titolo: Piccole storie di grandi aeroplani
autore: Giancarlo Silva
editore: Logisma editore
pagine: 200
anno di pubblicazione: 2025
ISBN: 9788894926941
Un padre o un nonno, per i propri figli e nipoti, eroe e mito lo è per definizione, anche se non ha compiuto gesta mirabolanti. Ma se questo padre, o questo nonno, si è reso protagonista di cose che pochi nella vita possono dire di aver compiuto, sarà un eroe e soprattutto un esempio per molti altri anche al di fuori della sua cerchia familiare.
Ecco perché oggi parliamo di Giancarlo Silva. Ed ecco perché questa sua autobiografia vive una seconda vita editoriale.
Questa è un’autobiografia così ricca di eventi, riflessioni, accadimenti e opportunità di conoscenza, che sarebbe stato davvero un peccato lasciarla confinata al ristretto ambito della “lettera ai figli e ai nipoti” com’era nelle intenzioni dell’autore, e infatti qualcuno ha giustamente ritenuto opportuno proporla al vasto pubblico, nella certezza che avrebbe incontrato interesse e apprezzamento.
Io stessa di questo ne sono testimone.
LoGisma, l’editore di questa nuova edizione, si sa, è un editore di nicchia, una nicchia invero ampia perché, tra le altre cose, si rivolge a quel nutrito gruppo di lettori che sono i piloti e tutti coloro che in un modo o nell’altro si occupano di aerei, volo, insomma, cieli. Io non sono certo tra questi, in altre parole, sono una lettrice comune, come i più, eppure, dopo aver superato le prime pagine un po’ tecniche, per una come me ma certo non per gli addetti ai lavori, ho goduto poi di una lettura non solo piacevolissima per la scrittura semplice e scorrevole che la caratterizza, ma anche perché ricca di spunti di riflessione, e soprattutto capace di coinvolgere e interessare le persone tutte, sia quelle che anagraficamente possono avere riscontri diretti, sia quelle più giovani che attraverso queste pagine possono se non riconoscere, senz’altro conoscere un’epoca che è sì tramontata, ma che è stata anche la più prodiga nel regalarci quel che costituisce la ragione ultima dell’esistenza: la scoperta.
Incontriamo subito un ragazzo nato “bene”, in una famiglia di un certo lignaggio, con un padre però troppo assente per via dei suoi impegni d’affari, e una madre al contrario troppo presente per via del suo carattere. Allora come fa quel ragazzo ad allentare la morsa che gli tarpa le ali? Va in Francia a studiare per diventare ciò che la famiglia si aspetta da lui, un ingegnere. Ma, guarda il destino, proprio a pochi metri da dove studia, lui fa la sua migliore scoperta, un campo di volo, gratuito! E cosa c’è di meglio per un ragazzo squattrinato e in cerca di libertà di volare?
Così ha inizio una vita straordinaria. E, diciamolo pure, fortunata, molto fortunata. Per molte ragioni che il lettore scoprirà via via. Ma soprattutto perché una grave avversità, segretamente benedetta, occorsa all’azienda di famiglia nella quale, finiti gli studi, il nostro ragazzo era stato costretto a lavorare, sarà il suo lasciapassare per riprendere (e non smettere più) a volare dopo l’inevitabile interruzione.
Quando si dice che non tutti i mali vengono per nuocere!
Dice lui stesso in prefazione:
Dopo tanti anni di guerra, milioni di morti, povertà e fame, la gente aveva voglia di darsi da fare, di vivere. Tutto era facile allora: trovare lavoro, viaggiare, fare qualunque cosa. Credo di averne approfittato.
Eccome se lo ha fatto, è per questo che la sua storia superando ampiamente i confini del racconto privato, ci porta in quell’epoca magnifica di boom economico ed emotivo che inutilmente inseguiamo oggi, magari con l’ausilio dell’ingegno artificiale.
Ben altri furono gli ingegni allora, e tutti assolutamente naturali. Un esempio? Domanda: come trovare volando una città in un paese enorme e senza riconoscibilissime coste come le nostre italiane? Semplice. Basta costruire un’enorme freccia lunga almeno 100 metri sul fianco di una montagna con sotto la scritta Cannes.
Meglio di un radiofaro!
