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Recensione dei Libri aeronautici

Una donna può tutto

titolo: Una donna può tutto

autore: Ritanna Armeni

editore: Ponte alle Grazie – Adriano Salani Editore

anno di pubblicazione: 2018

ISBN: 978-88-3331-024-4





 

“Quei maledetti piccoli aerei. Arrivano solo di notte, scendono silenziosi, lanciano il loro carico di fuoco e tornano rapidi fra le nuvole… Possibile siano donne? Così brave, abili, precise, incuranti del pericolo?

Arrivano la notte all’improvviso, seminano il terrore e poi toccano di nuovo il cielo.

Misteriose, sfuggenti, inafferrabili. Sembrano streghe. Nachthexen, streghe della notte”

E’ l’8 ottobre 1941 quando, in Unione Sovietica, con l’ordine numero 0099, vengono istituiti tre reggimenti di aviazione composti interamente da sole donne.

I tre reggimenti erano: il 586° caccia bombardieri con in dotazione gli YAK-1; il 587° bombardieri in picchiata con in dotazione i bimotori Petliakov-2; il 588° per i bombardamenti notturni con in dotazione i biplani Polikarpov Po-2.

Sarà proprio delle donne del 588° reggimento, che i tedeschi, con rispetto, soprannomineranno “Nachthexen” ovvero “streghe della notte“, che Ritanna Armeni ci parlerà, o meglio ci farà conoscere la loro storia raccogliendo la testimonianza di una Strega: Irina Rakobolskaja, vice comandante del 588° reggimento.

Il Polikarpov aereo in dotazione al 588° reggimento, che erroneamente nel libro viene definito come un bimotore (si può pensare che questa inesattezza provenga da un errore di traduzione dal russo all’italiano confondendo il significato di biplano con bimotore), è un biplano monomotore degli anni venti in legno, non è veloce con i suoi 120 km/h di velocità massima e non vola alto (tangenza operativa di soli 1000 metri).

Il Polikarpov Po-2 (nome in codice NATO Mule), inizialmente denominato Polikarpov U-2, era soprannominato dai piloti russi “Kerosinka” (traducibile in italiano con un pittoresco: “Lampada a cherosene”) per la sua tendenza ad incendiarsi. Fu un aeroplano di grande successo se consideriamo che fece il primo volo alla fine degli anni ’20 e terminò la sua attività alla fine degli anni ’60, utilizzato fino ad allora dall’Aviazione Bulgara. Ad oggi ce ne sono ancora molti in condizioni di volo e diversi altri nei vari musei dell’aria dei vari paesi ex filosovietici. Disegnato dal famoso  progettista Nikolaj Nikolaevič Polikarpov, già incarnava lo spirito che ha poi sempre contraddistinto le costruzione aeronautiche sovietiche: semplicità e robustezza, Forse il Po-2 era fin troppo spartano e razionale con costi molto contenuti anche in termini di gestione e manutenzione. Come dire: la formula della longevità di un velivolo ben riuscito

Ma richiede una manutenzione minimale, è facilmente riparabile, non ha bisogno di aeroporti per decollare e atterrare: un qualunque campo appena pianeggiante va bene.

Un aeroplano apparentemente non adatto all’impiego in guerra e un gruppo di giovani donne apparentemente non adatte all’impiego in guerra, formeranno un connubio formidabile e una perfetta macchina da guerra.

Costruito in oltre 40 mila esemplari nelle più disparate versioni (terrestre, con sci, idrovolante, con cabina chiusa, aeroambulanza, lavoro agricolo oltre che addestratore e bombardiere) è un velivolo assai conosciuto dai pilotti di tutti le nazioni che furono sotto l’influenza sovietica, Corea del Nord compresa. In quei cieli se la vide con i jet statunitensi riuscendo a farla franca grazie alla bassa velocità e alla ottima manovrabilità. Solo i F4 Corsair, residui bellici della II Guerra Mondiale riuscivano ad averne ragione. Ebbe anche un impiego intensivo come aereo da trasporto passeggeri nelle tratte commerciali a corto raggio ma, di sicuro, conobbe il culmine della gloria quale velivolo in uso al 588° Reggimento tutto al femminile, proprio quello delle “Streghe della notte”

Il libro non contiene racconti dettagliati di missioni di guerra, nè troveremo foto, l’unica è quella di copertina una giovane “Strega” che abbraccia l’elica del suo Polikarpov, ma è una storia che inizia nel giugno del 1941 con il comunicato radio di Molotov:

“Alle 4 di questa mattina, senza alcuna dichiarazione di guerra e senza che prima sia stata fatta alcuna rimostranza all’Unione Sovietica, le truppe tedesche hanno attaccato lungo le nostre frontiere …

Seguiremo questo gruppo di giovani donne, rivivremo le loro emozioni: gioia, dolore, delusione, amarezza, ma anche caparbietà, ostinazione e grandissima forza di volontà e la consapevolezza che potevano farcela.

Sono tutte volontarie, vogliono dare il loro contributo per la difesa della patria, ma soprattutto non vogliono sentirsi dire: “no”, solo perché sono donne. Il Socialismo aveva sancito la parità tra uomo e donna, e ora loro erano lì a pretendere di fare la loro parte.

Come nella migliore tradizione editoriale, ecco il risguardo interno del libro “Una donna può tutto” in cui viene sintetizzato il contenuto del volume

La prima battaglia che dovranno combattere e vincere è quella contro il pregiudizio, lo scetticismo e l’ironia che non verrà loro risparmiata.

Formeranno un gruppo eccezionale che porterà, nel 1943, al 588° reggimento il conferimento del titolo di “46° Reggimento della Guardia”, è un riconoscimento importante: le Streghe sono diventate “sentinelle della patria”.

La storia termina il 15 ottobre 1945, quando il 588°, divenuto 46° reggimento della Guardia, è sciolto. Vengono consegnati al museo dell’Armata Rossa i documenti di volo, la bandiera e gli oggetti che avevano riguardato il reggimento.

Il risguardo interno del bel libro di Ritanna Armeni che ha regalato ai suoi lettori una piacevole intervista alla  pagina:  https://www.labalenabianca.com/2018/04/13/donna-puo-intervista-ritanna-armeni/ ricca di approfondimenti e riflessioni su questo libro davvero notevole

L’Unione Sovietica, unica nazione coinvolta nella II Guerra Mondiale ad impiegare le donne in combattimento lungo le linee del fronte, archivia così un esperienza, e con paternalismo rinvia le donne a casa affinché ora, in tempo di pace, riprendano il loro ruolo di mogli e madri all’interno delle famiglie dalle quali erano state per troppo tempo lontane.

Le Streghe hanno compiuto 23000 voli in 1100 notti di combattimento, 31 di loro sono morte in missione.

Sono donne che hanno affrontato da guerriere l’orrore della guerra, senza mai lasciarsi scoraggiare.   

Una storia poco ricordata se non addirittura lasciata cadere volutamente nell’oblio nella stessa ex Unione Sovietica da una storia scritta al maschile. L’Unione Sovietica aveva coraggiosamente osato tanto. Le donne sovietiche avevano risposto con entusiasmo e hanno ben ripagato la fiducia in loro riposta.

 

La splendida pilota da caccia sovietica Lydia Litvyak ritratta davanti al suo bimotore Petlyakov Pe-2. Durante il II Conflitto mondiale divenne famosa per aver abbattuto ben 12 velivoli tedeschi nel corso di 66 missioni. Un vero asso della caccia. “Era una donna molto aggressiva ma anche un pilota eccezionale”, dichiarò il suo comandante Boris Eremin (in seguito tenente generale dell’aviazione), “Un pilota da caccia nato” soleva dire di lei l’ufficiale. L’attività operativa di Lydia ebbe inizio proprio in seno al 586° Reggimento ove si addestrò lungamente a bordo dello Yak-1 (foto Flickr.com)

Ma neanche il Socialismo sovietico riesce ad accettare quello che queste donne avevano dimostrato con i fatti: la loro capacità di affrontare, alla pari, gli stessi compiti affidati ai loro colleghi uomini. Non sono scese in piazza a gridare slogan, ma sono andate a combattere in guerra affianco ai reggimenti maschili.

Il loro successo sembra infastidire, quasi impaurire, i vertici politici di allora ma anche quelli successivi alla caduta dell’Unione Sovietica. Dare enfasi o semplicemente ricordare queste pagine di storia poteva forse far crescere nelle donne l’aspirazione a ruoli di rilevanza politica? Il fatto che le donne non si erano tirate indietro, non avevano chiesto di rinunciare a questo progetto ma erano arrivate sino alla fine, ha lasciato spiazzati tutti. Cos’altro avrebbero potuto chiedere e pretendere ancora?

In Italia il servizio militare femminile effettivo su base volontaria verrà introdotto solo nel 1999. Prima del 2000 l’impiego in guerra, delle donne, era limitato al solo Corpo delle infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana.

Un libro alla memoria delle Streghe che furono. Di riflessione per le Streghe che sono e che saranno.





Recensione a cura di Franca Vorano.

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Falling to Earth

titolo: Falling to Earth – an Apollo 15 astronaut’s journey [Cadendo sulla Terra – un viaggio dell’astronauta dell’Apollo 15 ] 

autore: Al Worden with Francis Franch

editore: Smithsonian Books – Washington

(2011, edizione digitale, prima edizione)

eISBN: 978-1-58834-310-9





 

Questo è davvero un libro speciale.

Tutti i libri possono esserlo, ma alcuni sono più speciali di altri. Già l’argomento, le missioni spaziali, le prime in assoluto da quando esiste l’essere umano sulla Terra, è di un interesse travolgente. Queste missioni si sono svolte in un periodo di pochi decenni. Un tempo insignificante, se messo in confronto con i millenni che l’umanità aveva già alle spalle. E considerato anche che la conquista dell’aria, cominciata si nel 1800, ma realmente perfezionata solo nei primi anni del 1900, aveva avuto anche questa uno sviluppo esponenziale che ha del prodigioso.

L’astronauta James B. Irwin, pilota del modulo lunare denominato “Falcon” porge il saluto militare all’obiettivo della fotocamera posta tra le mani del suo collega David R. Scott, comandante della missione. Sullo sfondo, immancabile, la bandiera statunitense e il Lunar Roving Vehicle (LRV). Quella dell’Apollo 15 fu una missione del tutto militare in quanto che tutti e tre i suoi membri erano ufficiali piloti dell’USAF (Unites States Air Force)

Nessuno si sarebbe mai immaginato di poter camminare sul suolo lunare così presto.

Sulla scia della rivalità e della competizione con l’Unione Sovietica, il presidente Kennedy aveva promesso di portare l’Uomo sulla Luna prima della fine del decennio. Erano gli anni sessanta.

