Luciano Serra, pilota

1. Tutto incominciò con una goccia sul pavimento, scura e densa come l’olio minerale che trasuda dai motori tra un volo e l’altro. Ma quando il bambino, o era forse un fotografo o un modellista o un vecchio reduce, sfiorò l’aereo antico protendendosi oltre la catenella, le dita tornarono indietro più bagnate che unte. Chiunque fosse, si lasciò alle spalle il biplano in esposizione da pochi giorni dopo quasi quindici anni di lavoro e proseguì la visita senza segnalare nulla al personale.

2. Quei milleseicento chili di acciaio, alluminio, tela, gomma e vernice erano la nuova gloria del museo, che partendo da un relitto recuperato in Libia aveva pazientemente ricostruito un esemplare completo restaurando il poco che c’era, procurando molto di quel che mancava e ricreando il resto. “La caccia al tesoro più lunga del mondo”, l’aveva definita il direttore durante la cerimonia ufficiale d’inaugurazione. E come dargli torto? I disegni costruttivi venivano da archivi in Olanda, Svezia, Svizzera e Ungheria, riletti alla luce dei manuali italiani e completati da rilievi al vero nei musei di Lelystad, Malmslatt e Dübendorf. La fusoliera era stata sapientemente riportata in vita da un autentico artista della saldatura, che aveva unito i diversi tubi strutturali e creato in opera maniglie, mensole, appoggi di una miriade di tubetti di ogni diametro e spessore immaginabile. Con fresa e tornio un altro grande artigiano dell’acciaio aveva creato piastre e attacchi per reggere ali, carrello, motore e altri elementi pesanti. Un terzo aveva impiegato un’intera batteria di martelli e mazzuoli in legno per trasformare grandi fogli d’alluminio in serbatoi, cofanature e rivestimenti di ogni genere: un colpo qui per una curva lì, senza un grammo di stucco. Il motore era stato assemblato montando sul carter recuperato sotto la sabbia una serie di cilindri, pistoni e bielle copiati dall’unico originale conservato. L’elica in legno era stata rifatta a mano. La grande ala superiore, un monoblocco in legno di oltre quindici metri di apertura, rastremata in pianta e in sezione, con alcune parti rivestite in tela per facilitarne l’ispezione, era stata costruita da un’officina specializzata in Austria; le due semiali inferiori, di dimensioni assai minori, erano opera dei volontari, che lavorandoci una mattina a settimana avevano impiegato tre anni per realizzarle. L’intelaggio era stato compiuto nelle officine del museo, non senza qualche problema sindacale legato all’uso di acetone quale diluente del tenditela. Di fronte alla minaccia di affidare il compito a un istituto tecnico che da tempo si era offerto di collaborare, la soluzione alla fine si era raggiunta. Per completare l’opera erano state necessarie oltre 15.000 ore di lavoro, sparse su un arco di tempo tanto lungo che alcuni dei tecnici che avevano iniziato il restauro non erano riusciti a vederlo completato. Tutto questo, aveva detto il direttore, per “colmare un vuoto a lungo avvertito nelle testimonianze materiali della storia della nostra aviazione”, ma anche per “dimostrare quel che è ancora possibile fare nonostante il momento così difficile per il settore dei beni e delle attività culturali, pubbliche o private.” Il tocco finale era stata la verniciatura: appena un centinaio di ore, ma sufficienti a dare ai visitatori l’impressione complessiva per giudicare tutto quello che a loro era invisibile o sconosciuto. Scegliere i colori non era stato facile, perché dell’originale non restava nulla. In più, gli oltre 600 esemplari costruiti avevano prestato servizio per oltre 15 anni con una cinquantina di squadriglie, scuole ed enti vari, con una varietà infinita di colori e stemmi. Così il museo aveva formato una speciale commissione per decidere quale livrea applicare al redivivo biplano, chiamando esperti delle estrazioni più varie: ufficiali e storici, rappresentanti delle associazioni d’arma e professionisti del restauro, modellisti e (anche se qualcuno aveva storto il naso) internauti. Dopo un lungo dibattito, con toni talvolta aspri, la scelta del direttore era caduta sulla proposta meno ortodossa: rappresentare non l’esemplare reale, del quale quasi tutto era conosciuto, ma uno ideale, proprio per sottolinearne a un tempo la dimensione mitologica e l’essere più vicino alla ricostruzione composita che all’originale restaurato. Così il biplano era diventato quello che compariva nella scena madre di un celebre film, il primo girato nella nuova città del cinema di Roma, acclamato alla mostra del cinema di Venezia del 1938. La livrea, in verità, era sin troppo semplice avorio su tutte le superfici, tricolore in coda, fasci alle estremità alari, nessun codice o insegna. Un’eresia, per alcuni, ma un colpo di genio per il direttore, al quale barattare la storia con la pubblicità sembrava un’ottima idea. “In fondo la difficoltà tecnica di riprodurre fedelmente una livrea di fantasia è la stessa che per una reale, no? E allora lo faccia e basta,” aveva tagliato corto di fronte alle obiezioni del curatore.

3. Il primo ad accorgersi ufficialmente delle perdite fu un addetto alle pulizie. Dopo aver passato lo straccio per tre giorni di seguito senza risultati conclusivi, si risolse a chiedere che sotto il biplano venisse messa una delle bacinelle con la segatura – o la sabbia, o gli inerti, o qualsiasi altro materiale adatto – che si usano in hangar. Le gocce si formavano sotto l’abitacolo, lentamente, fino al momento in cui la forza di gravità prendeva il sopravvento sulla viscosità per farle precipitare nella vaschetta con un breve suono soffice, per trasformarsi subito dopo in una macchiolina scura. A fine giornata sembrava di guardare la lettiera del gatto, bianchissima salvo la palla nell’angolo. Quando questa diventava troppo grande, l’addetto gettava la segatura in un bidone e la sostituiva senza chiedersi troppi perché. Il primo a capire che qualcosa non andava fu il curatore, un laureato in conservazione dei beni culturali con idee piuttosto vaghe in storia dell’aviazione ma molto scrupoloso. Fu proprio durante il suo giro settimanale in hangar che l’occhio gli cadde su una vaschetta che non aveva mai notato prima. Nessuno ricordava con esattezza da quanto fosse lì – una settimana? un mese? due? Motivo in più per chiarire cosa stesse accadendo al gioiello della corona, al quale era particolarmente affezionato avendovi dedicato gran parte della propria attività professionale degli ultimi sette anni. Il lunedì, approfittando della chiusura settimanale, gli uomini della sezione manutenzione rimossero la bacinella, stesero in terra dei grandi teli e avvicinarono le borse degli attrezzi. Poi, indossati dei sottili guanti di plastica che li facevano somigliare a infermieri o polizia scientifica, iniziarono a rimuovere le viti dei pannelli di rivestimento. Trattandosi di un aereo fresco di restauro, le operazioni procedettero speditamente. Nel giro di mezz’ora il lato anteriore destro era completamente libero, così come il ventre di fusoliera. Uno specialista armato di macchina fotografica si sdraiò su un carrellino da meccanico e si trascinò sotto il biplano; un secondo, rischiarandosi la strada con la torcia elettrica, infilò la testa tra il motore e la paratia parafiamma. Non c’era molto da controllare, in verità. Come tutti gli aerei della propria epoca, il biplano era tanto grande quanto vuoto. L’impianto idraulico non c’era e quello elettrico consisteva di pochi fili, che comunque non potevano perdere alcunché; altrettanto valeva per i comandi di volo attuati con cavi e pulegge, il cui pur abbondante grasso protettivo era troppo pastoso per potersi sciogliere e colare. Nei tubi che correvano tra i serbatoi e il motore non c’era altro che aria, perché non era mai stato fatto alcun pieno di benzina o d’olio. La faccia interna dei rivestimenti, non importa se in tela o lamiera, era immacolata, come su tutti gli aerei freschi di restauro ai quali solo il lento scorrere del tempo avrebbe conferito una patina di autenticità. Come gli aveva detto una volta uno dei restauratori, “I miei aerei non perdono olio!”.

4. “Il biplano non perde olio, Direttore.” “E allora cosa sarebbe questa sostanza che cola?” “Sangue.” “Mi faccia il piacere. Ho studiato abbastanza medicina per ricordarmi che il sangue è un tessuto connettivo allo stato liquido che nei vertebrati, molluschi e crostacei porta alle cellule ossigeno e nutrienti e porta via da loro i prodotti catabolici.” Aspettò qualche secondo, il tempo necessario affinché la frase passasse dalle orecchie ai loro cervellini ristretti, e lasciò partire l’affondo. “Con buona pace di piloti, ingegneri e letterati, gli aerei storici non rientrano in alcuno di tali taxa.” “Non potrei essere più d’accordo con lei, Direttore. In mezzo a questi tesori è facile farsi prendere la mano dal romanticismo,” disse il curatore. “Si figuri che c’è persino qualcuno convinto che questi muti e alati testimoni ci parlino.” “È per questo che confido nella vostra professionalità per mettere a tacere le sciocchezze”, rispose il direttore con l’affabile magnanimità che amava esibire quando i suoi collaboratori facevano autocritica. “Basterà un emocromo per confermare che le macchie rosse sono di vernice, come nel Fantasma di Canterville.” “Il problema è proprio questo, Direttore. Ho qui i risultati dell’emocromo dell’ospedale, della nostra infermeria e di un laboratorio di analisi esterno. Per eliminare qualsiasi dubbio li ho fatti fare in modo anonimo, con tre campioni portati da persone diverse. Il risultato è identico.” Gestire le pause in modo melodrammatico è un gioco che si può fare in due, pensò prima di scandire le sillabe successive con l’abilità di un attore consumato. “Sangue. Per la precisione AB negativo.” “Cosa intende fare?”, disse il direttore, subito in agitazione di fronte al rischio di una marcia indietro comunque imbarazzante.

5. Il curatore digitò il numero del capotecnico con lentezza, preparandosi a un buco nell’acqua. “So che la domanda ti sembrerà strana, ma devo fartela lo stesso. Si è fatto male qualcuno durante il restauro?” “Male?”, ribatté la voce dall’altra parte dell’Italia. “In che senso?” “Tagliato … ferito …”, disse il curatore con un imbarazzo che andava tramutandosi in fretta di chiudere una conversazione surreale. “Magari durante l’installazione del motore, o comunque mentre lavoravate sulla parte anteriore.” La risposta giunse dopo una lunga pausa, durante la quale il capotecnico tirò una lunga boccata dal mezzo toscano che teneva in bocca. “Veramente no.” “Sei proprio sicuro? Nessuno ha … versato sangue a bordo?” “Nessuno, certo. Ma perché me lo chiedi?” “Perché sono tre giorni che dal biplano cola sangue, e non riusciamo a spiegarcelo.” “Forse non dovreste chiederlo a un vecchio metalmeccanico come me, ma a un esorcista”, grugnì il capotecnico chiudendo bruscamente una conversazione che non stava andando da nessuna parte.

6. Alla stessa conclusione giunse poche ore dopo il direttore, annunciando la propria resa di fronte a un evento che sembrava sfuggire a ogni esame razionale. Di fronte alla possibilità di dover togliere dall’esposizione il suo nuovo tesoro, l’aereo che dopo il battage pubblicitario tutti chiedevano subito di vedere, la battuta del capotecnico si trasformava in una diagnosi di necessario pragmatismo. “Mi chiami Padre Siluro”, disse al capo segreteria con un’indifferenza troppo affettata per essere vera.

7. Padre Siluro non aveva mai visto un siluro in vita sua, neppure al museo. A dirla tutta non era neppure il cappellano della base, ma solo il parroco del paese accanto che per la mancanza di sacerdoti si era ritrovato con un doppio incarico. “Un po’ come fare l’assistente ecclesiastico ai lupetti”, aveva detto quando aveva appreso la notizia. I militari avevano risposto affibbiandogli il soprannome dello storico cappellano degli aerosiluranti durante la guerra. L’infelice battuta era stata presto dimenticata ma il soprannome era rimasto e aveva rimpiazzato del tutto il nome, che i più giovani non avevano mai sentito pronunciare. Per Padre Siluro il guaio era che gli esorcismi rientravano solo in via teorica tra le competenze di un moderno curato di campagna. Se si escludevano vaghi ricordi dei tempi del seminario e pochi brani evangelici ormai considerati poco più che aneddoti legati alla mentalità dell’epoca di Gesù, la sua preparazione specifica non era molto maggiore di quella del metalmeccanico. Senza dimenticare che secondo il diritto canonico la nomina degli esorcisti spetta al vescovo e che ciò, nella sua diocesi, significava arrivare al sommo pontefice o, quanto meno, al suo vicario. La sola idea lo terrorizzava. Chiedere la nomina a esorcista avrebbe scatenato chissà quale indagine per accertarne le prescritte caratteristiche di pietà, scienza, prudenza e integrità di vita, con annesso rischio – in caso di mancato possesso – di trasferimento in chissà quale parrocchia a centinaia di chilometri di distanza, in un quartiere di frontiera o in una terra di camorra. Ma anche non rispondere a una richiesta dei parrocchiani presentava dei rischi, rifletté Padre Siluro, che era quanto di più lontano si potesse immaginare da un prete combattivo. Qualcuno avrebbe potuto lamentarsi e accusarlo di trascurare i propri doveri pastorali, scatenando un’indagine non dissimile da quella le cui conclusioni paventava. Né si poteva trascurare un certo desiderio di rivincita. L’unica cosa sulla quale da parroco non aveva ancora invocato la protezione divina era un aeroplano. Aveva benedetto un numero infinito di cani, gatti e mucche, ettari di campi da seminare e tante case da costruire, tre nuove officine e due campi sportivi, una scuola pubblica e un asilo privato. Ma niente che volasse. La causa era la scaramanzia dei piloti, alcuni dei quali non volevano essere fotografati prima del volo, rifiutavano di volare sugli aerei il cui numero di codice era o assommava a 17 e cambiavano strada se incrociavano un prete mentre andavano in aeroporto. Come rifiutare il proprio ministero quando erano loro a invocarlo, di fatto riconoscendo al magistero della Chiesa quel ruolo che spesso nella vita trascuravano? Per fortuna la soluzione era a portata di mano. Nella sua infinita saggezza, Santa Romana Chiesa prevedeva il ricorso all’esorcismo solo dopo aver esperito inutilmente ogni altro tentativo, a partire da quelli alla portata di qualunque sacerdote, senza necessità di richiedere particolari autorizzazioni. “Una benedizione solenne e una preghiera di liberazione non si negano a nessuno,” pensò Padre Siluro, parafrasando papa Leone XIII. “O era Vittorio Emanuele II? Bisogna che controlli prima del rito, se non voglio fare la figura di un don Abbondio qualunque. ” Congratulandosi per la brillante idea, prese il ricevitore e chiamò il Direttore per fissare data e orario. “Per me andrebbe bene giovedì alle 11”, annunciò, millantando un’agenda fitta di impegni. “Se proprio è impossibile farlo prima, andrà bene anche per noi”, sospirò una voce venata di agitazione. Nella piccola comunità museale le voci dell’aereo che sanguinava correvano già. Tra non molto sarebbero girate in tutto l’ambiente. Magari persino all’estero. Il disastro incombeva.

8. Ufficialmente non ebbe mai luogo alcun rito. In molti però ricordano di essere stati convocati improvvisamente dal direttore – che, in verità, avrebbe preferito fare tutto di nascosto, ma non aveva saputo opporsi validamente alle richieste di Padre Siluro – per la benedizione del biplano. “Una cosa del tutto ordinaria, come ne abbiamo fatte tante”, aveva aggiunto, anche se i vecchi del museo non ricordavano alcun invito analogo. Come Padre Siluro ebbe pronunciato l’amen finale, il gocciolamento cessò. Il sospiro collettivo di sollievo sembrò risucchiare il profumo che aleggiava nell’aria. A rigore i riti officiati non prevedevano l’uso dell’incenso, ma il parroco l’aveva aggiunto per dare loro maggior solennità e distogliere l’attenzione dal fatto che non si trattava di un esorcismo vero e proprio. La notizia del grande risultato ottenuto con apparente facilità si diffuse velocemente, aumentando a dismisura la reputazione del parroco, che ebbe subito a constatare non solo l’aumento delle presenze domenicali ma anche quello delle offerte. Incominciò a farsi vedere persino il direttore, che per anni aveva giustificato le proprie assenze con la frequentazione della parrocchia del paese accanto. Purtroppo il successo fu di breve durata. Dopo qualche settimana il problema si ripresentò con più forza di prima. Oltre che sotto l’abitacolo, le gocce comparivano ora anche davanti al ruotino di coda. Fu necessario ripristinare la bacinella e aggiungerne una seconda, con il risultato di richiamare sull’anomalia l’attenzione anche dei meno esperti. Nei giorni successivi le gocce divennero prima più grandi, poi più frequenti e infine più rosse. A quel punto il direttore decise che il problema era troppo grave per essere ignorato, nel senso che rischiava di esplodergli in faccia e danneggiare – se non addirittura distruggere – l’immagine di brillante innovatore che si era costruito dribblando critiche e attacchi solo in parte ingiustificati. Formò quindi una commissione ristretta per studiare il problema e, in alternativa, condividerne la colpa. Perché, era chiaro, nell’aria volteggiavano avvoltoi pronti a cibarsi della sua carcassa. “Bisognerà togliere il biplano dall’esposizione e portarlo in officina per un controllo completo”, si espose il curatore, sempre a disagio quando si trattava di esprimere opinioni personali davanti ai superiori. “Forse addirittura smontarlo per un secondo restauro.” “Ho sottovalutato l’intensità della possessione demoniaca”, disse con gravità Padre Siluro. “L’infestazione è assai più forte dei poteri di un parroco. Temo che non ci sia alternativa che rivolgersi al Vicariato affinché invii un esorcista professionista.”

