Mio figlio, il pilota

La signora Redward era partita presto, quel mattino, perché aveva curato di pensare ad ogni cosa per tempo fin dalla sera prima. Si era preparata delle tartine, di quelle che piacevano a suo figlio John, che lei sapeva fare così bene fin da prima del suo matrimonio; aveva disposto, di fianco alla porta, per non dimenticarsene, la borsa con dentro l’impermeabile, perché di quella stagione non si sa mai, ed il termos pieno di tè, dissetante e senza zucchero; gli abiti che avrebbe indossato erano già pronti sulla poltrona in camera sua: la gonna scura e la camicetta pesante, lo scialle che le aveva portato suo marito da Boston e il cappotto, quello con le due ampie tasche che erano tanto comode quando si doveva spostare. Aveva anche fatto la sera prima quelle pulizie che poteva, giusto per evitare di trovare un disastro in casa al suo ritorno. Quel mattino, dunque, la signora Redward non perse tempo e fu alla stazione degli autobus un buon quarto d’ora prima della partenza. Non fu difficile, per lei tanto mattiniera, uscire così presto, benché le prime ore dei suoi giorni si svolgessero solitamente in casa, indaffarata alle faccende domestiche. Di solito usciva solo più tardi, per le spese. La signora Redward approfittò dell’attesa per annotare mentalmente i conti e gli acquisti che le sarebbe toccato fare l’indomani, perché quel giorno non avrebbe avuto tempo per altro che per John. D’altronde, da quando suo marito Arnold era morto, non aveva più molte cose di cui occuparsi nell’appartamento troppo grande. L’autobus non era affollato alla partenza, ma lei sapeva che si sarebbe riempito alle fermate successive. Quelle poche volte che aveva potuto recarsi alla base aerea, parecchi chilometri lontano, aveva sempre trovato qualche persona simpatica con cui passare il tempo del viaggio. Come montò fu salutato dall’autista, il figlio di una cara amica. “Buongiorno, signora Redward, andiamo alla base?” “Certo, caro Mick, però non sapevo se partire, questa mattina. Non vedo l’ora di arrivare, sapesse la gamba come mi ha dato fastidio ieri… Spero di non avere problemi durante il viaggio, sa com’è lungo.” “Non si preoccupi, signora, andrò tanto leggero che le sembrerà di stare seduta a casa davanti al televisore.” “Ma non è colpa sua, Mick, è che quando si diventa vecchi non va mai bene niente.” Mick sorrise, perché sua madre era piuttosto simile alla signora Redward, che nonostante la sua età parlava di vecchiaia solo per amore di dialogo. Era stata spesso malata, anche da giovane, ma non si era mai lamentata. Ora però… “A proposito di televisione, sa che oggi c’era una puntata che mi interessava, sul canale sei? – disse lei – stanno per prendere il colpevole della truffa all’agenzia di Rhoda News, e…” Mick trattenne a stento una risata. Quel giorno aveva accolto con piacere la notizia di un altro viaggio nel pomeriggio, proprio perché in tal modo non si sarebbe trovato a casa mentre trasmettevano quella robaccia. La signora Redward guardò fuori dal finestrino tutto quello che della cittadina era visibile. “Guarda, pensò, hanno affittato la vecchia casa di Mildred.” Continuò a rimuginare: “Il tetto sopra alla drogheria sarebbe ormai da rifare. Chissà cosa aspettano, una casa tanto bella.” L’autobus si avviò con moderata pigrizia verso il consueto viaggio, ed in breve arrivò alla fermata successiva, dove si riempì di pendolari. Erano tutte facce sconosciute, e vicino alla signora Redward si mise un signore assonnato e poco incline alla conversazione. “Buongiorno” fece alla donna, che lo guardava cordiale. “Buongiorno” rispose lei e, dopo un attimo: “Mi chiamo Clara Redward, sta andando al lavoro?” Senza attendere la conferma scontata aggiunse: “Io vado a trovare mio figlio alla base aerea.” Era orgogliosa di questo. “È lontano” commentò l’uomo. “Oh, ma non troppo. Sa, ho portato delle provviste, perché allo snack a metà strada alle volte le cose non sono preparate troppo bene. Comunque in una giornata vado e torno, e ho tempo di stare un poco con mio figlio. È pilota, sa?” “Pilota?” “Sì, pilota di quegli apparecchi che usano adesso, i jet da caccia. Ma mio figlio li collauda pure, quei cosi.” Il signore si limitò ad un sorriso e Clara Redward cambiò argomento. “Ha fatto colazione? Vuole una tartina?” e trasse rapidamente un pacchettino dalla sua borsa. “Le ho preparate io. Senta se non suono buone.” Il signore accettò perché non sapeva come rifiutare. “Buono” disse, un po’ sorpreso. “Sì, vero? Le preparo da anni sempre con la stessa ricetta, che ho imparato da ragazza. Ma ogni tanto ci aggiungo qualcosa di fantasia.” Il signore sorrise ancora e si accomodò più comodamente sul sedile. La signora Redward ricambiò il sorriso e si mise a guardare il paesaggio. Pensava che suo figlio, con la giornata che era, doveva essere uscito leggero, e ora che minacciava pioggia magari si trovava lontano dal suo alloggio. Glielo aveva detto fino alla nausea di stare attento al clima, prima di uscire, ma John non aveva mai fatto caso a niente, sempre perso nelle sue fantasie. Fin da ragazzo aveva avuto un carattere sognante, la testa fra le nuvole, e ora fra le nuvole ci stava davvero spesso. I chilometri si susseguirono rapidamente; il signore la salutò di fretta e scese. Due fermate dopo il posto venne preso da una donna ancora piuttosto giovane. Il suo aspetto era fresco, ma aveva un’espressione abbattuta. Salutò distrattamente la gentile anziana signora vicina al finestrino e si sedette rigida guardando avanti a sé. “Buongiorno” le fece Clara “sta andando in città?” “Sì, all’ospedale” rispose lei. “Lavora lì?” La donna scosse il capo. “Oh! C’è qualcuno? Suo marito?” “Sì” mormorò appena la donna. Clara non osò farle subito qualche altra domanda, perché si accorse che aveva gli occhi lucidi. Tirò fuori il termos e con noncuranza riempì due bicchierini. La signora Redward aveva sempre cura di portare diversi bicchierini con sé. Ne porse uno alla donna che lo prese senza parlare, con un fugace sorriso. Sul suo volto si dipinse un attimo di sorpresa. “No, non è caffè. Il tè è più dissetante e non fa così male. Mio figlio John non aveva mai bevuto caffè fino all’età di quindici anni, perché a casa non se ne parlava neppure. Infatti anche mio marito…” Si accorse che stava toccando un argomento penoso. “Coraggio cara” disse, con un gesto di familiarità che la sua età le permetteva “non so cosa sia, ma non può essere tanto grave.” “Oggi si opera, sa, non ha mai avuto nemmeno un raffreddore…” ma non sapeva continuare. “Oh, e mi dica: che operazione è?” chiese la signora Redward. “Si chiama ectasia, sì; è un danno all’aorta.” “Ah, ma ne ho sentito parlare!” disse allegra. La signora Redward era un’assidua ascoltatrice di trasmissioni mediche. Era solo in quelle circostanze che i dottori le davano un qualche affidamento. “Davvero?” fece la donna con interesse. “Certo: è un’operazione ormai comune, la fanno ovunque senza problemi.” “Spero che abbia ragione, signora.” disse la donna con un mezzo sorriso, e in un baleno si ritrovò il bicchierino pieno di tè. Familiarizzarono ancora un poco, finché la donna fu arrivata e scese. Da quel momento l’autobus, che aveva toccato i quartieri periferici della città, si avviava per un tragitto alquanto lungo, attraverso una campagna quasi interamente coltivata e due altri centri abitati. I passeggeri rimasti erano i pochi che quel mattino partivano per qualche destinazione lontana. Intanto il sole aveva preso il posto delle nubi, riscaldando la strada. Poco oltre, un bivio indirizzava fuori dallo Stato sulla sinistra, mentre a destra già si poteva intravedere la base militare. La signora Redward stette da sola a pensare. Ritornò alla volta in cui suo marito si era sottoposto a quell’operazione allo stomaco; alla preoccupazione che provava per lui. Ma suo marito aveva un carattere deciso, ed era seriamente intenzionato, così le disse: “Clara, sono seriamente intenzionato a non permettere ai miei guai di togliermi il buonumore.” Così le disse, la volta che lei aveva per un attimo rivelato la sua ansia. Non le era occorso molto tempo, dopo sposata, per imparare che con suo marito non si poteva nemmeno mostrare disagio; le sembrava che nel suo profondo fosse sicuro di poter conquistare il mondo solo perché così gli andava. Alle volte questo atteggiamento l’aveva infastidita, perché Arnold le ricordava quei politici alla televisione, tutti presi dall’impegno di sembrare la persona giusta, piena di risorse. Suo marito almeno non aveva la pretesa di essere onnipotente, ma lei l’aveva visto spesso interdetto di fronte alle difficoltà, solo per non averle prese in considerazione prima. E spesso lei si era dovuta impegnare per trovare rimedio a qualche guaio di troppo; una volta aveva davvero creduto che non ce l’avrebbero fatta: Arnold aveva deciso di comprare quella casa e aveva cambiato lavoro; si erano ritrovati con debiti da tutte le parti, un figlio piccolo e tanto lavoro per tirare avanti. Anche Clara aveva impedito ai problemi di deprimerla, ovvero ci aveva provato. Suo marito aveva passato la vita studiando il modo di mettersi in difficoltà, e sembrava che non riuscisse a stare tranquillo se tutto andava bene. Clara non capiva il perché di tanto affanno: gli aveva detto in più occasioni: “Stiamocene tranquilli, Arnold, abbiamo fatto la nostra parte, ora godiamoci i risultati.” Ma lui rispondeva: “Lo dobbiamo fare per noi stessi e per John. Voglio che nostro figlio possa dire che abbiamo fatto il meglio per migliorare la nostra posizione.” Non era stata una vita noiosa, con Arnold, e il vuoto improvviso dopo la sua morte le era parso addirittura incolmabile. D’altra parte, adesso la tranquillità le giungeva gradita, ad un’età in cui non si vorrebbe mai dover ricominciare daccapo, con un figlio grande e ormai autonomo. John… anche lui un conquistatore. Aveva un carattere al peperoncino, lo dicevano fin da piccolo; sempre ad arrabbiarsi ogni qualvolta il mondo non gli obbediva. Adesso la base era di fronte a lei, e le batté il cuore più forte al pensiero che stava andando a vedere quel suo figliolo, che ormai nessuno tranne lei ricordava piccolo. Quel giorno doveva essere libero, e solitamente l’aspettava fuori dai cancelli. C’erano spazi in abbondanza, nel parco interno, ma lui l’aspettava sempre fuori. Dov’era? La signora Redward si guardò in giro, appena scesa, ma non lo vide. Entrò nell’ufficio all’ingresso e vi trovò quel capitano, come si chiamava? “Buongiorno, signora!” Il capitano, che era amico di suo figlio, non ebbe difficoltà a riconoscerla, ma sembrava sorpreso di vederla. “Buongiorno, caro, hai visto John?” L’uomo guardò l’altro militare alla scrivania: “Non sapevo che oggi fosse libero.” “È Redward?” disse l’altro “Io so solo che non escono dall’hangar da ieri.” “L’hangar? Quale hangar? Che ci fa?” chiese Clara. “Stanno provando un aereo” disse il capitano “e hanno dei problemi per la messa a punto. Nulla di serio, ma sa com’è; credo che non sappia nemmeno che giorno è oggi. Venga.” Con esagerata gentilezza, il capitano le prese il braccio e la guidò all’interno della base. Clara si sentiva piuttosto delusa. Da settimane avevano progettato l’incontro di quel giorno, e adesso scopriva che suo figlio non se ne ricordava neppure. Seguì il capitano fino ad un palazzo, vicino alle aree riservate, e giunsero ad un ufficio la cui ampia finestra dava sulle piste più lontane. “Resti qui, signora; vedo se riesco a trovarlo” le disse l’uomo, e si allontanò dopo averla fatta accomodare. Clara era un poco perplessa. Rimase a guardarsi attorno, col pacchettino delle provviste che non sapeva dove mettere, in imbarazzo ogni volta che qualcuno, passando, metteva la testa dentro. All’improvviso, da lontano, le giunse il rombo di un aereo; non era il primo da quando era giunta, ma questo la fece avvicinare alla finestra e vide, sulla pista nello sfondo della base, quasi confusa col tremolio del calore che si alzava dal suolo, la forma di un sottile aereo che prendeva quota un po’ troppo rapidamente, così le parve, e che andava un po’ troppo veloce. Per qualche ragione, le venne in mente che avevano parlato di un nuovo caccia, e che suo figlio forse era proprio lì a bordo. Il suo precedente imbarazzo fu dimenticato, mentre lei seguiva le evoluzioni troppo elaborate dell’apparecchio. “Perché tutti quei rigiri?” si chiese Clara. L’aereo stava provando se stesso: provava la sua velocità, assaggiava il morso dell’aria contro le sue lamiere; si spostava di lato, all’improvviso, come per un’idea bizzarra che lo chiamasse altrove. “Non dovrebbe fare così”, pensava Clara, e l’aereo si alzò rapidamente, con l’urgenza di arrivare chissà dove, ma non in linea retta: cercava qui e là, un equilibrio o una sicurezza. Arrivò infatti, là dove doveva. Prese nuovamente l’assetto orizzontale, e cominciò un tragitto più calmo, come se l’altezza raggiunta non richiedesse più l’affanno di chissà quale ricerca, ma con un’aumentata velocità, quasi nella sicurezza della meta. Successe di schianto: Clara ebbe un sobbalzo, mentre qualcosa si staccava e rimaneva indietro, con uno scintillio presto svanito. L’aereo sbandò, si mise per un attimo di pancia, e iniziò una discesa, più lenta ma tanto, tanto più atroce della salita. Clara non poteva pensare ad altro che a quel giocattolo che si abbassava ondeggiando; pareva qualche persona indecisa sulla direzione da prendere, o uno che a letto non trovasse la posizione per dormire. Clara fu sorpresa di ridere alla strana associazione: quell’aereo non aveva nulla di ridicolo nella discesa. Fu con un sospiro di sollievo che lo vide rallentare la caduta, riprendersi. Si rimetteva in linea, ce la faceva! Fu appena ai limiti della sua consapevolezza che annotò l’accorrere di parecchia gente alla pista di arrivo, mentre l’aereo atterrava, dopo tutti i guai, tranquillamente; lo si sarebbe detto lieto di avere finito. Clara si rese conto di avere le mani indolenzite, strette come si erano al davanzale. Non poteva restare a guardare, e se John fosse stato lassù? Si mosse per uscire, ma la pista era troppo lontana. Rimase alla finestra e guardò in giro, cercando John fra quelli che accorrevano, ma non c’era. Dopo un tempo lunghissimo arrivò il capitano. “Tutto bene, signora. Non è successo niente.” “Ma cos’è stato? E John?” “Non è successo niente, signora, venga, la porto da suo figlio.” L’uomo l’accompagnò con un’auto fino ad un’altra palazzina. Lei era tanto stanca, emozionata e confusa; appena giunti si sedette. Nell’altra stanza voci concitate sembravano commentare i fatti. “Ti dico che era quello!” diceva qualcuno “La stabilità era compromessa nelle strutture dell’ala sinistra.” Clara riconobbe la voce di John, e proprio lui arrivò nella stanza insieme ad altre persone. “Succede tutto durante le accelerazioni” stava dicendo “Mamma! … oh!” Solo allora si ricordò di che giorno fosse; si avvicinò alla donna e l’abbracciò. Clara non sapeva cosa dire. “John, cosa succede? Credevo che oggi fossi libero. Cos’è capitato con quell’aereo?” “Niente di grave, mamma. Ci sono dei problemi ma li stiamo risolvendo.” “Ma c’eri tu lassù?” Clara non si era ancora ripresa dall’emozione. “Sì, certo, ma…” “John, è pericoloso!” “Andiamo, mamma, ne abbiamo già parlato.” entrò dell’altra gente “Ora ti devo lasciare con Fred, ma torno subito. Devo discutere qualcosa. Ci vediamo.” Mentre qualcuno lo chiamava e un altro gli prendeva il braccio dette un’occhiata al capitano, che lo guardava con disapprovazione. L’uomo aveva tenuto un atteggiamento protettivo fin da quando si erano incontrati. John e tutti gli altri sparirono in un turbinare di discussioni. Clara rimase con il capitano di prima, frastornata. Fred, ora si ricordava il suo nome, l’accompagnò su un’auto al bar della base. Fu solo dopo aver bevuto lentamente un altro tè che fece la domanda. “Fred?” “Sì, signora?” “John ha rischiato grosso, oggi, è vero?” Fred abbassò lo sguardo, non per evitare l’altro, ma per trovare le parole. “Vede, non è che sia successo qualcosa di grave. Alcune sovrastrutture, nemmeno complete, hanno ceduto, e così l’aereo si è trovato improvvisamente senza l’assetto giusto. John ha dovuto rimediare a naso, e ci è voluto il suo tempo.” “Ma come si fa, dico io. Non è mica il modo, questo. Salire con un aereo che non va ancora bene…” “È proprio per vedere cosa non va che si deve provare. Se nessuno lo usa, un aereo rimane un sogno ad occhi aperti.” Clara ebbe un gesto di fastidio. “Quando ero una ragazzina, feci a tempo a veder volare i biplani, e da allora ne hanno costruiti di tutti i tipi. Ma a che serve? Non ci sono già apparecchi abbastanza veloci? Cosa mai avrà questo nuovo, che non abbiano anche altri?” Fred sorrise, senza rispondere. Altri aerei si stavano alzando. Clara si domandò oziosamente dove andassero, e nel figurarselo si abbandonò alla fantasia. Pure a lei sarebbe piaciuto andare in qualche posto, se solo avesse avuto un aereo come quelli… magari indietro negli anni. La sera, ormai, era vicina. Tutti i fatti del giorno le avevano fatto volare la giornata, e Clara pensò che ormai non c’era molto tempo. Guardò il grosso orologio appeso al muro. “Fra poco ripassa l’autobus, signora. Vuole che l’accompagni all’uscita?” “Grazie, Fred. Non mi ero accorta di quanto fosse tardi. È stato molto gentile a tenermi compagnia. Certo, se quello svanito di mio figlio mi avesse almeno avvertita, si poteva rimandare.” “Io un po’ lo capisco;” disse lui avviandosi” ha visto com’era eccitato? Scoprire cosa non andava era il suo chiodo fisso da parecchio, ormai. Credo che gli sarebbe venuto un colpo se non avesse risolto i problemi.” “Vuol dire che è grazie a John se quell’aereo volerà?” Era difficile non farsi contagiare. “Non proprio. Si devono rifare alcuni calcoli, fare prove a terra, ma oggi hanno rotto il guscio della noce.” Clara rise al paragone, anche se in fondo sentiva, chissà perché, una certa tristezza. Erano giunti all’ingresso e si sentiva odore di erba; forse era per quello. “Mi spiace signora, ma fra poco dovrò andarmene.” “Non importa, caro Fred, sei stato proprio un tesoro.” “Vedrò se John potrà liberarsi un attimo.” Il capitano esitò ad allontanarsi; poi, con un cenno impacciato del braccio, si mosse e Clara si voltò a guardare la strada, nella direzione da cui doveva comparire l’autobus. La pianura le permetteva di vedere assai lontano, ma non si vedeva ancora. “Le mattine sono più allegre delle sere.” meditò fra sé. Le venne in mente quando da ragazzi suo marito la portava fuori la sera. I suoi tentativi di fare il romantico fallivano perché Clara non era mai dell’umore giusto. Lei in compenso ricopriva Arnold di moine quando si vedevano al mattino. Arnold… Una nuvoletta lontana attirò la sua attenzione, e con dispiacere capì che era l’autobus. Guardò indietro, ma John non si vedeva. C’era ancora l’altro soldato all’ingresso, e le dava fastidio che la vedesse in quella doppia attesa; non le era mai parso bello farsi vedere ansiosi. I colori della sera stavano cambiando, e Clara, che non aveva più la vista di una volta, doveva socchiudere gli occhi per seguire l’autobus; non voleva perderlo di vista, come quando al cinema c’erano scene paurose e non sapeva distogliere lo sguardo; come un daino che non perde di vista il puma che l’insegue; come di solito si tiene desta l’attenzione su quello che ci preoccupa. Le venne in mente che forse poteva rimanere senza benzina. Magari poteva forare, tanto su quella strada non c’era pericolo. “Mamma!” Clara si voltò. “John, che diamine. Ti pare bello sparire così? Credevo proprio di non vederti nemmeno per un attimo.” “Quel figlio di una vacca ha voluto rifare conti finché non l’ho mandato a quel paese.” “John! È questo il modo di parlare? Cosa ti hanno insegnato in Accademia?” “Scusa mamma… E scusa anche per il bidone.” Clara se lo guardò per benino. “Era così importante?” E gli occhi di lui furono un’esplosione di entusiasmo. “Mamma! Era la prima volta che guidavo le prove pratiche, a terra e in volo. Non poteva esserci una cosa più importante di questa. Cioè, non proprio, voglio dire…” Clara rise, perché se lo conosceva bene quel ragazzo. Lo baciò, mentre sentiva l’autobus fermare davanti alla base. John la seguì fin dentro, si accertò di procurarle un posto al finestrino, e si salutarono semplicemente. “Mamma, credo che dopo questa faccenda potrò essere libero per un po’. Se riesco, vedrai che riusciremo a stare insieme a casa.” Era piuttosto stanca, la signora che si apprestava al lungo tragitto verso casa. Casa… Non vedeva l’ora di mettersi a letto. Per quel giorno aveva fatto tanto e aveva combinato poco. Però, che testaccia di figliolo le doveva capitare. Quel ragazzo era tremendo alle volte. Si corresse: quell’uomo. Quanti anni aveva adesso; e quanti ne aveva lei? Le era sempre piaciuto guardare fuori dai finestrini, ma quella volta non continuò. Si abbandonò a ricordare tutte le volte che aveva guardato dai finestrini lungo la strada; le volte in macchina con suo marito, magari tenendo John in braccio; prima ancora, con suo padre alla guida della loro auto scura e suo fratello che le faceva i dispetti; più tardi, sugli autobus che aveva preso tante volte, prima verso l’Accademia Militare e poi verso la base. Una volta suo figlio aveva comprato un’auto e l’aveva portata un po’ in giro, ma era uno sfasciamacchine il suo John, che preferiva guidare quei cosi per aria. Cosa ci trovava, poi? Anzi, cosa andava cercando tutta quella gente che si dannava l’anima per cose di cui nessun’altro si occupava? Erano davvero soddisfatti quando ottenevano i loro scopi, o nemmeno a loro importava? Era sicura di non aver mai avuto negli occhi uno sguardo come quello di John quella sera. O che aveva visto negli occhi di suo marito tante volte. La signora Redward accolse con gratitudine l’ultima fermata. La gamba prese a dolerle un poco. Si affrettò verso casa, osservando la via illuminata, e riprese il filo dei pensieri interrotti quel mattino. Avrebbe dovuto fare altre spese, l’indomani. Pensò all’album delle fotografie, e si ripromise di dargli un’occhiata, qualche volta.


#proprietà letteraria riservata#


Riccardo Baldinotti

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