Così la decisione di rinunciare al volo non mi era pesata più di tanto: erano passati già sette anni senza che sentissi rimpianti per un’attività che non mi prospettava emozioni di sorta.

Avevo da tempo conseguito il brevetto di istruttore subacqueo e trovavo l’attività subacquea gratificante. Del resto le immersioni sono attività svolte in ambiente tridimensionale, con molte attinenze con il volo: looping, tonneau e tiro si possono fare anche sott’acqua.

In questa situazione ormai consolidata, un giorno un mio collega di corso di Accademia mi propose di andare a vedere il suo nuovo velivolo. Passato alle linee civili dopo un periodo di reparto sull’F104, si era costruito un ultraleggero che aveva certificato come velivolo sperimentale, formula che prevede limitazioni nel numero dei piloti autorizzati al suo pilotaggio: era alla ricerca di qualche volontario da iscrivere sulla certificazione in modo da avere un sostituto in caso di necessità.

Il velivolo si trovava sull’aviosuperficie di Sabaudia. Non ricordo per quale motivo accolsi il suo invito, perché la sua proposta non mi interessava, stante anche il fatto che il mio brevetto era ormai definitivamente scaduto: forse qualche concomitante impegno legato all’attività subacquea, che spesso mi portava a fare immersioni al Circeo, mi offrì l’occasione di passare da Sabaudia.

Arrivato al campo due fatti mi colpirono: l’aviosuperficie e gli ultraleggeri di ultima generazione. Non avevo idea che in Italia ci fossero campi di volo in erba e rimasi stupito nell’apprendere quanto fossero diffusi e liberi da tutti i legacci burocratici dei normali aeroporti. Il velivolo, poi, fu per me una vera rivelazione: si trattava di uno Storm, un ultraleggero costruito da una ditta di Sabaudia.

I miei unici ricordi di ultraleggeri risalivano ad una quindicina di anni prima, in Sardegna, ed il mio contatto con il mondo del volo ultraleggero era avvenuto per caso.

Un giorno il responsabile del controllo del traffico aereo era venuto a chiedermi di far chiudere un campo di volo per ultraleggeri che si trovava sulla rotta di rientro dei velivoli della base dal poligono di combattimento. Dopo avergli ricordato che il cielo è un bene comune e che deve essere condiviso il più possibile, prima di esprimere un parere in merito alla sua richiesta andai con un Macchi 326 a dare un’occhiata da molto vicino al campo, una striscia di terra di 200 metri dalla quale feci alzare un gran polverone, suscitando entusiasmo saluti dei piloti locali: poi ci andai via terra.

Il responsabile mi fece conoscere i mezzi che vi volavano, e mi portò in volo con un trespolo infernale in tubi e tela, un Barouder, lento, rumoroso ed in balia del vento, con velocità massima inferiore ai 100 km/h.

Concordammo che con i loro trespoli non sarebbero mai saliti oltre i 500 piedi di quota, alzai a 2000 piedi la quota minima di rientro dei miei velivoli in quel corridoio e cancellai ogni ipotesi di chiusura del campo. Qualche tempo dopo li invitai a Decimomannu, dove rivolai sul Barouder, un mezzo che di certo non avrei mai preso in esame per una seria attività di volo.

Ma quello che ora mi stava davanti era ben altra cosa rispetto all’ultraleggero che immaginavo: questo era un vero velivolo, tutto metallico, bello, con l’aria di essere anche veloce e manovrabile. Poco dopo un gentile signore che stava andando in volo con un velivolo simile mi dette modo di verificare di persona che queste mie impressioni erano corrette.

Mentre il mio interesse per il mondo ultraleggero stava crescendo, mia moglie trovò modo di fare un volo con un velivolo acrobatico, un CAP 10, che si trovava causalmente sull’aviosuperficie.

Giornalista di un quotidiano per ragazzi, aveva proposto di pubblicare un articolo sul volo acrobatico: la prospettiva che l’articolo avrebbe fatto pubblicità alla locale scuola di volo le valse il volo gratis. Salì sul velivolo con l’istruttore e dopo poco la vidi volteggiare sul campo in manovre acrobatiche di ogni tipo. Mia moglie non aveva esperienza di acrobazia e soffriva in mare per qualsiasi manovra che facesse inclinare il natante. Mi aspettavo, pertanto, di vederla scendere con il sacchettino del vomito in mano. Invece saltò giù entusiasta dal velivolo e se ne uscì con una affermazione stupefacente: “Mi piacerebbe prendere il brevetto”.