Per mantenere la promessa, gli Stati Uniti avevano posto in atto uno sforzo immenso, sia dal punto di vista tecnologico che economico. E anche di risorse umane. Gli equipaggi erano stati selezionati tra i migliori piloti del momento, quasi tutti piloti sperimentali, super qualificati e provenienti da tutte le aviazioni, sia dell’Aeronautica che dell’Esercito, della Marina e dei Marines.

L’unico segno di italianità lasciato nell’ambito della missione Apollo 15 è costituito dal logo di missione realizzato a cura dello stilista (nonché ingegnere aeronautico) Emilio Pucci, a cui venne commissionato direttamente dagli ingegneri della NASA. Nell’idea di base del suo ideatore, egli immaginò di far volare tre uccelli (forse rondini) stilizzati sulla superficie lunare con i colori della bandiera statunitense. Probabilmente il numero tre era legato al numero tre dei membri dell’equipaggio ma, sappiamo che, purtroppo, uno dei tre orbitò abbastanza lontano dalla superficie terrestre mentre solo i due pù fortunati misero davvero piede sulla superficie della Luna.

Lo spazio, però, è un ambiente diverso rispetto all’atmosfera. Dal 1969, l’anno del primo allunaggio ad opera dell’Apollo 11, fino al 1972, anno dell’ultimo allunaggio portato a termine dall’Apollo 17, possiamo contare tre meri anni durante i quali 12 uomini hanno passeggiato sulla Luna e sei sono rimasti ad orbitare velocemente sopra di loro, soli a bordo e con una miriade di compiti da svolgere.

Poi tutto è finito. Le missioni Apollo hanno lasciato il posto all’epoca dello Shuttle, alla costruzione delle stazioni spaziali, una russa (la MIR) e una americana, ma più che altro internazionale, la I.S.S. (International Space Station).

Immortalati dell’occhio della fotocamera uffciale della NASA, ecco tutti i protagonisti della missione Apollo 15: l’equipaggio, il Modulo Lunare e il Rover.

Solo in questo periodo, un paio di decenni dopo il 2000, si sente di nuovo parlare di ritorno nello spazio profondo, lontano dall’orbita terrestre, addirittura si parla di Marte e di alcuni asteroidi lontani.

Il libro di cui parliamo riguarda la vita di uno dei membri dell’equipaggio dell’Apollo 15. E precisamente di colui che non era destinato a scendere sul suolo lunare, ma a restare in orbita, solo e con tantissime cose da fare.

E già qui la storia comincia a farsi interessante. Perché Alfred Worden è un tipo speciale e tutta la sua storia lo è, a cominciare dalla sua infanzia fino ai giorni nostri.

Ha scritto solo questo libro, ma che libro!

Le prime pagine cominciano con la prefazione del Capitano Dick Gordon, astronauta e pilota della Gemini 11, poi pilota del modulo di comando dell’Apollo 12 (anche lui destinato ad orbitare la luna senza scendere al suolo) e poi comandante di riserva dell’Apollo 15. Ogni equipaggio in addestramento per una missione aveva un altro equipaggio che si addestrava in parallelo ed ogni membro di backup era immediatamente pronto e disponibile a sostituire il titolare per qualunque ragione che gli avesse impedito di partire, fosse pure un banale raffreddore.

Ecco la famosa fotografia che immortala Alfred Worden mentre fluttua nello spazio, appena fuori il modulo di comando dell’Apollo 15, intento a recuperare la pellicola della fotocamera panoramica e a verificare l’esito gli otto esperimenti scientifici effettuati durante le orbite del Modulo di Comando

Poiché una recensione è essenzialmente una presentazione, destinata a chi, venuto a conoscenza dell’esistenza di un libro, vorrebbe conoscerne il tipo di contenuto per decidere se leggerlo o meno, non esito a consigliare chiunque abbia un Kobo a comprare “Falling to Earth” subito e cominciare a leggerlo. E’ in inglese. Purtroppo non esiste, per quanto ne so, la versione italiana. Ma di questo problema ho già parlato nelle altre recensioni, qui su VOCI DI HANGAR.

Per chi ha letto le mie precedenti recensioni di libri sullo stesso argomento e scritti da altri astronauti, diciamo subito che anche questo traccia un po’ la vita dell’autore, dall’infanzia fino alle scuole iniziali, al periodo dell’Accademia militare, in questo caso West Point (forse la più prestigiosa), fino ad arrivare alla scuola di volo.

Worden  opta per l’Air Force. Molti suoi colleghi vennero arruolati invece dalla Navy, la Marina americana. Altri scelsero i Marines.

Alcuni, molti, finirono a combattere in Vietnam.

Erano molti i reparti di volo dove tutti questi piloti prestavano servizio e dove furono raggiunti dalla notizia che la NASA, l’ente spaziale americano, ricercava piloti da avviare alla carriera di astronauti. Anche se, all’inizio, li cercava solo nei reparti sperimentali di volo.

Per i detrattori delle missioni spaziali o per i complottisti che, ancora oggi, sostengono che le missioni lunari furono tutta una montatura della NASA, ecco una foto panoramica che attesta il gran movimento di uomini e mezzo nell’area di allunaggio del modulo Lunare dell’Apollo 15. E’ facile distinguere le tracce dell’automobile lunare e le orme degli astronauti sulla superficie .

Infatti, tutti i primi neo-astronauti, tranne qualche eccezione come Buzz Aldrin, erano test-pilots, i piloti sperimentali, il meglio in assoluto per esperienza e capacità. In altre parole i più indicati per entrare a far parte di un settore nuovo come l’astronautica, dove ogni cosa sarebbe stata essenzialmente sperimentale. Con tutte le incognite e i rischi associati.

Molti piloti mandarono il proprio curriculum e furono inviati alle visite mediche e ai colloqui necessari. Worden si trovava in Inghilterra, presso il Centro sperimentale inglese. Fu fatto rimpatriare, superò i test ed entrò a far parte della NASA come membro di equipaggio.

Gli anni che seguirono furono anni durissimi, come si può immaginare. La disponibilità degli equipaggi doveva essere totale, il lavoro andava ben oltre le canoniche otto ore, spesso durava giorni e notti con appena qualche ora di sonno. Si lavorava anche nei fine settimana. Inoltre i centri della NASA e le sedi dove venivano costruiti i veicoli spaziali, i centri di addestramento e i simulatori di ogni tipo erano sparsi per tutto il paese. Gli astronauti dovevano attraversare gli Stati Uniti in lungo e largo, migliaia di chilometri che percorrevano a bordo del caccia biposto T38. Questo meraviglioso addestratore veniva usato come aereo executive personale. Ogni astronauta ne aveva uno e lo usava per andare dove serviva, quasi come un’automobile.

Allo scopo di estendere il raggio d’azione degli astronauti, la missione Apollo 15 ebbe in dotazione il Rover lunare che è ritratto nella foto accanto al Modulo Lunare con a bordo l’astronauta Irwin.

Worden era sposato con Pamela. Avevano una figlia e poi ne ebbero un’altra. Ovviamente la moglie restava da sola per periodi lunghissimi e aveva sulle proprie spalle la responsabilità della famiglia della quale mancava sempre un elemento importante. I trasferimenti erano molto frequenti, bisognava cambiare stato, città, casa. Una vita dura.

Tutti questi disagi non andavano certo a favore di una serena unione familiare.

Dopo alcuni anni anche Worden si trova ad affrontare un divorzio. Come quasi tutti i suoi colleghi.

Ci furono almeno due incidenti terribili, in quegli anni. Sapevo già, dalla lettura dei libri di altri astronauti, dell’incendio della navicella sulla piazzola di lancio, di quella che doveva essere la missione Apollo 1 (che per questo cambiò anche nome, anzi, numero), dove persero la vita tutti i tre membri di equipaggio e dell’incidente di volo di due colleghi di Worden, mentre cercavano di atterrare in condizioni di scarsissima visibilità, a bordo di un T38. Morti entrambi.

Ma Worden rivela in questo libro anche altri incidenti di cui non sapevo nulla.

La moglie Pamela, però, sapeva eccome. E aveva cominciato a capire che il lavoro del marito era estremamente pericoloso. E non stava mai tranquilla. Aveva visto come altre mogli di astronauti avevano ricevuto la notizia della morte dei loro mariti e si aspettava anche lei, in ogni momento, una visita del genere. Non ce la faceva più.

Durante una cerimonia tenutasi il 30 luglio 2009 al Kennedy Space Center in Florida (USA), Al Worden prese la parola in qualità di ambasciatore del Exploration Award in virtù del notevole contributo che egli fornì al programma spaziale statunitense, in particolare in occasione della missione Apollo 15

In questo libro, Worden mette bene in evidenza tanti elementi, compresi i rischi inerenti al suo lavoro. Diciamo che, leggendo i capitoli, si viene ad avere, via via, una idea molto più chiara di tanti episodi già letti in altri libri.

L’autore è un tipo deciso, caparbio, meticoloso. Sa scrivere in modo molto vivido ed ha le idee chiare su ogni cosa. Si percepisce dalla lettura, ma oggi si può anche fare riferimento ai tanti video di Youtube. Andate a vedere il tipo, come è oggi, come parla e come si muove. Ha una simpatia innata, modi amichevoli e tranquilli, ma si vede la decisione in ogni suo gesto.

Negli anni che hanno preceduto il suo divorzio da Pam, tanto per fare un esempio, sperimentava i voli sub-orbitali, utilizzando un velivolo F104 modificato. Decollava, saliva ad un livello altissimo, accelerava al massimo, poi tirava su il muso in una ripida cabrata che lo portava oltre il limite dell’atmosfera, intorno ai cento chilometri di quota. Il motore veniva spento e l’aereo entrava in una traiettoria balistica che per alcuni momenti avveniva in uno strato basso dello spazio. Poi ricadeva nell’atmosfera, il motore veniva riacceso e si tornava a terra, spesso atterrando sulla superficie dura e liscia di un lago asciutto della California.

Chuck Yeager, il famoso pilota sperimentale, aveva già perso un velivolo in questo modo e si era dovuto lanciare. Nel lancio, il canottino gonfiabile che aveva addosso, aveva preso fuoco e per spegnerlo e sganciarlo si era ustionato le mani.

Come dare torto a Pamela?

Alla fine, sia pure in condizioni di massima civiltà e senza liti, i due si separano.

Al Worden ne parla nel libro.

Although I will always regret that my marriage to Pam did not work out, once it ended I saw I never could give her what she needed in life. She wanted stability and comfort. That wasn’t me”.

“Sebbene sarò sempre rammaricato che il mio matrimonio con Pam non abbia funzionato, una volta finito mi sono accorto che non avrei mai potuto darle ciò di cui lei aveva bisogno nella sua vita. Lei voleva stabilità e comodità. Quello non ero io”.

E dice che solo due mesi dopo il divorzio Pam venne a trovarlo a casa insieme al suo nuovo compagno. Il suo nome era Jim e a lui piaceva lavorare dalle nove alle diciassette, tornare a casa mettere le pantofole e fumare la pipa.

Beh, certo, era tutto un altro tipo di uomo. Dice Worden:

Pam had found happiness, at last”. “Pamela aveva trovato la felicità, alla fine”.

A testimoniare il grande lavoro svolto dagli astronauti della missione Apollo 15 questa foto ritrae Irwin mentre svolge la perforazione della superficie lunare nel corso delle innumerevoli prospezioni geologiche che gli furono affidate. Sulla Luna non si andava solo a passeggio ma anche a lavorare. Da notare la tuta alquanto sporca. All’indomani dell’annullamento della missione Apollo 20 e, subito dopo, anche delle 19 e della 18, l’Apollo 15 divenne una missione del tipo “J”, con attività scientifica avanzata e dunque, in particolare, fu curato l’addestramento geologico degli astronauti 

Gli scienziati che contribuivano a preparare le missioni lunari erano interessati soprattutto a scoprire l’origine geologica del suolo lunare e delle rocce che erano presenti intorno ai crateri. Pensavano che i crateri fossero originati dall’impatto di meteoriti, ma volevano scoprire se fossero anche il risultato di eruzioni vulcaniche.

Negli anni, prima della missione Apollo 15, Worden fece tanto addestramento in giro per l’America, per essere in grado di riconoscere e distinguere l’origine di ogni roccia, se era vulcanica o no.

Divenne quasi un geologo lui stesso, ma nell’ultima missione, Apollo 17, la NASA mandò sulla luna un geologo vero, come ho scritto nella recensione del libro di Gene Cernan.

I capitoli si susseguono, il racconto della vita operativa di Worden contiene tanti aspetti che altri, nei loro libri, non hanno neppure sfiorato. Si impara, da questo libro. Devo dire che la missione Apollo 15 ha avuto molti più compiti delle precedenti, molti più esperimenti da portare a termine. Una delle pareti del modulo di servizio, quello che contiene il motore e resta in orbita lunare insieme al modulo di comando, in un tutt’uno che si separerà solo poco prima del rientro nell’atmosfera terrestre, era letteralmente zeppa di strumenti, sensori e macchine fotografiche.

Le pellicole impressionate, gli archivi con le registrazioni di tutti questi strumenti dovevano essere recuperati nel volo di rientro perché il modulo di servizio non era destinato a tornare a terra. Worden portò a termine questa operazione (E.V.A. Extra vehicular activity) nel primo terzo di percorso tra la Luna e la Terra. Nessuno aveva mai fatto questo. E’ la passeggiata spaziale più lontana dalla Terra di sempre. E da lì poteva vedere Terra e Luna contemporaneamente.

Worden rimase in orbita lunare da solo per sei giorni, mentre i suoi due colleghi scendevano al suolo a bordo del LM (Lunar Module). Ad ogni giro intorno alla Luna fotografava e mappava la superficie con strumenti di ogni tipo. Un lavoro enorme. Gli strumenti erano in grado di rilevare la presenza di qualunque elemento chimico, gas o particella, specialmente di origine vulcanica.

La recopertina del bel libro di Warden

Una cosa curiosa che Worden riporta nell’ambito di questa ricerca è abbastanza impensabile e non mi sarebbe mai venuta in mente, se lui non l’avesse detta.

Ad un certo punto, mentre orbitava e faceva rilevamenti con i suoi sensori, questi hanno scoperto la presenza di particelle di origine terrestre e che… non dovevano essere lì. Ma subito il fatto aveva trovato la sua spiegazione.

Durante il viaggio verso la Luna, in tre giorni e mezzo, è umano che si debbano espletare le tipiche funzioni fisiologiche. Sia la pipì che il resto veniva messo in apposite buste, sulle quali veniva segnato il nome, l’ora etc. Questi reperti sarebbero stati studiati al rientro. Ma a volte il contenuto veniva inserito in uno scomparto che lo sparava fuori nel vuoto spaziale. Però nello spazio ci sono altre leggi fisiche. La nuvola di scorie non si disperdeva, ma seguiva la navicella, anche quando questa entrava in orbita intorno alla Luna. In una di quelle orbite, i sensori ne avevano rilevato la presenza, con una certa sorpresa per l’astronauta che operava quei sistemi.

Bene. Fin qui, a parte la meticolosità e l’abbondanza delle descrizioni e la vividezza del modo di narrare dell’autore, potrei quasi dire che si tratta di un normale libro scritto da un astronauta.

Worden era al suo primo volo spaziale, a differenza di altri che avevano partecipato alle missioni Gemini. Veniva da anni di addestramento, da studi di tutti i tipi, corsi di geologia e voli parabolici per simulare la condizione di assenza di gravità. E da lunghe sessioni subacquee per simulare la cosiddetta attività extra veicolare (E.V.A. o extra vehicular activity).

Era entusiasta e aveva un gran rispetto gerarchico per i superiori, compreso il suo comandante Dave Scott. Ed era animato da un grande senso di cameratismo e amicizia per l’altro membro di equipaggio, James Irwin.

E forse proprio per questo, poco prima del lancio, avvenne qualcosa di sconcertante, di banale e allo stesso tempo di gravissimo. Qualcosa che avrebbe rovinato la carriera di questo grande pilota e grande uomo. E dopo aver portato a termine la missione in maniera tanto perfetta. Dopo aver fatto molto di più di altri astronauti. E dopo aver ricevuto continui elogi e riconoscimenti per la perfezione della sua opera, sia dai colleghi, che da tutto l’apparato di controllo a terra e sia dai membri del congresso e dalla Casa Bianca.

Cosa era successo?

Il lettore lo scopre sin dalle prime parole della prefazione, scritta da Worden stesso.

It was the worst day in my life. I’d had low points before. A failed marriage. Friends dead in car wrecks, aircraft, and spacecraft. This day was almost worse than death. Everything I had worked towards over a lifetime of service was ruined, and I was all alone. Yust a few months before, heads of state had onored me. Congress asked me to address them. I was called a hero. Now I was clearing out my rented apartment, loading boxes into a trailer, and preparing to leave Houston forever. I’d been fired in disgrace and frozen out by my colleagues. I had lost everything: My career, and the respect and trust of those for whom I would have given my life”.

Sono poche le fotografie che sono rimaste nella storia dell’astronautica. Ebbene una di queste è proprio quella scattata dalla missione Apollo 15 in fase di allontanamento dalla superficie terrestre e in viaggio verso la Luna

Era il giorno peggiore della mia vita. Avevo già avuto punti bassi prima. Un matrimonio fallito. Amici morti nei rottami di un’auto, aereo e veicolo spaziale. Questo giorno era quasi peggio della morte. Tutto ciò per il quale avevo lavorato attraverso una vita di servizio era rovinato, ed ero solo. Pochi mesi prima, capi di stato mi avevano onorato. Il congresso mi aveva invitato a fare un discorso. Ero stato chiamato eroe. Ora stavo pulendo il mio appartamento in affitto, caricando scatole in una roulotte e mi preparavo a lasciare Houston per sempre. Ero stato scacciato e scaricato dai miei colleghi. Avevo perso tutto: la mia carriera ed il rispetto e la fiducia di coloro per i quali avrei dato la vita”.

Parole terribili. Specialmente se le leggiamo già all’inizio di un libro.

Il giorno di cui Worden parla si riferisce all’estate de 1972. La missione Apollo di cui aveva tanto onorevolmente fatto parte risaliva al 1971. Pochi mesi erano passati, ma un grande guaio era scoppiato, come una bomba ad orologeria.

A questo argomento sono dedicate tante pagine, perché si tratta di una cosa complessa. Ma per sintetizzarla al massimo, diciamo che si era trattato di qualcosa di molto banale. Tutti gli equipaggi, ad ogni volo, portavano con sé alcuni gadget che poi, una volta tornati, avevano acquistato valore per essere stati nello spazio. Figuriamoci se erano stati addirittura sulla luna.

La missione Apollo 15 ebbe inizio il 26 luglio 1971 dal complesso di lancio 39 A del Kennedy Space Center in Florida. C’erano a bordo l’astronauta David R. Scott, comandante di missione, Alfred M. Worden, pilota del modulo di comando e servizio(CSM) e James B. Irwin, pilota del modulo lunare (LM)

Nel corso delle missioni ai semplici gadget si erano aggiunte certe buste affrancate, con annulli che ogni filatelico avrebbe pagato a peso d’oro. Il comandante Dave  Scott, nella missione Apollo 15, ne aveva portate centinaia, un po’ per l’equipaggio stesso, quindi anche per Worden, e un po’ per alcuni  personaggi estranei. Questi faccendieri, alla fine della missione avevano subito messo in vendita le buste, facendo scoprire un illecito che la NASA si era trovata a dover giustificare, con grande imbarazzo, verso l’opinione pubblica e verso il governo degli Stati Uniti.

Ovviamente non era consentito trarre vantaggi economici da una professione per la quale si era già pagati.

La vicenda entra in una spirale perversa, passano decenni prima che se ne venga a capo. Alla fine la colpa si riduce ad un illecito di scarso valore e tutti sono riabilitati, ma intanto la rovina era fatta.

In età già avanzata, ecco l’autore del libro che lo presenta alla stampa. Gli fanno da sfondo il Modulo Lunare e due manichini debitamente attrezzati che simulano la discesa sul suolo lunare

Jim Irwin si ritirò subito e andò in pensione, Dave Scott rimase, ma ebbe comunque gravi ripercussioni nella carriera.

Worden, invitato a lasciare la NASA e a rientrare nei ranghi dell’Aeronautica, dove la sua carriera sarebbe stata comunque compromessa, ci pensò sopra per alcuni giorni. Poi, il suo carattere indomito si rifiutò di subire la conseguenza di una stupida leggerezza indotta più che altro dall’intraprendenza del suo comandante. Lui aveva solo acconsentito per rispetto gerarchico, ma non aveva mai pensato di lucrare su una cosa del genere.

Perciò decide di rifiutare l’invito e di passare al contrattacco.

Chi leggerà questo libro vedrà come si svolgono i fatti negli anni successivi.

Il danno era fatto, ma…

Giusto per la cronaca, in questa missione c’è stato anche un altro elemento di rilievo che Worden mette bene in risalto. Dave Scott e Jim Irwin, durante i giorni passati sul suolo lunare, si sottoposero ad un lavoro estenuante. Il loro cuore si era talmente affaticato da preoccupare gli scienziati a terra già durante il volo di rientro. Infatti richiesero loro di indossare sempre un sensore per tenerli sotto controllo continuo. Senza comunque rivelare che almeno Jim rischiava una attacco di cuore in ogni momento.

