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Il pilota

Da bambino non ero come gli altri bambini che trascorrevano i giorni dietro la gonna della madre e mangiavano pane bagnato con lo zucchero. Io mi allontanavo sempre da casa, andavo per vie sconosciute sicuro di me e della via di ritorno sui miei passi.

C’era un posto dove potevo sdraiarmi indisturbato e guardare il cielo, era un campo di papaveri così alti e così tanti che da lontano apparivano ai miei occhi come un immenso tappeto rosso.

Ogni volta prendevo la rincorsa, convinto infatti di sprofondare dolcemente, invece non facevo altro che dividere in due la schiera di papaveri con il mio minuto corpo. Ma era in quel momento che trovavo il mio mondo, laddove nessuno avrebbe osato mai cercarmi, laddove nessuno avrebbe mai rubato i miei sogni.

Ad occhi in su e, con uno stelo di papavero in bocca, seguivo il volo delle rondini, cercavo di immaginare l’emozione che loro potevano provare da quell’altura vertiginosa, a quanto minuscolo poteva apparire quel campo da lassù.

Mi addormentavo quasi sempre, ed ogni volta era ora di cena quando rientravo a casa. Mio padre non alzava mai gli occhi dal piatto, mentre mia madre sbraitava davanti ai fornelli con la pentola della minestra sollevata, a gas spento, senza decidersi di portarla a tavola.

– Niente, non è rimasto niente per te. I tuoi fratelli hanno cenato un’ora fa, ed io e tuo padre ti abbiamo atteso invano. Ecco mangia quel che è rimasto poi vai a letto-.

Non avevo fame, ero sazio d’aria, non avevo sonno perché avevo già dormito abbastanza.

– Diventerai un cardellino se non mangi.

– Meglio, così finalmente potrò volare anch’io.

Era sempre a questa mia risposta che mio padre prendeva parola, ma non avevo il tempo di mettere le ali che già me le strappava.

– In gabbia ti metteremo se diventerai un cardellino, così finalmente smetterai di vagabondare.

Di notte, seduto in bilico sulla finestra, rimanevo incantato a scrutare le miriadi di lucciole. Ogni cosa volava attorno a me, o forse ero io a vedere così, ma la cosa straordinaria era aver scoperto che potevo mettere le ali alla mia fantasia, ed anche il monte più alto potevo raggiungerlo con il mio pensiero.

Di domenica, la sveglia suonava alle 7 in punto. I nonni abitavano in campagna e per arrivarci impiegavamo circa un’ora. Era sacra la domenica a casa nostra, la famiglia doveva riunirsi a qualsiasi costo.

Mio padre era il primo ad attendere sulla porta, giocherellava con l’orologio che portava al polso. La mamma, ansiosa e sudata, dava l’ultimo ritocco ai nostri vestiti, a chi metteva a posto la camicia, a chi allacciava le scarpe, e a me, a me toccava sempre stringere la cintura ed aggiungere un buchino in più talmente ero dimagrito, ma diventare un cardellino e farmi spuntare le ali, oramai era il mio unico scopo di vita.

Arrivati dai nonni, il tempo di un abbraccio e sbirciavo la stradina che portava nel bosco, non vedevo l’ora di scappare, sentirmi libero, tirare fuori dai calzoni la camicia, buttare in aria la cintura, e quando ognuno era intento alle sue cose, cercare il modo per distogliere anche i miei fratelli da me. Ero sempre il primo ad inventare un gioco da condividere con i miei cugini e sempre il primo a dissolvermi senza lasciare traccia. Non dimenticherò mai quel giorno.

Era una domenica del 1967. Mi allontanai forse troppo dall’abitazione dei nonni, tanto da dimenticare nella frenesia di libertà il sentiero di casa. Avevo notato da lontano un albero di pino altissimo, come ipnotizzato divenne il mio punto di riferimento. Era li che dovevo andare quel giorno.

Mi arrampicai come una scimmia, senza mai guardare in basso. Ero convinto che una volta in alto avrei provato l’ebbrezza di un uccello in volo pur non vibrandomi nell’aria. Dio! Era bellissimo. La grande distesa degli alberi di ulivo sembrava disegnata a matita da una linea obliqua. Le querce erano come tanti gomitoli di lana accostati e mischiati di verde chiaro e verde scuro.

Quando scorsi il mare credetti di morire, appariva come un filo sottile, ora si allargava appena, ora si assottigliava, azzurro, ma diverso dal cielo, quel cielo allora misterioso e da esplorare a tutti i costi.

I nonni, genitori e fratelli, urlavano all’inverosimile, le loro voci mi arrivavano triplicate come un eco da tutte le parti, provai a rispondere alle loro urla, ma il rombo di un aereo squarciò la magia che si era venuta a creare. Rimasi senza fiato dalla paura, ma fui come illuminato da qualcosa.

Le mani piene di bolle stringevano il ruvido tronco. Non riuscivo più a scendere. Piansi chiedendo aiuto.

I miei, come spinti da un fiuto segugio, mi ritrovarono.

Li vedevo come dei fiammiferi con la testa dipinta di nero, tra di loro una voce mi arrivava fino agli orecchi, penetrava i timpani, mi rafforzava.

– Il mio bambino. Il mio cardellino, fate qualcosa per il mio bambino.

Povera mamma, quanto dolore le avevo recato quel giorno.

Misero in subbuglio un intero paese.

C’era un bambino incollato ad un albero che non sapeva scendere a terra, ne tanto meno volare.

Di voce in voce, i fiammiferi divennero tanti e, se soltanto uno avesse deciso di accostarsi all’altro per fare qualcosa, sarebbe accaduto il peggio. Ognuno rimase al loro posto, statico ed in silenzio.

Dopo ore interminabili qualcuno gridò: – Buttati adesso,lasciati andare, non ti farai del male.

Provai a guardare giù. Non avrei mai immaginato di poter salire così in alto con la sola forza delle mie braccia.

Un lenzuolo, un cerchio bianco come la neve, una piccola piazza senza giostre, non so cosa era stato per me in quel momento il cerchio della mia salvezza, ma seguii la voce, mi lasciai andare.

Scendevo in picchiata ad una velocità folle, ma non dimenticherò l’ebbrezza di quei momenti.

Atterrai sul bianco giaciglio. Ero a terra, confuso, spogliato dai miei vestiti. I fiammiferi erano uomini curiosi, spaventati. Riconobbi appena i miei genitori tra quei volti sconosciuti.

Mio padre, chino su di me, mi sollevò lentamente, disse: – Visto Che un uomo non può volare? Ti saresti disintegrato come un frutto marcio se soltanto avessi tentato di volare.

Non ascoltavo, non volevo ascoltare, avevo ancora il rombo dell’aereo dentro la mia testa, non andava via.

Abbracciando mia madre dissi: – Non diventerò mai un cardellino mamma, ma un pilota sì. Ora lo so.

Presi il brevetto di pilota nel 1981, da allora stringo ogni mattina la cintura dei pantaloni sulla bianca divisa dove spiccano ali stampate.

Mia madre a sera mi attende con l’eterna minestra che riscalda cento volta prima che io arrivi. Il posto di mio padre è vuoto.

So che adesso mi avrebbe atteso per cenare. So che adesso avrebbe distrutto ogni gabbia pur di farmi volare.

Sarebbe stato fiero di me.


# proprietà letteraria riservata #

 


Maria Morabito

Il primo lancio

Ero il più giovane su quella macchina pazza che andava da Modena a Torino su strade non proprio prive di buche, anzi. Il più giovane di quattro amici disparati: uno di diciotto, due di 30 e un medico di 40. Niente ci legava nella vita, ma una pazzia ci faceva legare più che fratelli. Ci piaceva ubriacarci d’emozione, sentire l’adrenalina scendere in vena, darci il senso del brivido anche stupido ma sentirci gasati, sicuri, superuomini tra rammolliti. Ruggero, il medico, ci raccontava che eravamo drogati. Schiavi di una droga naturale che solo il pericolo o la paura poteva dare. L’avevamo sperimentata il roccia, in moto e, ora, la si sperimentava in cielo, quell’adrenalina. Eravamo al terzo lancio col paracadute, si voleva a tutti i costi il brevetto dei sei lanci e non ci saremmo mai ritirati prima. Una questione d’onore con noi stessi. Giungemmo al raduno già stanchi, occhi arrossati e labbra secche. L’esercito, o meglio, i para’, come ci piaceva chiamarli in ricordo di Massu, il colonnello francese de Para’ d’Algeria che seguivamo nelle imprese. I para’ fornivano paracadute e Direttori di Lancio e l’aviazione vecchie vacche volanti, gli SM.83, se ricordo bene. Il raduno era in piena Torino e il Comune ci dava un pulmino da ragazzi. Quella volta eravamo in tanti, comprese cinque donne più pazze di noi. Erano infagottate il tute militari; chi l’aveva adattata al suo fisico e chi, come la rossa, larga e impacciata; si vedeva che era la prima volta. Io, felice della mia verde oliva americana, trovata a Livorno, al mercatino, l’adocchiai subito e lei adocchiò me. Avrà avuto la mia età o poco più vecchia: legammo subito. Era davvero il suo primo salto. Io, forte dei primi tre mi sentivo un nonno. Lei beveva ogni cosa che dicevo, registrava ogni consiglio che davo, mio Dio, ero proprio gasato. Lasciammo salire tutti, noi fummo gli ultimi e, beninteso ci tocco il posto in piedi, appiccati alla barra centrale. Qualcuno dietro spingeva, altri spingevano contrari e fu giocoforza che i nostri corpi condividessero lo stesso spazio Come profumava di pulito. Il pulmino si stava già riempiendo di quell’odore classico di sudore, paura, e eccitazione, riempivano spazi ristretti, come fusoliere d’aeroplani. Era il mio odore, ma non il suo, Lei profumava di donna e di pulito. I capelli respirati m’entravano in bocca, Lei cercava di scostarsi ma non poteva e, lentamente roteando la nostre bocche sentirono l’una l’inizio dell’altra. Eravamo timidi e in pubblico. Ma si sentiva che eravamo eccitati. Le scosse che ricevevamo portavano i nostri inguini sempre più pressati contro l’inguine dell’altro e confesso che fu estremamente difficile mantenere solo quel principio d’erezione. Ero un Para’, dovevo vincermi. L’andata fu una specie d’inferno gradito. Il mio corpo incastrato nel suo come parte mancante per un insieme perfetto. Era caldo il suo corpo, caldo e morbido. Il suo respiro lieve ed eccitato come il mio, il cuore un motore d’aereo. Ci trovammo vicini alla imbracatura, seduti sull’erba, in attesa dell’involo. Salii per primo e Lei dietro. Per lanciarci si doveva fare il percorso inverso. Avrebbe dovuto fare il salto davanti a me e questo non mi piaceva. Se uno dalla paura si ferma o lo butti sotto o lo recuperi staccando in gancio. È sempre una operazione che se anche fatta veloce è lenta alla relatività dell’aereo e, o salti fuori campo o salti al prossimo giro. Non li si buttava di sotto. Incominciarono ad uscire sotto l’ordine del Direttore di lancio: – Fuori, uno, fuori due, fuori … – Lei era la decima, io l’undicesimo. Chiamò, l’ottavo, Lei si voltò a guardarmi sotto quel buffo elmetto, vidi quello che parve un lampo di paura. Dio, non si butta, non si butta … Non ebbe esitazioni e volammo fuori nella scia dell’aereo come due angeli. La fune di vincolo ha uno strappo predeterminato. Ti sembra di precipitare a sasso e senti un gigante trattenerti con uno strappo violento, poi, dondoli, dondoli nel vento. Eravamo a poche decine di metri, mi guardò, rideva. Viso rosso, eccitata, bambina e rideva, io risi con lei. Fu un amplesso a distanza e in aria. Sentii come entrare in lei e lei mi sentì entrare e mi gridò: – Ti voglio ora. – Scendemmo godendo con tutto noi stessi. Ero turgido, ma non emisi nulla. Forse Lei bagnò. Ci trovammo a terra, non c’era che un poco di vento e mi buttai sul suo paracadute sgonfiandolo e, lei, capì e si buttò sul mio, quasi sopra al suo. Ci trovammo quasi l’uno sopra l’altro. Ma le bocche si riuscirono a trovare, le lingue scattare, come eravamo vivi. Ci sentivamo eccitati, contenti d’essere a terra e rotolammo abbracciati. Avevamo vinto la paura, il terrore e ora si godeva la vita pieni d’adrenalina. Mi soffregai poco su di lei, quasi un attimo e la bloccai: quello che non era uscito in aria uscì sulla terra. Chiusi gli occhi, aspirai nelle sue orecchie e godetti da come non avevo mai goduto. Lei sorrise, si fermò, mi spinse il corpo contro e mi lascio godere, forse godendo anche Lei a occhi chiusi, non avevamo intorno nessuno. Ci muovemmo come per una copula. Ci muovemmo selvaggiamente nascosti dalla seta bianca. Un’ora? Un giorno? Una vita? Forse pochi secondi! Raggiungemmo l’orgasmo insieme guardandoci negli occhi. Mai avevo visto viso di donna trasformarsi così: un attimo belva e l’attimo dopo un Angelo sereno e disteso dove appariva tutto il miracolo della vita che scorreva ora placida nelle nostre vene. Ci chiamarono, recuperammo il paracadute e ci separammo, Lei tornò con il camion, il Sergente era un suo amico e rischiò il trasporto di un civile. Forse sarebbe stato lui ad amarla quella notte. Non ho mai saputo il suo nome ma ricordo ancora il suo viso disteso e bello, 30 anni dopo.


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A passeggio fra le nuvole

Tira un vento forte e tiepido, un vento di primavera precoce, poiché non é ancora metà Marzo, uno di quei venti che creano mulinelli d’aria portando con sé cartacce e polvere, facendole turbinare un poco, come per gioco, e poi lasciandole ricadere al suolo, per levarsi verso l’alto quasi a riprender nuovo vigore. L’aria s’infila sotto le giacche ancora invernali, fa volare i cappelli come se un qualche monello si divertisse a prendere a scappellotti le nuche degli uomini, s’infila nelle case dalle finestre socchiuse e depone polvere grigia sui pavimenti, sotto le tende, scarmiglia il prato dove l’erba sta rinascendo, s’alza e scompiglia le chiome dei cedri, s’insinua fra gli aghi dei pini, decapita un fiore – oh, come mi dispiace -, accarezza le prime margherite e le viole nell’aiuola proprio davanti alla casa, mentre in alto nel cielo chiaro trasvolano leggeri fiocchi di nuvole come fatte di garza o forse di tulle bianche e azzurrine e rosate: sembra che il mondo si faccia il make-up per rimettersi a nuovo. La gente se ne va per le solite strade e s’accalca alla fermata dell’autobus – é in ritardo, mai una volta che sia in orario – e laggiù, alla rotonda uno non ha rispettato lo stop ed é andato a sbattere contro l’auto che aveva la precedenza e, no, non ci sono feriti, ma i due stanno litigando e forte, anche. Passano ragazzi in motorino, approfittano già del bel tempo per tirar fuori le moto e passa un vecchio in bicicletta, pedala adagio e ad ogni pedalata sembra di sentire scricchiolare l’articolazione del ginocchio. Arriva l’ autobus – era ora – e la gente sale e si fa spazio alla fermata, sotto la pensilina che il sole scalda non rimane nessuno. Il merlo dalle piume nere e lucenti il becco giallo guizzante fra gli occhi tondi e scintillanti come schegge di giaietto é finalmente solo, apre le ali e su nel vento, con il vento se ne vola via a fare una passeggiata fra le nuvole piene di luce. Man mano che s’alza le auto le case le persone rimpiccioliscono e non sembrano avere nessuna importanza: non hanno importanza, non sono niente e il merlo lo sa. Eppure passa gran parte della sua vita laggiù, fra lo strepito che non comprende, con la paura che spesso lo allontana di corsa dalla briciola caduta a terra, perché laggiù ha fatto la sua casa di fili d’erba secca e profumata dai gas di scarico, fra i rami dell’ albero sul limitare del prato, laggiù. Ma tutto il suo mondo é in alto, nello spazio dove volteggia e fa acrobazie e chiacchiera allegro con colombi paffuti, passeri ancor gonfi d’inverno, fringuelli ciarlieri: “Come va?” e “Buon giorno, visto che bella giornata?” Vola fra le nuvole chiare e gode dei volteggi eleganti e delle ali tese a seguir le correnti dell’aria. Dalla mia nuvola bionda lo posso vedere e lo seguo con lo sguardo fin che riesco. Mi sono seduta un momento per riposarmi e godermi il panorama, ma adesso riprendo la mia passeggiata. Non rinuncerei mai alla mia passeggiata fra le nuvole, il primo giorno bello dopo l’inverno, anche se so, lo so, lo so, che dovrò anche questa volta, ridiscendere giù, alla fermata dell’autobus. Ma intanto, mi rimangono ancora sette minuti e li voglio passare camminando leggera, piano piano, per una volta senza affanno, fra le nuvole e tendere la mano e riempirla di fiocchi luminosi e rilucenti, colmare gli occhi di forme strane ma perfette, e poi, lontanissimo, ecco l’alone del sole a intiepidirmi le ossa di vecchia rimbambita, lasciarmi avvolgere da una nuvoletta capricciosa, come nel nido di un bozzolo di seta e uscirne e accarezzare il ricciolo che si fa innanzi e che mi sfiora l’orecchio sussurrando: “ Ciao”. Ci si sente meravigliosamente così, a passeggio, fra le nuvole con null’altro da fare se non camminare e ammirare e lasciarsi penetrare da silenzi immacolati. Ma devo affrettarmi a scendere, lo so, ancora un momento … No? Va bene, grazie lo stesso, é stato bello, come sempre. Adesso mi tolgo. Sì lo so sono sul sentiero d’avvicinamento del Concorde. Vado. Dai, merlo, vieni giù con me. Dammi retta. Almeno tu te ne puoi rivolare quassù quando vuoi. Io? No. Me lo concedo solo una volta ogni dodici mesi. Perché? Che cosa vuoi mai che ti dica, é già molto così. In ultima analisi io sono solo una in libera uscita. Ci vediamo giù, allora? Sono quella che esce la mattina con la faccia stravolta dalla notte e si fionda in auto come se avesse il diavolo alle calcagna, e se ne va di corsa. Ah, lo sai? Bene, ci vediamo presto allora … Vicino al tuo albero? Quello? D’accordo. Certo che no. Non mi dimentico gli appuntamenti. Né le promesse. Ancora due passi, ecco, uno … due …

“Sempre in ritardo quest’ autobus! E’ un’indecenza, non trova?” Annuisco, ma non me ne frega assolutamente niente. Non adesso. Non ancora.

Lasciatemi dove sono: a mezz’ aria.


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Un passeggero scomodo


Arrivo all’aeroporto, il mio passeggero non dovrebbe tardare. Infatti, eccolo arrivare; si guarda attorno un po’ spaesato mentre attraversa il piazzale con gli aerei. Ora è nel mio regno, per la prima volta si deve fidare ciecamente di me.

Indossiamo i paracadute e chiamo la torre. Mi danno l’ok ed entriamo in pista.

Mi sento addosso uno strano spirito di rivincita: adesso ti faccio vedere come si fa!

In queste situazioni bisogna essere un po’ melodrammatici.

Controlli: “Comandi: gli alettoni ci sono, i pedali ci sono – strano -, la coda coi timoni l’ho vista prima, il filo di lana c’è, gli strumenti … anche, il traino è li, la manica a vento è abbracciata al suo palo, non ci sono peones sulla pista. Cappottina chiusa?”

“Eeeeh…!” Amorfo. Mi volto, la controllo, controllo anche la mia. “Chiuse. Non toccare i pomelli rossi: il sinistro apre la cappottina, il destro la sgancia.”

“Eeee?” Perfetto, capisce al volo ‘sto ragazzo.

Alzo il pollice. Mi alzano l’ala e il volo comincia. E anche lui: comincia ad urlare.

Ha vent’anni e buoni polmoni, e raglia come un asino incavolato. Urla per l’eccitazione di essere per la prima volta su un aliante, aeromobile così piccolo e maneggevole, nella cabina, con i comandi a portata di mano.

I comandi … “Mi lasci liberi i comandi per favore?”.

“Ah sì, scusa” e riprende a farneticare.

Dopo un po’: “Dove andiamo?”

“Dietro al traino”

“E perché non provi a superarlo?”

“Caz … dici?”

“E dove ci porta?”

“Dove gli ho detto” e di nuovo urla: “Cos’è questo? E quello? Questo qui che si muove? Ooops: mi è rimasto in mano …”

“Stai zitto!!”.

Arrivati in quota, sgancio, viro a destra e voliamo liberi. “Dove ti porto?”.

“Boh …”

“D’accordo: andiamo verso la città”. Trovo una termica dove volano decine di cornacchie. Strano, non mi risulta che siano grandi veleggiatrici … infatti: non si sale. Proviamo coi rondoni.

“Posso ordinare una pizza?”

“No”

“Perché? Ho il telefono”

“Primo perché non prende; secondo, perché dove te la fai portare?!”

“Aaaahheeee” urla.

“Basta!”

Urla ancora. In un attimo picchio, cabro e picchio ancora.

“Aargh, cosa succede?”

“Ti do un motivo per urlare.”

“Ma io ho battuto la testa!”

“Tira le cinture”. Rimbambito! … ecco le mie vendette.

Riprende a urlare. Mette la mano leggera sulla cloche, me ne accorgo. “Se vuoi pilotare dillo, adesso l’aliante è tuo, fai quello che vuoi … ma non stallare e non entrare in vite. Per favore”

“Cosa? Come si fa? No, non voglio!” e picchia.

Tiro leggermente la cloche “E vai dritto … non vedi che il filo non è centrato!?”

“Filo?”

“Quello rosso, davanti a te … e hai finito di strillarmi nelle orecchie?”

“Sì, prendilo tu!”

Prendo i comandi.

“E se stalla?”

“Così?” tiro leggermente e la velocità rallenta, rallenta, r a l l e n t a a a a …

“Fermaaaargh!”

“Sì, più o meno …” Carognata! E continuo: “Vabbé, adesso ti faccio vedere la vite”

“La che? Eeeeeeh …”

“ Ho detto: V I T E. Dopo lo stallo, incroci i comandi, un’ala stalla e … va giù.

“Uuuaaahaa, ancora!”

Lo sapevo. “No, adesso questo!” . Picchio per prendere velocità, poi cabro e viro.

“Uuuaauuu!”. Urla ancora. Che strazio! “Guarda l’ala ferma per terra … la vedi?”

“Uauauauau, iiiiiaaaaaha”.

Insopportabile.

“Ehi, ancora!”

”No, siamo bassi”. Balla colossale. E aggiungo: “Andiamo all’atterraggio, ma prima …”

“Uaaaa …”

In prenotazione metto l’aliante in virata bella stretta e tiro: urla meno, finalmente! “Ti piace?”

“B e l l o”, dice a denti stretti, strizzato sul sedile.

In sottovento la prova diruttori.

“Uahh!”.

Sì, ci sono. “Adesso zitto, se no ti porto sugli alberi”, gli ruggisco.

Vedendoli ora così vicini, non osa disturbare. L’atterraggio è silenzioso, ma dopo la toccata ricomincia ad urlare.

Schizzo fuori come una molla e lo lascio dentro.

Tirato fuori l’aliante dalla pista, vedo papà e con enfasi gli dico: “Portami via tuo figlio dalle mani, altrimenti gli tiro il collo: non sapevo che avesse tanto fiato, non l’avrei portato per aria!”

Mio padre sorride. E’ stato un pilota anche lui.

Il mio passeggero, bianco come un panno lavato in candeggina mi sussurra: “Dai, Diana, fammi scendere da ‘sto coso?! … per favore.”

In fin dei conti , è mio fratello … e gli slaccio le cinture di sicurezza.



# proprietà letteraria riservata #

§§    in esclusiva per “Voci di hangar”   §§


India

La prima volta di Giulia in aereo

Alle 7.40 del 3 marzo 1999, i coniugi Valenti, a bordo della loro Jaguar E grigio titanio, stavano viaggiando verso l’aeroporto intercontinentale della Malpensa. Al volante Giorgio, 52enne affermato cardiochirurgo, guardava infastidito la moglie Giulia che aveva acceso l’ennesima sigaretta. Lui odiava il fumo. Riteneva che fosse un vizio malsano e fastidioso, ma non ne aveva mai fatto un motivo di scontro con lei. Si limitò a tossire più volte, in segno di protesta, e ad aprire i finestrini, nel vano tentativo di minimizzare il fastidio che provava. Giulia non si scompose più di tanto. L’insofferenza del marito al fumo e tutte le sue manovre per evitarlo erano cosa nota e, proprio per questo, la lasciavano del tutto indifferente. Giulia, 32enne ex-hostess dell’Alitalia, dopo otto anni di volo vissuti spensieratamente, era rimasta a lungo incerta se accettare o meno la proposta di matrimonio fattale da Giorgio e lasciare per sempre il suo lavoro. Il passaggio nell’alta società, la prospettiva di una vita sicuramente agiata e il fascino indiscutibile dell’uomo, furono i validi motivi per cui alla fine disse sì. Ma rinunciare a tutta la libertà di cui aveva sempre goduto le era costato sacrificio. Il loro fu un matrimonio concertato, basato su due punti fondamentali: nessuna interferenza nella vita privata dell’altro, nessuna limitazione della propria libertà individuale. Lui, già abbastanza avanti negli anni, non avrebbe mai potuto avanzare la pretesa di tenere vicino a sé una donna bellissima e piena di fascino, quale lei era, senza lasciarle tutta la libertà che desiderava. – Giorgio, a che ora parte l’aereo? – Alle 10 e 25. C‘è tutto il tempo per fare acquisti al duty-free, non preoccuparti. – Speriamo di partire in orario. Detesto rimanere ingabbiata in aereo. – Anch’io, ma al tuo posto non mi farei illusioni. La realtà della Malpensa non cambierà certo oggi per noi. – Dai, non essere pessimista anche tu. Nello stesso momento, la Megane Coach di Stefano, 34 anni, stava entrando nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino. La radio diffondeva il ritmo coinvolgente della canzone di Omnitel e il ricordo dei seni procaci di Megan Gale scatenarono la sua libidine. Arrivò davanti al gate di uscita del volo AZ 1040, per Milano Malpensa, alle  7 e 55. Il decollo era previsto per le 8.00. Fu solo grazie ad un problema nelle operazioni di imbarco dei passeggeri e al conseguente ritardo del volo se le impiegate dello scalo lo accettarono all’ultimo minuto. Quando entrò nell’MD 80 dell’Alitalia, Stefano tirò un grosso sospiro di sollievo. Nelle boutiques-duty-free della Malpensa, Giulia ebbe poche indecisioni sugli acquisti da fare. Scelse un foulard di Ferragamo perché il disegno – tre tigri che si nascondevano nel fitto intreccio di una giungla – era molto accattivante. Poi, più per noia che per necessità, si regalò un orologio di Gucci. Comprare cose, spesso inutili, era per lei un modo per dare un taglio alla noia di una vita che, muovendosi sui binari di una comoda realtà, aveva più poco da regalarle quanto ad emozioni. Spendere denaro era una sorta di droga a cui non sapeva rinunciare. A volte si domandava se non si sarebbe sentita più appagata vivendo l‘angustia di qualche piccolo problema economico. Giorgio, dopo aver fatto le sue spese, alcune bottiglie di liquore, attese paziente la moglie nel corridoio che portava alle sale di imbarco. Una ventina di minuti più tardi, i coniugi Valenti si riunirono e si diressero verso la sala d’aspetto riservata ai passeggeri di Top Class. Alle ore 9 e 45 tutti i passeggeri della Top Class diretti a Singapore-Sydney erano in sala Vip. Stefano nel vedere Giulia ebbe una splendida folgorazione. La squadrò centimetro per centimetro e la sua ammirazione crebbe come panna montata. Apprezzò il profilo perfetto del suo naso, le labbra carnose e sensuali, gli zigomi alti, le gambe lunghe e diritte. Gli piacquero i capelli biondi che teneva raccolti dietro alla nuca e quell’aria da diva che gli occhiali scuri di Versace le donavano; il soprabito nero stretto in vita, il tailleur rosso con gonna corta, il maglioncino aderente: nessuno dei capi d’abbigliamento della donna sfuggì alla sua attenta osservazione. Ebbe solo una smorfia di disappunto quando capì che l’uomo dalla corporatura massiccia, vestito di un completo di lana fredda blu, con pochi capelli e l’aria seriosa da commendatore era il suo accompagnatore. – Peccato! – sospirò, con una punta di invidia. – É il classico tipo che le donne reputano interessante soltanto perché ha il portafoglio a fisarmonica. – concluse per darsi pace. Ritornò con lo sguardo su Giulia ed ebbe la stessa impressione di prima. Anzi no. La donna ora gli parve più bella che mai. Con l’occhio e la fantasia da fotografo di moda la trasportò su una spiaggia tropicale, la coprì di un pareo trasparente, con null’altro addosso, e la mise in posa davanti al suo obbiettivo. La hostess dello scalo annunciò il pre-imbarco dei passeggeri di Top Class per il volo AZ 796 con destinazione Singapore-Sydney. Contrariamente alle pessimistiche previsioni dei coniugi Valenti, la partenza si preannunciava in orario. Giulia si alzò dalla poltroncina ed andò verso l’impiegata del check-in. Distrattamente, lasciò a terra uno dei sacchetti del duty-free. Fu Stefano a raccoglierlo e a porgerlo con un sorriso alla bella sconosciuta, dopo averne richiamato l’attenzione. Sorpresa dalla sua dimenticanza, lei ringraziò un po’ sussiegosa. In sette, fra cui quattro giapponesi, salirono sul minibus che arrivò sotto il Boeing 747 dell’Alitalia dopo una breve corsa. Nell’upper deck, i quattro giapponesi sedettero sulle due prime file, Giulia e il marito occuparono le due poltrone della seconda fila di destra, Stefano si sistemò sulla poltrona di corridoio della terza ed ultima fila di sinistra. Due assistenti di volo prestavano servizio nella classe di maggior prestigio dell’Alitalia: una giovane hostess, leggermente impacciata forse perché alle prime armi, e uno steward anziano. La ragazza non perdeva mai l’occasione di dimostrarsi gentile con tutti e faceva tenerezza per la sua disarmante disponibilità; l’altro invece, cortese quanto bastava, padroneggiava la situazione con assoluta sicurezza. Giulia, anche se non lo aveva dato a vedere, era rimasta molto colpita da Stefano. Fu di proposito perciò che indugiò nel togliersi il soprabito e nel sistemare le sue cose prima di sedere: voleva fare un po’ di vetrina e al tempo stesso lanciare un’occhiata più che furtiva a quell’uomo così affascinante. Stefano, ignaro delle sue manovre, si era tolto la giacca ed aveva arrotolato con cura le maniche della camicia. A Giulia piacquero le sue braccia muscolose, i neri capelli pettinati all’indietro, la barba scura, di quelle che non sembrano mai rasate, la fossetta sul mento. Ma ancor di più le piacquero le sue spalle larghe. – Niente male, davvero…! – disse fra sé, mentre prendeva posto. Nell’accomodarsi in poltrona, la gonna corta salì e una generosa porzione di gambe, fasciate da un paio di calze autoreggenti, rimase scoperta. Lei non fece nulla per ricomporsi. Stefano, nel sistemare la borsa a mano nella cappelliera, rivolgendole lo sguardo ebbe un sussulto: le calze autoreggenti erano capaci di accendere la sua fantasia come poche altre cose al mondo. E le sue, bianche come l’alba, erano una scala che portava in paradiso. Ma era una disattenzione o una provocazione quella cui stava assistendo? Fedele al motto ‘pensa al peggio e indovini, optò per la seconda ipotesi. Cominciò a lanciarle occhiate a ripetizione e il suo sguardo finì, fatalmente, coll’incrociare quello della donna. I due si fissarono per un lungo istante. I quattro motori del Jumbo, carico fino all’inverosimile di passeggeri e merci, ruggirono, liberando la potenza richiesta per lasciare la piazzola di parcheggio, alle 10 e 40, con soli 15 minuti di ritardo sull’orario di partenza. Dopo la dimostrazione delle uscite di emergenza e del giubbotto di salvataggio, il comandante invitò gli assistenti di volo a tenersi pronti per il decollo. Giunto a fondo pista, il velivolo iniziò la sua corsa per il decollo. Sulle prime sembrò rispondere con lentezza alle sollecitazioni dei piloti, ma, dopo qualche istante, la sua corsa divenne il volo di una libellula e puntò dritto verso il cielo. Quando l’aereo fu in aria, Stefano si sentì molto più tranquillo: provava sempre un po’ di disagio durante la fase di decollo. Giulia non aveva questi timori, ma, per altri versi, era ugualmente agitata. C’era qualcosa in Stefano ad attrarla irresistibilmente. Gli uomini, vittime della sua seduzione, si erano sempre comportati come stupidi animali. Stavolta, chissà perché, voleva essere lei a rivestire la parte della preda. Come? Non lo sapeva, ma avrebbe presto trovato il modo per dar corso alla sua fantasia. Quel pensiero le trasmetteva irrequietezza. Fra l’altro, non poteva nemmeno rilassarsi con una sigaretta perché, su precisa richiesta di Giorgio, sedeva in zona non-fumatori. Maledette sigarette, disse fra sè. Si calmò pensando che avrebbe potuto farlo più tardi, quando sarebbe andata ad occupare una delle due poltrone dietro di lei, dove le sarebbe stato possibile fumare e agganciare Stefano. Il Jumbo, dopo una ventina di minuti, raggiunse il suo livello di crociera e si stabilizzò intorno ai 33.000 piedi. Gli assistenti di volo, come tante formichine operose, dettero il via alle operazioni necessarie per servire gli aperitivi ed il pasto principale, in ogni zona dell’aereo. In Top Class fu allestito un carrello con tutti i prodotti vinicoli italiani più prestigiosi: dal Brunello di Montalcino allo spumante Ferrari. Giulia prese un bicchiere di Berlucchi, fresco al punto giusto e bevve brindando idealmente allo sconosciuto. L’alcool la rese effervescente. Una piacevole sensazione di stordimento l’assalì e la fece lievitare verso l’alto come se non avesse più peso. Al terzo bicchiere la sua mente cominciò a viaggiare fuori dal corpo, perdendosi in sogni erotici, mentre il suo corpo reclamava emozioni violente. Immaginò, nel suo sogno ad occhi aperti, di trovarsi con il bel giovane su una spiaggia assolata dei tropici, mentre, completamente nudi, si scambiavano un lungo, dolcissimo bacio. Intrappolata dalle sue braccia muscolose, schiacciata come piccola cosa contro il suo petto, sentiva che niente poteva farle più paura. Ascoltava rapita le melodie sconosciute che le mani dell’uomo componevano accarezzando il suo corpo. Il sole, muto testimone di un amore che bruciava all’ombra di una palma affacciata sull’acqua, sorrideva bonario. Il sogno fu così coinvolgente che la sua intimità si inumidì come l’erba di una notte d’estate. Se aveva bisogno di una prova, l’aveva trovata: lo sconosciuto era la cosa che più desiderava in quel momento. Si girò istintivamente a guardarlo. Stefano intercettò il suo sguardo, le inviò un lieve sorriso e cominciò a pensare di poter osare. Giulia, agitata dai suoi pensieri, non toccò cibo durante il pranzo. Prese soltanto il caffè finale ed il tartufo di cioccolato che la hostess le offrì. Erano trascorse circa tre ore di volo, e stavano sorvolando la Turchia, quando Giulia si alzò dalla poltrona. Abbassò la gonna verso le ginocchia e si lisciò le cosce per risistemare il tessuto. Spostando il peso del corpo su un fianco, mostrò il suo sedere alto e sodo a Stefano, i cui occhi, come due calamite, furono attratti dalla perfezione delle sue forme. Entrò quindi in toilette. Si aggiustò i capelli, ripassò il rossetto e mise un po’ di profumo sotto le orecchie. Un’idea le attraversò la mente con la velocità del lampo. Alzò la gonna sui fianchi e sfilò le mutandine: erano intrise dei suoi umori, come immaginava. Le infilò nella manica del maglioncino ed uscì dalla toilette, più bella e desiderabile che mai. Anche i giapponesi della prima fila manifestarono il loro apprezzamento con ripetuti sorrisi e scuotimenti di testa. Ritornò verso la sua poltrona e rimase in piedi nel corridoio, con aria falsamente indifferente. Giorgio alzò lo sguardo dalle riviste che stava leggendo e le lanciò un’occhiata distratta. Stefano, che nel frattempo si era spostato sulla poltrona accanto al finestrino e stava fumando, osservava il lento scivolare del panorama sotto di sé. L’ora della proiezione del film arrivò e gli assistenti di volo abbassarono le tapparelle dei finestrini, spensero le luci luci del galley e del soffitto, mettendo all’oscuro tutto l’ambiente di Top Class. Lo steward azionò il proiettore e scese a prestare servizio nelle zone sottostanti. Giulia, rimase ancora in piedi per un po’ e, quando decise di riprendere posto, occupò la poltrona di corridoio all’altezza di Stefano. Fece sì che la gonna corta lasciasse scoperte le sue gambe. Con il cuore in tumulto, si accese una sigaretta e finse di guardare il film. Quando Stefano la vide seduta poco lontano da sè, per accorciare la distanza che li divideva, riprese il posto originario. Anche lui mostrò un falso interesse per quelle immagini che scorrevano come tessere di un mosaico scomposto. Per quanti sforzi facesse, non riusciva a dar loro un senso compiuto. Lei era lì vicina, bellissima, desiderabile, forse disponibile, e lui non riusciva a concentrarsi su una cosa banale come un film. Si alzò per andare in bagno. Giorgio dormiva e ne sentiva anche il lieve russare. I quattro giapponesi, strapazzati dal fuso orario, con le mascherine sugli occhi, dormivano a loro volta mollemente abbandonati sulle poltrone reclinate. La situazione per agganciare la donna era la migliore possibile. Oltre tutto, sapeva, gli assistenti di volo per un po’ non sarebbero tornati in upper deck. Con quale futile pretesto avrebbe tentato l’approccio? Ritornò al suo posto con l’animo in ambasce. La luce abbagliante delle toilette gli aveva tolto quel poco di visibilità che c’era. Cercò le due parti della cintura di sicurezza sotto di sè, ma inutilmente. Correndo di qua e di là a tastoni, qualcosa finì fra le sue mani. Non riuscì a capire bene cosa fosse. Accese la luce di lettura e con qualche frazione di ritardo, tanto grande era la sorpresa, prese coscienza di quello che stringeva: un paio di mutandine. Nere come gli occhi della notte. Con lo stupore di un bimbo, guardò alla sua destra. Giulia, di proposito, rivolgeva lo sguardo altrove, ma aveva visto benissimo tutta la scena. ‘Non è possibile…’. Esclamò dentro di sè Stefano, eccitato come non mai. Chissà perché, mise in tasca il prezioso indumento, come se fosse una cosa sua. Sporgendosi con la testa nel corridoio, s’avvicinò a lei. – Vieni a sederti accanto a me.  – le sussurrò sottovoce. Giulia aderì all’invito senza esitazione e lui si spostò sulla poltrona lato finestrino. Nemmeno il tempo di sedersi e lei si ritrovò fra le sue braccia. Il profumo dell’uomo la inebriò. I due si baciarono. A lungo e con passione. – Sei stupenda. –  disse lui, che non riusciva a credere a quanto stava accadendo. – Così dice qualcuno. – replicò lei con falsa modestia. – Non avrei mai creduto che il mio sogno potesse avverarsi. – Neanch’io. – Mi chiamo Stefano e tu? – Giulia. – Sei la donna più bella che io abbia mai stretto fra le braccia. – Addirittura! Hai avuto poche donne allora! – Al contrario. Per il lavoro che faccio, ne ho conosciute tante e tutte bellissime. – Che lavoro fai? – Sono un fotografo di moda. – Vuoi dire che fotografi donne nude? – azzardò lei con malizia. – Anche. – replicò, senza scomporsi, Stefano. – Beh… allora potresti fotografare anche me, no? – L’ho pensato fin da quando ti ho visto in saletta Vip, giù in aeroporto. – E dove lo faresti il servizio fotografico? – La spiaggia di Malindi, in Kenia, ti andrebbe bene? – Sì, certo. Quando partiamo? – Quando vuoi tu. – Allora andiamoci subito! Ho tanta voglia di stare insieme a te. – Anch’io. – Baciami, Stefano! Stefano tolse il poggiamano che univa le due poltrone e tirò la donna a sé. La palpeggiò per tutto il corpo in un crescendo di eccitazione tormentosa. La baciò di nuovo. Di tanto in tanto le succhiava delicatamente il collo e le mordeva i lobi delle orecchie, strappandole gridolini di piacere. Lei, sconvolta da nuove e sconosciute sensazioni, portò la mano sulla zip dell’uomo. Sentì il suo pene gonfio e duro. Con naturalezza scivolò a terra, si portò all’altezza del suo pube e, dopo avergli aperto i pantaloni, realizzò la fantasia erotica che più la solleticava. Stefano, a fatica, riuscì a non esplodere. Nonostante l’inevitabile eccitazione, una parte di sè continuava a rimanere vigile, perché temeva che qualcosa potesse andare nel verso sbagliato. Non sapendo bene nemmeno lui come, ad un certo punto, si ritrovò di spalle all’oblò con la schiena di Giulia poggiata sul petto. Lei era ora nella posizione più adatta per essere masturbata. Entrò con una mano fra le sue cosce tornite e scivolò con le dita nella vagina umida. Provò godimento nel sentire le reazioni del corpo della donna: con la mano sinistra a volte le stringeva un seno, a volte scendeva fin sul monte di Venere; con la mano destra invece continuava a toccarla nel punto più infuocato. D’un tratto un rumore di passi lo fece sobbalzare: qualcuno stava risalendo dalla scala a chiocciola che portava in upper deck. Cercò di spostare la donna, ma lei, come in trance, era assolutamente restia a staccarsi. Addirittura faceva resistenza. Stefano fu colto dal panico quando vide la testa dello steward di servizio spuntare dalla ripida scalinata. Vincendo l’opposizione di Giulia, riuscì ad afferrare la coperta, che si trovava sul ripiano del vano portaoggetti accanto all’oblò, e a coprire lei che, con la gonna completamente alzata in vita, mostrava tutta la sua nudità. Rimasero immobili con gli occhi spalancati, sperando che l’oscurità li celasse all’attenzione dello steward. Questi attraversò tutto il corridoio ed entrò nel galley senza dare l’impressione di aver notato nulla di particolare. Per loro fortuna, se ne andò dopo qualche minuto. Stefano rimase incerto sul da farsi: l’arrivo dell’assistente di volo era stato una doccia gelata. – Siamo in una stanza dalle pareti di vetro, dove tutti ci vedono. Non possiamo più… – Tu continua e zitto… – gli intimò la donna, per nulla intimorita dall’evento. – È troppo pericoloso. – Ma chi lo dice? – Il buon senso. – Che sia maledetto! – Dove sei diretta? – A Sydney. E tu? – A Singapore, purtroppo. – Quando ritornerai a casa? – Il 31 marzo. – Peccato! – Già, peccato… – Ma il volo è ancora lungo. – Sì lo so. Però… – Però? – Ci sono troppe difficoltà. Se tuo marito si sveglia o se qualcuno dell’equipaggio ci scopre… – Non m’importa nulla dell’equipaggio… quanto a mio marito poi… quello dorme beato. Giulia non voleva rinunciare al piacere che stava marciando trionfale sulla dirittura d’arrivo. Più che il clitoride gonfio e pulsante, un profondo senso di frustrazione, ora che era stata lasciata sul più bello, la stava tormentando. Ma Stefano, bloccato psicologicamente, aveva dichiarato in cuor suo conclusa la faccenda. Ci volle del tempo prima che Giulia si riprendesse dallo stordimento. Lentamente anche nella sua testa si fece strada l’idea che la situazione poteva diventare compromettente. Andò in toilette a ricomporsi. Dal carrello delle bevande, lasciato nello spazio antistante la prima fila di poltrone, prese un altro bicchiere di Berlucchi e ritornò sulla poltrona dei fumatori. Cinque ore di volo erano trascorse ed il Jumbo stava terminando di sorvolare l’Iran. Il Pakistan era ormai alle porte. Giorgio si risvegliò e si agitò sulla poltrona in cerca di una posizione più comoda. Giulia, da dietro, lo osservò mentre riportava lo schienale in verticale. L’uomo si passò le mani su entrambi i lati della testa, ricomponendo la scarsa capigliatura, e si sorprese nel trovare vuota la poltrona accanto a sé. Si girò. Sorrise quando vide la moglie fumare tranquilla. Lei rispose al sorriso agitando una mano, come per dire: ‘Sono qui. Lui ritornò felice al suo mondo, mise la cuffia sulle orecchie e concentrò l’attenzione sul film che aveva superato la metà della sua durata. Giulia e Stefano, ormai complici, si guardarono più volte con gli occhi pieni di desiderio. La donna, sprofondata in un mare di tristezza, consultava sempre più spesso l’orologio. Il tempo veloce e tiranno scorreva via inesorabile, rubandole una gioia cui era difficile rinunciare. Le coste dell’India si affacciarono all’orizzonte: erano arrivati a metà del viaggio. Il pene di Stefano, dritto e soffocato dagli slip, come Giulia, fremeva per ricevere soddisfazione. L’hostess ritornò in Top Class per sostituire la bobina del film. Si mosse con la levità di una farfalla e non fece quasi rumore. Poi ridiscese la scala a chiocciola e sparì. Giorgio era ben intenzionato a guardare il film. Così i due amanti si convinsero che non avrebbero potuto mai più superare l’ultimo e definitivo ostacolo. I sogni tramontavano miseramente dietro ai titoli finali che stavano scorrendo, accompagnati dall’immancabile musica trionfalistica. Sarebbe presto seguito un altro pasto, tutte le luci si sarebbero riaccese e… addio orgasmo.   Ironia della sorte, fuori stava facendo buio. La notte precoce dell’oriente andava loro incontro, portando il buio totale in cabina passeggeri.

Il Jumbo 747 volava ormai da più di sette ore e si trovava in mezzo all’Oceano Indiano. I quattro giapponesi continuavano a dormire imperturbabili, il secondo film volgeva al termine, Giorgio non si era perso nemmeno un fotogramma e poco mancava al servizio del pasto secondario. Stefano, mettendo a frutto tutta la fantasia di cui era dotato, visitò più volte con la mente ogni angolo del Jumbo, nel tentativo di trovare un posto che potesse andar bene per le loro necessità. Ma per quanti sforzi facesse, non trovò niente di adatto. Preferì abbandonare la sua pazza idea, definitivamente. D’un tratto, l’interfono di bordo gracchiò, richiamando l’attenzione di tutti: il comandante, con voce preoccupata, chiedeva l’intervento di un medico: un passeggero di turistica accusava un malore. Giorgio, all’annuncio, si alzò dalla poltrona e discese veloce la scala della Top Class. Si presentò al primo assistente di volo che incontrò e questi lo portò nella sezione posteriore del Jumbo. Un anziano signore, disteso sul pavimento, dal colore paonazzo urlava dal dolore. “Se saprai riempire il minuto che non perdona coprendo una distanza che valga i sessanta secondi, tuo sarà il mondo e tutto ciò che contiene …” Su, in Top Class, i versi del ‘Se’ di Kipling illuminarono la mente di Stefano, dandogli la forza di riempire il suo minuto con una follia irripetibile: prese Giulia per mano e la condusse nel galley senza dire una parola. Lucido e determinato, tirò la tenda dietro di sé, abbassò lo strapuntino a due posti degli assistenti di volo, che stava all’interno del piccolo ambiente, ed aiutò Giulia ad adagiarvisi su, in posizione supina. Lei sollevò la gonna stretta e mostrò il suo frutto succoso. L’uomo colse al volo l’offerta. Si insinuò con la lingua dentro di lei e forzò la sua apertura, impregnando il viso dei suoi umori. Poi Giulia alzò il maglioncino e offrì i seni alla vista e al tatto di Stefano. Lui, in estasi, li palpò strizzando con levità i capezzoli. E sfregò, senza più abbandonarlo, il clitoride. Giulia, ansimante, in segno di riconoscenza, gli accarezzò il viso più e più volte. Quando scivolò nell’abbandono, le sovvenne il verso di Neruda: “…e perché nessuno mi conobbe come una, una sola delle tue mani. ” Giulia dondolò sotto le ondate di piacere che andavano e venivano con un’intensità sempre maggiore. Quando il momento finale arrivò, si dimenò come la coda spezzata di una lucertola. Passato qualche tempo, Stefano aiutò la sua dolce amante a recuperare la posizione eretta. La sollevò per la vita e la mise a sedere sul piano di lavoro del galley. Per farle assumere una posizione più comoda, pose sotto i piedi della donna due dei contenitori di plastica che stavano in terra, avendo cura che le sue gambe fossero ben divaricate. Si aprì i pantaloni e liberò il pene, che, grazie alla piena erezione, puntò verso l’alto. Con il poeta turco, Hikmet, cantò: “…entro nei tuoi occhi come in un bosco pieno di sole e sudato affamato infuriato ho la passione del cacciatore per mordere nella tua carne.”

La prese saldamente per i fianchi ed entrò in lei con impeto, aumentando progressivamente la frequenza dei suoi colpi. Il respiro di Giulia divenne affannoso, quasi un rantolo. Un secondo orgasmo, più sconvolgente del primo, arrivò con la forza devastante del tuono. Dalla vagina il piacere si diramò per tutto il corpo, irraggiandosi nelle vene con l’intensità di una scarica elettrica. La donna conficcò le sue unghie nella schiena dell’uomo, come se volesse inchiodarlo a sé per l’eternità. Stefano raggiunse l’orgasmo sulla sua scia e le esplose dentro facendo fatica a sostenersi sulle gambe. Rimasero così, avvinghiati l’un l’altro, come l’edera all’albero, senza parlare, per lunghi istanti. Quando tutto finì, si guardarono negli occhi felici ed increduli. Si scambiarono un ultimo, caldo bacio prima di ricomporsi in fretta e ritornare confusi ai loro posti. Ebbero appena il tempo di sedersi, quando qualcuno risalì le scale. Era Giorgio. Portava rassicuranti notizie. Grazie al suo intervento, l’uomo della classe turistica colpito da infarto, era riuscito a riprendere conoscenza. Pur se in gravi condizioni, poteva considerarsi salvo. Nel General Hospital di Nassim Hill, a Singapore, tutto si stava approntando per un suo ricovero urgente. Giulia guardò ammirata il marito: l’uomo di medicina esercitava su di lei lo stesso fascino di sempre. Nel momento in cui gli assistenti di volo, al termine dello spuntino serale, riposero tutto il materiale d’uso, compresi i due cassonetti trovati (stranamente per la hostess, ma non per lo steward) fuori posto, l’aereo stava sorvolando l’isola di Sumatra. Mancava ormai meno di un’ora all’atterraggio. Giulia, dalla tasca della poltrona, prese il Corriere della Sera e vi annotò il numero del suo cellulare. Con fare distratto, lasciò cadere il giornale a terra. Stefano, prima dell’atterraggio, lo recuperò e lo ripose con molta cura nella sua ventiquattrore. Lei si voltò e gli diede un’ultima occhiata. Mimò un bacio e l’uomo rispose con un movimento analogo delle labbra. Mentre atterravano sulla pista di Changi, l’aeroporto di Singapore, Stefano fantasticò sul seguito dell’avventura. La luce fioca del giorno nascente lasciava intravedere le sagome di centinaia di navi che, come in un raduno festoso, affollavano l’acqua, appena increspata, di Serangoon Harbour. Strinse nella tasca dei pantaloni le mutandine umide di Giulia e, sospirando, lanciò il grido beneaugurante degli abitanti dell’isola: ‘Majulah Singapura’ (prosperità per Singapore).


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Fargo