Se non avessi appena scoperto il volo ultraleggero nella sua nuova ed imprevista configurazione forse non avrei accolto la richiesta con entusiasmo, visti i costi connessi. Ma ora il suo proposito mi dava l’occasione per rivalutare l’idea del mio ritorno al volo. Se lei voleva volare, allora avremmo potuto farlo insieme: quello che non era riuscito in mare, dove vela e sub non avevano trovato il suo gradimento, forse avrebbe potuto accadere in cielo.

Così lei iniziò il corso di pilotaggio serio, per il brevetto PPL, mentre io dovetti prendere atto che i sette anni di inattività mi costringevano a ricominciare da capo con il volo.

Avendo deciso che il brevetto PPL non mi interessava, mi iscrissi al corso per il conseguimento dell’attestato ultraleggeri. Il direttore dell’Aeroclub d’Italia, all’epoca un mio compagno di corso, mi indicò una scuola non molto lontana da Sabaudia e mi mise in guardia sugli ultraleggeri italiani, spesso fuori norma. Consiglio che venne a pennello: avevo già messo gli occhi su uno Storm appena costruito, ma dopo il suo avvertimento decisi di rivolgermi a prodotti in regola con le norme.

Alla scuola feci qualche volo con il Tucano, una “cabina di teleferica” con le ali, monovelocità, che richiedeva uno smodato uso dei piedi per virare, almeno per me, abituato ai jet.

Al primo esame disponibile mi guadagnai i galloni di pilota ULM, ma solista: qualche tempo dopo feci l’esame per il biposto. Nel frattempo ero andato al nord a provare un velivolo costruito in Repubblica Ceka, un Eurostar. Ne ero rimasto entusiasta, anche grazie al suo eccellente dimostratore, e l’avevo ordinato.

Nel giro di sei mesi andai a ritirarlo e lo piazzai a Sabaudia dove, nel frattempo, il corso di mia moglie procedeva a rilento. Cominciai a prendere confidenza con il nuovo mezzo, guadagnandomi il rispetto dei piloti locali, non condiviso dal proprietario dell’aviosuperficie, che non gradiva il mio modo di intendere il volo.

A quel tempo la scuola di volo di Sabaudia non era un gran che. Volando con mia moglie notavo carenze di addestramento e quando le segnalavo all’istruttore responsabile mi diceva che tanto, poi, ci avrei pensato io a rimediarle. Il corso, però, bisognava pagarlo lo stesso per intero! Finalmente mia moglie effettuò il volo solista e qualche tempo dopo conseguì il brevetto.

Ma torniamo alla nostra giornata speciale: oggi per mia moglie è previsto un volo solista con il Katana, un biposto austriaco bellino e tranquillo, ad ala bassa, che era stato usato per parecchi voli del corso.

Il mio programma è di volare in coppia stretta con mia moglie: lei non lo sa, e nessuno della scuola deve saperlo, perché gli istruttori si preoccuperebbero e si opporrebbero. Essendo del tutto incompetenti in fatto di volo in formazione, un modo di volare in uso solo fra militari, già avevano avuto da ridire per il semplice fatto che una volta mi ero avvicinato al loro velivolo con il mio Eurostar, pur mantenendomi a distanze abissali.

Preparo il mio velivolo. Quando vedo mia moglie iniziare il giro dei controlli me ne vado in volo senza dare nell’occhio: a Sabaudia il mio velivolo è parcheggiato negli hangar dall’altra parte della pista e posso andare in volo senza chiamare nessuno ed essere notato.

Mi metto in attesa dietro le pendici del Circeo con la radio sintonizzata sul canale di Latina avvicinamento, aspettando di sentire le comunicazioni di mia moglie, che arriva con il rituale: “Latina, india … , no flight plan …”.

Comincio a scrutare l’orizzonte e finalmente vedo il puntino del velivolo che sale verso il Circeo: la quota richiesta per il volo è di 2000 piedi, teoricamente a me preclusa in quanto ultraleggero.

Attendo che il velivolo sia al di fuori di possibili avvistamenti da parte dei piloti di Sabaudia, poi inizio una intercettazione che completo rapidamente.

Il Katana è un velivolo veloce in volo livellato nonostante i suoi soli 80 Hp, ma in salita è un “polmone” rispetto all’Eurostar per cui in un attimo gli sono in ala.

L’ultima parte dell’avvicinamento lo faccio lentamente, portandomi in ala destra, in attesa di essere avvistato: non posso annunciare la mia posizione in ala con la radio sintonizzata sul canale di Latina avvicinamento, così, mentre lei assume la prua per Terracina, spero che ad un certo punto volga lo sguardo dalla mia parte.

Come sempre succede quando intercetto qualche pilota civile, ci vuole un bel po’ prima che la cosa avvenga: non ho capito il motivo per cui nelle scuole civili non si insegna agli allievi piloti a guardare bene fuori! Capisco che non devono addestrarsi a difendersi dall’attacco di eventuali caccia, ma tenere d’occhio lo spazio intorno al proprio velivolo è sempre cosa buona e saggia. Invece vedo sempre teste fisse sugli strumenti o, al massimo, volte a guardare avanti.

Quando finalmente mi vede accenna ad una virata a sinistra, evidentemente spaventata dal trovarsi un velivolo così vicino: poi riconosce l’inconfondibile sagoma a stelle e strisce del mio Eurostar, si tranquillizza e riprende la rotta. Sa di potersi fidare: nei pochi mesi di voli con l’Eurostar mi ha visto intercettare qualsiasi cosa che stesse per aria nella piana pontina, e poi stare in coppia stretta ad ogni tipo di ultraleggero.

Un cenno di saluto e mi stringo alla sua ala: sono a 2000 piedi di quota sul mio Eurostar in coppia ad un Katana su cui si trova mia moglie da sola!

Se solo un anno prima qualcuno avesse ipotizzato un evento del genere gli avrei dato del matto!

Viaggiamo insieme fino a Terracina, per poi proseguire per Borgo Montello e Sabaudia. In avvicinamento a Sabaudia saluto e mi allontano prima che qualcuno da terra mi possa vedere. Missione compiuta: ci ritroviamo a terra dove la cosa resta un segreto fra di noi. Gli altri non devono sapere.

Non è stata la nostra unica esperienza di volo in coppia: in seguito ci sono stati altri voli simili anche con ultraleggeri.

Una volta dovevo andare a ritirare un Esqual, velivolo che per qualche tempo ho presentato nelle manifestazioni aeree, in una aviosuperficie vicina dove si trovava per un’ispezione. Ci siamo andati insieme con l’Eurostar ed al rientro abbiamo volato in coppia, lei sull’Eurostar ed io sull’Esqual.

Ma l’emozione del primo ricongiungimento sulle pendici del Circeo e dei primi minuti di volo in coppia non è più stata la stessa.



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Bruno Servadei

Il primo

Era il I Settembre del 1939 quando il Capitano Mieczyslaw Medwecki e il sottotenente Wladislaw Gnys decollarono su allarme a bordo dei loro caccia, due PZL P11c dal campo di aviazione di Balice, in Polonia, per intercettare una formazione di bombardieri tedeschi, nelle vicinanze di Cracovia. D’improvviso, l’equipaggio di un caccia di scorta tedesco Junker Ju 87 Stuka, composto dal pilota Franz Neubert e dal mitragliere Franz Klinger, videro apparire nel loro campo visivo i due PZL ma pensarono che i Polacchi stessero effettuando un’arrampicata per attaccare un altro Stuka che volava ad una quota maggiore; il pilota Franz Neubert allora decise di attaccare a sua volta ed abbatté il velivolo del Capitano Mieczyslaw Medwecki. Fu la prima vittoria in duello aereo della II guerra mondiale. Nel frattempo, Gnys con l’altro PZL P11c effettuava una violenta manovra diversiva per sfuggire al fuoco dell’attaccante, ritrovandosi in prossimità del suolo ed ai limiti dello stallo. Confidò nelle capacità di pilotaggio, non comuni, e anche in un piccolo espediente: le insegne nazionali poste in maniera disassata in modo da disorientare gli avversari, seppure solo momentaneamente, circa l’assetto del velivolo. Effettuò la richiamata appena in tempo: alla quota degli alberi; da quella posizione Gnys iniziò la sua caccia al nemico. Dopo aver abbozzato un attacco ad un bombardiere Heinkel He 111, egli piombò su due Dornier Do 17E che volavano in formazione stretta, abbattendoli entrambe. La sua fu la prima vittoria alleata della II guerra mondiale. E dunque, la seconda, in ordine di tempo di tutto il conflitto. Tutto in uno stesso combattimento aereo. Il primo.