Ecco, sono perle così che si trovano in questo libro e che ricostruiscono lo spirito dei tempi. Quelli in cui si arrivava a Roma
sempre senza radio e senza bussola in un viaggio meraviglioso, grazie a un vecchio biplano di legno e tela che non ha mai perso un colpo.
Ebbene, quel biplano è uno dei grandi piccoli aerei che il titolo del libro richiama.
Ce ne furono molti nella vita di Silva.
Tutti con una storia degna d’essere conosciuta.
A me però ha colpito in particolare uno di essi, l’Aztec, che il nostro Giancarlo assieme all’inseparabile Carlo acquistò credo nel 1966, dopo aver dovuto a malincuore lasciare il precedente Aerocommander. La storia di questo Aztec – anzi di due – è affascinante perché affascinanti sono i luoghi che grazie ad essi Silva, i suoi amici e la sua famiglia hanno potuto raggiungere in tempi e modi a dir poco unici.
Per chi come me subisce da sempre il fascino del continente nero (e del mal d’Africa) e in particolare della civiltà nilotica e si è nutrita di storia classica sognando le isole greche sin da bambina (sia pur faticando molto poi con le traduzioni dal greco, dure come rocce e come, nomen omen, il relativo vocabolario che non per niente si chiamava Rocci), pensate quanto può essere grata a questo libro che cita nomi di città, oasi, eremi e regni che sedurrebbero chiunque abbia anche una minima cognizione del loro significato nella storia della civiltà umana.
E così I-BURY, il nome di questo esuberante bimotore con il quale volare era un gran piacere, conduce l’autore e il suo gruppo a visitare per esempio la Tunisia.
Leggendo questa parte mi è inevitabilmente venuto in mente il terribile destino dei cartaginesi; certo è che fra tutti i problemi che ebbe Annibale con i romani, di sicuro non ci fu quello di far marciare i propri mezzi di trasporto, quegli elefanti dotati di autonomia pressoché illimitata, problema che invece hanno avuto i nostri amici.
Perché il loro mezzo, l’aereo, c’è, i piloti pure, i passeggeri più che motivati anche, ma senza carburante si fa poco, e la benzina in Tunisia non si trova, neanche a Monastir: finiti i bei tempi degli omini della Shell. Ciò nonostante essi riescono a visitare gioielli come Monastir, Tozeur, persino un piccolo Colosseo romano, e poi non si perdono d’animo, soffrono un’ora, volano lungo una rotta calcolata in economia centellinando il carburante, arrivano di misura a Malta, fanno il pieno e finalmente tornano a Roma.
E pensare che conosco gente che non va in macchina dall’Eur a Ostia se non ha il pieno, tanto non gli va di rischiare di rimanere a secco!
Bè, pensate che dopo questo, i nostri amici lasciano perdere l’Africa? Ma certo che no.
Eccoli di nuovo sull’I-BURY alla scoperta delle oasi delle palme da dattero e della cerimonia del thè, che non c’è solo in Giappone.
Questi fortunati viaggiatori, badate bene, viaggiatori, non turisti, hanno visto paesi costruiti in modo che nessun occhio indiscreto possa penetrare all’interno delle case e che si dice abbiano ispirato il grande architetto Le Corbusier, hanno osservato genti di tante culture e incontrato tradizioni e stili di vita affascinanti e sorprendenti.
Tutto estremamente avvincente. Ma… ma anche in questo caso c’è un ma.
Ce lo racconta l’autore con queste parole: Volare tra un’oasi e l’altra è una questione di “fede”. Si parte pensando di seguire una strada asfaltata, ma dopo pochi chilometri la strada sparisce, coperta dalla sabbia o inghiottita dal deserto.
Era così che si volava allora, fidandosi dei propri calcoli e della bussola. Insomma, se non proprio da pionieri, qualcosa che gli somigliava molto.
Ma ve l’immaginate quale soddisfazione deve essere stato avvistare una macchia verde (Tamarrasset ai confini del Niger) e constatare che a dispetto della sabbia ininterrotta sorvolata (e sollevata) per ore, I- BURY anche in questa occasione non ha mai perso un colpo?