9. “È ’ncazzatissimo. Mica ce vole tanto pe’ capirlo.”. Sorpresi dalla voce romanesca che li strappava ai ragionamenti sullo stato del biplano che avevano davanti agli occhi, il direttore, il curatore e Padre Siluro sobbalzarono. Lo guardarono come fosse un marziano. Tutti lo conoscevano come lo Zio, ma pochi sapevano come si chiamasse. Aveva baffoni bianchi rigorosamente asimmetrici accompagnati a capelli scompigliati altrettanto bianchi. L’età era imprecisabile, ma i suoi racconti di un’epoca a cavallo tra i grandi motori a pistoni e i primi jet e l’aspetto canuto gli conferivano una reputazione di enorme saggezza. Sembrava conoscere tutti e tutto, civile o militare che fosse, e quando c’era qualcosa da dire non tentava neppure di trattenere la lingua. “È incazzato per come l’avete conciato, senza nessun rispetto per la sua storia. Quante volte ci avete raccontato la favoletta secondo cui ‘A un aereo glorioso si deve lo stesso rispetto che a una persona’? Ecco, lui vi sta ricordando cosa succede a non farlo”, proseguì. “Mi faccia il piacere”, lo interruppe paonazzo il direttore, reagendo all’attacco di qualcuno che non poteva licenziare o punire. “Se devo credere al curatore, tre quarti degli aerei qua dentro fingono di essere quello che non sono.” “Mettiamola così. Lui la storia l’ha fatta combattendo per davvero: bombe, gas e tutto il resto. Fino a restarci, insieme al suo equipaggio”, sottolineò con un rispetto tanto profondo da suonare di preparazione per il successivo rimprovero. “Poi arrivate voi, resuscitate i suoi resti mortali e lo tirate a lucido per recitare in un melodrammatico polpettone di regime conciato come un damerino. E secondo voi non avrebbe dovuto incazzarsi?”. La domanda rimase in sospeso, senza trovare risposta. A togliere tutti dall’imbarazzo fu di nuovo lo zio, che girò sui tacchi e scrollò le spalle. “E consideratevi pure fortunati”, lo sentirono bofonchiare mentre si allontanava. “Ve la cavate con quattro mascherine, due pennelli, un barattolo di nero e uno di rosso. Niente spese aggiuntive, niente secondo restauro, niente esorcista.”

10. “Pochi giorni dopo il biplano ricevette le insegne che porta ancor oggi e smise di sanguinare,” spiegò la guida volontaria agli studenti di chissà quale istituto, trascinati al museo da un insegnante annoiato almeno quanto loro. “O almeno così mi raccontò il maresciallo la prima volta che venni qui in visita. Ma io a queste cose ci credo meno che ai grifoni, agli hobbit e ai sarchiaponi …”, disse, lisciandosi i baffi bianchi da vecchio zio. C’è chi dice di avergli visto anche strizzare l’occhio, come per dire capisc’amme …


Narrativa / Medio-Lungo Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

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