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La rosa rossa

Mentre la navetta con esasperante lentezza mi portava agli “Arrivi”, composi il suo numero. Un solo squillo, e il suo allegro “Ciao amore!” “Ma ciao! Eri al telefono, broccolone! C’era la segreteria, uff!” Ma sorridevo. Mi guardavo distrattamente intorno, già mentre attendevamo di scendere dall’aereo avevano tutti messo mano ai telefonini, e ora si davano un’aria di importanza mentre annunciavano il loro atterraggio a chissà chi. “Ma quale segreteria, ero al parcheggio…” La sua voce era un po’ ansante, sentivo che stava camminando velocemente, con un chiacchiericcio di sottofondo. “Ho temuto di far tardi, amore, c’era un traffico incredibile.” Scesi dalla navetta, seguendo il fiume umano che si riversava verso il recupero bagagli. “Tardi? Lo sai che non te lo avrei mai perdonato!” Ridevo…quante volte lui mi aveva dovuta aspettare? “Ma che cattiva sei …” “Sì, sì … almeno cinque minuti di broncio, và facciamo quattro, mi sento buona oggi.” “Com’è andato il viaggio?” “Era iniziato benissimo! Mi hanno dato il posto vicino all’uscita di sicurezza, e accanto a me, sul lato finestrino, era seduto un bellissimo ragazzo. Alto, moro, un fisicaccio, bel viso mmm stavo già pregustando il volo. Giusto il tempo di fargli un sorriso e un paio di flapp flapp e lui ha detto alla hostess: “Posso spostarmi? Sto scomodo qui!”. Sgrunt! Amore, la mia autostima è a un livello infimo!” Lo sentii ridere, “Razza di broccolona! Ma dove sei?” “Sono ancora sulla navetta.” Mentii spudoratamente, e lui lo sapeva, sentiva che avevamo lo stesso sottofondo di annunci gridati all’altoparlante. “Dove ti sei nascosto stavolta?” “Non ho avuto il tempo di trovare un posto per nascondermi, è già tanto se sono arrivato in orario!” I cagnoni antidroga mi annusarono, mentre oltrepassavo il “nothing to declare”. Il figaccione di prima mi precedeva di qualche metro, e dopo tutto non era così carino, ma sì aveva un po’ di pancetta, e di sicuro era miope. (Tsk tsk) Mi guardai intorno, decine di persone ne aspettavano altre, alcune con cartelli in mano con nomi impronunciabili. Ma lui dov’era? “Non ti vedo, dove sei??” “Ma io vedo te!” “Okay, vorrà dire che bacerò il primo che capita.” Mi voltai e vidi un uomo sulla trentina, moro, mi sorrise. Gli buttai le braccia al collo e prima che potesse dire qualcosa incollai le mie labbra alle sue. Non esitò a ricambiare il mio bacio, le nostre lingua si intrecciarono, mentre le persone intorno a noi sparivano nel nulla. “Ciao, primo che capita” bofonchiai (è difficile scandire bene le parole mentre ti mordono le labbra). Trascorremmo la giornata sulla nostra nuvoletta rosa, in un’atmosfera emozionante, calda dei nostri corpi, greve dei nostri odori, ma soprattutto e purtroppo magicamente breve: lui aveva il potere di far scorrere le lancette sempre più veloci. Quando fu il momento, mi riaccompagnò a Malpensa, ci scambiammo gli ultimi baci e io uscii dall’auto stando attenta a non lasciare mezzo metro di rosa rossa nello sportello. Ero in fila per il check in, quando nell’aria risuonarono le note della sigla dei Simpson’s, frugai nella mia borsa, paragonabile alle tasche di Eta Beta, e trovai il cellulare: “Amore!” Amore … confesso, ho acceso una sigaretta!” Finsi di tossire, e lo sentii ridere: “Peste che sei!” Era sempre così, non appena ci lasciavamo ci venivano in mente mille cose da dirci. L’entusiasmo di stare insieme era tale che quasi non sentivamo la tristezza dell’arrivederci. Ho detto quasi… Chiacchieravamo allegramente, quando qualcosa, anzi qualcuno, attirò la mia attenzione. La fila accanto, alla mia destra, chiodo, pantaloni di pelle, un portadocumenti … No, che razza di scherzo. “Scusa amore … puoi ripetere?” “Sei distratta, che succede?” Mi incamminai verso il solito gate, senza perdere di vista quella figura nerovestita: andavamo decisamente nella stessa direzione. “Non ci crederai mai … c’è Gianni!” “Chi? QUEL Gianni??” “Dio che imbarazzo … non ci posso credere …” Sprazzi di ricordi disordinati mi balenarono in mente, mentre cercavo di portare avanti la conversazione, senza sembrare troppo interessata all’incontro. Gianni, gli occhi più blu che avessi mai visto… Gironzolavo annoiata nel web la notte che l’incontrai; Vittorio non era on-line, e già allora mi mancava terribilmente, anche se non lo avrei mai ammesso. Erano giorni che io e Vic ci “sondavamo”, e avrei fatto di tutto per cancellare dalla sua mente l’immagine che aveva di me: una Biancaneve moderna, simpatica ma non “spigliata”, una buona amica e basta. Al telefono con Gianni, giocando, provocandolo, testavo me stessa, e scoprivo che eccitare un uomo solo con la voce dava una sensazione quasi di potere. Sentivo il tono farsi basso, roco e sensuale, sussurri come carezze, sospiri come baci umidi di saliva e altro ancora. La sera seguente, appoggiata all’auto, il cofano ancora caldo, la telecamera del Monte dei Paschi ci faceva l’occhiolino poco distante. Le mani dappertutto, i capezzoli finalmente liberi ed eretti nel freddo di novembre, leccavo le sue dita odorose dei miei umori, mentre offrivamo uno spettacolo inaspettato alle coppiette appartate al buio del parcheggio poco distante. E nella mente un pensiero malizioso contribuiva a eccitarmi sempre più: la prossima chat su icq con Vic sarebbe stata decisamente interessante. E come un flash, rivedevo me stessa aprire le tende, perché dall’ufficio di fronte potessero godersi la scena: sulla scrivania, le gambe appoggiate sulle sue spalle, il suo sesso che si strofinava sul mio, senza penetrarmi, una dolce tortura E dopo, seduta sulla poltrona manageriale, scompigliata e discinta sentivo nella bocca il mix dei nostri sapori, mentre con le unghie seguivo la linea degli addominali. Lo guardavo maliziosa, di sotto in su, mentre con le mani cercava di impormi il suo ritmo… “Amore, manca molto all’imbarco?” Vittorio mi riportò alla realtà d’un colpo, e ripresi a conversare nel solito modo, a metà tra il malizioso e il tenero, ma al tempo stesso sentivo su di me gli occhi di Gianni: mi aveva riconosciuta. “Amore, lui mi ha vista! Ahah si è messo gli occhiali da sole, forse teme che io gli salti addosso alla vista dei suoi occhioni blu?” “Amore, ma sei tu che sei sparita e non lo hai più richiamato, no?” Avvertivo un po’ di tensione nella sua voce, non era molto contento dell’imprevisto. “Beh sì. Dovresti essere qui, sai? Ho ridotto lo stelo della rosa, era poco maneggevole. Cammino lentamente avanti e indietro proprio di fronte a lui, sorridendo e accarezzandomi le labbra con i petali. Sento i suoi occhi su di me. Starà ricordando, ne sono sicura. Fingo di essere assorta nella telefonata, ma so che questa rosa lo turba. Ogni tanto incrocio il suo sguardo e indugio quel tanto che basta.” “Lo vedi che sei peggio di me? Non mi capita mai di incontrare una mia ex, a te sì invece!” “Ma se l’ho frequentato solo per sedurre te! Non ricordi? Tu sei uscito con quella sciacquetta noiosa, invece!” Ridevamo, entrambi ferocemente gelosi. “Ti amo, sai?” “No, io amo te!” La navetta ormai era arrivata, e ci dovemmo salutare; mi augurò buon volo e spensi il cellulare, sorridendo come una deficiente alla prima cotta. E fu salendo sulla navetta che mi ritrovai di fronte Peter. “Sbaglio o ci conosciamo?” Sorrisi maliziosa. Lui si tolse gli occhiali da sole e ricambiò il sorriso. “Non ero sicuro che fossi tu, ma quel modo di camminare, di muoversi … Che piacevole sorpresa!” “Anche per me, ne è passato di tempo, ma sei proprio come ti ricordavo. Peccato tu abbia nascosto quei bellissimi occhi blu sotto le lentine scure, però.” Peter rise, era sempre stato bravo a incassare.


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Ritorno dall’Islanda

Si passò una mano sul viso, lo sentì bagnato di sudore e l’asciugò meccanicamente con la manica della camicia. Faceva caldo, un caldo insolito, perché il giardino era sempre fresco, anche d’estate. Qualche goccia gli scivolò sulla camicia e sul collo, alzò la testa e si accorse che cominciava a piovere. Proprio in quel momento la sua attenzione fu attratta dal rumore di un aereo in atterraggio presso la vicina base aerea dove aveva prestato servizio per tanti anni: era un “AWACS” (Airborne Warning And Control System).

L’inconfondibile rombo dei motori del Boeing 707 lo portò di colpo a quel lontano 1989 quando fu assegnato per un breve periodo in Islanda per svolgere attività operativa presso la base aerea di Keflavik. Carlo – maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana assegnato alla Nato – vi trascorse ben quindici giorni tra attività di volo e momenti di diporto che gli consentirono di visitare parte di quella fantastica isola dove tutto è strano e tutto sembra anormale anche ciò che non lo è.

Il giorno prima dell’effettiva attività di volo – otto/nove ore continuative -, preparava il piano di volo e pianificava la missione operativa nei minimi dettagli in stretto coordinamento con tutti i membri dell’equipaggio del velivolo suddiviso in due grosse branche: il “flight crew” ed il “mission crew”.

La prima branca si prendeva cura di portare il velivolo nell’area di orbita e mantenerlo ad una quota costante per tutto il tempo necessario: era costituita da due piloti, un navigatore ed un “flight engineer” (FE) – supervisore di tutta la parte tecnica del velivolo.

La seconda branca, diretta dal Tactical Director (responsabile dell’esecuzione della Missione Operativa) era suddivisa, a sua volta, in tecnici ed operativi che avevano il compito di far funzionare i sistemi radar di bordo e di utilizzarli per l’avvistamento ed il controllo del traffico aereo nell’area di competenza in coordinamento con i siti radar terrestri. L’incarico di Carlo era appunto quello di garantire l’efficace esecuzione della missione operativa.

Nei momenti di riposo tra un volo ed un altro Carlo con il suo collega Miguel – un ufficiale dell’Aeronautica Militare Portoghese – visitò le aree più accessibili dell’Islanda vicino alla loro base aerea. Era il periodo in cui in Italia i fiori vivono la loro stagione migliore, il cielo diventa sempre più azzurro e il mare invita con maggior insistenza i timidi bagnanti a tuffarsi nelle acque calme e calde. In Islanda, invece, la temperatura in maggio è tutt’altro che gradevole. Il più grande parco nazionale dell’Islanda (Skaftafell), sito vicino Reykiavik, presenta un panorama molto simile a una veduta alpina con la terra desolata e sabbiosa, è di una tristezza indescrivibile; di erba neanche a parlarne.

Mentre passeggiavano vedendo alcuni cavalli chiusi in un recinto, Carlo disse a Miguel: “Vedi come sono tutti infreddoliti e con gli occhi pieni di tristezza”.

“E’ vero” rispose Miguel, “sembrano senza vitalità. La loro espressione denota un senso di rassegnazione alla vita in una stalla sapendo che per loro non sarà mai possibile scorrazzare liberi nelle pianure piene di erba verde, fresca e dal profumo inebriante”.

Finito il periodo di rischieramento, iniziò il volo di ritorno verso la base aerea di provenienza: la missione era di solo trasferimento e non operativa, quindi doveva essere semplice e senza alcun problema.

L’imprevisto, però, a volte è in agguato. Stavano sorvolando il tratto di Oceano Atlantico compreso tra l’Islanda e la Gran Bretagna, quando cominciarono ad avvertire un forte odore di bruciato.

Subito i tecnici avviarono i previsti controlli delle apparecchiature radar accese per normale manutenzione. Intanto, Carlo diede l’ordine di indossare la maschera di ossigeno ed effettuò il previsto appello (“roll call”) per verificare che tutto il personale l’avesse indossata.

Completata positivamente tale verifica, il primo pilota (Aircraft Commander – AC) diede l’ordine ai tecnici di spegnere tutti gli apparati non necessari alla navigazione e al FE di avviare la procedura per far defluire l’odore di bruciato aprendo le valvole all’uopo preposte.

Nel giro di pochi minuti tutto ritornò normale e fu dato l’ordine dall’AC di togliere le maschere d’ossigeno essendo rientrata la situazione di emergenza.

Tutto ormai sembrava risolto ed il volo si stava avviando verso una tranquilla soluzione, quando scattò, come un fulmine a ciel sereno, il segnale di emergenza per depressurizzazione del velivolo. Tale situazione, di norma, richiede di indossare la maschera di ossigeno entro quaranta secondi per evitare situazioni di mancanza di ossigeno (anossia).

Carlo avviò, quindi, nuovamente la procedura per affrontare la nuova emergenza: tutti su ossigeno e “roll call” del personale.

“Possibile che il destino ha deciso che questo debba essere il mio ultimo volo”? pensava Carlo.

Tutti si guardavano senza riuscire a trovare la forza di parlare, anzi, lo facevano con gli occhi che mostravano di non essere ancora rassegnati ad una fine prematura.

Presi da tali funesti pensieri, la comunicazione da parte dell’AC di emergenza rientrata fece tirare un sospiro di sollievo a tutti e riportò il naturale colore su quei volti segnati da un pallore improvviso dovuto ad un inconscio senso di paura che, come una spada di Damocle, alberga nella mente di chi ben conosce i rischi derivanti dal proprio lavoro

. Cosa era successo? Il FE, per una mera dimenticanza, aveva lasciato aperte le valvole, utilizzate per far defluire l’odore bruciato della precedente emergenza, oltre il dovuto. Tanto era bastato per far scattare la nuova emergenza.

La pioggia, sempre più insistente, risvegliò Carlo che nel frattempo si era riparato sotto il gazebo godendo il profumo della terra appena bagnata e rallegrandosi alla vista delle gocce d’acqua che dissetavano i petali dei fiori rendendoli più luminosi e più puliti E mentre era ancora assorto nei suoi remoti pensieri, accarezzò con la mano il capo del nipotino più piccolo che stava giocando con un piccolo aereo simulando una situazione d’emergenza.


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Dirigibile
Raffaele Carlino

Rischio di collisione

aeroplano avviamentoIn quel momento non poteva rispondere. Stava attraversando una tempesta emotiva di quelle forti. E questa volta rischiava veramente di soccombere. Dovevamo parlare, anche a rischio di scontrarci duramente. Prima o poi la nostra situazione doveva trovare un chiarimento. Così l’avevo pregata di sedersi accanto a me, nella poltrona lasciata momentaneamente libera dal pilota di sinistra. Il velivolo s’inclinò leggermente a sinistra. Di una quantità quasi impercettibile. Pochi gradi sull’orizzonte artificiale, ma di un tanto che bastava per imprimere all’aeroplano una lentissima virata, leggera e inesorabile. Me ne resi conto ma non intervenni! Lei stava seduta con le gambe distese e la pancia in fuori. Come se avesse appena fatto un pranzo luculliano. Bellissima come sempre! Improvvisamente aprì le gambe come fanno le ballerine quando stanno per fare una spaccata. Sul principio pensai che volesse buttare tutto in ridere mimando un passo di danza, ma poi, sempre più catturato dalla sua gonna cha continuava a scivolare verso l’alto, restai ipnotizzato come un cretino. Il panorama si fece sempre più avvincente: in cima ad un bel paio di cosce schiuse apparvero delle accattivanti mutandine d’un sorprendente blu intenso. Un colore perfettamente intonato alla sua uniforme da hostess. Restai inchiodato come in una trance ipnotica.

Il grosso quadrigetto, nel frattempo, stava continuando a virare lentamente a sinistra. Quando avvistai il bimotore che ci veniva incontro era ormai tardi. Volavamo su rotte di perfetta collisione. Terrorizzato afferrai con forza il volantino, premetti il tasto giallo col pollice destro e sganciai l’autopilota. Spinsi più che potetti verso il basso inclinando contemporaneamente le ali verso destra. L’inerzia era enorme. Prima di ottenere una risposta significativa dai comandi di volo trascorsero degli istanti interminabili. Mi resi conto che l’equipaggio dell’executive non ci aveva avvistati. Infatti l’aeromobile continuava imperterrito a mantenere quota e prua invariati. Mentre la donna urlava terrorizzata io mi sentivo paralizzato da una tensione parossistica. In un baleno i due aerei furono così vicini che riuscii a scorgere con precisione la sagoma del copilota del piccolo jet. Con disperazione continuai a spingere il volantino verso il basso e verso destra … Improvvisamente mi accorsi di non aver ridotto i motori al minimo. Un errore tanto grave quanto inesplicabile. Entrai in uno stato di confusione.

Mi svegliai in un bagno di sudore e guardai la sveglia sul mio comodino: erano le cinque del mattino. Potevo dormire ancora un ora prima di alzarmi per prepararmi alla partenza.

Nel 1978 ero un primo ufficiale pilota di B 747. Quel giorno il mio turno di volo prevedeva due tratte: Roma – Milano, Milano – New York. Il volo si svolse regolarmente.


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Mario Trovarelli

Roma-Venezia da passeggero

aereo giallo bluCosa prova un pilota professionista quando sale a bordo di un aeroplano di linea? Quali sentimenti lo attraversano? … lo apprenderete da questo breve racconto del passeggero Paolo Vittozzi.


Racconto / Medio – breve Pubblicato: inedito

La rosa rossa

aereo fumetto in voloUn’aerostazione, quella di Malpensa; una donna, che dire seducente è poco; un uomo, quale tutti noi vorremmo essere; una passione, che dura il tempo tra un arrivo e una partenza; una rosa rossa. Tutto questo in un racconto che trasuda erotismo e che dunque, consigliamo ad un pubblico adulto. Stile asciutto e testo che si fa leggere tutto d’un fiato.


Racconto / Medio – lungo Pubblicato: nel sito web “Soloparole”.