Sì davvero piccoli grandi aeroplani, capaci di affrontare con la stessa disinvoltura i climi torridi africani, ma anche la peggior tempesta degli ultimi cinquant’anni mai vista in Corsica. Però comandante, scambiare la fila di portaerei della VI Flotta americana per una linea di costa, sorvolarla e rischiare di farsi abbattere…
Bè, visto che l’ha raccontata, che dirle, complimenti!
Anche il gemello di I-BURY ha fatto però la sua parte. E che parte. Perché ha portato i protagonisti del libro a scoprire la culla della civiltà, sparsa su miriadi di isole e isolette in quell’Ellade che richiama fiumi di versi memorabili, da Omero a Saffo, da Pindaro a Euripide, fino alla terraferma, alla capitale di quel mondo simboleggiato dal tempio più perfetto, elegante e imponente dell’antichità, il Partenone di Atene. Evocando così a ogni riga personaggi e archetipi che dopo trenta secoli indicano ancora la strada del pensiero, della scrittura, della fede, e costituiscono i riferimenti immortali dell’essere esseri umani. Per lasciare ai lettori il piacere di scoprirli da sé, non racconterò qui i dettagli di quel peregrinare mozzafiato che, volando come farfalle tra un fiore e l’altro, li ha portati da un’isola all’altra di questo arcipelago unico, di cui già solo i nomi sono un brivido continuo: Corfù dal sapore veneziano, la romantica Cefalonia, Itaca, patria dell’astuto Ulisse e della paziente Penelope, Zante (come non ripensare all’immortale A Zacinto del nostro Foscolo) e poi ancora Creta e la sua reggia tutta d’oro, Mikonos e Santorini splendidi frammenti del mistero di Atlantide, Citera l’isola di Venere, Rodi e il suo colosso… ma su un momento di quel lungo peregrinare voglio soffermarmi un attimo in più, tanto è suggestivo e qui ben scritto.
Si tratta dell’incontro con i mulini. Antichissimi, autentici, non come quelli fantastici donchisciotteschi, ma altrettanto pieni di magia e suggestione.
Siamo a Kos, l’isola benedetta dal meltemi il vento che soffia forte per tutta l’estate venendo giù da Istanbul a ore fisse e che è una vera garanzia di lavoro per i tanti mulini disseminati sul suo territorio, e quindi una vera garanzia anche di avere grano, pane, cibo a volontà. Così l’autore.
Forse è proprio la sicurezza di avere a disposizione questa enorme energia che ha spinto alcuni uomini a inventarsi qualcosa per smettere di faticare come schiavi solo per un poco di farina, un bel marchingegno che funzionasse da solo. Non lo potevano ancora sapere ma stavano facendo nascere una nuova civiltà, quella delle macchine…
Vi fa venire in mente niente questo passaggio? No?
Allora ci facciamo aiutare ancora dall’autore, poco dopo leggiamo infatti:
Questi uomini straordinari avevano addomesticato la forza del vento anche se per secoli le vele latine avevano solcato i mari e rimontato il vento. Sfruttavano il vento per andare contro vento. Ma nessuno sapeva perché. Fino a quando tante piccole vele latine, montate come i petali di una margherita intorno a un pilone centrale, hanno cominciato a svelare il mistero. Guardando bene si scopre che la forma di un’ala di aeroplano, di una vela gonfiata dal vento e di una pala di mulino che gira, è la stessa. La forma: il colpo di genio della natura! Gli uomini che avevano lavorato ai mulini non lo sapevano, ma avevano addirittura scoperto una scienza nuova: l’Aerodinamica.
L’autore giustamente si rammarica che Leonardo si perse per un soffio la possibilità di volare con le sue straordinarie macchine solo perché si lasciò affascinare dal battere delle ali dei passerotti di casa sua e non andò a guardare invece i gabbiani, i falchi e le aquile veleggiare felici senza muovere le ali, mancando così la possibilità di capire meglio le potenzialità del vento, di cui pure aveva intuito la forza di muovere addirittura macine di pietra. Per fortuna però qualcun altro lo ha fatto successivamente.
Ed ecco perché il nostro Giancarlo ha potuto scrivere uno dei capitoli più affascinanti di tutto il libro, quello che s’intitola Rieti. Ovvero il Volo a Vela.
Di tutti i piccoli aerei che si citano qui, l’aliante è quello forse più piccolo, e certamente più straordinario, perché non ha il motore. E perché il
pilota d’aliante si sgancia da quella specie di trattore che lo ha strappato dal suolo e diventa un uccello. Nessuno potrà mai spiegare a un profano cosa sia la sensazione di salire in una ascendenza, di guadagnare anche solamente qualche centinaia di metri, senza spendere una lira di benzina… Ecco che il pilota d’aliante si trasforma: non è più dentro un aliante, è lui stesso un aliante.
Lo lasciamo raccontare a lui stesso, nelle sue bellissime pagine, cosa è stata questa esperienza, ma noi, noi che l’abbiamo provata sia pure una sola volta, ci pare di vederlo Giancarlo ai comandi del suo aliante, immerso in un’esperienza alla quale alla fine non si vuole, né si può aggiungere aggettivi. Perciò citerò me stessa, quando fui io a provare quel tipo di volo proprio a Rieti e commentandolo dissi: quando si esce sconvolti dalla bellezza di un paesaggio naturale e mistico e dalla sua capacità di ritornare ogni volta in guise diverse, allora questa parola strana, sfuggente e talvolta paurosa, volare, diventa una parola dietro la quale intendiamo milioni di cose diverse, ciascuno la sua, e che tuttavia rimanda a un ricordo condiviso; questa parola ci dice quanto il mistero dell’arte di volare sia più forte di noi e interamente ci possieda.
Ma lassù non si sperimenta solo ciò che è all’esterno dell’aliante, ma si ha tutto il tempo anche di osservare ammirati l’uomo seduto al posto davanti al tuo, ai comandi, e anche quello suscita un’emozione infinita.
Si sperimenta l’esecuzione perfetta del decollo, il controllo continuo del volo.
Si percepisce che in ogni gesto dell’uomo ai comandi non c’è solo tecnica, studio, esperienza, ma anche il sogno, la notte, il mistero, la fiaba, il cuore, l’ignoto: ogni gesto rimanda a qualcosa che lui padroneggia con altissimo professionismo ma che soprattutto induce il fortunato passeggero a lasciarsi andare senza paura, fino a mettere in scacco le inevitabili incertezze che si provano un attimo prima di staccarsi dal suolo. Fino a che si prende coraggio e si chiede una virata più audace, un loop, un cambio di quota, una corrente ascensionale più generosa, per salire ancora di più, fino a dimenticare del tutto la terra di sotto, e magari a incontrare le poiane, i falchi e a eseguire gioiosamente assieme a loro una incredibile danza dell’aria. E un uomo che pilota così, secondo voi poteva non partecipare ai campionati mondiali di volo a vela?
Ve lo lascio scoprire da soli tra le pagine del libro.
A questo punto avete certamente capito che quest’uomo, Silva, se l’è veramente goduta questa sua capacità di pilotare ogni genere di aeroplano.
Ma probabilmente vi starete anche chiedendo, e il lavoro?
C’è, c’è, e tanto. In un certo senso il nostro autore comincia a lavorare sin dai tempi del servizio militare. Lo devo dire? In Aeronautica.
E lì ci sono tanti aneddoti e tanti episodi, alcuni che rasentano il tragicomico.
Ed è proprio nel mondo del lavoro che i piccoli aerei diventano grandi, addirittura grandissimi, come l’indimenticabile 747 o Jumbo che dir si voglia.
A Pratica di mare – perdonate il gioco di parole – il nostro fa pratica di volo come di più non si potrebbe, e già che c’è ci include un po’ di volo acrobatico (secondo voi se lo faceva mancare?). Coi giochi di parole si diverte però anche Giancarlo, e fa sorridere anche noi quando ci racconta come nell’etere si palleggiarono un Mambo e un Bombo… Che vuol dire? Lo scoprirete.
Ma eccoci alla svolta “seria”.
Arriva nella vita di Giancarlo l’Alitalia, la gloriosa compagnia di bandiera che, purtroppo, fu e non è più. E lì comincia subito con un aeroplano che proprio piccolo non è, si tratta infatti di un quadrimotore a elica di grande autonomia, un DC 6.
Arriva anche il Caravelle, sono gli anni Sessanta, e con quelli si toccano città che oggi sono sinonimo di guerra, oscurantismo, terrorismo, ma allora erano ancora epigono del fascino d’Oriente, Damasco, Bagdad, Teheran… roba da mille e una notte.
Tra una cosa e l’altra “capita” persino di farsi un voletto da Roma a Johannesburg con un Macchi AL-60, ed eccolo di nuovo un piccolo aereo, ma per un grande, grandissimo tragitto. Posso dirlo? Ma che invidia!
Della parentesi nell’azienda di famiglia ho già detto, ecco perché il sodalizio con Alitalia si interromperà; si riprenderà in seguito (al capitolo Alitalia 2), ma intanto si passa per Alisarda e altre vicende lavorative straordinarie che hanno travalicato l’età lavorativa e sono continuate in quella della pensione, trasformata da Silva nell’occasione per tornare a volare addirittura su aerei antiincendio!
Su Alisarda, o meglio sulla Sardegna, mi voglio soffermare un attimo in più perché lì subentra “la rossa”.
Ecco la sua descrizione originale.
Era una rossa. Passionale, nervosa, affettuosa, fedele, intelligente. Mi ha dato le più grandi emozioni che un uomo possa mai provare.
Era bella, agile e scattante, si muoveva con eleganza. Vibrava di energia, ansimava e gemeva di piacere. Mi faceva rizzare i capelli in testa e quando finalmente si fermava, in catalessi quasi, era come se si fermasse il mondo. Poteva durare un secondo, un minuto, un secolo. Non riuscivo più nemmeno a respirare. Mi domando come non abbia mai avuto un infarto tanta era l’emozione di quel momento. Il sudore freddo mi colava lungo la schiena e le mani mi tremavano…
Capito eh?
Ma no, che avete capito? Non si tratta di Rita Hayworth, si tratta di Tosca.
No, no, non la conturbante e focosa amante di Cavaradossi!
Ho capito. Ve lo faccio dire direttamente da Giancarlo chi era Tosca.
La mia indimenticabile, insostituibile spinona a pelo corto, colore rosso brizzolato, dai peli duri e pungenti come la schiena di un cinghiale. Quando era bagnata aveva un profumo indimenticabile. Quante volte abbiamo dormito insieme, in letti turchi o tunisini, o in tenda.
Ecco, ora ci siamo. Perché il nostro autore, studiava, lavorava, pilotava, viaggiava, e poi andava a caccia (e talvolta anche a pesca).
Le pagine che raccontano questi momenti sono indimenticabili.
Lo sono per il racconto vivido, la scrittura fluida e le immagini nitide, ma anche perché l’autore non perde l’occasione per fare profonde riflessioni sull’arte venatoria intrecciata in apparente contraddizione all’amore per gli animali. Questo mi fa ricordare anche qualche frecciatina dell’autore ai “Verdi”, quelli cioè che in nome del “politicamente ecologico” pensarono bene di far dipingere di verde i piloni dell’alta tensione che attraversavano i boschi. Un vero regalo ai piloti che sorvolandoli dovevano a tutti i costi evitarli!
In conclusione mi viene da dire che se è vero che «L’aviazione è l’arte di avere degli incidenti non mortali», questo pilota è consacrato di diritto Artista. Nessuno meglio di lui ha interpretato il volare come gioia, libertà, e insieme competenza e consapevolezza, forse perché non si è mai staccato del tutto da quella terra che sotto di lui gli ricordava anche quanto fosse pericoloso. Come avrebbe detto il grande Saint Exupery basta
un colpo di tosse del suo motore per ricordargli quanto fragile sia il sogno di Icaro e quanto debole la presa della sua mano sui comandi.
E inevitabile va il ricordo di Silva anche ai colleghi periti, perché volare, purtroppo ogni tanto costa anche qualche vita umana.
Ora ci congediamo sperando, con le nostre modeste parole, di aver fatto onore alle belle pagine di Giancarlo Silva, e che i suoi figli Irina e Michelangelo e i nipoti Tommaso, Giacomo e Timoteo ne siano contenti. Ma prima di lasciarvi alla lettura, è doveroso dire che la vicenda della nascita di questo libro è raccontata nelle due prefazioni, di Vicenzo Parma e Gianfranco Ales, e che se al termine della seconda leggiamo
Grazie di cuore a Marco Forcina, unico vero promotore di questa nobile e felice iniziativa,
un motivo per ringraziarlo a nostra volta ci sarà, no?
Recensione a cura di Rossana Cilli.
Didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR