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Passeggero per forza – II parte

(Guida per tutti i fifoni del volo)

LA SCELTA DEL VOLO

Se Dio avesse voluto che l’uomo volasse                                                                      l’avrebbe fatto nascere con un biglietto. (MEL BROOKS)

In qualità di passeggero forzato in preda alle sue nevrosi da volo ritengo che la preparazione ad un viaggio aereo cominci molto prima del decollo, infatti molti tendono a pensare che la fase più importante del volo sia l’atterraggio. Sbagliato. L’atterraggio è il momento del sollievo, dei sorrisi, la fine dell’incubo, è il premio al lavoro di preparazione che hai svolto prima, ma non è il più importante. Quattro, cinque mesi prima, quando distrattamente sei entrato in un’agenzia viaggi e hai sfogliato quintali di cataloghi colorati, lì doveva cominciare il tuo lavoro. Ricordati che tra il decollo e l’atterraggio sei nelle mani del pilota, ma tra l’agenzia viaggi e il decollo sei solo nelle tue mani. Un buon passeggero per forza che sa di dover prendere un aereo è conscio di aver davanti una serie di variabili casuali e incontrollabili a cui dovrà inevitabilmente affidarsi confidando nella buona sorte, e questo lo rende nervoso. Ma sa anche di avere qualche carta importante da giocare con lucidità per cercare di evitare i pericoli più banali, e questo lo fa sentire attivo e lo distrae fino alla partenza. Una volta scelta la meta del viaggio ed appurato di non avere alternative al volo per raggiungerla, ecco che diventa necessario e fondamentale scegliere la compagnia aerea cui affidarsi. Gli aerei non sono tutti uguali, non hanno tutti lo stesso prezzo, ed una compagnia non vale l’altra. Tutte possono decollare, ma voi dovete scegliere quelle che sanno atterrare. Ecco quindi la scelta; la ricetta è semplice: lasciando ai temerari i voli charter, è chiaro che la nostra cernita avverrà rigorosamente tra compagnie di bandiera di stati moderni ed industrializzati, la manutenzione, infatti, è una delle prime voci di bilanci soggette a tagli in periodi di crisi e il parco aerei potrebbe già essere un po’ vecchiotto. Così è meglio scartare tutti i paesi africani, il Sud America e gran parte dell’Asia. Ricordatevi di tutte le compagnie aeree viste in tv (dato che fanno notizia solo gli incidenti) ed accantonatele insieme a quelle il cui personale ha scioperato di recente (sabotaggi e disservizi). Togliete dalla lista l’Aeroflot (Russia) che produce ed utilizza tuttora il modello di aereo più scalcinato ed incidentato del mondo: il Tupolev, e non fidatevi nemmeno di suo cugino, l’Antonov, in dotazione a tutti gli stati dell’Europa orientale e del blocco ex-sovietico (Cuba ad esempio). Dopo questa grande scrematura prendete le compagnie aeree rimanenti e considerate le implicazioni politiche: scartate perciò tutte quelle appartenenti a paesi che sembrano affidabili a livello tecnico, ma potrebbero essere nel mirino di un qualsiasi terrorista o dirottatore. Cancelliamo dalla lista i paesi caldi dell’area araba, eliminiamo Israele, e mai, dico mai, prendete un volo di bandiera statunitense, perché non c’è paese al mondo cui gli americani non abbiano rotto le scatole. Per trovare un terrorista kamikaze disposto a dirottare un aereo americano basta cercare sulle pagine gialle. Vi rimangono ancora alcuni fattori da considerare: la rotta non vi è dato di conoscerla, ma se in un viaggio precedente avete rubacchiato uno di quei mensili che si trovano nella tasca davanti al vostro sedile, sbirciate nelle pagine, a volte le Compagnie si tradiscono pubblicando enormi mappamondi con tutti i percorsi. Guardate subito, e se per caso dovete volare su ex Jugoslavia, Iraq, MediOriente, o nella probabile traiettoria di qualcuno dal grilletto facile, cambiate aereo. Diffidate dei voli che fanno scalo, ricordando che i momenti più pericolosi sono decollo e atterraggio, due bastano e avanzano, inutile correre ulteriori rischi. Infine informatevi accuratamente sull’aeroporto di destinazione, vi basti sapere che architetti avveniristici costruiscono aeroporti su isole e isolette, dove alla fine della pista c’è il mare, oppure fra i grattacieli, dove anche per i piloti è necessario un brevetto supplementare per poter atterrare. Per concludere direi di fidarsi solo dei paesi piccoli, neutrali ed operosi. Considerando che la Swissair ha avuto i suoi bei problemi di recente, e che il Liechtestein non ha compagnia di bandiera, e se dopo tutte queste valutazioni vi rimane ancora fiducia in qualcuno, allora prendete quel volo.

