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I have control


Tutto cominciò una ventina di anni fa.

Ancora infante, da poco in grado di camminare e di parlare, per la prima volta vidi un mezzo volante da vicino.

Un Agusta A-109A2 della Guardia di Finanza, in esposizione statica per una manifestazione, nel porto dove mio padre prestava servizio.

Finanziere, imbarcato su una motovedetta, amante del mare come io lo sarei stato del cielo.

Ricordo la mia curiosità insaziabile di bambino, precoce e sveglio a giudizio di molti che mi conobbero allora. Iniziai a tempestare lui e mia madre di domande sulla strana macchina, su come funzionasse, su come era fatta dentro.

La memoria di questi primi tempi della mia vita, per quanto vivida, ha qualche falla.

C’è una foto di me sul bordo del vano passeggeri, aggrappato al portellone aperto, e ho un vago ricordo dei miei genitori che non sanno come rispondere in maniera comprensibile ai mille interrogativi che gli pongo.

Ricordo una promessa fatta a me stesso, straordinariamente chiara, per quell’età. Se mia madre e mio padre non sapevano rispondermi, avrei trovato io le risposte. Nella soffitta della casa dove sono cresciuto è conservata un enorme quantità di riviste, libri, raccolte a fascicoli, e fogli strappati a quaderni di scuola per prendere appunti e disegnare.

Aerei ed Elicotteri, veri o partoriti dalla mia mente. Una carrellata di modellini assemblati in maniera via via meno rozza e più ricercata con gli anni.

Più o meno da quando sono stato in grado di leggere qualcosa di più complicato dell’abecedario, leggo di aviazione.

Ammetto di sapere comunque poco rispetto agli esperti del settore, ma ai tempi, senza nessuna conoscente addentrato in quel mondo, vivendo in un paesino relativamente isolato, in un epoca in cui la grande internet che ha tutte le risposte, spesso anche quelle sbagliate, ancora non era accessibile ai più, soprattutto in Italia, è sorprendente la mia volontà di raccogliere informazioni in materia di volo. Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, già alla fine delle elementari la risposta era netta e decisa.

Volevo fare il pilota.

La voglia di solcare il cielo la incanalai negli anni delle scuole medie e superiori nei simulatori di volo, complice l’ingresso in casa di PC via via più performanti col passare degli anni. Alcuni spiacevoli eventi mi turbarono l’adolescenza in maniera troppo subdola per essere percepita dall’esterno, iniziai a isolarmi, alienandomi al mondo.

La forza d’inseguire il sogno stava spegnendosi. Nemmeno i primi viaggi su aerei di linea erano serviti a molto.

Mi aveva dato la stessa, scomoda, arida sensazione di viaggiare su un autobus.

Solo molto veloce.

Guardando fuori dal finestrino vedevo il luogo a cui da sempre anelavo, l’infinito spazio del cielo, ma qualcosa non tornava, non lo stavo vivendo come volevo.

Arrivato al quarto anno del liceo scientifico mi stavo ormai convincendo che quello di pilotare davvero sarebbe rimasto un bel sogno, ma che dovevo accontentarmi delle nottate davanti al monitor, collegato in rete con altra gente, a discutere di simulatori, a costruire scenari di guerra tanto virtuali quanto i velivoli con cui ne avremmo poi solcati i cieli.

Ero stato a qualche airshow, ma sempre in madrepatria, e non mi avevano entusiasmato più di tanto.

Guardare da terra era solo un modo per stuzzicarmi l’appetito, e lasciarmi poi a bocca asciutta.

Come guardare dolci in vetrina sapendo che non entrerai a comprare né un vassoio ne un singolo pasticcino. Ma fortunate coincidenze riaccesero prepotentemente la fiamma della passione.

In un paese non lontano costruirono un aviosuperficie.

Ci andai una volta per conto mio, trovando solo un hangar chiuso e nemmeno l’anima di una persona. Ma qualche tempo dopo la gestione di quella stessa aviosuperficie iniziò a tenere corsi di divulgazione sul mondo aeronautico, in un bar a meno di dieci minuti a piedi da dove abitavo.

Una sera andai a curiosare, e da allora, ogni giovedì ero là.

Frequentai più assiduamente di chiunque altro i corsi, presi appunti, studiai anche per conto mio. Molti altri “allievi”, perso l’effetto della novità, abbandonarono.

Fatto tipico e non sorprendente nella vita di paese.

Eravamo sempre di meno, e io ero l’irriducibile. Arrivai a farmi rimproverare da mia madre per il dedicare più tempo a questo corso settimanale, che al liceo, e devo ammettere, mio malgrado, che i voti davvero ne stavano risentendo. Ma strinsi i denti, cercando di dividermi equamente tra le due “scuole”.

E alla fine, premio insperato, ai tre che rimasero fino a fine corso, fu offerto un volo gratis sull’ultraleggero della scuola di volo. Di quei tre ero il primo. Ricordo ogni dettaglio di quel giorno. Ricordo la mia ansia, mentre divoravo il pranzo, dopo aver perso tempo prezioso nella ressa all’uscita da scuola, per uno stupido contrattempo. L’avrei saltato, ma già ero senza colazione, sarei crollato se non mangiavo qualcosa.

Finalmente col mio zainaccio di tela militare, consumato ma tenuto affettuosamente in uso per anni e anni, salii a bordo dell’automobile con cui mio padre mi avrebbe accompagnato al campo. Ero nel panico. Mi sembrava di avere l’occasione di una vita davanti, e di essere prossimo a perderla.

Aveva un bel da fare, papà, a cercare di rincuorarmi, a bruciare semafori e rischiare multe per eccesso di velocità.

Ero terrorizzato, tremavo. Ma arrivammo alla pista, e c’erano ancora solo due tecnici che spostavano materiale nell’hangar. Accertato che non sarei rimasto a terra, ritrovai la pace, come se nulla fosse successo.

Incominciai a tempestare di domande, con la stessa furia innocente del bambino che ero stato, tutti i presenti. I due tecnici, l’istruttore, il gestore … chiunque mi sembrava potesse insegnarmi anche solo una virgola più di quel che sapevo, fu tartassato dalle mie domande, frenate solo e unicamente dal terrore di irritare qualcuno e restare a terra.

Nell’aula di teoria della scuola ci spiegarono in pratica quello che avremmo fatto. In realtà pochi minuti, ma per me era l’universo intero.

Decollo, giro di un paio di punti caratteristici dei dintorni, con un qualche attimo di controllo sui comandi, ritorno verso il campo, circuito e atterraggio.

Spiegato per sommi capi il volo, arrivò il momento di toccare con mano.

Ci avvicinammo all’ultraleggero parcheggiato sul piazzale in cemento.

Fusoliera bianca in vetroresina, ala alta, motore spingente, carrello triciclo, coda a T, sedili in tandem e un tettuccio in plexiglass incernierato sul lato che gli dava un aria stranamente aggressiva per un “giocattolino da poco”.

Negli anni avrei sentito dire peste e corna di quel modello, e di tante piccole magagne che si portava dietro … ma per me era e resta bellissimo. Come si suol dire, il primo amore non si scorda mai.

Ci mostrarono tutti i controlli che andavano fatti prima di ogni volo, ci fecero osservare mentre venivano eseguiti, toccammo tutti con mano, previa spiegazione e sotto supervisione. Mi venne dato incarico di rimuovere la copertura e il “tappo” dal tubo di pitot.

A ripensarci oggi è stato il momento fondamentale della realizzazione che stavo davvero per volare. Che non era un sogno folle ed effimero, ma una concreta realtà.

Avevo la copertura, con il contrassegno “REMOVE BEFORE FLIGHT” stretta nella mia mano sinistra, rosso su bianco.

Finora quella scritta l’avevo vista solo su un portachiavi recuperato a una manifestazione, anni prima, e usato fino a distruggerlo. E l’odore, l’odore quando spillammo dal serbatoio un con l’apposito strumento un piccolo campione di carburante, per verificare l’eventuale emulsione di acqua all’interno.