Liberamente ispirato al racconto di Mike Dobrzelecki.


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Scramble

La rosa rossa

Mentre la navetta con esasperante lentezza mi portava agli “Arrivi”, composi il suo numero. Un solo squillo, e il suo allegro “Ciao amore!” “Ma ciao! Eri al telefono, broccolone! C’era la segreteria, uff!” Ma sorridevo. Mi guardavo distrattamente intorno, già mentre attendevamo di scendere dall’aereo avevano tutti messo mano ai telefonini, e ora si davano un’aria di importanza mentre annunciavano il loro atterraggio a chissà chi. “Ma quale segreteria, ero al parcheggio…” La sua voce era un po’ ansante, sentivo che stava camminando velocemente, con un chiacchiericcio di sottofondo. “Ho temuto di far tardi, amore, c’era un traffico incredibile.” Scesi dalla navetta, seguendo il fiume umano che si riversava verso il recupero bagagli. “Tardi? Lo sai che non te lo avrei mai perdonato!” Ridevo…quante volte lui mi aveva dovuta aspettare? “Ma che cattiva sei …” “Sì, sì … almeno cinque minuti di broncio, và facciamo quattro, mi sento buona oggi.” “Com’è andato il viaggio?” “Era iniziato benissimo! Mi hanno dato il posto vicino all’uscita di sicurezza, e accanto a me, sul lato finestrino, era seduto un bellissimo ragazzo. Alto, moro, un fisicaccio, bel viso mmm stavo già pregustando il volo. Giusto il tempo di fargli un sorriso e un paio di flapp flapp e lui ha detto alla hostess: “Posso spostarmi? Sto scomodo qui!”. Sgrunt! Amore, la mia autostima è a un livello infimo!” Lo sentii ridere, “Razza di broccolona! Ma dove sei?” “Sono ancora sulla navetta.” Mentii spudoratamente, e lui lo sapeva, sentiva che avevamo lo stesso sottofondo di annunci gridati all’altoparlante. “Dove ti sei nascosto stavolta?” “Non ho avuto il tempo di trovare un posto per nascondermi, è già tanto se sono arrivato in orario!” I cagnoni antidroga mi annusarono, mentre oltrepassavo il “nothing to declare”. Il figaccione di prima mi precedeva di qualche metro, e dopo tutto non era così carino, ma sì aveva un po’ di pancetta, e di sicuro era miope. (Tsk tsk) Mi guardai intorno, decine di persone ne aspettavano altre, alcune con cartelli in mano con nomi impronunciabili. Ma lui dov’era? “Non ti vedo, dove sei??” “Ma io vedo te!” “Okay, vorrà dire che bacerò il primo che capita.” Mi voltai e vidi un uomo sulla trentina, moro, mi sorrise. Gli buttai le braccia al collo e prima che potesse dire qualcosa incollai le mie labbra alle sue. Non esitò a ricambiare il mio bacio, le nostre lingua si intrecciarono, mentre le persone intorno a noi sparivano nel nulla. “Ciao, primo che capita” bofonchiai (è difficile scandire bene le parole mentre ti mordono le labbra). Trascorremmo la giornata sulla nostra nuvoletta rosa, in un’atmosfera emozionante, calda dei nostri corpi, greve dei nostri odori, ma soprattutto e purtroppo magicamente breve: lui aveva il potere di far scorrere le lancette sempre più veloci. Quando fu il momento, mi riaccompagnò a Malpensa, ci scambiammo gli ultimi baci e io uscii dall’auto stando attenta a non lasciare mezzo metro di rosa rossa nello sportello. Ero in fila per il check in, quando nell’aria risuonarono le note della sigla dei Simpson’s, frugai nella mia borsa, paragonabile alle tasche di Eta Beta, e trovai il cellulare: “Amore!” Amore … confesso, ho acceso una sigaretta!” Finsi di tossire, e lo sentii ridere: “Peste che sei!” Era sempre così, non appena ci lasciavamo ci venivano in mente mille cose da dirci. L’entusiasmo di stare insieme era tale che quasi non sentivamo la tristezza dell’arrivederci. Ho detto quasi… Chiacchieravamo allegramente, quando qualcosa, anzi qualcuno, attirò la mia attenzione. La fila accanto, alla mia destra, chiodo, pantaloni di pelle, un portadocumenti … No, che razza di scherzo. “Scusa amore … puoi ripetere?” “Sei distratta, che succede?” Mi incamminai verso il solito gate, senza perdere di vista quella figura nerovestita: andavamo decisamente nella stessa direzione. “Non ci crederai mai … c’è Gianni!” “Chi? QUEL Gianni??” “Dio che imbarazzo … non ci posso credere …” Sprazzi di ricordi disordinati mi balenarono in mente, mentre cercavo di portare avanti la conversazione, senza sembrare troppo interessata all’incontro. Gianni, gli occhi più blu che avessi mai visto… Gironzolavo annoiata nel web la notte che l’incontrai; Vittorio non era on-line, e già allora mi mancava terribilmente, anche se non lo avrei mai ammesso. Erano giorni che io e Vic ci “sondavamo”, e avrei fatto di tutto per cancellare dalla sua mente l’immagine che aveva di me: una Biancaneve moderna, simpatica ma non “spigliata”, una buona amica e basta. Al telefono con Gianni, giocando, provocandolo, testavo me stessa, e scoprivo che eccitare un uomo solo con la voce dava una sensazione quasi di potere. Sentivo il tono farsi basso, roco e sensuale, sussurri come carezze, sospiri come baci umidi di saliva e altro ancora. La sera seguente, appoggiata all’auto, il cofano ancora caldo, la telecamera del Monte dei Paschi ci faceva l’occhiolino poco distante. Le mani dappertutto, i capezzoli finalmente liberi ed eretti nel freddo di novembre, leccavo le sue dita odorose dei miei umori, mentre offrivamo uno spettacolo inaspettato alle coppiette appartate al buio del parcheggio poco distante. E nella mente un pensiero malizioso contribuiva a eccitarmi sempre più: la prossima chat su icq con Vic sarebbe stata decisamente interessante. E come un flash, rivedevo me stessa aprire le tende, perché dall’ufficio di fronte potessero godersi la scena: sulla scrivania, le gambe appoggiate sulle sue spalle, il suo sesso che si strofinava sul mio, senza penetrarmi, una dolce tortura E dopo, seduta sulla poltrona manageriale, scompigliata e discinta sentivo nella bocca il mix dei nostri sapori, mentre con le unghie seguivo la linea degli addominali. Lo guardavo maliziosa, di sotto in su, mentre con le mani cercava di impormi il suo ritmo… “Amore, manca molto all’imbarco?” Vittorio mi riportò alla realtà d’un colpo, e ripresi a conversare nel solito modo, a metà tra il malizioso e il tenero, ma al tempo stesso sentivo su di me gli occhi di Gianni: mi aveva riconosciuta. “Amore, lui mi ha vista! Ahah si è messo gli occhiali da sole, forse teme che io gli salti addosso alla vista dei suoi occhioni blu?” “Amore, ma sei tu che sei sparita e non lo hai più richiamato, no?” Avvertivo un po’ di tensione nella sua voce, non era molto contento dell’imprevisto. “Beh sì. Dovresti essere qui, sai? Ho ridotto lo stelo della rosa, era poco maneggevole. Cammino lentamente avanti e indietro proprio di fronte a lui, sorridendo e accarezzandomi le labbra con i petali. Sento i suoi occhi su di me. Starà ricordando, ne sono sicura. Fingo di essere assorta nella telefonata, ma so che questa rosa lo turba. Ogni tanto incrocio il suo sguardo e indugio quel tanto che basta.” “Lo vedi che sei peggio di me? Non mi capita mai di incontrare una mia ex, a te sì invece!” “Ma se l’ho frequentato solo per sedurre te! Non ricordi? Tu sei uscito con quella sciacquetta noiosa, invece!” Ridevamo, entrambi ferocemente gelosi. “Ti amo, sai?” “No, io amo te!” La navetta ormai era arrivata, e ci dovemmo salutare; mi augurò buon volo e spensi il cellulare, sorridendo come una deficiente alla prima cotta. E fu salendo sulla navetta che mi ritrovai di fronte Peter. “Sbaglio o ci conosciamo?” Sorrisi maliziosa. Lui si tolse gli occhiali da sole e ricambiò il sorriso. “Non ero sicuro che fossi tu, ma quel modo di camminare, di muoversi … Che piacevole sorpresa!” “Anche per me, ne è passato di tempo, ma sei proprio come ti ricordavo. Peccato tu abbia nascosto quei bellissimi occhi blu sotto le lentine scure, però.” Peter rise, era sempre stato bravo a incassare.


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