 

NOTA DELL’AUTORE Al 01/10/2001 quattro compagnie al mondo non hanno mai avuto incidenti di alcun tipo: Qantas (Australia), Sabena (Belgio), Austrian Airlines (Austria), Icelandair (Islanda).

  segue:  III parte


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Nicola Tanzi

Passeggero per forza – I parte –

 (Guida per tutti i fifoni del volo)

A mia moglie Laura che sopporta tutto questo.                              A mio padre, uomo di terra.   A mia madre, donna giramondo.   Al mio amico Paolo, passeggero per forza come me.  

INTRODUZIONE

Da sempre avuto paura di volare, ma la sete di conoscenza, il piacere di viaggiare e scoprire nuove città e mondi diversi, mi ha spinto a “osare”, e qualche volta ho volato. Certo prima di arrendermi le ho tentate tutte: ho raggiunto in auto la Scozia, il Galles, la Norvegia e la Svezia, la Bretagna e la Normandia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, ma in Cina non ho potuto arrivarci. Negli anni non sono mai riuscito a vincere veramente la paura di volare, ma raccontando ho scoperto di non essere solo; ho trovato amici, parenti, amici degli amici tutti con la stessa incontrollabile nevrosi da volo. Alla fine, confrontando paure e timori, i nostri comportamenti erano così comuni e allo stesso tempo così buffi da risultare irresistibili, e ho deciso che dovevano essere raccontati. In questo modo è nata questa piccola guida che vuol essere divertente e irriverente sia per chi vola, sia per chi non vuol volare, dedicata a tutti noi fifoni dell’aereo che preferiremmo restare a terra, ma ogni tanto chissà perché, ci facciamo convincere e sfidiamo noi stessi.

PARTE PRIMA: I PASSEGGERI

“Pensate che una volta mio zio doveva andare da Chicago a Los Angeles,  ed ha avuto il presentimento che l’aereo sarebbe caduto.  Così ha preso il treno. E pensate un po’! L’aereo è precipitato.  Sul treno.” (telefilm I JEFFERSON)

Prepararsi ad un volo aereo è un’attività decisamente faticosa e molto più complessa di quanto possa sembrare a prima vista. Per prima cosa è necessario capire in quale categoria di passeggeri vi potete riconoscere, ne esistono infatti di tre tipi: i convinti, i terrestri ed i costretti, conosciuti anche come passeggeri per forza. Se ci addentriamo nella categoria dei convinti possiamo fare subito una ulteriore distinzione tra coloro che lo sono (o lo diventano) per obbligo, e coloro che lo sono per scelta; ai primi appartengono un gran numero di lavoratori, manager, dirigenti, responsabili estero di una qualunque azienda di un qualunque posto del mondo, che per raggiungere un cliente o una propria sede, possono “liberamente” scegliere fra due ore di volo e un mese a dorso di cammello attraverso il deserto. Così si abituano, un po’ per forza, un po’ per denaro, e si rassegnano a trascorrere le giornate davanti ai nastri trasportatori dei bagagli, contando i punti accumulati sulle loro tessere di frequent-flyers per ingannare le attese. Il vero passeggero convinto invece è certo che salire su un aereo sia come entrare in cassaforte: nulla è più al sicuro di lui su un aereo.“ Ne muoiono di più sulle strade che in aereo.”Se sentite questa frase avete davanti un convinto del volo. A nulla servirà ricordargli che in auto circolano miliardi di persone ogni ora e che in caso di scontro si possa anche andare dal carrozziere anziché in paradiso. Mia madre è un passeggero convinto. La categoria opposta sono i terrestri. Per loro l’aereo semplicemente non esiste, ne esisterà mai. I terrestri vivono di grandi certezze: non metteranno mai piede su una scaletta, non si faranno mai rinchiudere in una scatola di latta con le ali, e non sapranno mai il significato di parole come terminal, check-in o duty-free. Hanno dalla loro la grande tranquillità che ogni luogo del mondo si può raggiungere per mare, per terra, in auto o a piedi, e che in Nuova Zelanda non è poi così necessario andarci nella vita. Per la verità definire i terrestri come una categoria di passeggeri potrebbe persino sembrare offensivo nei loro confronti, ma sono anch’essi strettamente legati al volo: dalla loro insuperabile fobia. Sono nati sulla terra e non la abbandoneranno mai, e se proprio sarà assolutamente necessario farlo, contano ancora sulle loro due armi segrete: l’invenzione del teletrasporto e l’anestesia totale. Mio padre è un terrestre nato. Ad ogni modo convinti e terrestri sono accomunati dalle loro grandi certezze seppur diametralmente opposte, mentre i passeggeri per forza sono in balia delle loro inimmaginabili nevrosi; basti pensare a tutte quelle persone che preferirebbero andare a piedi, in treno o in auto, ma a volte non possono proprio fare a meno di dover prendere un aereo. Tra l’andare in Cina con una carovana di nomadi per la via della seta, e volare con la miglior compagnia del mondo, scelgono a malincuore quest’ultima, non senza iniziare una serie di riti propiziatori e scaramantici per accaparrarsi i favori dei Santi del Cielo. Io, lo confesso, sono un passeggero per forza, e voi scommetto, ne avete almeno qualcuno in famiglia. Non è che abbiamo paura di volare, è solo che se avessimo un paracadute ci sentiremmo più tranquilli. Quello che spaventa a morte noi “costretti” è la mancanza di una via d’uscita; mi spiego meglio: se viaggi con la tua auto e buchi una gomma, puoi fermarti a cambiarla, chiedere aiuto a un gommista, fermare un’automobile di passaggio, o persino aspettare che si rigonfi miracolosamente da sola. Se sei rinchiuso in un aereo a diecimila metri di altitudine e si rompe qualcosa, sei fregato. Per usare il paracadute sei troppo in alto, per uscire fuori fa troppo freddo, e il meccanico più vicino è San Fiorenzo, protettore dei carrozzieri, ma non esercita più da secoli. Se poi riuscissi miracolosamente a vincere tutte le leggi della pressione atmosferica e della gravità, devi sapere che cadendo anche da soli cento metri, che atterri su un mare di piume o su una lastra di marmo, non fa nessuna differenza. Sapete perché quando ti chiudono il portellone alle spalle e ti allacci la cintura di sicurezza, scende un imbarazzante silenzio? Perché tutti stanno pregando il proprio Dio. Già, perché da quel momento in poi, tutto deve andare o bene o bene. Motori, ali, impianto elettrico, correnti d’aria, missili vaganti, uragani, terroristi di passaggio, tutto si deve fondere in un’unica grande speranza che accomuna i passeggeri di ogni aereo, tutto deve filare liscio come l’olio, perché da quel momento non si scende. Quello che innervosisce tremendamente noi passeggeri per forza, è questa mancanza della possibilità alternativa. Ammettiamo che voglia fermarmi: in auto basta accostare, in treno tirare il freno d’emergenza, in nave puoi persino decidere di nuotare, tutti ti danno sempre una seconda possibilità, ma in aereo no. A dire il vero una chance esiste, o forse si tratta solo di una pia illusione che ci distingue dai terrestri e ci convince a salire su un aereo: la possibilità del superenalotto. Infatti se la fortuna ti concede una probabilità su sei miliardi di indovinare sei numeri, così, se precipita l’aereo, ti può concedere una probabilità su sei miliardi di uscirne miracolosamente intero e soprattutto vivo. Per vincere al superenalotto ci vuole molta fortuna, per sopravvivere ad un incidente aereo ci vuole solo del culo, e anche grande. Però, devo ammettere, può succedere.

segue:  II parte


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Nicola Tanzi

Il primo

Era il I Settembre del 1939 quando il Capitano Mieczyslaw Medwecki e il sottotenente Wladislaw Gnys decollarono su allarme a bordo dei loro caccia, due PZL P11c dal campo di aviazione di Balice, in Polonia, per intercettare una formazione di bombardieri tedeschi, nelle vicinanze di Cracovia. D’improvviso, l’equipaggio di un caccia di scorta tedesco Junker Ju 87 Stuka, composto dal pilota Franz Neubert e dal mitragliere Franz Klinger, videro apparire nel loro campo visivo i due PZL ma pensarono che i Polacchi stessero effettuando un’arrampicata per attaccare un altro Stuka che volava ad una quota maggiore; il pilota Franz Neubert allora decise di attaccare a sua volta ed abbatté il velivolo del Capitano Mieczyslaw Medwecki. Fu la prima vittoria in duello aereo della II guerra mondiale. Nel frattempo, Gnys con l’altro PZL P11c effettuava una violenta manovra diversiva per sfuggire al fuoco dell’attaccante, ritrovandosi in prossimità del suolo ed ai limiti dello stallo. Confidò nelle capacità di pilotaggio, non comuni, e anche in un piccolo espediente: le insegne nazionali poste in maniera disassata in modo da disorientare gli avversari, seppure solo momentaneamente, circa l’assetto del velivolo. Effettuò la richiamata appena in tempo: alla quota degli alberi; da quella posizione Gnys iniziò la sua caccia al nemico. Dopo aver abbozzato un attacco ad un bombardiere Heinkel He 111, egli piombò su due Dornier Do 17E che volavano in formazione stretta, abbattendoli entrambe. La sua fu la prima vittoria alleata della II guerra mondiale. E dunque, la seconda, in ordine di tempo di tutto il conflitto. Tutto in uno stesso combattimento aereo. Il primo.

Liberamente ispirato al racconto di Mike Dobrzelecki.


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Scramble

Palla di cannone

(Al mio Angelo Custode)

Avevo urtato violentemente l’anca destra contro una roccia, ma ora non era il dolore che mi preoccupava, bensì il fatto che non stavo volando! Non volavo affatto, stavo cadendo! L’urto non era bastato a fermarmi e quello che mi trovavo davanti era uno spettacolo terrificante: senza controllo ero sparato come una palla di cannone giù per il pendio, in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi a destra e una betulla in fondo, proprio sulla mia traiettoria. Avevo letto e sentito dire di cosa si prova quando si rischia di lasciarci le penne: “si vede tutta la propria vita passarti davanti agli occhi”, oppure “tutto appare rallentato e i secondi sembrano minuti”, o ancora “ti domina una freddezza che ti rende capace di agire con la massima lucidità”. Bene, io non ho provato niente di tutto questo; ero sparato come un proiettile giù da una montagna e non avevo altre immagini negli occhi che quelle delle rocce e dei tronchi attorno a me, non avevo percezioni del tempo rallentate e neanche mi sentivo freddo e calcolatore. Ero senza controllo, vedevo sfrecciare rocce e tronchi ai lati e, mentre la betulla era sempre più vicina, riuscivo a pensare solo che questa volta mi sarei fatto male sul serio.

Ma scusate, forse sono andato troppo avanti con la mia storia. Non vi ho detto chi sono e di cosa vi sto parlando. Meglio rimediare subito. Il mio nome non conta molto ai fini di questo racconto, sappiate solo che sono un padre di famiglia con la passione per il volo in parapendio. Sì, proprio così, sono uno di quei “pazzi” che si lanciano giù dalle montagne per veleggiare attaccati a dei “fazzoletti” di nylon colorato. Niente a che fare con i paracadutisti, loro si buttano giù da un aereo ed hanno un paracadute che serve a frenare la loro inesorabile caduta verso terra. Noi parapendisti invece voliamo, perché il mezzo che usiamo ci permette di decollare a piedi da un pendio e, sfruttando le correnti ascensionali dell’aria, può farci salire a quote più elevate di quella da cui abbiamo spiccato il volo. Ma ecco che mi sto perdendo di nuovo! E’ meglio che torni alla mia vicenda e che lo faccia raccontandovi tutto partendo, diligentemente, dall’inizio.

Era domenica pomeriggio, un primo dicembre assolato con un cielo limpido che faceva sperare in un bel volo veleggiato. La funivia ci aveva portati alla stazione più alta e dopo era toccato a noi darci da fare per raggiungere la zona di decollo con una camminata tra boschi di abeti, castagni e betulle. Nonostante i grossi zaini sulle spalle, eravamo arrivati abbastanza rapidamente alla nostra destinazione: una radura in pendenza che si apriva sulla valle offrendo una visione mozzafiato. Il sole, ancora alto sulle creste delle montagne a ovest, illuminava la decina di allievi piloti che ora occupavano il prato dove, di lì a poco, avrebbero spiegato le vele e preso la rincorsa per spiccare il volo. L’istruttore giù in valle si teneva in contatto radio pronto per assistere i meno esperti nelle manovre di atterraggio. In queste occasioni, quando devono decollare degli allievi, chi ha più esperienza da’ la precedenza a coloro che ne hanno meno. Io ero tra quelli con più voli nel mio carnet per cui mi ero messo inizialmente in disparte deciso a decollare tra gli ultimi. Il vento era perfetto: frontale e con intensità costante, l’ideale per facilitare la manovra di decollo. L’aria limpida e fredda faceva già pregustare un volo piacevole.

Paolo, l’assistente dell’istruttore, aveva dato le ultime indicazioni agli allievi e i primi già si preparavano al decollo. Dopo aver fatto i controlli di rito e con un po’ di esitazione dovuta all’immancabile tensione che avvolge chi sta per spiccare il volo, le prime vele avevano cominciato a staccarsi dal pendio.

Teli colorati di rosso, di giallo intenso, di blu scuro stagliati contro un cielo azzurro offrivano, a noi ancora a terra, uno spettacolo di bellezza radiosa. Man mano che i decolli si susseguivano, l’atmosfera si rilassava e qualche pilota cominciava a prendersela più comoda nel fare i preparativi ed i controlli pre-volo. Così scambiando battute e ribattendo alle spiritosaggini degli altri, qualcuno si tratteneva troppo a lungo sul decollo ritardando il susseguirsi delle partenze. Se questo atteggiamento in primavera o d’estate può non rappresentare un problema, d’inverno invece può farlo. Infatti, in questa stagione le giornate sono più corte e quando il sole tramonta, l’aria fredda tende immediatamente a scendere giù dalla montagna creando una corrente che va dall’alto verso il basso. Questa aria discendente rende il decollo con il parapendio difficile ed a volte addirittura impossibile.

Così a causa di qualche esitazione dei piloti decollati prima di me e di qualche immancabile problema tecnico, il mio turno di decollo era arrivato quando le condizioni non erano oramai più quelle ottimali. Il vento frontale era quasi nullo il che significava avere bisogno di una rincorsa di decollo più lunga, ma, in quel posto, la lunghezza dello spazio di decollo prima che la pendenza del prato diventasse eccessiva era molto breve. Inoltre la tendenza del vento era oramai quella di passare da vento nullo a vento discendente. Il sole era quasi dietro ai monti e non c’era da aspettarsi che l’aria riprendesse a salire dalla valle.

Ogni volta che si vola, visto che si rischia la vita, si deve valutare tutto: le proprie capacità, le proprie condizioni fisiche, le caratteristiche dell’attrezzatura che si usa, le caratteristiche e le condizioni della zona di decollo. Solo dopo aver esaminato tutto questo si può decidere se si può decollare in sicurezza o meno. Questa e’ la teoria, ma nella pratica bisogna purtroppo aggiungere l’influenza che sulla decisione hanno fattori quali: la voglia di volare, la volontà di non rinunciare al decollo perché farlo significherebbe rimettersi tutto in spalla e scendere a valle a piedi. Per questo, in qualche caso, la decisione tecnica sulla fattibilità del decollo risulta un po’ viziata e, con l’aggiunta di una buona dose di fiducia nelle proprie capacità, a volte si decide di decollare anche quando magari sarebbe il caso di non prendere il rischio. Così, rispettando questo copione, nonostante la mia vela fosse difficoltosa da far decollare con vento nullo e il tratto a disposizione per l’accelerazione fosse particolarmente corto, io avevo deciso di decollare ugualmente.

Una volta fatti i controlli pre-volo, ero pronto: occhi alla valle, elevatori e freni nelle mani tenute alte sulle spalle. Il fiocco di fili di plastica che doveva indicare intensità e direzione del vento era pietosamente floscio. Guardandolo mi dicevo: “ok dovrai tirare gli elevatori con più decisione ed accelerare la corsa in modo da gonfiare la vela il più rapidamente possibile, quindi correre senza esitare verso la fine del prato; puoi farcela!”

Dopo aver dato un ultimo sguardo alla disposizione della vela alle mie spalle, e dopo aver dato l’ok a Paolo per segnalargli che ero pronto ad andare, avevo preso un bel respiro ed ero partito a razzo!

Dopo i primi passi avevo sentito la resistenza offerta dalla vela che si gonfiava e cominciava a salirmi sopra la testa; non avevo tempo da perdere, non appena l’avevo sentita tirare verso l’alto, avevo spinto il busto in avanti e accelerato la corsa, ma il breve tratto di prato utile per la rincorsa era già finito. Ora stava alla vela fare il resto: gonfia sulla testa doveva prendere il vento e sorreggermi fino a farmi iniziare la planata verso valle. Con questa fiduciosa idea in mente mi ero ancora di più protratto con il busto in avanti mentre correvo verso il vuoto. Ma qualcosa era andato storto. Non avevo sentito la trazione alle spalle e l’attesa sensazione di assenza di peso che doveva esserci nel momento in cui la vela cominciava a volare regolarmente. Difatti, quello che ritenevo un decollo si stava rivelando essere solo un salto fuori dal pendio; la vela non era riuscita ad acquistare la velocità sufficiente per sorreggere il mio peso e staccarmi da terra! Così, non stavo volando, ma stavo letteralmente cadendo lungo un pendio scosceso che non offriva ripari, così ripido da dare spazio alla mia traiettoria lasciandomi accelerare, senza ostacolarmi, nella mia caduta. La situazione era critica: la vela non era gonfia a sufficienza per farmi volare ma offriva ugualmente una qualche resistenza e tendeva a spostarmi verso destra, dalla parte sbagliata del pendio, quella dove il prato lasciava spazio alle rocce ed ai tronchi d’albero. Avevo subito cercato di contrastare la traiettoria della vela con i comandi, ma la risposta era stata nulla; cadevo e lo facevo sempre più velocemente. Vedevo avvicinarsi rapido uno scalino di roccia piatta fino al punto di sbatterci violentemente l’anca destra. La sensazione di acuto dolore all’anca aveva subito lasciato spazio al terrore quando avevo visto cosa c’era oltre lo scalino di roccia. L’urto non era infatti riuscito a fermarmi perché la vela ancora gonfia e fuori controllo continuava a tirarmi ed io ero sparato come una palla di cannone in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi alla destra e una betulla in fondo, collimata con la mia traiettoria. Lanciato in questa caduta, vedevo sfrecciare a velocità pazzesca le rocce alla mia sinistra e i tronchi alla mia destra mentre la betulla era sempre più vicina. A quella velocità qualsiasi urto mi avrebbe spaccato le ossa e, se avessi finito la mia caduta addosso a quell’albero, mi ci sarei accartocciato attorno rischiando di rimetterci la pelle. A peggiorare questa situazione già disperata c’era il fatto che se anche avessi miracolosamente evitato quella prima betulla la mia caduta si sarebbe interrotta poco più in là su di un filare di piante simili. Ero in una situazione apparentemente senza scampo e nella mia testa riuscivo solo a pensare: “questa volta ti fai male sul serio”. Mentre mi preparavo all’urto con queste idee nefaste per la mente, avevo istintivamente tirato il freno destro sperando che, un qualche residuo controllo della mia vela impazzita mi permettesse di schivare quell’albero che mi si parava davanti minaccioso. Ma poi, in un attimo, lo schianto…

Una voce dal decollo chiamava furiosamente il mio nome chiedendomi se stessi bene. Io ero sospeso all’albero e cercavo di capire cosa fosse successo. Lentamente stavo riprendendo coscienza: ero ancora intero, appeso a quella betulla verso la quale ero lanciato nella mia caduta. L’anca destra era dolorante, ma non sentivo nessun altro dolore.

La voce di Paolo continuava con insistenza a chiamare il mio nome denotando una preoccupazione crescente. Lentamente cominciavo a rendermi conto di essere appeso quasi a testa in giù. Il ricordo delle raccomandazioni del manuale di volo mi aveva fatto aspettare a slacciare l’imbracatura: “quando si finisce su di un albero, prima di slacciare l’imbracatura bisogna assicurarsi così da non rischiare di cadere e peggiorare la situazione”. Fortunatamente io ero a pochi centimetri da terra e slacciandomi non avrei rischiato altro che cadere riverso al suolo. Una volta uscito dall’imbracatura, con i piedi finalmente a terra, avevo alzato gli occhi verso l’alto ed avevo visto la mia vela gialla morbidamente distesa sulla cima dell’albero. Solo in quel momento, guardando la posizione della vela e quella dell’imbracatura, ero riuscito a ricostruire la dinamica di quanto era accaduto: il mio disperato tentativo di correggere la traiettoria all’ultimo momento mi aveva fatto evitare la collisione diretta con il tronco della betulla, ma la vela aveva ugualmente urtato la cima dell’albero e, rimasta impigliata, vi si era bloccata. Questo aveva frenato la mia caduta facendomi inoltre ruotare verso destra ed urtare il suolo con lo schienale dell’imbracatura. L’imbottitura dorsale aveva così assorbito l’urto violento ed evitato pericolosi traumi.

Per rispondere alle grida oramai disperate di Paolo che, sceso dal decollo, ora riusciva anche a vedermi, avevo urlato che era tutto ok facendo il classico gesto con il pugno chiuso e il pollice in alto. Poi, slacciato il casco, mi ero soffermato a pensare a me: ero salvo, un po’ dolorante, ma incredibilmente illeso! Miracolosamente ero ancora vivo, in piedi, in fondo a quel canalone, con il casco tra le mani e anche con la coscienza di non essere da solo: infatti, anche se per un attimo, l’avevo vista quando lei, perfidamente, aveva tentato di nascondere la sua falce dietro quella betulla.

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Claudio Palmieri (M.C.B.) Copyright 2003,2004.


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Claudio Palmieri

Pet on board

L’imbarco di Mimì, alla fine, gli era costato più del biglietto, acquistato on line sette mesi prima, in offerta super promozionale di una compagnia low cost. Quasi il doppio, per dire la verità. Poi c’era stata quella spiacevole storia, lì alla biglietteria dell’aeroporto di Orio al Serio. – In questo volo è previsto già il trasporto in cabina di due cani; è il massimo consentito dal regolamento, quindi la sua bestiola dovremo caricarla nella stiva – gli aveva detto la biondina slavata in divisa celeste-pigiama che era di turno al check-in. La bestiolina era Mimì, appunto. Una gatta di diciassette anni, manto maculato in bianco, marrone e ruggine, piccolo delizioso relitto al quale Fabrizio era rimasto aggrappato al momento del naufragio del suo trentennale matrimonio. Il salvagente morbido e peloso che gli aveva permesso, sia pure a fatica, l’approdo alla spiaggia tranquilla di una solitudine non più tormentata come era stato i primi tempi. – Non se ne parla nemmeno – aveva ribattuto deciso Fabrizio. – Il trasportino lo porto con me. Non era stato facile, aveva anche dovuto alzare la voce, a un certo punto. Cosa che non era mai stata abituale, per lui, uso praticamente da sempre, per indole e attitudine, a non elevare mai i toni oltre un certo limite. Una caratteristica che, a primo impatto, poteva sembrare un sintomo di timidezza e di scarso vigore; solo il morbido involucro di una volontà interiore di consistenza ferrea, per chi lo conoscesse abbastanza in profondità. Non era stato facile, ma alla fine l’aveva spuntata lui. Anzi, loro: lui e Mimì, che aveva effettuato il viaggio, comodamente accovacciata nel suo trasportino, sulle ginocchia di Fabrizio.

Il sole di Sardegna, già rovente a giugno, li folgorò all’uscita di Elmas. Erano in automobile, adesso, una Punto noleggiata all’Avis. Climatizzata, naturalmente: per Mimì, da sempre, viaggiare aveva rappresentato uno stress, e adesso era lì che respirava con la bocca aperta e la lingua fuori. – Tra poco saremo arrivati – disse dolcemente Fabrizio. – Perdonami per averti causato un ulteriore piccolo tormento, ma questa è una cosa che dovevamo fare, io e te. La gatta strizzò gli occhi, due volte. Il suo modo silenzioso di dire: “Stai tranquillo, uomo: ho capito” – Da qui sei partita, quando ti trovammo in giardino, malridotta trovatella. Ti ho portato in giro per l’Italia, dietro ai miei trasferimenti da zingaro, e qui ti riporto. Voglio farti rivedere il mare, il tuo mare.- mormorò ancora lui, ricacciando indietro un boccone di singhiozzi che rischiava di strozzare la gola e mozzare il respiro.

Aveva sempre temuto quel momento.

Fin da quando Mimì altro non era che un minuscolo batuffolo colorato, dalla coda appuntita e dagli occhi immensi. Una fedele e affezionata compagna di vita che aveva dolcemente condiviso con lui una parte del lungo cammino: l’ultimo tratto della strada nel paese del latte e del miele, con sua figlia che veniva su, dritta e rigogliosa come una spiga di grano e sua moglie che gli riservava ancora sguardi d’amore, invece che di sospetto e sordo rancore. Prima che tutto cominciasse ad andare in frantumi. E anche dopo, se è per questo.

Sì, Fabrizio aveva sempre temuto, quel momento, perché sempre aveva saputo che, prima o poi, sarebbe inesorabilmente arrivato.

Era cominciato tutto come cominciano queste cose: una roba da niente, la gatta che si leccava in un modo un po’ strano, un’ulcera quasi invisibile su uno dei capezzoli nascosti tra il morbido pelo dell’addome.

Una visita dal veterinario (e quelli sì che erano brutti viaggi, per Mimì, fin dalle prime vaccinazioni), una sentenza spietata, l’inutile sofferenza di un’operazione inutile.

– Le resta un anno di vita, forse qualcosa di più, ma non troppo. – gli aveva detto la dottoressa. – Cosa posso fare? – aveva chiesto stupidamente lui, annichilito dalla sorpresa e dal dolore. – Trasformi i suoi ultimi mesi in qualcosa che sia il più vicino possibile al paradiso dei mici, sempre che ne esista uno – era stata la risposta, accompagnata da una affettuosa stretta di mano sull’avambraccio.

Così aveva fatto, dedicandosi al suo animaletto totalmente. L’aveva coccolata, accarezzata, blandita in tutti i modi possibili, ricompensato cento volte più di tanto dalle quiete fusa di Mimì. Si era persino illuso, a un certo punto, che forse non sarebbe successo mai, che forse il veterinario aveva sbagliato tutto, che forse la sua adorata gattina fosse davvero un highlander immortale della categoria felina, come diceva qualche volta Arianna, sua figlia. Scoprendo, in quel sorriso, i denti perfetti che ormai da un anno, dopo la dura separazione con sua moglie Camilla, Fabrizio aveva occasione di rivedere solo di rado.

Mimì non morirà … magari il tumore si è fermato, è regredito, magari …

Poi erano arrivati i colpi di tosse, che avevano cominciato a squassare il piccolo petto della bestiolina. Il respiro sofferto, affannoso, in certi momenti. Quasi un rantolo penoso. Momenti sempre più frequenti. E … … era cominciata la difficoltà di trattenere il cibo, e il corpo si era rapidamente avvizzito, il muso si era scavato, perdendo in fretta la sua morbidezza da pelouche.

Il mare era agitato, sotto l’ingiuria sibilante del maestrale. Sceso dalla macchina Fabrizio poggiò la gabbietta sulla sabbia e la aprì.

Mimì era sempre stata una gatta timida, per niente amante degli spazi aperti, come se la libertà la spaventasse, invece di attirarla. Ma c’era qualcosa di diverso, stavolta. Cacciò furi il muso, annusando freneticamente l’aria, come era solita fare quando si affacciava al balconcino di casa. “La vecchia casa”, pensò Fabrizio. “Quella casa”. Nella nuova non c’erano né logge né terrazzo. Poi, incredibilmente, venne fuori dalla gabbietta, senza ulteriori esitazioni. Stirò languidamente il corpicino ormai smagrito, poi avanzò, procedendo lentamente su quella soffice polvere, a lei ignota, in direzione del mare. Coraggiosamente, tranquillamente, sfidando gli spruzzi umidi che le sputava addosso il maestrale. Fabrizio la seguì, passo passo, finché non la vide fermarsi a pochi decimetri dalla prima sabbia lambita dal mare. Lei si volse, levando lo sguardo verso il suo volto. Era come se volesse comunicargli qualcosa, e lui sapeva bene cosa: del resto Mimì non aveva mai avuto bisogno di miagolare, per farsi comprendere. Fabrizio allora si chinò, prendendola tra le braccia. La sentiva rabbrividire sotto il pelo umido. Se la strinse addosso, delicatamente, riscaldandola con le carezze e con il calore del proprio petto. Tornò indietro, vicino alla strada accovacciandosi con la gatta in braccio tra due vecchie cabine, per ripararsi un po’ dal vento, che sembrava volersi accanire ogni minuto di più. Le lisciò la gola, avvertendo il battere del cuore sotto i polpastrelli. Le stropicciò teneramente le orecchie. Le sfiorò il dorso, fino all’attaccatura della coda. Poi ancora le passò le dita lungo il muso, massaggiandole la pelle sopra le gengive, come le piaceva tanto. La sentì rilassarsi, sempre di più, fino ad abbandonarsi completamente, addormentata.

Fabrizio non piangeva più, adesso. Le sue lacrime se n’erano già andate tutte via. “È a me che tocca”, pensò. “Solo io posso farlo, Mimì”.

Muovendosi adagio, per non farla svegliare, infilò la mano nella tasca del giubbotto: la siringa e quella fiala, che dopo tante insistenze alla fine si era decisa a consegnargli la dottoressa, erano lì.

Stava passando un aereo. Con la sua scia bianca sembrava voler dividere a metà l’azzurro intenso del cielo.

Troppo in alto, troppo lontano, per fare rumore.


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Patrizio Pacioni