L’odore pungente della benzina automobilistica usata da quel motore Rotax, tuttora mi ricorda quel giorno, ogni volta che passo da un benzinaio. Un attimo ancora d’incredulità nacque quando mi dissero di sedere davanti, che l’istruttore da dietro poteva benissimo controllare tutto. E montammo in cabina.

Il cielo, che la nel corso della mattina mostrava ancora le cicatrici di un violento fronte temporalesco passato in settimana – altro fattore dell’ansia che avevo sofferto mezz’ora prima – era pulito, con poche nubi alte, ben oltre le minime condizioni per il volo a vista. E un vento relativamente tranquillo, per la media di quel febbraio.

Iniziai a seguire le istruzioni che mi vennero dettate man mano e preparandoci alla messa in moto. Cinture, chiusura del tettuccio, segnalazione dell’avviamento, batteria, magnete 1 On, Magnete 2 On,

Un ultimo urlo di “VIA DALL’ELICA!”, Controllo visivo, per ulteriore sicurezza … e lo scatto dell’avviamento, la macchina che prende vita, il fragore del motore che si avvia …

Un rumore che rimbombava nell’abitacolo e nella mia testa, complici le cuffie in prestito, troppo logore e ormai non totalmente capaci di attenuare i rumori esterni.

Poi l’accensione della radio, l’impostazione della frequenza, il sentire l’istruttore parlare. Frasi che avevo immaginato mille volte leggendole, che finalmente mi arrivavano filtrate dalla statica dell’interfono, mentre l’istruttore comunicava man mano le sue intenzioni …

Rullammo in attesa, con un primo momento di mani sui comandi, sempre dirette e corrette dall’istruttore, che di fatto non mi avrebbe mai ceduto, per questo volo, la completa autorità sul velivolo.

Rimasi molto spiazzato la necessità di dover manovrare usando separatamente i freni delle ruote, destro e sinistro, a distanza di anni il rullaggio a terra è una cosa che non ho mai davvero padroneggiato fino in fondo.

La prova motore, che lo spartano freno di parcheggio dell’ULM non gradì molto, costringendoci a coadiuvarne l’azione agendo con forza anche sui freni “di manovra”.

Tenendo il motore ai 4300 giri, togliemmo un magnete, osservando entrambi la lieve diminuzione di giri. Lo reinserimmo, ripetemmo col secondo. Risultato analogo.

Nessun traffico, nonostante la pista di un migliaio abbondante di metri, in asfalto. Un lusso, per un campo di volo del genere, davvero un lusso raro, soprattutto in Italia. Quasi nessuno volava mai da quelle parti, e solo anni dopo avrei capito perché. Ma in tutto questo non importa, allora non sapevo né sospettavo e anche averlo saputo non avrebbe cambiato nulla dell’esperienza in sé.

Rullammo dal raccordo alla testata pista. Direzione 27, comunicando all’improvvisata “biga” a terra la nostra intenzione di decollo. La mia mano che su richiesta dell’istruttore porta la levetta dei flap alla prima tacca …

Un ultimo momento di fermo appena allineati … poi lasciammo i freni e portammo la manetta a fondo corsa.

I 100 cavalli del motore, non tantissimi, ma più che sufficienti per quella massa, iniziarono a spingerci, il mondo fuori dal cockpit accelerava.

L’anemometro segnalò in breve la velocità di rotazione, e quasi immediatamente dopo fu il distacco dal suolo. Una sensazione più leggera del volo di linea, ma allo stesso tempo molto più tangibile.

Sentivo i comandi sotto le mani e i piedi, mossi dall’istruttore, ma comunque percepiti da me. Inconsciamente lasciavo che il mio corpo seguisse l’input percepito dal pilota in comando alle mie spalle, in modo da assimilare con la memoria di movimento le azioni. Insegnamento ricavato da chissà che libro letto anni prima, ma che in quel momento d’istinto non potevo fare a meno di eseguire.

A differenza delle precedenti esperienze, ogni pezzo era al suo posto. Avevo trovato ciò che cercavo. La bellezza del volo, la bellezza del mondo visto dall’alto, con la consapevolezza di controllare il proprio spostamento. Immobili eppure oltre i limiti del proprio corpo. Il moto perfetto, il volo della mente che in barba alla legge di gravità si porta dietro anche il corpo.

Esattamente quello che cercavo nei libri dei filosofi, e nei manuali tecnici. Ma ciò che avevo letto, e con scarsi risultati anche scritto, impallidiva di fronte alla realtà.

Livellati e impostato un assetto di crociera a 1000 piedi, virammo verso un isoletta non lontana, forse un paio di minuti per raggiungerla, a 75 nodi, velocità già sostenuta, per quel mezzo. Per un po’ l’istruttore mi lasciò i comandi, facendomi provare alcune blande virate, lievi cambi di quota e di regime di volo.

Vedendo la tranquillità con cui seguivo le sue istruzioni, mi lasciò arrivare all’ingresso del sottovento per il circuito d’atterraggio, riprendendo solo allora il controllo completo, e non solo il non dichiarato controllo passivo, che ero istintivamente certo non avesse mai lasciato.

Non avevo un modo per vedere davvero cosa stesse facendo, ma tutto ciò che avevo studiato, unito al comune buon senso, mi lasciava intuire la sua mano a guidare e controllare la mia, i suoi piedi a correggere la mia azione sul timone, per tener centrato l’aereo.

Il contatto col suolo fu più duro, per certi versi, di quello su un jet da 300 posti. Ma ironicamente, in 300 metri scarsi eravamo abbastanza lenti da invertire la direzione e liberare la pista, trotterellando allegri sulle poche irregolarità del piazzale, seguendo passo passo le indicazioni dell’istruttore.

Una volta arrivati allo spazio marcato a terra, motore al minimo, freno di parcheggio inserito, l’istruttore mi fece togliere la cuffia, scendere dal mezzo, e come da istruzioni mi allontanai stando lontano dal motore, mentre un altro allievo veniva a darmi il cambio.

Mentre rullava nuovamente verso la pista, rimasi a guardare. Aspettai che rientrasse, aspettai anche tutto il volo del terzo allievo. Volevo sentire cosa aveva da dire, volevo sapere, capire.

Andammo via solo quando ci cacciarono.

Fu l’inizio del cambiamento.

I simulatori non bastavano più, avevano il sapore di un palliativo, e anche molto inefficace.

Anche solo un ultraleggero nella realtà superava di gran lunga qualsiasi caccia pilotato di fronte a un computer.

Avevo 17 anni. Molta gente aveva iniziato a età inferiori, molta gente, in luoghi e tempi antecedenti, poteva avere già una licenza, alla mia età.

I miei, che temevano il mio concentrarmi troppo sul volo e troppo poco sullo studio, vollero farmi attendere fino al compimento della maggiore età, e solo allora riprese quello che chiamavo “l’apprendistato”.

Visite mediche, viaggi in questura per avere il nulla-osta che mi avrebbe autorizzato a iniziare i corsi, l’iscrizione in palestra per migliorare la mia forma fisica e combattere l’annoso problema di peso che da sempre mi trascinavo dietro. Era il mio ultimo anno di liceo, era l’anno del corso di volo. I rapporti coi miei compagni di classe andavano deteriorandosi ogni giorno di più, ma questo non era importante.

Esclusi un paio, con cui ancora ho piacere di sentirmi, erano persone migliori da perdere che da trovare.

Per certi versi, era una cosa dura da affrontare.

La preparazione per l’esame di stato, i corsi per la patente B iniziati appena possibile, e affrontati con una certa noia perché sì, apprezzavo guidare, ma non reggeva il confronto. Un crescere di impegni in famiglia e fuori, a cui non potevo esimermi. Ma ogni weekend a cui il mondo arrivasse senza esplodere, ero al campo. Anche se per qualche motivo legato al meteo o a fattori tecnici non si poteva volare. Era irrilevante.

Ero in mezzo al mondo del volo, ero in un hangar, ero negli uffici. Gli aeroplani non erano più un insieme di poligoni disegnati e ricoperti di texture da un sistema di calcolo infinitamente più semplice e stupido di un cervello umano, erano ruote sul cemento del piazzale, erano giunture meccaniche, scocche in metallo o in resine, erano motori a cui all’inizio della giornata si faceva un controllo ben più approfondito del pre-volo, a cui si controllava sempre il livello dell’olio.

Era divertente il fatto che per rendere veritiero il controllo, eliminando le bolle d’aria, bisognasse far ruotare, a magneti scollegati e fermi, l’elica un paio di volte, fino a un rumore caratteristico, che divenne in breve famoso tra noi allievi come “il ruttino”.

Imparai a conoscere anche altri aerei, che là erano fermi, tutti bellissimi, anche se alcuni, abbandonati a loro stessi, erano tutt’altro che in condizioni di volare.

L’istruttore che mi seguiva era diverso. Il suo predecessore era partito per una migliore offerta di lavoro, all’estero. Il nuovo, sulle prime, parve un filo più burbero, ma la sua esperienza, e il modo in cui ci addestrava, li trovavo eccezionali. Trovava la giusta misura.

Abbastanza severo da farmi ricordare e correggere i miei errori, concettuali e pratici, ma non tanto da scoraggiarmi. Ricordo di aver preso sulle prime la cosa come una sfida. E ci misi impegno, pian piano iniziai a limare i miei errori.

Molti parlano del loro primo volo solista, come momento di culmine della propria formazione. Per me fu il primo atterraggio davvero riuscito. Era la sesta lezione pratica del corso. Nelle precedenti avevo avuto dei problemi a concentrarmi, mi emozionavo tanto da fare errori piccoli, ma fondamentali, cose che continuavano a condannarmi a ramanzine e ripassi di teoria.

Quel giorno ero arrivato, dopo una settimana abbastanza difficile a scuola, a fare la checklist, come sempre felice di staccare un po’ la spina da un contesto causa per me di molto stress, e davvero avevo bisogno di godermi il volo.

La missione era la stessa della settimana prima: volo lento, qualche stallo da quota di sicurezza con recupero, e circuiti di atterraggio, per pista 27, come prontamente risposi all’istruttore guardando la manica a vento.

Pre-volo e decollo furono senza imprevisti, e andammo a fare un volo che si preannunciava identico alla settimana prima.

Ma qualcosa era diverso.

Forse nel modo in cui mi ero posto quel giorno. Ormai sapevo che sbagliare avrebbe causato l’ennesima ramanzina, che l’istruttore avrebbe ripreso i comandi, togliendomi parte del piacere. Ma non avevo nulla contro di lui. Solo, quel giorno volevo godermi il volo, e non avrei permesso a nulla e a nessuno di mettersi in mezzo tra me e quella che sapevo sarebbe stata la migliore ora di tutta la settimana, quella che mi serviva davvero per stare bene.

Dopo gli stalli, l’istruttore mi fece percorrere dei quadrati intorno alla nostra “area lavori”, in assetto di volo lento, con una tacca di flap, poi due, poi tre, alternando le configurazioni e assetti dell’aeromobile.

Stavolta non gli sentii dire nulla. Anzi, accadde ciò che davvero non mi sarei mai aspettato.

Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto. Avevo preso l’abitudine, per vedere in faccia l’istruttore, cosa preclusami dai sedili in tandem, di portare con me un piccolo specchietto, e incastrarlo in un anfratto del cockpit che quasi pareva fatto a misura.

Guardando dietro con questo ausilio improvvisato, vidi le pagine di un quotidiano. Forse in un altra occasione l’avrei visto come un gesto di poca professionalità. Ma in quel momento il significato era tutt’altro.

M’ero guadagnato la sua fiducia. Riteneva che potevo affrontare il volo senza il suo intervento. Non sentii rimproveri dall’interfono. Solo la richiesta, qualche minuto dopo, di entrare in sottovento per la pista e atterrare, che la nostra ora di volo stava per finire.

La fiducia che il gesto dell’uomo seduto alle mie spalle aveva instillato in me, produsse un circuito volato con una precisione totalmente aliena al mio volo della settimana precedente, e si concluse in un atterraggio che a tutt’oggi ritengo tra i miei migliori, tanto da stamparsi a fuoco nella memoria.

La definizione di “pennellato”, se mi è concesso per un attimo abbandonare la modestia. Preciso sul pettine, con un contatto morbido, tenendo il musetto sollevato il giusto dopo la toccata per lasciare che l’aereo decelerasse per l’attrito con l’aria, senza toccare i freni finché, esaurita la velocità e con essa la forza dei comandi aerodinamici, la forza di gravità richiamò a se il ruotino anteriore.

Invertimmo la direzione, rientrammo al parcheggio, spegnemmo come da procedura.

A motore spento, tolsi la cuffia, e mentre recuperavo e mettevo in tasca il mio specchietto, sentii una pacca sulla spalla. In quel momento toccai un nuovo massimo di autostima. Non ero solo io a credere, e nemmeno tanto, in me. C’era almeno una persona con cui non ero imparentato, al mondo, che era stata in grado di affidarmi un mezzo del valore di svariate migliaia di euro, e la sua stessa vita, e a giudicare dal fatto che ora eravamo fermi sul piazzale, col tettuccio aperto e i piedi ben saldi sul cemento, la sua fiducia era ben riposta.

Era ottobre.

Non avevo ancora la patente B, che sarebbe arrivata solo a metà novembre. Per la legge non potevo guidare da solo un automobile. Che importava. Potevo pilotare un aeroplano, per quanto coi limiti e le problematiche di un ultraleggero. Era quello il punto fondamentale.

Sulla mia agenda dell’epoca, usata per tenere traccia degli impegni studenteschi e mille altre cose, figura una frase scritta con molta forza, quasi incisa, in quella data:

I Have Control

Scritto esattamente così, con la prima lettera di ogni parola in maiuscolo, che mi dava esteticamente l’impressione di un affermazione più forte e definitiva.

Era quello che volevo, era quello che nel volo avevo sempre ricercato.

La libertà, l’autorità di prendere in mano i comandi e decidere la mia linea di azione, con le conoscenze e gli strumenti per farlo. Certo, con la lucidità di non essere ancora pronto a tutto, di avere davanti ancora un lungo percorso. Ma mi era stato accordato il poter atterrare autonomamente. Era un inizio.

Il resto del corso ebbe comunque i suoi ostacoli. L’emergenza da cielo campo con discesa in virata. Ci misi mesi a impararla ragionevolmente bene. Le prime esperienze di navigazione cartografica, e alcuni voli, chiusi prematuramente per un peggioramento imprevedibile del meteo, totalmente inatteso anche dalle previsioni e dai bollettini a cui avevamo accesso.

Ricordo in un occasione un atterraggio rocambolesco. Nell’esatto istante della toccata, dal nulla partì una raffica di vento ai limiti di quanto il mezzo potesse sopportare, e un tratto di pista percorso sulla sola ruota sinistra, prima di riuscire a metterci vincere la forza del vento e raddrizzarci. Nondimeno, siam sempre andati via con le nostre gambe, e senza danneggiare nulla. Ma a quel periodo appartengono anche la gioia di vedere dall’alto la mia scuola e la mia casa, il primo trasferimento su un altro campo, nell’entroterra, la sfida di affrontare un ambiente di volo totalmente diverso.

Ormai avevo anche la patente, andavo al campo con la macchina dei miei genitori, e iniziavo ad apprezzare anche quel tipo di spostamento. Anche lì avevo il controllo. A scuola andava bene, per i voti. Male per i rapporti con buona parte della classe. Cosa assolutamente voluta.

Il 3 luglio di quell’anno conseguii il mio attestato VDS, con un esame pratico discreto, e una teoria migliorabile, a sentire l’esaminatore. Mi dispiaceva non aver fatto di meglio, ma già riuscire a integrare questo risultato con tutto quello che c’era da affrontare fuori dal campo di volo.

Tre giorni dopo firmavo di fronte alla commissione esaminatrice dopo aver sostenuto la prova orale dell’esame di maturità, promosso con una valutazione di novanta su cento.

Era il momento di andarmene. Per varie divergenze con il gestore del campo di volo, decisi di non proseguire con loro l’attività, pur mantenendo il massimo rispetto per i suoi dipendenti, per chi mi aveva istruito, e per chi faceva l’impossibile pur di mantenere insieme una flotta in condizioni di volo, purtroppo sempre più esigua.

Tra i miei coetanei avevo praticamente fatto terra bruciata, quindi decisi di andare lontano per gli studi. La mia nuova casa è a 13 ore di autobus, o altrettante di treno, da dove sono nato e cresciuto. Non mi pesa più di tanto. La lontananza della famiglia si fa sentire, ma alla fine la tecnologia sa accorciare le distanze.

Il vero sacrificio è stato smettere, per ora, con il volo. I soldi servivano per l’affitto, per i libri, per mangiare, per la retta dell’università, anche mi fossi iscritto a un ateneo più vicino, non avrei potuto permettermi il volo.

Mi ero ripromesso un ritiro solo temporaneo. Volevo riprendere appena possibile. Ma la vita, di nuovo, si metteva in mezzo. L’orientamento, il riorientamento e il disorientamento della mia carriera universitaria, varie vicissitudini familiari e non, spese impreviste, tutto contribuiva a rimandare la ripresa del volo.

Accantonai l’ipotesi dell’arruolamento nelle forze armate, per varie ragioni, principalmente caratteriali. In una gerarchia di tipo militare non sarei finito molto bene, allora come oggi.

La speranza tornava a spegnersi, come un fuoco a cui si smetta di aggiungere legna. Mi lasciavo andare ogni giorno di più, di nuovo prigioniero di me stesso. Convinto di non farcela, sempre meno preoccupato del mio fisico e della mia mente, a rivangare con nostalgia un passato, sempre più lontano.

E proprio la persona che meno mi aspettavo stava per mettermi in mano un ceppo, e la benzina da buttare sulla brace.

Un’amica, forse la migliore amica che potessi aspettarmi di avere, nonostante il poco tempo speso assieme, che mi guarda negli occhi e mi chiede cosa voglio fare nella mia vita.

La risposta è quella: voglio volare. Ma nemmeno io sembro crederci più, lo dico fiaccamente, meccanicamente. Ma lei continua a fissarmi, non rompe il contatto visivo.

“Vuoi? Puoi!”

La legna, la benzina e la fiammata. Allora tutto cambia.

L’ultima volta che sono stato a trovare i miei genitori ho ripescato dall’armadio la mia cuffia, comprata a una manifestazione di settore per partecipare alla quale avevo allegramente disertato la gita del quinto superiore.

Ho ricomprato il cosciale, ho tirato fuori dall’archivio le vecchie carte di navigazione a bassa quota, i libri, gli strumenti per la navigazione, ho ricominciato a curare il mio fisico, e ormai l’interrogativo non è se, è quando.

Sono passati quattro anni, c’è una visita medica da superare, ci sono dei soldi da trovare, dovrò fare di nuovo carte in questura, e stavolta punto più in alto. Aviazione generale. Per cominciare.

In questi anni sono cambiato, e molto. Del bambino che ero conservo la curiosità, il desiderio di apprendere, ma ho acquisito esperienza del mondo fuori dal paesino. Ho imparato a vivere e controllare la mia vita, anche fuori dal cockpit, a equilibrare intransigenza e compromesso, a liberarmi dei pesi morti, a scegliere bene di chi fidarmi, a cambiare strada quando necessario, senza vergognarmi del correggere i miei errori.

Quello che ho appreso volando, mi è stato utile a terra, il saper prendere decisioni, il saper pensare in prospettiva, il mantenere la consapevolezza della mia situazione, il pianificare nel modo più completo possibile. Ma la cosa più importante resta quella. Il sapere che sono io, solo io, artefice del mio destino, con le mie azioni. Sapere che ho il comando.

I. Have. Control.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Mario Antonio Corrado Auditore