Dave Scott si riprese abbastanza bene. Irwin no. Ebbe problemi, subì interventi chirurgici e alla fine, nel 1991, solo venti anni dopo essere tornato, morì di infarto. Nella sua vita successiva alla missione Apollo e al pensionamento si era dedicato interamente alla religione. Della quale non aveva mai parlato prima. Strani effetti della Luna.

Senza dubbio l’Apollo 15 ha tante cose particolari che lo caratterizzano. Al Worden ne parla diffusamente.

Ma ce ne è anche una che riguarda l’ultima parte della fase di rientro, quando si devono aprire i paracadute che frenano la caduta della navicella fino al cosiddetto splashdown sull’oceano.

Prima che la capsula tocchi l’acqua è necessario scaricare il carburante rimanente, quello che alimenta i piccoli getti di stabilizzazione. Si tratta di un elemento chimico tossico. Meglio non rischiare che una eventuale perdita contamini l’acqua. Di solito si scarica nell’atmosfera, dove i forti venti di alta quota disperdono tutto.

Stavolta i venti non ci sono e l’elemento tossico e corrosivo finisce sui paracadute. Uno di questi si deteriora. Grandi buchi si allargano sulla calotta, che si affloscia.

Ecco la famosa foto che ritrae lo splash-down con l’apertura di solo due paracadute su tre disponibili. Era il 7 agosto del 1971 e la navicella si trovava più o meno al centro dell’Oceano Pacifico, 330 miglia a Nord di Honolulu, nell’arcipelago delle Hawaii. Ad attenderli c’era un elicottero lanciato dalla nave USS Okinawa

Anche un secondo paracadute incomincia a bucarsi, ma per fortuna la navicella ammara prima che succeda il peggio.

Su Youtube si trovano i video sulla discesa della navicella. Uno dei paracadute è quasi chiuso.

Oppure, per chi volesse approfondire l’argomento, ci sono tante foto, filmati e articoli sul sito www.alworden.com.

Una frase conclusiva che sintetizzi tutto quanto esposto sopra?

Un gran bel libro.

Vale la pena cercarlo e scaricarlo sul Kobo. Anche se per farlo dovesse essere necessario comprare anche il Kobo.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)



Didascalia della Redazione di VOCI DI HANGAR

 

Nota della Redazione

Tutte le fotografie presenti in questa recensione sono state prelevate gratuitamente dallo splendido sito web Apollo archive che vi invitiamo a visitare in lungo e largo. Troverete centinaia di scatti a colori e in bianco e nero che ripercorrono le missioni Apollo nonchè le pre e post Apollo. Ricco di didascalie e di ulteriore materiale collaterale, è un sito divulgativo cui non smetteremmo mai ti attingere. Perchè se è vero che la storia, per essere viva,  deve essere vissuta, ebbene siamo certi che questa è la migliore opportunità offerta a coloro che vogliano farlo davvero



 

Forever young

titolo: Forever Young.  A life of adventure in air and space –  [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]

autore: John W. Young e James R. Hansen

Prefazione di: Michael Collins

editore: University Press of Florida

ISBN: 978-0-8130-4209-1

Anno di pubblicazione: 2012





Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.

Una fase molto delicata del decollo dello Space Shuttle quando, raggiunta una quota già elevata e una fortissima accelerazione, i due booster (i razzi laterali che forniscono la mostruosa spinta necessaria per sfuggire alla gravità terrestre) si sganciano dal sebatoio centrale. Da notare i fumetti posti sulla sommità dei razzi laterali che consentono loro di divaricarsi allontanandosi rispetto alla traiettoria in vertiginosa salita dello Shuttle.

John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.

Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.

 

 

Gli Space Shuttle o STS (Space Transportation System, come piace tanto agli statunitensi, maniaci degli acronimi) furono lanciati in orbita per la prima volta il 12 aprile 1981 mentre portarono a termine la loro ultima missione il 21 luglio 2011 dopo aver effettuato 135 lanci dal Kennedy Space Center, Florida (il buon vecchio Cape Canaveral delle missioni Apollo). Dunque 30 anni di onorato servizio che non hanno risparmiato loro periodi di grande successi ed entusiasmo cui hanno fatto da contraltare periodi bui con incidenti, riduzioni drastiche di fondi, ritardi e modifiche del programma spaziale. Ad ogni modo, come nella migliore tradizione statunitense, ora gli Shuttle sopravvissuti fanno bella mostra in vari musei. Quello ritratto è l’Atlantis e si trova conservato proprio nel museo ricavato all’interno del John F. Kennedy Space Center da dove partì per l’ultima missione, appunto, del programma Space Shuttle. La statistica ci rivela che questo gigantesco aliante spaziale effettuò un totale di 33 missioni trasportando complessivamente 191 persone di equipaggio e trascorrendo nello spazio 306 giorni 14 ore 2 minuti. Non vi riveleremo il numero delle orbite che lo videro ruotare attorno alla Terra nè i milioni di chilometri percorsi … semmai potremmo ricordarvi che lanciò ben 14 satelliti e fornì un contributo fondamentale per la realizzaione della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Grazie, Atlantis!

John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.

Ho imparato moltissime cose, in questo libro.

 

La prima volta in cui lo Shuttle Columbia fu lanciato verso lo spazio per poi rientrare felicemente a Terra, ai comandi c’era proprio l’autore del libro: il pilota collaudatore nonché astronauta John Watts Young. Era con lui il solo copilota Robert Crippen e la missione era la STS-1. Non c’erano altre persone a bordo né carico pagante fatto salvo l’insieme di apparati utilizzati per il controllo e la registrazione di un’infinità di parametri di volo. Si trattava infatti di una mera missione di collaudo. A differenza delle navicelle fino ad allora utilizzate della NASA, non era stato possibile testare la navetta con comandi remoti benché fossero stati effettuati diversi i voli nell’atmosfera grazie al Boeing 747 ritratto in questa foto in volo, scortato dai jet della NASA. Come previsto il Columbia atterrò in volo planato sulla pista ricavata nel lago Rogers, un bacino asciutto dove aveva (e ha tuttora sede ) la base dell’Air Force di Edwards in California, e per la prima volta nella storia dei programmi spaziali della NASA, non occorse recuperare in mezzo all’Oceano la capsula discesa sulla Terra grazie al sistema a paracadute.

La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di Space Shuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.

Le dimensioni dello Space Shuttle sono facilmente intuibili se raffrontati a quelli di un velivolo noto come il Boeing 747 Jumbo jet o alle dimensioni “umane” del manovratore al suolo. A giudicare da questo primo piano dell’Endeavoir non si tratta proprio di una pulce. L’istantanea fu scattata presso il Kennedy Space Center nel settembre 2012 in procinto di trasferire la navetta presso il California Science Center di Los Angeles. Quel trasferimento costituisce virtualmente l’ultimo volo di uno Shuttle nell’ambito del relativo programma. Dopodichè solo musei!  Foto della NASA/Bill Ingalls

Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.

Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.

E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.

Quando si parla di Space Shuttle, inevitabilmente vengono alla memoria i tanti film prodotti dall’industria cinematografica statunitensi che hanno visto quali protagoniste queste navette. La prima pellicola che ci ritorna in mente è il visionario “Moonraker – Operazione spazio” del 1979 in cui un disinvolto 007- James Bond (interpretato da un mirabile Roger Moor) scorrazza nello spazio a bordo di uno Shuttle. E così i suoi amici e nemici; tutti dotati di Shuttle come fossero gli scooter del futuro. Ma il film più pirotecnico che rammentiamo è “The core”, uscito nelle sale nel 2003 e ricco di effetti speciali notevoli. A causa di una spaventosa tempesta eletrtomagnetica, lo Shuttle Endeavour in fase di rientro nell’atmosfera, si trova a 129 miglia dal previsto luogo di atterraggio (la base di Edwards in California). Che fare? Solo grazie al sangue freddo del comandante di missione e all’intuizione del suo copilota (donna), metterà le ruote (o meglio la pancia) nel canale artificiale Los Angeles nel cuore della popolatissima Los Angeles, appunto. Un inizio di film ad altissimo tasso di adrenalina che, normalmente, vi lascerà a bocca aperta e deglutizione azzerata. Bellissima la simulazione (?) di quanto accade allo Shuttle durante il rientro in atmosfera.

Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.

Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.

Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.

 

 

Nella storia del programma Space Shuttle furono ufficialmente costruite sette navette. Il Challenger rimase distrutto durante il lancio del suo decimo volo nel gennaio 1986. Perirono i sette membri dell’equipaggio. Il Columbia segui la sua stessa sorte durante il suo rientro in atmosfera nel febbraio 2003. Era quello che aveva svolto i primi voli di collaudo. C’era poi il Discovery che è l’Orbiter che ha inanellato il maggior numero di voli. E’ quello ritratto in questa fotografia.Ricordiamo poi l’Atlantis, quindi l’Endeavour che fu costruito dopo la perdita del Challenger. A loro si aggiunge l’Enterprise che è stato il primo Shuttle utilizzato per sperimentarne il trasporto sul dorso del Boeing 747 e che poi ha effettuato prove di vibrazione e le verifiche delle procedure di montaggio. Non è mai andato nello spazio, tuttavia è stato donato al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington. Infine c’è il Pathfinder, una sorta di clone di un vero Orbiter, identico in termini di peso, dimensioni e forma. Venne utilizzato come simulacro per verificare alcune procedure di gestione a terra.
Esiste poi anche una copia dell’Orbiter originale mai usata né per test né per missioni. Si tratta dell’Explorer.

Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.

Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.

Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).

Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.

Prima di riuscire a lanciare nello spazio una macchina volante e, al contempo, una navetta spaziale così avveniristica, la NASA intraprese un programma lungo, travagliato e particolarmente oneroso che ebbe inizio già nel ’69, praticamente all’indomani del grande successo della missione Apollo 11 che permise all’umanità a mettere piede sulla Luna.
L’idea di base dello Shuttle – occorre ammetterlo – era geniale nella sua semplicità tuttavia, quando il salto tecnologico/ingegneristico è così immenso, le difficoltà che si incontrano, inevitabilmente, sono altrettanto immense.
Certamente la NASA fece enorme tesoro degli studi condotti sugli aerorazzi X-1 e X-15, divenuti famosi per aver volato a velocità e a quote per allora impensabili, per non dire “insuperabili”.
Anzitutto sperimentò l’idea di velivoli a fusoliera portante, quindi quelli con ala a delta … ma per arrivare anche solo a definire le specifiche dello Shuttle (da dare in pasto alle ditte aerospaziali) occorsero anni.
Oggi una macchina volante di nuova ideazione prima vola per alcuni mesi, al massimo qualche anno, nei computer degli studi di progettazione: se ne analizzano scrupolosamente i comportamenti e le caratteristiche di volo e si provvede alle opportune modifiche senza aver costruito praticamente nulla. Tutto virtuale, tutto simulato elettronicamente, tutto assolutamente verosimile tanto che i voli di collaudo confermeranno quasi completamente comportamenti e caratteristiche di volo previsti da progetto … ma all’epoca, era tutta un’altra storia. E poi c’era la necessità di materiali nuovi, di soluzioni tecnologicamente nuove mai sperimentate fino ad allora: una sfida immane che ricordava quella – vinta – che aveva consentito alla missione Apollo 11 di scrivere una pagina di storia. Idem per il programma Space Shuttle, nel bene e nel male.
In questa foto dai toni romantici si può vedere lo Shuttle Carrier Aircraft (il famoso 747 modificato) che trasporta lo Space Shuttle Enterprise al tramonto. Che sia stato uno scatto profetico?

Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno Shuttle Orbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.

It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.

 

[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].

Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.

Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.

La patch della prima e dell’ultima missione del programma Space Shuttle. Oltre ai nomi dei membri dell’equipaggio, è facile notare come siano presenti in ciascun logo rispettivamente la lettera ALFA e la lettera OMEGA. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. L’inizio e la fine.

La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.

Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.

Un’altra splendida immagine che pone il risalto l’accoppiamento Space Shuttle-Jumbo jet. L’idea, in verità non era del tutto nuova nella storia dell’aviazione … ma lo era in astronautica o in cosmonautica (detto alla sovietica)

Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.

Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.

Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.

Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.

Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.

Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.

Quasi tutte, però, sono state ignorate.

Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.

Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.

Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.

E non dimentichiamoci che il signor Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortale accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – è stata utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia

Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.

Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.

Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.

Un giovane John Watts Young in posa per la foto di rito prevista per tutti gli astronauti del programma Apollo. In realtà egli aveva cominciato quale membro del programma Gemini e terminerà la carriera con il programma Space Shuttle. In effetti, all’inizio della sua carriera professionale, era stato pilota della US Navy e, prima ancora di arruolarsi, aveva studiato tecnica del volo presso il Georgia Institute of Technology laureandosi con il massimo dei voti.

Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.

L’autore in posa davanti allo Shuttle durante una cerimonia di commerazione del XXV anniversario del primo lancio della navetta. L’evento si tenne nel 2006 presso il Kennedy Space Center. Young aveva lasciato definitivamente la NASA dopo 42 anni di servizio alla splendida età di 74 anni. Nel 2012 ci ha regalato questa pregevole autobiografia mentre ci ha lasciato per sempre alla venerabile età di 87 anni a causa di una banale polmonite

E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.

Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.

Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?

[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].

Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.

Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.

Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.

E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.



Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Il volo dell’incursore

titolo: Il volo dell’incursore

autore: Stephen Coonts

editore: Sperling paperback

anno di pubblicazione: 1986

ISBN: 88-7824-127-X

 





Mentre cercavo un libro tra le centinaia che si allineano sulle mensole della mia libreria mi è capitato tra le mani questo volume e subito l’ho messo da parte con l’intenzione di rileggerlo.

Lo avevo già letto parecchi anni fa e non una sola volta. Da questo libro è stato tratto un film, uscito nel 1991, che all’epoca avevo visto e mi era piaciuto molto.

Oltre a rileggere il libro vorrei rivedere anche il film.

L’A6 Intruder (letteralmente tradotto: incursore) fu progettato e costruito dalla Grumman per rispondere ad una specifica richiesta di fornitura della US Navy che aveva necessità di un aereo imbarcato per l’attacco al suolo in condizioni ognitempo. La società di Bethpage ( New York) ebbe la meglio sulle altre aziende aeronautiche facendo tesoro di una considerazione alquanto elementare: il piccolo A-4 Skyhawk, recente acquisto della Marina, era incapace di azioni ognitempo. Benché leggero ed economico, agile e di architettura moderna, si prestava ottimamente al suo ruolo ma non poteva dirsi certo un bombardiere. Di contro, il vecchio A-1 Skyrider aveva una configurazione piuttosto datata (per non dire antiquata) con il suo motore stellare, seppure in grado di un notevole carico bellico. Era una sorta di dinosauro dell’aria, giunto troppo tardi per essere utilizzato durante il II conflitto mondiale, tecnologicamente superato rispetto ai jet che ormai avevano conquistato – occorreva ammetterlo – la supremazia dell’aria. Dunque occorreva creare un velivolo robusto, capace di trasportare elevati carichi bellici, propulso da almeno due motori a reazione, bipost e con un’avionica specializzata. La risposta fu appunto l’A-6. Naturalmente, come voleva la tradizione dei velivoli imbarcati, anche l’Intruder aveva le semiali ripiegabili e questa fotografia lo testimonia.

 

Non esito a definire “Il volo dell’incursore” uno dei racconti più avvincenti che mi siano capitati nella vita. E poi, come pilota, lo considero uno dei pochi che non contiene elementi di disturbo, quali, ad esempio, descrizioni approssimative o inesatte. Di solito, vedendo film ambientati nel settore aeronautico, i piloti sono sempre molto critici. Alla più piccola inesattezza, magari motivata dalla necessità di rendere la storia più avvincente, più facile, comprensibile ed accessibile al grande pubblico, il pilota, invece, si indigna. Punta subito il dito, esprimendo ciò che pensa del film con le più efficaci e vivide parole idiomatiche di frequente uso nell’ambiente aeronautico, che non riporto qui per motivi di decenza.

Mentre leggevo il libro, però, con il più acuto spirito critico pronto a rilevare anche la minima inesattezza, non ne ho trovata alcuna. Le pagine scorrevano, le descrizioni erano tutte perfettamente veritiere, la terminologia impeccabile. Sembrava di vivere nel reale mondo aeronautico.

Tutto si svolge su una portaerei che naviga al largo delle coste del Vietnam. Il protagonista è un pilota di jet, guida una squadriglia di cacciabombardieri che partono dalla portaerei e compiono incursioni nell’entroterra vietnamita, su diversi tipi di obiettivi quasi sempre celati nelle foreste.

L’A-6 Intruder non può certo definirsi un aereo bello a vedersi, almeno non tanto bello quanto i più ben blasonati velivoli che lo precedettero o con quelli con cui condivise i ponti di volo delle portaerei. La sua configurazione biposto affiancati (pilota e navigatore facente anche funzione di bombardiere) era assolutamente inconsueta tra i velivoli del parco US NAVY. Inoltre, rispetto al tronco di coda piuttosto smilzo, la fusoliera risultava abbastanza sgraziata a causa del generoso radome capace però di contenere il potente radar posto nel musone. D’altra parte uno dei punti di forza del A-6 fu proprio la potentissima, completissima e avanzatissima avionica che, all’epoca, lo rendeva pressoché infallibile nelle sue missioni a bassa quota e nella gestione dei più disparati munizionamenti. In questa istantanea è ritratto mentre, in fase di atterraggio, mostra completametne estratti i suoi pittoreschi aerofreni

 

Il jet è un A-6 Intruder. Incursore, appunto.

La storia si svolge sia a bordo della nave sia durante le missioni di guerra.

Il modo di scrivere dell’autore è talmente efficace che si resta incollati alle pagine per ore ed ore. La suspense è talmente densa da prendere il lettore e rendergli difficile anche una breve pausa.

Il pilota, anche lui, anzi, soprattutto lui… ne resta ipnotizzato.

Le descrizioni, tutte le descrizioni, per un pilota sono talmente esatte e veritiere da “vedere” attraverso le parole. Sembra di vedere il paesaggio, il ponte di volo, l’interno dell’abitacolo (anche l’illuminazione del cruscotto strumenti durante i voli notturni), le foreste e le pianure buie o illuminate dalla Luna.

Conoscendo la geografia generale del Vietnam, perfino le descrizioni della penetrazione a bassa quota provenendo dal mare e la descrizione delle virate, a destra o a sinistra o verso punti cardinali o specifiche prue per raggiungere gli obiettivi, risultano esatte. E questo un pilota lo nota.

Incredibile.

Quello ritratto è un A6 Intruder “Green Lizard” (letteralmente tradotto: “Lucertola verde”) al suolo, nell’area di parcheggio della base navale statunitense di Miramar (San Diego – California). Il fotogramma è stato scattato nell’agosto 1975 dal sig Jim Leslie che l’ha resa pubblica nell’ambito di Flickr. Egli precisa che il velivolo era in forza presso il reparto denominato “VA-95”, imbarcato sulla portaerei Coral Sea nell’ambito del Carrier Air Wing 15 sciolto nel 1995, anno in cui anche l’A6 Intruder cessò la sua attività operativa per far posto al ben più moderno F/A 18 Hornet. A proposito della Naval Air Station di Miramar siamo certi che questo nome (storpiatura latino-americano di Miramare, il castello di Trieste voluto a fine ‘800 dal sovrano Massimiliano I d’Asburgo) non vi apparirà del tutto sconosciuto. Fu infatti sede del Fighter Weapons School, ossia l’accademia deli piloti della US Navy, che con il suo programma di addestramento avanzato, formava i migliori piloti da caccia specializzati nel combattimento ravvicinato (il cosiddetto dogfight) e nella difesa aerea della flotta. Erano i famosi TOPGUN. In realtà questa base assurse agli onori del grande pubblico del cinema di azione quando divenne lo scenario dell’omonima pellicola degli anni ’80 che consacrò in giovanissimo Tom Cruise e ci fece conoscere un’affascinante attrice come Kelly Mc Gillys . Supportato anche da una fortunata colonna sonora, il film ebbe un successo strepitoso e dunque può essere considerato, senza ombra di dubbio, un vero e proprio “cult movie” del genere guerra-azione-aviazione. In effetti i cieli californiani stavano alquanto stretti all’intensa attività addestrativa dei piloti militari tanto che negli anni ’90 la “Fightertown” (letteralmente: città dei piloti da caccia) fu trasferita a Fallon, nel deserto del Nevada, ben più adatta alle scorribande addestrative dei TOPGUN.

 

Poi c’è la descrizione delle sensazioni, delle emozioni. Di tutte quelle fasi di volo che comportano una reazione da parte del pilota. Perfino quando, nel bel mezzo di un pericolo imminente, il pilota reagisce con azioni immediate e spesso disperate, senza mostrare emozione alcuna. Almeno sul momento.

E le comunicazioni radio?

Non c’è film o storia narrata che non contenga esempi di comunicazioni radio tra pilota e controllore, ma anche tra piloti e piloti, assolutamente inesatte, sbagliate sotto ogni punto di vista, con terminologia improbabile che nessuno userebbe in aviazione.

Qui no. Tutto perfetto.

Anche se, devo dire, il riporto di posizione trasmesso alla portaerei, da parte del caposquadriglia quando dal mare supera la linea di costa e comincia a sorvolare la terraferma, o viceversa, appare alquanto banale. Nell’intento di non farsi capire da eventuali ascoltatori nemici, il caposquadriglia non dice, ad esempio: “costa superata, entriamo sul continente” oppure: “Lasciata la terra, siamo sul mare”. Usa una forma più ermetica, dice: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi asciutti”, se dal mare è entrato sulla terra. Oppure: “Aquila nera, qui diavolo cinque zero zero, piedi a mollo”, se dalla terra esce sul mare. Non mi sembra ci voglia molto a capire la situazione, anche descritta così. Però è la realtà, la forma di comunicazione realmente usata dalle squadriglie americane durante le vere missioni.

Prodotto in circa 700 unità, Il Grumman A-6 Intruder entrò in servizio nei primi anni ’60 e fu radiato a metà degli anni ’90. Non fu mai venduto alle forze aeree di altri paesi; il loro costo spropositato (circa 43 milioni di dollari USA), non ne favorì certo le vendite. Ebbe il battesimo del fuoco proprio in occasione della Guerra del Vietman le cui intricate vicende costituiscono lo scenario del libro del nostro Stephen Coonts ma, la storia insegna, l’A6 fu utilizzato ampiamente in tutti quegli scenari in cui entrò in azione l’US NAVY, ossia: Libano, Libia, Golfo Persico e financo in Iraq. Dall’Intruder è stato derivato, ed è tuttora utilizzato, un velivolo che si può considerarsi l’erede: l’EA-6B Prowler (predatore) Purtroppo nel nostro paese esso è assurto tristemente all’attenzione delle cronache a seguito della strage del Cermis: nel febbraio del ‘98 un velivolo di questo tipo, decollato dall’aeroporto NATO di Aviano per un volo addestrativo, impattò contro i cavi della cabinovia provocando a morte dei 19 occupanti e del manovratore. Fu un incidente che poteva essere evitato se solo il pilota non avesse volato premeditatamente troppo basso e troppo veloce. La vicenda incrinò non poco i rapporti tra l’Italia e gli USA sebbene, dopo una prima assoluzione, il pilota e il suo navigatore furono degradati e rimossi dal servizio. In seguito il pilota fu incarcerato per alcuni mesi e congrui risarcimenti furono destinati ai familiari dei defunti.

Del resto, anche i nostri piloti che partono su allarme, vengono autorizzati al livello iniziale, espresso in, ad esempio, ventimila angeli, per significare ventimila piedi.

Certo, così un nemico in ascolto capisce ugualmente a quale quota una squadriglia è stata autorizzata a salire.

Però, come dicevo prima, è tutto reale. Tutto corrisponde alla realtà.

Lascio lo svolgimento delle vicende del libro al lettore, che le scoprirà da solo.

Ma voglio mettere in evidenza un elemento di questo libro che, secondo me, ha una grandissima importanza.

La storia si svolge durante la guerra del Vietnam e le azioni descritte sono azioni di guerra. Quindi sono spesso cruente e anche queste sono descritte in maniera impeccabile.

C’è lo spirito americano in ogni pagina.

La retrocopertina del libro di Stephem Coonts, prolifico autore statunitense che ha all’attivo numerosi filoni del genere war e spy story. “Il volo dell’incursore” è il primo nonchè il suo romanzo di maggior successo giacchè è stato l’unico ad avere goduto di una trasposizione cinematografica. Un attento osservatore non potrà fare a meno di osservare che, nella copertina del libro, nel casco del pilota si riflettono delle forme luminose piuttosto inquietanti. O almeno così apparirono agli occhi di chi vi scrive. Quella copertina mi ha sempre dato l’idea, ingenuamente, che il losco figuro fosse un cyborg, sì insomma … un robot dalle fattezze umane alla stregua del mitico Terminator. E invece, solo oggi, col senno di poi e dovendo analizzare le foto per questa recensione, ammetto che si trattava di un umanissimo pilota letteralmente abbagliato dagli schermi luminosi dei numerosi apparati elettronici di bordo.

 

Tra i piloti protagonisti serpeggia il malcontento. Si critica l’assegnazione delle missioni, spesso condotte verso obiettivi inesistenti, come risaie, file di alberi, depositi di carcasse di camion eccetera. Obiettivi di cui non si capisce l’importanza, strategica o tattica che sia. Nulla che possa essere considerato decisivo per uno scopo qualsiasi. Però in queste missioni gli incursori sono presi di mira da tutte le armi nemiche, come contraerea, caccia avversaria e razzi. E ogni volta qualcuno di loro esplode in volo, o viene abbattuto e comunque non rientra.

I piloti si interrogano sull’opportunità di rischiare la vita in una guerra condotta in questo modo e si domandano se la guerra stessa è giusta. Sono legati da una grande solidarietà, basata sulla loro immensa passione per il volo, che è la vera ragione per cui sono lì a pilotare dei cacciabombardieri.

In quegli anni si diceva che le migliori caratteristiche di un pilota militare fossero due: un grande culo e un piccolo cervello. La prima caratteristica aiutava ad essere un pilota molto abile, un manico, perché si è sempre detto che l’aereo si guida con il culo, primo organo di senso in assoluto. La seconda consente di affrontare ogni missione senza troppo riflettere sul fatto che le proprie azioni portano morte e distruzione su vittime spesso inermi, come la popolazione civile. Oppure ci si lascia la pelle.

Nel corso del suo trentennale utilizzo, l’Intruder venne utilizzato principalmente come bombardiere tattico giacché era in grado di trasportare un carico bellico della bellezza di 15 tonnellate. Questa foto documenta l’enormità di munizionamento che il velivolo poteva trasportare (non tutto assieme, beninteso). Anche se non dotato di una notevole velocità (era solo subsonico), era in grado di volare a bassa quota, supportato da un’avionica che, per l’epoca, era letteralmente strepitosa rendendolo a tutti gli effetti antesignano di quanto sarà poi il Panavia Tornado solo alcuni decenni dopo.

Questi piloti, invece, seppure molto bravi, più di altri, visto che decollano ed atterrano sul ponte di una nave, non hanno certo un piccolo cervello. Hanno sentimenti e opinioni personali. Infatti organizzano una vera missione verso un obiettivo degno: Hanoi.

Ovviamente la loro missione non è autorizzata. Qualcuno passerà certamente dei guai. Ma poi…

Chi leggerà il libro vedrà come va a finire.

Intanto, vorrei aggiungere che nel libro, ad un certo punto si profila il personaggio di una ragazza.

La copertina del libro nella sua edizione originale in lingua inglese

Ce ne sono anche altre, ma questa interagisce quasi subito con il protagonista della storia.

Le loro conversazioni e le loro vicende costituiscono un altro elemento avvincente del libro.

Per concludere, vorrei spiegare perché tutta la storia è narrata con la perfezione che ho menzionato sopra.

L’autore, come ognuno può vedere facendo una breve ricerca su Google, parla come un pilota perché è un pilota. Ed ha volato proprio come pilota della marina degli Stati Uniti. Pilotava un A-6 Intruder e ha partecipato alla guerra del Vietnam. Nonostante sul libro, nelle prime pagine, ci sia scritto che questo romanzo è opera di fantasia, che nomi, personaggi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, a fatti e a luoghi realmente esistenti o esistiti è puramente casuale, lui è stato realmente in quei luoghi e ha compiuto quelle azioni.

La locandina del film tratto dal libro “Il volo dell’incursore”. Come tutti gli adattamenti cinematografici di best sellers, la trama del film non riprende perfettamente quella dell libro ma ne adatta i contenuti ai ritmi e alle scene tipiche del cinema. La pellicola, girata ben dopo il grande siccesso di TOP GUN, aveva tutte le carte in regola per riscuotere un buon successo a sua volta. Forse fu per questo motivo che la produzione, per girarlo, investì una cifra davvero notevole (circa 30 milioni di dollari)  … purtroppo ne ricavò poco meno della metà. Sebbene le riprese in volo e le ambientazioni a terra o a bordo della portaerei appaiono di tutto rispetto, assai scadenti (o comunque non proporzionati) risultano gli effetti speciali che, non potendo usufruire dell’elaborazione digitale nata qualche anno dopo, sono a dir poco grossolani. Anche la critica cinematografica statunitense non fu tenera con il film. Diversa fortuna ebbe invece il videogioco che, uscito nel 1990 per piattaforma personal computer, fu reimmesso sul mercato dalla Nintendo in concomitanza con l’uscita del film.

 

Certamente, non esattamente quei luoghi e quelle azioni, ma qualcosa di estremamente simile.

Perciò, pur essendo un romanzo, “Il volo dell’incursore” può essere considerato una eccellente testimonianza storica e come tale vale la pena di cercare il libro sulle bancarelle o in rete, di acquistarlo e leggerlo.

Dopodiché, molti si metteranno alla ricerca anche del film.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

La lunga notte delle aquile

titolo: La lunga notte delle aquile

autore: Paolo Amico

editore: Pagine

anno di pubblicazione: 2004

ISBN: 88-7557-051-5





Le grandi librerie tradizionali dispongono spesso di alcune decine di migliaia di libri nei loro ampi locali; i volumi sono talvolta impilati a formare quasi dei corridoi o disposti più o meno strategicamente in scaffali/espositori. In questo marasma di cultura cartacea è assai difficile imbattersi accidentalmente in libri dall’evidente contenuto aeronautico.

Fatta eccezione per qualche volume di Richard Bach o per i classici di Clostermann o di Saint-Exupery, l‘unica via per procurarseli è conoscerne il titolo, semmai l’autore e chiederne conto al commessa/o nella speranza che il volume sia disponibile, semidisperso in qualche meandro dimenticato della libreria, appunto.

Situazione assai diversa sono invece le librerie on-line o, ancora meglio, le ormai consolidate piattaforme elettroniche che vendono, tra gli altri, anche libri. Nuovi oppure usati, spesso sono volumi venduti a prezzi di realizzo; per non parlare di quelli ormai fuori stampa da molti anni o di edizioni pressoché introvabili in quanto numericamente insignificanti o di scarsissimo (per non dire nullo) interesse per il grande pubblico.

Il merito di questa apparente magia di archeologia editoriale va reso ai potenti motori di ricerca interni che consentono, da casa, in tutta comodità, la scoperta di libri insospettabili fornendo loro parole chiave assai generiche come: “aviazione, cielo, aeroplani” e, talvolta, addirittura termini meno pertinenti quali “aquile, nuvole” e via discorrendo.

Quest’ultimo è il caso – del tutto fortuito, s’intende – che mi ha consentito di scovare il libro di Paolo Amico intitolato: “La lunga notte delle aquile” pubblicato nel già lontano 2004 ad opera di un editore, Pagine, che non può certo definirsi specializzato nel settore aeronautico.

Il romanzo ha quale scenario mirabile l’aeroporto di Guidonia.

Guidonia.

Il risguardo interno del bel libro di Paolo Amico che riporta, appunto, le sue note biografiche

Città dell’aria per definizione, gemellata già da diversi anni con Cape Caveral (la città delle stelle), prese il nome da uno dei pionieri dell’Aviazione italiana, certo ing Guidoni, tragicamente perito nel 1928 durante uno dei lanci prova del paracadute progettato da lui medesimo.

Minuscolo borgo laziale inizialmente abitato da pastori e contadini, Guidonia, durante l’epoca fascista, divenne sede del Centro Studi ed Esperienze (l’equivalente odierno del Reparto Sperimentale di Volo dell’Aeronautica Militare con sede a Pratica di Mare). Questo si concretizzò nella costruzione di un moderno aeroporto, in una serie di laboratori e strutture di ricerca all’avanguardia ove le menti geniali dell’epoca, assieme a ottimi tecnici civili o militari, effettuarono studi ed esperimenti su tutto quanto legato o inerente il mondo del volo. Inoltre, non venne trascurato l’aspetto abitativo sicché, secondo la proverbiale architettura fascista, fu edificato ex novo un razionale nucleo urbanizzato attiguo alla base ove trovavano alloggio i militari e i ricercatori con le rispettive famiglie.

Guidonia oggi, è un popoloso comune a ridosso della cinta urbana di Roma; è letteralmente dilagata su quella calda pianura romana tappezzata di cave di travertino romano, delimitata dai due cocuzzoli ove sono arroccati le località di Montecelio e di Sant’Angelo Romano, guardata a vista dalla blasonata Tivoli e dai monti Tiburtini, anticamera della Sabina e del rustico Abruzzo.

Il risguardo interno del volume “La notte delle aquile” che rende il giusto tributo al pittore Allan O’Mill cui l’autore deve l’immagine di copertina e di retrocopertina del suo volume

Delle strutture di ricerca, oggi, non rimane pressoché nulla di dignitoso, salvo ruderi alla mercé della vegetazione incipiente, l’attività di volo è ridotta ad un lumicino, il centro abitato si è dilatato a dismisura in modo indiscriminato senza un piano regolatore predeterminato.

Così, a Guidonia c’è chi c’è nato, c’è chi ci vive, chi ci lavora, chi consuma le sue vicissitudini quotidiane spesso ignorando, per lo più trascurando semplicemente l’esistenza dell’aeroporto cui la cittadina deve la sua stessa esistenza; oppure c’è chi, come il sottoscritto, ha avuto la fortuna di trascorrere l’infanzia e l’adolescenza a scrutare l’aeroporto di Guidonia. Per inciso, con un modestissimo binocolo tascabile con solo due miseri ingrandimenti, tanto che oggi mi domando se quello che vidi sulla pista o in cielo fosse per merito della mia vista aquilina oppure, più semplicemente, era frutto di allucinazioni dovute ad un genuino entusiasmo giovanile. Difficile dirlo.

Ciò che posso senz’altro confessare è invece che, in età adulta, ho avuto il privilegio di lavorare sugli alianti della Sezione di Volo a Vela dell’Aeroclub di Roma con sede a Guidonia e dunque, in altri termini, ho avuto l’opportunità di attraversare l’ingresso monumentale (di appariscente architettura fascista, neanche a dirlo) della base aerea, percorrere quei viali retrostanti la linea di volo contrassegnati dai resti semidistrutti della vasca idrodinamica e delle palazzine-laboratori, vedere la pista in discesa dal suo punto più alto.

Sottolineo il termine “privilegio” perché dubito che mi verranno concesse altre visite giacché, ahinoi, in seguito di un incidente mortale in cui perse la vita un pilota trainatore e in cui andò completamente distrutto il suo velivolo trainatore, il Volo a Vela civile a Guidonia è stato chiuso definitivamente qualche anno fa, gli alianti venduti e l’hangar (quello famoso accanto alla pista nel suo punto più alto), è stato restituito all’Aeronautica Militare.

Fortunatamente i volovelisti veramente appassionati nati e cresciuti a Guidonia, si sono trasferiti in quel di Rieti, confluiti negli AeroClub che lì hanno sede; purtroppo diversi piloti, meno motivati o meno danarosi, hanno abbandonato definitivamente. E così si è chiusa in modo tragico la storia del club di Volo a Vela geograficamente più a Sud del nostro paese.

La retrocopertina del libro di Paolo Amico che, come tradizione editoriale vuole, contiene un breve sunto del libro. Spicca il bellissimo quadro del pittore Allan O’Mill che riproduce il velivolo Savoia Marchetti S 64 in volo con cui Arturo Ferrarin compì il raid Guidonia-Touros (vicino Porto Natal in Brasile) che gli valse il record di distanza in linea retta di 7188 km senza scalo. La storia racconta che il velivolo decollò stracarico di carburante proprio dall’aeroporto di Guidonia sfuttando la pista in discesa appositamente realizzata per fornire un’abbrivio supplementare al velivolo.

Capirete dunque perché il sottoscritto nutra un particolare affetto per lo storico aeroporto di Guidonia e un po’ meno per il suo rumoroso, caotico e congestionato nucleo abitativo.

 

Ovviamente vi domanderete: perché tutta questa sicumera a proposito di Guidonia, divenuta da diversi anni la terza città più popolosa del Lazio (dopo Roma, s’intende, e Latina)?

Se avrete pazienza di continuare a leggere …

 

Ebbene, tornando al romanzo di Paolo Amico, divorare le sue 175 pagine, corredate da una generosa sezione iconografica e da doverose considerazioni finali, è stato come rivivere i momenti in cui osservavo da casa il sedime aeroportuale, è stato come rientrare nell’aeroporto di Guidonia ma, stavolta, non per motivi professionali. Riattraversare l’ingresso, camminare lungo i viali accanto ai ruderi delle installazioni mai ripristinate, godere della vista magnifica dal piazzale antistante l’hangar dell’Aeroclub … è stato un po’ come tornarci davvero. Ecco perché non stento a credere che, se il romanzo “La lunga notte delle aquile” cadesse nelle mani di qualche buon vecchio volovelista guidoniano, qualche occhio torbido – se non qualche lacrimuccia – lo causerebbe. Provare per credere.

Ma torniamo al libro.

Dopo aver letto il volume di Paolo Amico, se nascesse in voi una qualche curiosità circa il glorioso passato della base della Regia Aeronautica di Guidonia-Montecelio, beh … questo è un volume che la sanerebbe senza ombra di dubbio alcuno. Un’altro libro da tenere nella propria libreria tuttavia fuori stampa già da diversi anni. Vorrà dire che approfitterete della solita piattaforma on-line di vendita di libri usati.

Le vicende narrate nel romanzo sono lineari e geniali al contempo; si articolano a partire da un tardo pomeriggio invernale, proprio sulla pista dell’aeroporto di Guidonia. In effetti da qui si dipanano in due filoni paralleli e distinti: da un lato c’è Marco, allievo pilota di alianti alla prese con il suo volo solista, ossia il suo primo volo in assoluta solitudine (senza l’istruttore a bordo), dall’altro lato, c’è Luigi, un attempato istruttore (manutentore per necessità), che lo attende premuroso a terra come farebbe una chioccia con il suo pulcino.

Tutto sembra filare liscio quando ecco, si consuma il dramma: il tramonto è avvenuto da un bel po’ e il buio cala inesorabile, ma l’aliante non rulla fino alla testata pista sebbene il giovane pilota abbia dichiarato via radio di essere “in corto finale”. Luigi allora dispera prima in un fuori campo, poi in un atterraggio nella vicina aviosuperficie e, infine, come ultima impossibile eventualità, s’insinua in lui l’idea balsana che si sia verificato un evento di cui, a bassa voce e con circospezione, qualcuno è già stato testimone incredulo e, a sua volta, non creduto.

Nel frattempo Marco è invece atterrato perfettamente sulla pista di Guidonia sebbene l’aeroporto gli appaia insolito, diverso. Addirittura non c’è Michele ad attenderlo ed è scomparso il grande piazzale con gli aeroplani al parcheggio o la stessa Torre di controllo.

Parcheggiato l’aliante, il ragazzo sarà invece accolto da un misterioso ufficiale dell’Aeronautica che lo festeggerà con tanto di bottiglia di spumante e bicchieri. Sarà proprio costui che gradualmente, con tatto, lo inizierà al fenomeno sovrannaturale che si sta per compiere.

Se c’è un pilota e un velivolo che non potevano mancare alla “lunga notte delle aquile” raccontata da Paolo Amico, sono Carlo Emanuele Buscaglia e il suo famoso SM 79 Sparviero in versione aerosiluante. Se vorrete sanare la vostra curiosità sull’uno e sull’altro, vi consigliamo di visitare il sito web: “Ali e uomini” all’indirizzo: http://www.alieuomini.it/catalogo/dettaglio_catalogo/savoia_marchetti_sm_sparviero,8.html da cui abbiamo tratto questo splendido cartellone pubblicitario d’epoca

L’evento misterioso è appunto “la notte delle aquile”, una lunga notte invernale in cui l’aeroporto di Guidonia diventa il luogo di raduno dei grandi personaggi e degli aeroplani che hanno segnato la storia dell’Aeronautica Militare italiana. Guidonia è la loro città, la città dell’aria per definizione, il luogo deputato ove piloti, tecnici, progettisti e militari dell’Arma Azzurra possono darsi convegno, salutarsi e confidarsi l’un l’altro una volta all’anno.

Nella finzione narrativa di: “La lunga notte delle aquile”, mentre il giovane allievo pilota Marco sta brindando in compagnia di un certo Umberto Maddalena, il suo istruttore s’imbatte in Bruno Mussolini che, nel grande hangar di Guidonia, sta mettendo a punto i motori del suo bombardiere strategico Piaggio P 108B. Tra i due nasce subito una reciproca simpatia al punto che a Bruno viene spontaneo chiedergli di fargli da copilota nel volo di prova che intende effettuare di lì a poco. La verità storica fu tutt’altro che gradevole giacchè accomunerà in modo tragico Bruno Mussolini e il suo quadrimotore. Tuttavia preferiamo non aggiungere altro in quanto potrete trovare informazioni estremamente esaurienti riaguardo questo sfortunato velivolo e il suo famoso pilota nel sito web: “Ali e uomini” all’indirizzo: http://www.alieuomini.it/catalogo/dettaglio_catalogo/piaggio_p_b,71.html da cui abbiamo tratto il poster pubblicitario che ritrae il P108B

 

Ed ecco allora che Marco si renderà conto che l’enigmatico ufficiale della Regia Aeronautica altri non è che il redivivo Umberto Maddalena, mentre Michele contemporaneamente, avrà addirittura la fortuna di volare con il Piaggio P108B e di conoscere in carne ed ossa Bruno Mussolini che con quel velivolo perse la vita durante un volo di collaudo.

E ancora: avremo modo di conoscere molto da vicino veri e propri monumenti della storia dell’aviazione italiana come: Carlo Emanuele Buscaglia e Carlo Faggioni mentre ci verranno presentati i grandi ingegneri delle costruzioni aeronautiche italiane come: Mario Castoldi, Pegna, Casiraghi, Alessandro Marchetti, e lo stesso Celestino Rosatelli.

Marco e Luigi si ritroveranno finalmente assieme durante quella magica notte e avranno modo di assistere a quella improbabile rimpatriata di personaggi del passato e delle loro macchine volanti a bordo delle quali sono periti o grazie alle quali sono diventati famosi. Nella finzione credibile del romanzo tutti atterrano ordinatamente in successione sulla pista di Guidonia in un tripudio di aeroplani e di equipaggi mentre una gelida Luna osserva stupefatta quel mirabolante convivio.

Assieme a Michele e a Marco avremo così occasione di conoscere, tra gli altri, Arturo Ferrarin, il grande Adriano Visconti, e nientepopodimenoche Italo Balbo o lo stesso Alessandro Guidoni che si concederanno dei discorsi dal palco di questa singolare cerimonia, ponte ideale tra il passato e il presente, tra l’oblio e la memoria sempre viva.

Ai due personaggi principali si aggiungerà poi il generale Guarnieri, Capo di Sato maggiore dell’Aeronautica in carica che con mente aperta e cuore sincero, sarà anch’egli testimone di quella notte e da quella notte trarrà un rinnovato vigore nel portare a termine il suo compito istituzionale.

 

Il messaggio lanciato dal romanzo è dunque facilmente individuato: il mantenimento della memoria storica aeronautica.

Nobile scopo – certamente – facile a dirsi, difficile a praticarsi. Specie in un paese, come il nostro, in cui i cimeli abbondano ovunque e i musei ne hanno gli scantinati pieni; ove le gesta eroiche si perdono nella notte dei tempi e non sono mai mancati – parafrasando una definizione dell’italica nazione – santi, poeti e navigatori.

Una foto dell’epoca ritrae l’entrata monumentale dell’aeroporto di Guidonia. Ad onor del vero, a vederla oggi appare più monumentale di quanto non apparisse allora, Inutile sottolineare che tutte le facciate furono ricoperte di travertino romano estratto in una delle vicinissime cave dislocate tutto attorno all’aeroporto

E’ per questo motivo che personaggi illustri della storia della nostra aviazione – peraltro vecchi a malapena di cento anni o poco più – vengono inesorabilmente dimenticati o, nell’ipotesi migliore, semplicemente ignorati.

Ed è sempre per questo motivo che i luoghi che furono fondamentali per lo sviluppo delle attività aeronautiche nazionali (e non solo) sono state volontariamente o involontariamente lasciate cadere nell’oblio. Mi riferisco ad esempio all’idroscalo di Orbetello dove furono organizzate e presero avvio le Crociere Atlantiche e di cui ci ha dato conto in una recensione il nostro preziosissimo Evandro Detti. Oppure lo stesso aeroporto di Guidonia, crogiolo di ricerche all’avanguardia in molte discipline connesse al mondo aeronautico e al contempo luogo da dove presero avvio mirabolanti imprese come il record di quota di Pezzi o la trasvolata di Ferrarin.

A questo punto occorre una doverosa precisazione: quanto scrive il sottoscritto non è l’espressione nostalgica per un’epoca che non è la propria giacché ormai morta e sepolta dalla polvere del tempo, né intende dare voce ad una consunta dietrologia della serie: “Era meglio quando c’era lui”, giammai. In chi scrive, c’è lo stesso sentimento di rammarico – forse è più corretto definire: di amarezza – che è rinata ed è riaffiorata in tutta la sua genuinità a seguito della lettura del libro di Paolo Amico. La stessa amarezza che ha ispirato il suo autore – ne sono certo – nella stesura di questo libro.

Questo è l’omaggio indelebile che il regime fascista volle tributare al generale Alessandro Guidoni  con una cerimonia cui partecipò Mussolini in persona per la posa della prima pietra. Era il  il 27 aprile 1935, anniversario della morte del Generale, perito in quel medesimo luogo nel 1928.  Oggi quel tributo alla memoria si trova in un’area attigua alla strada principale (Viale Roma) che attraversa tutta Guidonia e che conduce all’aeroporto. E ancora oggi , sebbene soffocato tutto attorno da palazzi e automobili in sosta più o meno selvaggia, quel simbolo della memoria in travertino romano, ricorda degnamente colui che diresse, a partire dal 1927, proprio la Direzione superiore studi ed esperienze (DSSE) dell’aeroporto di Montecelio, divenuto poi di Guidonia appunto

Tornando dunque al romanzo, l’idea di base e l’invenzione narrativa escogitata dal suo autore assumono la forma di una  sorta strumento di denuncia rivolto anzitutto alle istituzioni aeronautiche deputate al mantenimento della propria storia (in primis l’Aeronautica Militare italiana) e poi ai vari enti e associazioni e perché no? … anche nei confronti dell’intera comunità civile troppo spesso indifferente rispetto al nostro passato aeronautico. Una denuncia che – a ben intendere – si esplicita anche nei confronti dei lettori del libro affinché i numerosi personaggi storici che costellano la storia dell’Aviazione italiana e non solo, non diventino un pittoresco corollario ornamentale alle notti inquinate dalle luci artificiali dei falsi miti moderni o delle celebrità effimere dei nostri giorni. Viceversa essi sono veraci stelle di prima grandezza e fanno parte a pieno titolo di quella galassia aeronautica o tecnologica universale; il loro ricordo non può essere appannaggio di pochi sparuti appassionati del settore ma deve essere rinnovato e mantenuto presso le nuove generazioni. In che modo? … magari proprio grazie a dei romanzi come quello di Paolo Amico.

 

A proposito della minuziosa ambientazione degli accadimenti narrati, appare evidente che l’autore ben conosce quei medesimi luoghi giacché – lo rivela la breve biografia – il suo primo approccio al mondo aeronautico fu proprio l’aeroporto Guidonia ove conseguì la licenza di pilota di aliante. Ad ogni modo la realistica descrizione dei luoghi non appesantisce affatto il ritmo del romanzo che, tutto sommato, si mantiene sempre ad un buon livello.

La prosa è fluida, lineare, mai superficiale, anzi, tutt’altro.

Benché non ci sia dato conoscere i trascorsi scolastici dell’autore, si nota nel testo uno scrupoloso sviluppo della trama che – lo ricordiamo – vede operare contemporaneamente più personaggi in diversi luoghi dell’aeroporto. La narrazione non è però dispersiva e non arreca disorientamento nel lettore, forse perché, in questa opera di cesello, Paolo Amico è stato sicuramente aiutato dal “mestiere”, acquisito praticando la professione orafa, giusto appunto coniugato alla metodicità indottagli dall’essere divenuto pilota di aliante e di velivoli poi.

Ad ogni modo il suo connaturato talento letterario abbinato da – immaginiamo – proficui studi umanistici (utili a gestire al meglio la sempre ostica grammatica italiana), hanno reso il testo scorrevole, piacevole, in alcuni punti addirittura avvincente. E questo nonostante alcuni discorsi declamati da illustrissime celebrità storiche di cui sopra.

I personaggi sono tratteggiati con strategica sintesi, sia nello loro caratteristiche fisiche che in quelle caratteriali. A questo scopo risultano utilissime le note a piè di pagina che forniscono invece delle minime informazioni biografiche circa le diverse personalità “evocate” nel romanzo.

In effetti, ricorrere all’artificio tipografico del loro nome in grassetto abbinato alle note appunto, costituisce un pretesto – a mio parere ottimamente riuscito – di innescare nel lettore una certa curiosità, prologo di ulteriori ricerche e di letture specifiche.

Ecco cosa contenevano, ad esempio, le strutture di ricerca, fiore all’occhiella della D.S.S.E. (Direzione Superiore Studi ed Esperienze) di Guidonia. Per dovere di verità occorre riportare che spesso ricorre la notizia di un recupero dell’area storicamente e tecnologicamente significativa ma, al momento, tutto tace. Fa fede l’articolo riportato nel sito di Italia nostra all’indirizzo: https://www.italianostra.org/salvare-le-strutture-della-d-s-s-e-a-guidonia-principale-testimonianza-del-primato-italiano-nellaeronautica-tra-le-due-guerre/ che vi esortiamo a leggere

Non che i grandi protagonisti della storia dell’Aviazione italiana vengano piegati impudentemente dalle necessità narrative dell’autore rimanendone stravolti o rendendoli ridicoli, certo che no, semmai è tangibile il contrario: si avverte tra le righe il profondo rispetto che Paolo Amico nutre nei loro confronti e per le vicende, spesso tragiche, che li resero celebri.

Intendiamoci: questo romanzo non è celebrativo delle loro gesta ma vuol essere, come peraltro sostiene nel libro un personaggio completamente inventato: “… un racconto al limite tra la storia e la fantasia” … e tant’è!

Buona lettura e buoni ricordi.

 

Nota di Redazione: il lettore avrà notato che i nomi dei piloti militari citati in questa recensione sono privi del loro rispettivo grado. Volutamente. Non per svilire la loro posizione nell’ambito della gerarchia militare, tutt’altro. Semplicemente perchè, al di là della loro posizione nell’ambito della Regia Aeronautica condividiamo quanto ha scritto Paolo Amico a conclusione del suo libro:

“Questi piloti li vogliamo ricordare per l’abilità nel collaudare i pericolosi prototipi sperimentali o per il coraggio di percorrere rotte inesplorate in cui nessun aereo aveva mai volato prima. Storie di uomini abili, veloci, coraggiosi, piloti dalla mentalità moderna, spesso precursori di soluzioni scontatamente attuali. Erano imbattibili. Assi della caccia, collaudatori dall’istinto formidabile, trasvolatori dall’intuito incredibile o piloti raffinati, autentici poeti del cielo.”

Non importa il loro grado militare … per noi sono semplicemente “le nostre aquile”.

 





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR