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Ero Amelia Earhart

titolo: Ero Amelia Earhart

autore: Jane Mendelsohn 

editore: Bompiani

anno di pubblicazione: 2009 (tascabile)

ISBN: 978-88-452-5378-2




Ammetto che non è facile incappare in una biografia che sia esauriente senza essere monotona, che sia verosimile benché elaborata su informazioni incerte, che sia cronologicamente attendibile e al contempo risulti di piacevole lettura. Non è facile – è vero – ma risulta praticamente impossibile se poi non si tratta di una biografia o di un’autobiografia bensì di un romanzo sebbene liberamente ispirato alle vicende storiche della protagonista.

Di chi sto parlando? E’ presto detto. Il titolo del volume è un inequivocabile: “Ero Amelia Earhart – La prima aviatrice che sorvolò l’Atlantico” e il personaggio storico è appunto la trasvolatrice statunitense Amelia Earhart.

Amelia Earhart immortalata davanti al suo Lockheed Electra, velivolo a bordo del quale stava compiendo la trasvolata equatoriale intorno al mondo con una rotta che andava da Ovest verso Est quando scomparve nell’Oceano Pacifico assieme al suo navigatore Fred Noonan. Era in corso la tratta che l’avrebbe condotta dalla Nuova Guinea fino all’isola di Howland, nel bel mezzo del Pacifico. Una delle congetture circa la sua scomparsa è legata proprio alla sua presunta attività spionistica concordata con il governo statunitense giacché quella rotta le avrebbe consentito di scattare foto preziosissime circa gli insediamenti nipponici in aree che erano state proibite agli statunitensi come le Isole Marshall. Secondo questa congettura, Amelia avrebbe consegnato gli scatti ancora caldi e segretissimi alla US Navy che – casualmente – aveva dislocato a ridosso dell’isola la nave della US Cost Guard (Guardia Costiera staunitense) Itasca con lo scopo di fornire assistenza e radio e logistica all’impresa della Earhart.  Oltre a questo c’è un altro dettaglio che avvalora parzialmente l’ipotesi: la pista sull’isola Howland fu appositamente realizzata a uso e consumo della Earhart con i fondi statali, ossia dei contribuenti statunitensi … una stonatura evidente rispetto a un’impresa squisitamente privata, peraltro finanziata dalla Purdue University, da proventi pubblicitari e dalla famiglia Putnam/Earhart. E’ pur vero che Amelia era un’amica personale della famiglia Roosvelt (allora Frank Delano Roosvelt era Presidente degli USA) e in particolare della signora Eleonor Roosvelt. Inoltre la pista di atterraggio sarebbe potuta tornare comunque utile alla US Navy in caso di conflitto (ormai nell’aria) con il Giappone anche se ufficialmente venne creata per consentire ad Amelia di compiere l’ultimo salto verso la costa orientale del Pacifico. (foto proveniente da www.flickr.com)

Il romanzo, e sottolineo romanzo, benché pubblicato nel 1996 nel paese a stelle e strisce, è stato reso fruibile in Italia solo nel 2009 per merito di Tilde Riva alla quale l’editore Bompiani ha affidato la traduzione di un vero e proprio best-seller, almeno a giudicare dalle “più di 200 mila copie” vendute oltreoceano (come tiene a precisare la IV di copertina). Inoltre l’opera di esordio della scrittrice Jane Mendelsohn, ha riscosso entusiastiche recensioni da parte di alcuni critici statunitensi (anche queste puntualmente riportate nella IV di copertina e soprattutto nel sito web dell’autrice) mentre fu addirittura inserito tra i finalisti di alcuni premi prestigiosi letterari come l’Orange Prize o il Dublin Literary Award. Senza vincerli, fortunatamente.

A questo punto occorre chiarire l’equivoco che mi ha condotto ingenuamente all’acquisto di questo libercolo in edizione tascabile di 158 pagine: il desiderio di sapere meglio e di più di Amelia Earhart, delle sue prime esperienze di volo, delle sue imprese e, non ultimo, della sua ultima trasvolata di cui, a tutt’oggi s’ignora l’esito nonostante periodicamente si rinnovino congetture, testimonianze più o meno attendibili, ritrovamenti del presunto relitto del suo velivolo o di resti ossei scovati in sperdute isole del Pacifico.

Dicevo un acquisto incauto alimentato principalmente da un titolo ineccepibile e confermato da un sottotitolo altrettanto esplicativo, invece … il romanzo ha un prologo che avrebbe già dovuto farmi drizzare i capelli. Eccolo:

“Il cielo è di carne”.

Prima frase della prima riga della prima pagina.

La splendida immagine di uno stupendo Lockeed L-12A molto simile al model 10-E con cui Amelia Earhart tentò la circumnavigazione aerea del globo nel 1937. Ovviamente l’esemplare ritratto è stato restaurato in tutta la sua bellezza ma rende l’idea di come potesse essere all’epoca quello di Amelia. Non a caso questo esemplare fu utilizzato largamente per le riprese aeree del film “Amelia” nel quale l’eroina statunitense era impersonata dall’attrice Hilary Swank. Ad ogni modo, in quei primi anni ’30, l’Electra era sicuramente un velivolo all’avanguardia: piuttosto veloce, interamente metallico, carrello retrattile, motori carenati modello Wasp da 600 hp che, proprio nel caso della versione “E” di Amelia, furono quelli con la maggiore potenza disponibile tra i propulsori installati nei 149 Electra complessivamente costruiti.  In realtà il velivolo da lei utilizzato era stato privato dei sedili dei 10 passeggeri previsti e dunque equipaggiato di serbatoi supplementari. Non era un dettaglio da poco perché solo in questo modo poteva aumentare notevolmente la sua autonomia di volo già ragguardevole per l’epoca. L’unica complicazione fu l’accesso ai comandi di volo perché la pilota doveva salire sul dorso dell’ala e calarsi letteralmente nella fusoliera dopo aver aperto la botola nel cielo della stessa cabina. Anche il musone poteva essere aperto all’occorrenza ma non risultò mai agevole, posto quasi a 3 metri d’altezza da terra (foto proveniente da www.flickr.com)

Concediamoci un istante di riflessione … mi chiedo e vi chiedo: come fa il cielo a essere di carne? Il cielo è azzurro (generalmente, luminoso (durante il giorno) o buio (di notte), è plumbeo (nelle giornate nuvolose o invernali), è burrascoso (durante i temporali), è purpureo (al tramonto o all’alba) e tanto altro ancora … ma, onestamente, mi è difficile pensare che possa essere “di carne”, non vi pare?

Anche facendo ricorso alla più fervida immaginazione, anche utilizzando la chiave di lettura più universale, cosa intende comunicarci l’autrice? Perché affermare qualcosa di assolutamente improbabile? Forse che il cielo sia vivo? Che sembra animato di vita propria? Probabile.

I lettori più visionari potrebbero classificarla come un’espressione altamente poetica, di altissimo effetto evocativo, quasi metafisica, viceversa io confesso di essere molto materialista e non ci vedo niente di lirico. Ma potrebbe essere un mio limite – lo riconosco -.

Amelia Earhart e Fred Noonan simulano la consultazione della carta geografica ove è riportata la rotta di una delle tratte in cui divisero il loro periplo del pianeta. La foto fu scattata a uso e consumo dei numerosi fotografi/giornalisti presenti e che diedero eco alla loro impresa. D’altra parte non si consulta abitualmente una voluminosa carta geografica usando come tavolo di carteggio la deriva del Lockeed Electra, non vi pare? (foto proveniente da www.flickr.com)

A quella prima riga un lettore intollerante avrebbe potuto tranquillamente chiudere la copertina e infilare il volume in un angolo remoto della propria libreria, regalarlo a che qualche sedicente amico, rivenderselo al mercatino dell’usato o immetterlo nella rete di scambio libri … io, invece, cosa ho fatto? … imperterrito, sono andato oltre! Così ho scorso la seconda e poi la terza riga fino a completare la lettura della prima pagina e … bum! Disorientamento spazio-temporale.

Mi spiego. A fine prima pagina ho trovato la seguente affermazione:

“Quello che so è che la vita che ho vissuto da quando sono morta la sento più reale di quella vissuta in precedenza”.

A quel punto mi sono domandato se avessi bevuto troppo a cena (a volte preferisco una sana lettura dopo cena) … ma poi mi sono detto: era solo acqua minerale! Leggermente gassata sì, ma pur sempre acqua minerale, sicché non ho potuto far altro che alzare le mani al cielo maledicendo il mio limitatissimo quoziente intellettivo; nel frattempo si materializzava nella mia mente la scenetta di un celebre film di Carlo Verdone in cui un suo famosissimo personaggio si chiedeva con gli occhi strabuzzati e il viso ingenuissimo: “In che senso?”

Amelia Earhart, protagonista principale di questo romanzo sorride a favore dell’obiettivo del fotografo. Nata nel 1897, nel 1937 era prossima ai 40, era praticamente nel fiore dei suoi anni ed era già molto famosa per aver trasvolato l’Oceano Atlantico, una prima volta come passeggera e una seconda come pilota solitaria a bordo di un monomotore alla stregua di Charles Lindbergh, primo uomo a sorvolare l’Oceano con una macchina volante senza scalo. Di Amelia è disponibile una cospicua quantità d’immagini che la ritraggono nelle situazioni più disparate e questo grazie a una scelta assai lungimirante del marito di Amelia: nel 1932 assunse un fotografo a tempo pieno, certo Albert Louis Bresnik che divenne poi un amico di famiglia, una sorta di fratello minore per Amelia. La seguirà da presso fino al suo ultimo decollo nella tratta che le fu fatale (foto proveniente da www.flickr.com)

Premesso che non viene espresso in modo esplicito chi sia la voce narrante – arguisco la stessa Amelia Earhart – mi ripeto: “la vissuta da che sono morta” … ma sei morta come hai fatto a vivere? E poi come fa una vita da morta – che è una “non vita” – a essere reale, addirittura più della vita precedente? Perché quella sì che potrebbe essere stata reale …

Magari si tratta di una figura retorica? Sarà … ma sono sempre io che non capisco – lo confesso -.

Ora, senza voler fare l’accademico letterario bigotto o il meschino stratega editoriale, è universalmente conclamato che la prima pagina di un qualsiasi volume (che sia un saggio, una biografia o un romanzo), dovrebbe invogliare il lettore a proseguire nella lettura, incalzato magari da un primo episodio pirotecnico, da un intreccio che lasci intravvedere contorsioni, colpi di scena o comunque altri capitoli intriganti. Invece qui il lettore viene semplicemente disorientato e, considerato che non si tratta di un romanzo giallo, insomma un poliziesco d’alto bordo, perché mai lanciare enigmi, così a freddo, già dalla prima pagina? Bah …

… ma sono andato oltre, straconvinto che questo prologo criptico si sarebbe svelato con il prosieguo del testo; giunti a metà della seconda pagina scopro che Amelia sta:

“sorvolando il Pacifico da qualche parte al largo della Nuova Guinea, sul mio bimotore Lockeed Electra, e mi sono smarrita.”

Frederick Joseph “Fred” Noonan fu scelto per l’impresa della trasvolata attorno al mondo perché era uno dei migliori navigatori aeronautici disponibile all’epoca. Fred aveva trascorso una ventina di anni imbarcato sui mercantili che avevano attraversato i sette mari del pianeta; aveva cominciato come semplice marinaio ed era giunto a diventare comandante di nave mercantile. Nel frattempo era diventato anche pilota di aeroplano e dunque fu relativamente facile per lui diventare navigatore aeronautico presso la Pan American Airways in seno alla quale lavorò come navigatore mappando e stabilendo le nuove rotte che i primi idrovolanti della compagnia coprivano attraverso il Pacifico. Naturalmente la navigazione aeronautica è una derivazione di quella nautica e, contrariamente a quella moderna che si appoggia ai sistemi GPS, alle piattaforme inerziali o alle radioassistenze, all’epoca era solamente astronomica, e veniva praticata con l’ausilio di sestante, carte e cronometri; il navigatore saliva nella cupola vetrata del velivolo e provvedeva ai suoi rilievi astronomici, cielo sereno permettendo, poi calcolava la posizione stimata del velivolo e la rotta da suggerire al pilota per giungere a destinazione. Noonan era diventato uno vero specialista nella navigazione aeronautica. Arrivato al massimo della sua carriera (era diventato istruttore dei navigatori della Pan Am), aveva deciso di abbandonare la compagnia aerea e, intenzionato a creare una scuola di navigatori tutta sua, aveva accolto subito la proposta di fare da navigatore nella difficile impresa di Amelia. Quale migliore pubblicità per la scuola che avrebbe avviato al suo ritorno? Purtroppo per lui quel ritorno non avvenne mai (foto proveniente da www.flickr.com)

E aggiungo io, perfido: non solo lei. Anche l’autrice.

Ora la scrittrice laureata con lode alla Yale University, dovrebbe sapere che, sempre secondo la migliore tradizione letteraria universalmente diffusa, un qualsivoglia testo (racconto o romanzo che sia) per “funzionare bene” dovrebbe far comprendere rapidamente al lettore il come-dove-quando-perché. Che sono poi sono gli elementi base di una trama di un testo degno di questo nome. E di successo – aggiungo io -.

Bah, forse alla Yale University questi rudimenti base della scrittura creativa non li insegnano …

Dopodiché, proseguendo la lettura, riappare la visione del cielo di carne, ma stavolta in versione lussuriosa:

“Guardo il cielo inarcarsi e gonfiarsi, e di tanto in tanto mi pare pure di vederlo fremere”.

Per completare la descrizione libidinosa, l’autrice aggiunge:

“Voluttuoso, torrido nel calore nudo, mi sembra carne di donna. Ma poi di colpo la luce ne illumina un fascio di proporzioni più mascoline – un muscoloso baleno di azzurro, un’ampia asse come il dorso di una mano – ed eccomi a riconoscere, benché malvolentieri, la bisessualità della natura“.

Ancora una bella immagine del Lockeed Electra e di Amelia assisa sopra la cabina di pilotaggio. Il velivolo era stato preparato dalla Lockeed ad uso e consumo di Amelia e, a scopi pubblicitari, venne definito come una “laboratorio volante”  più che altro per giustificare il notevole sostegno economico fornito a scopo scientifico/tecnologico dalla Purdue University ma, di fatto, la componente scientifica della trasvolata attorno al globo fu davvero insignificante come pure le ricadute a carattere tecnologico giacché l’Electra era già un aeroplano molto avanzato in termini di soluzioni costruttive (foto proveniente da www.flickr.com)

Ora passino pure le improbabili visioni erotiche, peraltro omosessuali, ma che c’azzecca la bisessualità della natura con un volo equatoriale attorno al globo? Onestamente, a me sfugge il nesso logico … e a voi? Sapete come sentenzierebbe una ipotetica professoressa siciliana, rigorosamente zitella e con tanto di occhiali corredati da catenella dorata? Beh, io sì: “Il cielo è sostantivo di genere maschile, e quindi masculo je!” Fine della bisessualità.

Tornando al testo del romanzo, il prologo si chiude con Amelia che racconta:

“la risacca ride. La luce nuota. Guardo sulla sabbia gli scheletri di pesce tracciati dall’ombra delle foglie di palma”.

Bum! Altro disorientamento spazio-temporale per il povero lettore. Ma un istante prima non eravamo in volo? Perché qui si parla di spiaggia, palme e risacca? Siamo già atterrati in un battere di ciglia? D’accordo l’inaudita potenza della narrativa (più efficiente di una porta dimensionale interstellare) ma così è un filino troppo, non credete?

Invece no, non stupitevi più di tanto: è solo l’inizio dell’abisso perché tutto il romanzo è un andirivieni tra il racconto di questo ultimo volo di Amelia, la sua vita precedente, durante e successiva il volo in questione. Avete letto bene: quella successiva! Perché nell’immaginario della scrittrice statunitense, Amelia sopravvive all’atterraggio di fortuna nel piccolo atollo di Nikumaroro (in passato denominato Gardner Island) e così pure il suo navigatore Fred Noonan mentre il relitto del povero Electra giace a ridosso della spiaggia, ormai inservibile. Che poi è una delle tante tesi ricorrenti di cui parlavo all’inizio circa la fine dell’impresa volatoria di Amelia & Co.

Dicevo … una trama tutto sommato semplice, forse prevedibile se non fosse che l’intreccio della vicenda narrata è funambolico, contorto, sovrapposto. Occorre prendere appunti per ricordarsi chi è la voce narrante o in quale luogo è ambientato il racconto. Questo perché il romanzo è composto da piccoli blocchi di testo che si alternano continuamente: dapprima la narrazione è in prima persona (Amelia), quindi in terza persona (un ipotetico osservatore esterno) oppure in un blocco siamo a New York, il blocco dopo sull’atollo e quello dopo ancora in volo sull’Electra per concludere in bruttezza con alcune brevi perle di saggezza pseudo filosofiche infarcite – attenzione, attenzione – di visioni dal forte potere evocativo. Secondo l’autrice, s’intende.

Posso aggiungere un altro dettaglio sconvolgente? Ebbene, non esiste il discorso diretto, o meglio non esistono tracce grafiche dell’apertura e della chiusura del discorso diretto. Per intenderci l’autrice ha evidentemente ritenuto inutile utilizzare le virgolette, le lineette, financo le mostruose doppie v orizzontali o qualsiasi altro simbolo convenzionale (troppo convenzionale!) per indicare i colloqui, peraltro assai scarni, tra i pochi personaggi. Risultato? Semplice: i dialoghi si aprono e si chiudono come fossero parte del discorso indiretto.

Ammetto che non sono un tradizionalista bigotto in fatto di estetica tipografica ma permettetemi di urlare almeno: blasfemia! L’ortografia assassinata pubblicamente, piegata alle bizze eccentriche di un’esordiente irrispettosa delle convenzioni letterarie universali; se non blasfemo, è almeno satanico! 

Il lettore deve intuire i dialoghi, avrà pensato l’autrice … invece il lettore si perde – sostiene il sottoscritto -. Quello stesso lettore umile e appassionato che sarà costretto a una fatica sovrumana al punto che si domanderà – e me lo sono domandato anch’io più volte, credetemi – se valga la pena continuare a leggere un siffatto guazzabuglio di libro. Ma niente: io, imperterrito, ho continuato fino all’epilogo. Potere del prezzo di copertina!

Una rara immagine di Amelia Earhart e suo marito George Palmer Putnam in chiave domestica. Amelia aveva conosciuto George quando si era presentata presso il suo ufficio per chiedergli un impiego. George era all’epoca un editore famoso e benestante giacché aveva curato la pubblicazione del libro autobiografico “We” di Charles Lindbergh in cui il primo uomo che aveva sorvolato l’Oceano Atlantico dagli Stati Uniti a Parigi in solitaria e a bordo di un monomotore raccontava il suo volo memorabile e le sue esperienze di volo precedenti all’impresa. Il libro aveva venduto la bellezza di 650 mila copie solo il primo anno di pubblicazione – numeri impensabili oggi ma notevolissimi anche allora – tanto che l’autore (ma anche l’editore Putnam) avevano mietuto dei guadagni davvero ragguardevoli. In realtà George era a sua volta uno scrittore nonché un esploratore oltre quello che chiameremmo oggi un “promotore” o un addetto alle pubbliche relazioni, ossia un organizzatori di eventi, conferenze, campagne pubblicitarie e – occorre ricordarlo – svolse un ottimo lavoro a beneficio della moglie. Generalmente si dice che dietro un grande uomo si celi una grande donna … nel caso di Amelia è il contrario, senza nulla togliere alle capacità, alla caparbietà di lei nel voler concretizzare i suoi sogni impossibili. La vicenda personale di “GP”, così lo chiamava abitualmente Amelia – e così lo ritroveremo anche nel romanzo – si intrecciò con quella di Amelia prima commercialmente e poi sentimentalmente sebbene lui fosse già sposato (ma la consorte dell’epoca aveva già un solido rapporto extra coniugale). I due si frequentarono per alcuni anni e poi nel 1931 convolarono a nozze dopo che GP ebbe ottenuto il divorzio. Dalle cronache del tempo, difficile dire se tra loro ci fu il vero amore o solo interessi reciproci … all’inizio prevalse sicuramente il secondo aspetto se non altro testimoniato dal fatto che GP volle ospitare in casa sua Amelia pur di farle scrivere in modo proficuo il suo primo libro “20 hrs., 40 min.” pubblicato nel 1928 nel quale lei descriveva la sua esperienza del volo transatlantico a bordo del velivolo trimotore Friendship in qualità di passeggera. Alla stregua di quanto lui aveva già fatto con Lindbergh, l’operazione funzionò sebbene con risultati economici ben più modesti ma quello divenne comunque l’inizio di un sodalizio che si rivelò vantaggioso per entrambi. Nel momento in cui la US Navy cessò ufficialmente le ricerche di Amelia e Fred – che erano state effettuate con grande dispiego di uomini e mezzi e, non ultimo, con costi per i contribuenti che si aggirarono attorno ai 4 milioni di dollari – , George non si diede per vinto e finanziò a sue spese ulteriori ricerche, purtroppo  senza esito. Cronologicamente parlando, Amelia scomparve nell’estate 1937, nel gennaio 1939 fu ufficialmente dichiarata defunta e nel maggio dello stesso anno George si risposò … quello che si definirebbe un vero vedovo inconsolabile!  (foto proveniente da www.flickr.com)

E avendolo letto tutto, posso affermare che questo è un romanzo-minestrone; è così ben assortito che il concetto elementare di prologo-sviluppo-epilogo tipico di qualunque romanzo, qui non trova applicazione alcuna, anzi sono un tutt’uno. Per assurdo si potrebbe aprire una qualunque pagina del libro per entrare nel vortice torbido della vicenda senza correre il rischio di perdere il filo logico della narrazione … semplicemente perché non c’è un vero filo logico.

In effetti è un romanzo che, per essere apprezzato a pieno, presuppone che si conosca già il vissuto di Amelia. Oppure, al contrario, che invita la lettura di una ricostruzione giornalistica della vita e delle imprese di Amelia per capire dove finisce la realtà e comincia la fantasia sfrenata di Jane Mendelsohn.

Esagerato? Niente affatto!

Ma c’è dell’altro: verso la fine del romanzo, Amelia e Fred addirittura s’involano di nuovo con l’Electra per poi perdersi di nuovo e riatterrare chissà dove  … ma no, tranquilli: era solo un sogno! Realistico ma pur sempre un sogno. Anche perché il naturale deterioramento provocato dalle maree e dell’ambiente salmastro avevano presumibilmente ridotto a brandelli la cellula del velivolo già malconcia per l’atterraggio rovinoso e che, pur disponendo di un minimo di carburante, i motori erano fermi da anni, il carrello probabilmente distrutto, mezzo aeroplano insabbiato. E tralasciamo la possibilità concreta di decollare da una spiaggia di sabbia corallina. Neanche l’araba fenice sarebbe riuscita nell’impresa!

Si tratta evidentemente di un miraggio, di un desiderio delirante mai sopito, di un sogno prodotto da una mente provata dal lungo isolamento coatto – certamente, dico io – ed è tutto molto comprensibile … ma già come per la punteggiatura oltraggiata, anche la già ridotta credibilità della narrazione viene messa a durissima prova.

Ancora una bella immagine di Amelia Earhart e del suo fido navigatore/copilota, non tanto “fido” a detta dell’autrice del romanzo (foto proveniente da www.flickr.com)

Mi spiego. Sempre alla Yale University avrebbero dovuto insegnare alla signora Jane che la “sospensione dell’incredulità” da parte del lettore è assai preziosa ed è pure è molto labile, ergo non può essere strapazzata a questo modo. Voglio dire: due persone affetti dalla sindrome del naufrago, che rifuggono ormai i soccorsi e il mondo civilizzato, che si sono ambientati in un piccolo paradiso in terra e non hanno più alcuna fiducia nel futuro, possono sognare di tornare in volo verso l’ignoto? Anche solo sognare? No, non regge! Non fosse altro perché Amelia e Fred non vengono dipinti come i novelli Robinson Crusoe, viceversa hanno trovato sull’atollo il loro equilibrio, si sono rassegnati a vivere lì i giorni che rimangono loro, nell’idillio di una natura lussureggiante che offre loro quanto necessitano … e vi pare che, anche nel sogno più recondito, anche nei meandri più profondi dell’inconscio possano sognare di volersene andare? In volo?

Troppo feroce nei confronti dell’autrice? Niente affatto! … vogliamo esaminare poi gli svarioni storici e aeronautici? Eccoli.

Per proteggere gli occhi abbacinati dal sole Amelia rivela:

“… e arriccio il naso per mettere in sesto gli occhialoni da pilota”.

Peccato che il Lockeed Electra fosse un moderno velivolo con cabina chiusa e parabrezza ermetico anziché un obsoleto biplano con cabina aperta e minuscolo frangivento. La differenza è sostanziale: i velivoli aperti necessitavano dei classici occhialoni da pilota che non erano assolutamente un vezzo estetico. All’epoca infatti, se non si voleva rimanere accecati dall’aria, dagli insetti, dai fumi di scarico e dall’olio vaporizzato dal motore, gli occhialoni erano indispensabili. Un po’ meno la sciarpa di seta bianca, salvo che per pulire – in emergenza – gli occhialoni sopracitati qualora si fossero completamente coperti da sozzura.

Viceversa nel 1937, anno del volo di Amelia, esistevano già gli occhiali da sole, non già i famigerati Ray-Ban Aviator che vennero commercializzati a partire proprio da quell’anno ma sicuramente occhiali similari giacché la prima azienda al mondo che produsse occhiali da sole fu proprio statunitense e cominciò la sua attività nel 1929.

E vabbè … concediamole gli occhialoni ma …

… vogliamo poi parlare di quel povero diavolo di Noonan? Ebbene nel romanzo viene dipinto come un alcoolizzato, amante in egual misura delle donne e dei superalcolici, dedito a una vita sregolata per non dire dissennata. Anche professionalmente la signora Jane Mendelsohn ci va giù pesante perché fa dire ad Amelia che la scelta a favore di Fred fu dettata dall’economicità delle sue prestazioni professionali anziché per le sue capacità di esperto in navigazione aerea astronomica.

Ancora una foto del Lockeed Electra L-10E e di Amelia Earhart appollaiata stavolta sul musone del velivolo. Lo scatto risale alla tappa che toccò Miami. La trasvolata prevedeva una rotta lungo l’equatore di una lunghezza complessiva di circa 46 mila km. L’impresa era già stata effettuata in passato ma su una rotta a latitudini più elevate e dunque decisamente più brevi; volare prevalentemente lungo l’equatore sarebbe stato molto più lungo e faticoso per l’equipaggio e la macchina. Oggi sembra un bazzecola ma teniamo ben presente che Jules Verne, il famoso scrittore francese antesignano della modernità, aveva immaginato il “Giro del mondo in 80 giorni” non più tardi del 1872 – ed era pura fantascienza -, ma anche negli anni ’30 (del 1900) rimaneva un’impresa pregna di rischi e punti interrogativi. Quando decollarono da Lae in Nuova Guinea Amelia e Fred avevano volato già per circa 35 mila chilometri e dunque ne mancavano circa 11 mila tutte sopra all’Oceano Pacifico. Era il 2 luglio 1937 (foto proveniente da www.flickr.com)

Onestamente, se fossi stato un parente alla lontana di Fred, mi sarebbe venuta voglia di querelare l’autrice del romanzo per aver infangato la memoria del mio congiunto … anche perché la verità storica è decisamente diversa.

Fred Noonan si era effettivamente licenziato dalla Pan-Am ma, secondo la cronaca del tempo, perché intendeva aprire una scuola tutta sua per navigatori aeronautici e la partecipazione all’impresa di Amelia gli sarebbe tornata utile quale ottimo viatico pubblicitario gratuito. Inoltre Amelia l’aveva già assoldato in occasione del primo tentativo di trasvolata, peraltro andato male, perché dunque confermarlo in occasione del secondo? E poi diciamoci la verità: all’epoca tutti bevevano e ancora oggi gli statunitensi non sono proverbialmente astemi, sicché …

Altra situazione assolutamente non sostenibile è lo stato disastroso in cui versa Noonan al momento del decollo dall’aeroporto di Lae in Nuova Guinea in quella che sarà l’ultima tratta della della circurmnavigazione del globo. Ebbene nel romanzo Fred viene descritto come completamente ubriaco dopo festini terminati fino a poco prima del decollo. Decollo avvenuto – lo ricordo – alla mezzanotte, ora locale. In realtà,  a giudicare dalle immagini dell’epoca, sia Amelia che Fred salgono a bordo dell’Electra con fare atletico, lei attraverso il portello posto  nel cielo della cabina e lui sulla fiancata della fusoliera, operazione assai difficile da eseguire da un ubriaco, non trovate?   

Inoltre nel romanzo Amelia odia ferocemente Noonan al punto che ognuno si costruisce un proprio ricovero, alle antipodi del piccolo atollo, quindi si riavvicinano nel corso della permanenza in quella stretta striscia di sabbia e verso la fine del romanzo finiscono per essere addirittura amanti, sfrenati e insaziabili uno dell’altro. Pittoresco, non credete?

La IV di copertina del libro di Jane Mendelsohn. Questo libro, assieme a “Felice di volare: ricordi della mia vita in volo e di altre aviatrici” scritto e pubblicato da Amelia Earhart nel lontano 1932, sono gli unici volumi disponibili in lingua italiana inerenti la figura mitica di Amelia Earhart. Si aggiungono poi delle pregevoli biografie come quella di Anna Consilia Alemanno pubblicata nell’ambito della collana “Grandi donne della storia” curata dal Corriere della Sera o quella molto simile dell’editore RBA nella collana “Grandi Donne”. Purtroppo non è mai staro reso disponibile per il mercato editoriale del nostro Paese l’altro libro scritto da Amelia “20 hrs., 40 min.” del 1928 come pure  “Last Flight”, pubblicato postumo, e contenente parti del diario di viaggio del suo ultimo volo attorno al mondo. Inutile dire che in lingua inglese esiste uno stuolo di libri riservati ad Amelia. Anzi, considerato quanto posa essere inflazionato il panorama editoriale a lei dedicato, comprendiamo perché l’esordiente Jane Mendelsohn abbia dovuto quasi necessariamente scrivere qualcosa di molto originale affinché potesse  emergere.

Altra stonatura è il personaggio George P. Putnam, storicamente marito di Amelia; nel romanzo viene dipinto impietosamente come un aguzzino, una macchina che spreme Amelia per il proprio tornaconto di editore, che la costringe a scrivere resoconti giornalistici e libri contro la sua volontà.

La verità storica, anche in questo caso, è abbastanza diversa. Quando incontrò per la prima volta Amelia, Putnam era già ricco e famoso (era stato lui a pubblicare il libro-resoconto di Charles Lindbergh, primo trasvolatore atlantico) inoltre lui le propose più volte di sposarlo senza successo. Aggiungo che i proventi dei libri e dei pezzi giornalistici della moglie, Putnam li utilizzava per sostenere le spese – decisamente notevoli – delle imprese di Amelia. Occorre poi ricordare che lui, dopo la cessazione delle ricerche di Amelia/Noonan operate dalla US Navy, spese una vera fortuna nel riprenderle a titolo personale. Certo non fu un esempio fulgido di rettitudine e fedeltà coniugale ma è pur vero che le coppie benestanti statunitensi non lo erano e non lo sono tuttora.

In effetti, in “Ero Amelia Earhart”, la figura stessa della protagonista viene tratteggiata in modo dir poco singolare: introversa, taciturna, quasi algida ma in balia del marito, incapace di provare anche solo di un po’ di affetto nei confronti di Putnam, pur tuttavia estremamente determinata tanto da concedersi solo a condizioni che oggi farebbero concorrenza ai contratti prematrimoniali delle dive del cinema.

Risponde a verità storica? Forse … certo Amelia era mascolina, a dir poco volitiva e talmente determinata nel raggiungere i suoi progetti – alcuni effettivamente difficilissimi per l’epoca – che un fondo di verità storica c’è di sicuro. Tutto il resto è fantasia.

In conclusione un romanzo con diversi aspetti opachi e qualcuno brillante. Quali? Ad esempio la descrizione assai verosimile del caldo torrido che assale l’atollo e soprattutto della terribile tempesta tropicale che segue: come essere lì con Amelia e Fred. Davvero ottima.

Come pure ammetto che è davvero notevole l’intuizione dell’autrice nell’immaginare e nel raccontare la trasformazione che avviene nei due personaggi: dapprima naufraghi vogliosi di tornare alla civiltà per poi letteralmente nascondersi dai possibili soccorritori, infine felici di rimanere nel loro piccolo paradiso tropicale.

Infine sono presenti anche piccole chicche di buona scrittura come:

“Gli aerei erano veicoli da sognare. Erano forti e sinuosi, virili e femminili allo stesso tempo, semplici, giocattoli meccanici quasi all’antica e vascelli che portano al futuro”

ma sono rare e, onestamente, non giustificano il successo di vendite del volume.

In definitiva ci sono lampi di buona letteratura in “Ero Amelia Earhart” ma con molte ombre attorno; un libro la cui lettura richiede un grande atto di fede da parte del lettore, fede superiore alla media, s’intende.

Se amate i romanzi pieni di simbolismi, e immagini surreali sarà perfetto per voi, viceversa non si presta assolutamente a chi cercherà – come il sottoscritto pensava di trovare – una cronaca storica in formato narrativo.

Dal punto di vista tipografico il volume è curato e di qualità come ci si aspetta da un editore prestigioso. Adeguata la dimensione dei caratteri di stampa, opaca e leggermente giallognola la carta. Valida ma non esaltante la copertina (in realtà l’edizione italiana ne ha avute diverse) e maldestramente poco obiettiva la IV di copertina.

In conclusione, un libro che non rende granché onore ad Amelia e al suo navigatore, di sicuro non ne esalta la leggenda … ma perché – detto tra noi – ne avrebbe necessità? Certo che no. Perché la caparbietà e la determinazione di Amelia l’avevano resa già un mito quando era in vita, figuriamoci se un romanzo di opinabile bontà possa sminuire un fulgido ed ineguagliabile esempio dell’universo femminile …

Allo stesso modo mi viene da dire che non comprendo l’ostinazione nel voler assemblare congetture, nel voler continuare a cercarla negli atolli sperduti del Pacifico. Perché? … già prima che scomparisse, Amelia Earhart volava altissima nell’immaginario collettivo e, un istante dopo la sua scomparsa, ha continuato a volare lontanissimo nel cielo della memoria di tutti noi, uomini o donne appassionati di volo e di storia dell’aviazione.  E così sarà per sempre.  Che poi è quanto accade giusto appunto ai miti. E Amelia, quando corre il XXI secolo, ancora un mito !

Parola di professoressa zitella.





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Come un sottile strato di nubi

titolo: Come un sottile strato di nubi

autore: Maurizio Staid 

editore: IBN – Istituto Bibliografico Napoleone

anno di pubblicazione: 2022

ISBN: 8875655693




Certi autori sono come i cavalli di razza: ci si può scommettere sopra, certi di aver puntato su quello vincente.

Sarà pure squallido affermarlo … ma risponde perfettamente a questo teorema il caso di Maurizio Staid: un autore di razza. E che razza! Non appariscente, non pubblicizzato ma già molto promettente, Maurizio sta risultando vincente sulla lunga distanza. In che termini? Ve lo spiegheremo …

Cominciamo anzitutto del suo avvio … non certo come pilota militare o pilota civile professionista, no, ma in qualità di scrittore di narrativa aeronautica.

Una formazione di P-51 Mustang come quelli di cui narra Maurizio Staid nel suo libro che effettivamente proteggevano i bombardieri statunitensi nelle loro lunghe missioni dirette al cuore del territorio germanico. L’autonomia di questi caccia pesanti, il portentoso armamento e la loro elevata velocità (possibile grazie ad una potentissima motorizzazione unita all’adozione di uno dei primi profili alari laminari), li rendevano perfetti per quel tipo di missioni. (foto proveniente da Flickr.com)

Ebbene la sua parabola ascendente è cominciata con la timida ma convinta partecipazione alla VI edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE (che organizziamo assieme ai nostri amici dell’HAG) nel 2018 con ben due racconti: “Gocce di memoria” giunto in finale piazzandosi a un’onorevolissima XI posizione e “Un tranquillo sabato al Gruppo” classificatosi invece al XXI posto.

E’ solo la prova generale che precede la pubblicazione del suo primo libro, “Brogliaccio di volo”, una raccolta di ottimi racconti che si annovera tra i migliori volumi nel panorama attuale della narrativa aeronautica italiana.

Ma la vera affermazione di Maurizio si consuma l’anno successivo con la sua seconda partecipazione al nostro Premio. E’ il 2019 e RACCONTI TRA LE NUVOLE è giusto alla sua VII edizione. Il nostro pilota-scrittore partecipa con il racconto intitolato “L’ultimo CR” e la giuria del premio lo ritiene meritevole di una III posizione in classifica. Non solo: la famiglia Rosatelli gli attribuisce il trofeo che reca il nome del loro congiunto in quanto valutato quale migliore tra una rosa di numerosi racconti dedicati alla figura del famoso progettista della Fiat, l’ing. Celestino Rosatelli.

La IV di copertina di “Come un sottile strato di nubi” che riprende, come nelle migliori tradizioni editoriali, il tema dello sfondo della copertina. Si tratta a tutti gli effetti di un romanzo di esordio giacché il primo volume pubblicato dall’autore era una raccolta di racconti e il secondo una sorta di romanzo-fiaba

Giusto il tempo per pubblicare il suo secondo libro “La banda delle quattro pinne”, stavolta in tema marinaresco, per rigettarsi nel 2020 ancora in RACCONTI TRA LE NUVOLE, VIII edizione con lo splendido racconto “Il bambino e l’aquilone”.

Infine, nel luglio 2022 il suo terzo libro ma in assoluto primo romanzo aeronautico dal titolo: “Come un sottile strato di nube”.

Ora comprenderete perché, quando siamo venuti a conoscenza della pubblicazione di quest’ultimo libro di Maurizio Staid, abbiamo puntato su di lui, ossia non abbiamo indugiato neanche un istante e abbiamo provveduto a procurarcelo, convinti di concederci il piacere di un’ottima lettura, certi che avremmo avuto a che fare con un capolavoro in miniatura della narrativa aeronautica italiana. Ebbene le nostre aspettative non sono state tradite, anzi, sono andate ben oltre ogni più rosea previsione sebbene, una volta girata l’ultima pagina ci siamo convinti che l’autore avesse superato brillantemente (ma anche inaspettatamente) l’ambito assai limitante del romanzo a tema aeronautico.

Una splendida immagine di un P-51 Mustang ancora oggi in condizioni di volo, protagonista del romanzo “Come un sottile strato di nubi” . Non ci è dato sapere quanto questo romanzo sia autobiografico, viceversa possiamo immaginare quanto l’autore sogni di volare con un Mustang: spesso. (foto proveniente da Flickr.com)

“Come un sottile strato di nube” non è infatti un romanzo dai contenuti esclusivamente aeronautici benché il titolo stesso e soprattutto la copertina lo lascino presagire, tutt’altro: guerra, dolore, e ancora amore indissolubile si alternano in una spirale avvincente che ci ha lasciato letteralmente stupiti. E dire che il prologo è decisamente in linea con quanto speravamo di leggere …

La vicenda si apre nel 1971 con lo squillo della sveglia telefonica in un “anonima stanza di albergo” in cui alloggia il protagonista e voce narrante, John Lo Russo, un valoroso italo-americano ex pilota da caccia pluridecorato della II Guerra Mondiale. E’ lui il comandante di un nuovissimo Boeing 747 Jumbo jet della compagnia statunitense Pan American e il suo risveglio è il prologo della sua ennesima missione: decollo da Buenos Aires con 263 passeggeri a bordo con destinazione aeroporto John Fitzgerald Kennedy di New York.

Niente di più aeronautico, non trovate?

La trama prevede poi un decollo al cardiopalma e quindi il rientro dell’abile comandante nel suo splendido attico di Manhattan dove lo attende sua moglie (annoiata e distante) nonché un’inaspettata busta chiusa senza affrancatura.

Ecco, giusto quel plico anonimo diventa il punto di snodo della trama che subisce una svolta imprevedibile: un flashback che ci condurrà nel passato di John, in volo, in guerra, a bordo del suo North American P-51 Mustang nei cieli italiani a ridosso delle Dolomiti, di scorta ai bombardieri Boeing B-24 Liberator diretti in Germania.

Ancora una splendida immagine frontale che pone in risalto la forma perfetta del P-51 Mustang (foto proveniente da www.flickr.com)

Fine del contenuto aeronautico.

Tutto il resto del libro è un alternarsi di episodi adrenalinici e colpi di scena, un susseguirsi di avvenimenti imprevisti e di fughe rocambolesche. Non mancano ovviamente personaggi tratteggiati con invidiabile verosimiglianza, azioni feroci, eccidi raccapriccianti come pure gesti di grande generosità e di coraggio. Insomma una miscela sapiente di sentimenti positivi e negativi in cui l’amore si distingue fra tutti perché inaspettato, perché sbocciato con genuinità e delicatezza, perché non conosce l’inclemenza del tempo e della distanza geografica.

Ovviamente non vi accenneremo di più … possiamo solo aggiungere che con “Come un sottile strato di nube” il nostro Maurizio ha dato prova di grande talento narrativo anche extra aeronautico e ne siamo lieti perché è uscito dal romanzo di nicchia, riservato ai soli appassionati di aviazione.

A proposito della trama del libro possiamo solo concludere rivelando che l’ultima pagina, anzi l’ultima riga del libro lascia il finale del romanzo virtualmente aperto, tuttavia l’epilogo è drammatico, toccante, struggente, quasi strappalacrime. A noi ha fatto venire un magone mitigato solo dall’intuizione che “Come un sottile strato di nubi” possa avere un seguito. Ce lo auguriamo di cuore perché il suo messaggio conclusivo è positivo: l’amore è eterno e si perpetua nelle persone che sono il frutto di questo amore.

Ora comprendete il perché di quanto sostenevamo all’inizio di questa recensione?

Ad ogni modo, dal punto di vista tecnico, il libro è piacevolissimo, la prosa è scorrevole e mai banale nonostante contenga brevi descrizioni dell’ambiente in cui si muovono i vari personaggi o altrettanto brevi riflessioni che conferiscono spessore alla vicenda narrata.

La classica formazione che gli equipaggi dei bombardieri pesanti B-24 Liberator adottavano per difendersi l’un l’altro dall’attacco dei veloci caccia nemici. E’ probabile che lo scatto sia stato effettuato da bordo di un caccia di scorta. E’ una delle situazione di volo narrate da Maurizio Staid nel suo romanzo (foto proveniente da www.flickr.com)

E’ innegabile che l’autore ami la sintesi giacché non esagera con le parole, non si lascia andare a pistolotti evocativi e infine utilizza in modo abile ma stringato il discorso indiretto affinché la trama si dipani rapidamente senza mai annoiare il lettore. Di contro i dialoghi, sottolineati da uno strategico corsivo oltre che dalle consuete virgolette inglesi, sono sempre molto funzionali alla vicenda narrata e danno voce ai sentimenti che i personaggi già accennano nelle loro azioni e nelle dinamica della storia; sono dialoghi verosimili, mai forzati, talvolta secchi nella loro tragicità ma sempre pertinenti, taluni scritti sfiorando delicatamente la tastiera, con il cuore in mano.

L’intreccio è appena un poco articolato ma non confonde il lettore benché abbia una prima parte che si ricollega alla fine del romanzo inframezzata da una lunga fase centrale ambientata nel nostro paese nel corso del conflitto mondiale. Si tratta comunque di un anello che ben si chiude e che, all’occorrenza, invita il lettore a tornare alle prime pagine per ripristinarlo nel caso di una lettura frazionata in più tappe.

Il numeroso equipaggio di un B-24 Liberator, il bombardiere strategico utilizzato dai reparti di bombardamento statunitensi durante il II conflitto mondiale. (foto proveniente da www.flickr.com)

Probabilmente ai lettori più smaliziati il romanzo apparirà banale e prevedibile(modello Liala o collana Harmony), viceversa a noi è risultato validissimo e, se fosse in nostro potere, lo proporremmo volentieri per farne un adattamento cinematografico o quello che, in linguaggio televisivo, si chiamerebbe una fiction. Il successo sarebbe assicurato! Il suo regista potrebbe essere Pupi Avati perché uno dei pochi registi capaci di visualizzare con delicatezza e pudore una sceneggiatura già perfetta così com’è.

Tornando al libro, la copertina è quanto di più pertinente potesse scegliere il curatore editoriale e la IV di copertina è estremamente esauriente con la biografia dell’autore e anche un’ottima sinossi; purtroppo non possiamo essere altrettanto benigni nei confronti dell’editore per quanto concerne la scelta delle dimensione dei caratteri di stampa: inspiegabilmente troppo minuti. Peccato perché la lettura – specie quella tutta d’un fiato come quella che abbiamo inevitabilmente praticato – può risultare affaticante. E questo sebbene la carta sia di ottima qualità (bianca e opaca) e i capitoli separino in modo impeccabile le varie fasi della narrazione.

Il mitragliere di coda del B-24 Liberator è uno dei personaggi cardine del bel romanzo “Come un sottile strato di nubi”. Questo scatto ritrae un vero mitragliere durante la II Guerra Mondiale e rende idea delle dimensioni del velivolo. Egli occupava una delle torrette di difesa del bombardiere ed era il membro dell’equipaggio probabilmente più esposto al fuoco nemico (foto proveniente da www.flickr.com)

Inoltre non è dato sapere l’autore del bel disegno che ritrae il Mustang in volo e dunque non sappiamo se l’immagine è originale o se sia stata adattata allo scopo.

Impreziosiscono il testo alcuni aforismi di gran pregio che sottolineano e quasi anticipano il testo che li segue; assolutamente pregevoli sono le brevi poesie che troviamo all’interno della narrazione tanto che viene da chiederci se sono frutto dell’estro poetico dell’autore o di un’agente esterno di sesso femminile che le abbia concesse all’autore per collocarle ad arte.

Il colossale Boeing 747, confidenzialmente soprannominato “jumbo jet”, con la livrea della compagnia Pan American World Airways che, verosimilmente, potrebbe essere stato il famoso “volo 657” narrato nel romanzo. In effetti questi velivoli cominciarono a svolgere il loro servizio in seno alla compagnia statunitense a partire dal 1971 per terminarlo nel 1991 come velivolo passeggeri, quindi convertiti a cargo o definitivamente radiati. L’esemplare qui ritratto fu immortalato, pronto al decollo, all’aeroporto di London Gatwick in Gran Bretagna nel giugno 1991 diretto negli Stati Uniti, esattamente a Miami. Fatte le dovute considerazioni temporali, è probabile che l’autore non abbia mai volato su questo tipo d velivolo ma non stentiamo a credere che il 747 costituisca per molti piloti moderni una sorta di mito del passato, Maurizio Staid compreso (foto proveniente da www.flickr.com)

E concludiamo questa breve recensione menzionando una riflessione che riteniamo assolutamente degna di essere riportata, affermazione che apre il libro e che è il suo stesso manifesto:

“… un sottile strato, leggero, impalpabile, che separa sogni e realtà, che si veste di rosa quando il giorno muore, drappo nero nelle albe piovose. Di questo è fatta la vita, un sottile strato di nubi …”

Come non condividerla pienamente con Maurizio?

Permetteteci un’ultimissima nota: l’acquisto del libro aiuterà in modo concreto l’Area Solidarietà Alitalia Onlus nei suoi progetti umanitari. Conoscendo l’autore e il suo impegno nel volontariato sappiamo per certo che egli ci tiene più di ogni altro complimento o manifestazione di apprezzamento per la sua opera letteraria. 

Quando un libro può fare anche del bene!





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Manuale pratico per la licenza di P.P.

titolo: Manuale pratico per la licenza di pilota privato

autore: Lorenzo Carrozzoni

editore: IBN Editore

anno di pubblicazione: 2018

ISBN: 9788875654146




Non sapevo che Lorenzo Carrozzoni, istruttore del nostro Aeroclub di Rieti, avesse scritto un manuale pratico per la licenza di pilota privato. Per il suo carattere schivo e modesto l’autore non ne aveva parlato granché, evidentemente. Poi ne ho scoperto due copie in segreteria.

Il volume adesso in mio possesso è uno di quei due.

La prima impressione che ho avuto di questo libro si potrebbe condensare in una sola parola: simpatico.

Si, un libro può essere anche simpatico. Il colore della copertina, bianco latte, con il disegno stilizzato di un aereo ad ala alta, forse un P66C, di colore rosso, sovrastato dal titolo, scritto con caratteri ben scelti e dal colore ben scelto anche quello, attira lo sguardo e suscita un sentimento di simpatia.

Ma ci sono altri aggettivi che lo possono descrivere altrettanto bene. Essenziale, per esempio. Ad un esame rapido del contenuto si nota subito che gli argomenti trattati sono stati accuratamente scelti proprio per la loro essenzialità, selezionati con cura tra tutti in modo da dare al lettore l’immediato accesso ai concetti che servono, senza disperdere energie preziose in direzioni diverse.

Infatti, un altro aggettivo che descrive questo manuale è quello riportato nel titolo stesso: pratico.

La IV di copertina del libro di Lorenzo Carrozzoni – come nella migliore tradizione editoriale – ritrae l’autore e il suo fido disegnatore Jose Ogando. Alle loro spalle si intravede  invece la fusoliera di un omni presente di P66 Charlie.

Ci troviamo tra le mani un simpatico ed essenziale manuale pratico.

Il primo capitolo si intitola “L’aeroplano e l’aeroporto”. Sono due argomenti dei quali si potrebbe parlare per ore, anzi per giorni. Ma giustamente Lorenzo ne parla qui in maniera stringata, evidenziando solo ciò che serve sapere subito per poter comprendere la macchina e l’ambiente nel quale opera. E’ fuori discussione che un aereo, per volare, deve operare da un aeroporto.

La descrizione dell’aeroplano è basata su un tipo di macchina standard, il P66 Charlie. Pur essendo questo un modello quasi scomparso dallo scenario dell’Aviazione generale, resta tuttavia validissimo, essendo stato concepito proprio come addestratore basico ed anche avanzato per il conseguimento della licenza di pilota privato. Ciò che vale per il P66 vale altrettanto per altre macchine dello stesso tipo, come il Cessna 150, 152 e 172. E vale per tutti gli aerei ultraleggeri che operano nel Volo da Diporto e Sportivo.

Lorenzo descrive tutto ciò che bisogna sapere di questo aereo, la fusoliera, gli strumenti, i comandi, la radio etc. Un primo disegno della fusoliera con la nomenclatura delle sue parti essenziali rende chiaro di cosa si parla nel capitolo.

Il secondo disegno rappresenta il cruscotto, con gli strumenti, i comandi di volo, la manetta del gas, la bussola e la linea degli interruttori.

Poi parla dell’aeroporto. Il terzo disegno è la rappresentazione grafica di una pista, con le vie di rullaggio, il piazzale, la Torre di Controllo, la manica a vento. E relativa nomenclatura.

Per iniziare non serve di più. Del resto, ogni argomento aeronautico è suscettibile di approfondimenti notevoli, con tutta la normativa che li riguarda.

Questo primo capitolo si può considerare come una sorta di Missione zero, fatta a terra, con lo scopo di introdurre concetti e vocaboli necessari ad evitare fraintendimenti nella lezione pratica successiva, che sarà in volo e che potremmo chiamare Missione uno.

Non è mia intenzione descrivere ogni capitolo del manuale, ma forse è bene dire che il secondo capitolo parla subito del volo per assetti. E questo è un argomento di estrema importanza. Bene ha fatto Lorenzo a metterlo all’inizio. L’allievo deve prendere consapevolezza sin da subito dell’importanza di volare per assetti, perché questo sarà il suo pane quotidiano in tutta la sua carriera di pilota, dal semplice volo a vista fino al volo strumentale, che imparerà se vorrà andare oltre fino a fare di questa attività una professione.

Il volo per assetti è l’essenza del volo in ogni sua forma. Lo sanno bene i piloti di aliante, i quali, volando senza avere un motore, possono fare riferimento solo all’assetto per stabilire le varie velocità.

Anche in questo capitolo ci sono diversi disegni esplicativi, molto ben fatti.

Andando avanti nei vari capitoli troviamo le missioni di volo che costituiscono la progressione didattica tipica, sempre trattata in maniera chiara e semplice. I disegni aiutano nella comprensione.

Perciò l’allievo può usare questo manuale sia per studiare ogni missione prima di effettuarla in volo ed avere le idee già chiare su cosa lo aspetta nel volo pratico, sia per rivedere l’argomento dopo il volo, a terra e senza avere la mente impegnata da una moltitudine di input e di distrazioni.

Sebbene stilizzato, il Partenavia P66 Charlie è il velivolo utilizzato dal disegnatore Josè Ogando per esplicitare il testo di questo manuale “pratico”. In effetti Lorenzo Carrozzoni ha svolto su quel modello di velivolo molte ore di volo istruzionali e probabilmente anche diverse a beneficio dello stesso Ogando. Inoltre il Charlie è rimasto nel cuore di molti piloti privati italiani in quanto per diversi anni e in diverse scuole di volo del nostro paese ha svolto onestamente il ruolo di addestratore. Nonostante alcuni vizi di impostazione (ad esempio motore ormai superato con una potenza non certo in esubero considerato il peso della cellula e del carico utile) e qualche altro piccolo problema dimostrato in fase di esercizio, ebbene nel lungo periodo si è dimostrato solido e affidabile lasciando un ottimo ricordo di sè. I piloti infatti ne hanno sempre apprezzato la piacevolezza di pilotaggio nonché la solidità della struttura. L’esemplare ritratto è il mitico I-IADF in forza ancora oggi presso l’Aeroclub dell’Aquila a bordo del quale proprio l’autore ha lungamente volato e istruito nel corso degli ultimi anni (foto proveniente da www.flickr.com)

Molto utile e proficuo davvero.

Ma ora vorrei mettere in luce un altro pregio di questo manuale.

Dopo aver visto tanti altri manuali di volo e conoscendo la loro struttura, ho sempre sentito la necessità di trovare descritte in maniera più efficace certe manovre importantissime, la cui comprensione chiara e precisa aiuta, secondo me, nella progressione dell’apprendimento. Molti manuali ne parlano in modo troppo complicato e gli argomenti si confondono in un mare di concetti troppo dispersivi. Qui no. Lorenzo li spiega in maniera mirata, chiara e semplice, senza inutili complicazioni troppo scientifiche e con disegno a corredo.

Parlo, ad esempio, della differenza tra salita rapida e salita ripida. Della discesa veloce. Della virata stretta. Dell’atterraggio con il vento di traverso. Tutti argomenti che potranno essere studiati in maniera più approfondita in un secondo tempo, utilizzando altri libri. Ma in una fase iniziale si sente la necessità di avere poche idee, ma molto chiare.

Non mancano capitoli che parlano degli spazi aerei, delle radioassistenze alla navigazione e delle carte aeronautiche. Argomenti, questi, che si possono trattare in modo essenziale riferito alla navigazione dal momento che non passa giorno senza che cambi qualcosa nella normativa di riferimento. Sarà compito del pilota mantenersi aggiornato costantemente, consultando pubblicazioni e siti di riferimento. Ma per farlo deve conoscerne le basi, che sono proprio quelle contenute in questo manuale.

Un primo piano in chiaroscuro dell’autore ritratto – neanche a dirlo – a bordo di un velivolo scuola. Nel caso specifico si tratta di un velivolo Piper PA 28 che costituisce il fiore all’occhiello dalla flotta degli aeromobili a motore dell’Aeroclub di Rieti(foto proveniente dal sito dell’editore www.ibn.it)

L’ultimo capitolo è un inedito totale. Non ricordo di avere mai letto niente al riguardo su nessun manuale, ma potrei sbagliare. Si tratta, come dice il titolo, di una necessità assoluta che il pilota deve cercare di soddisfare per il buon andamento di ogni navigazione: pensare avanti all’aeroplano.

In altre parole il pilota non si deve mai trovare impreparato di fronte a nessuna condizione di volo. L’aereo va veloce, ma il pensiero lo deve sempre precedere. A volte le cose vanno proprio anticipate, altrimenti saremo sempre in ritardo e… questo in volo non va bene.

Per raggiungere questa condizione bisogna essere preparati, addestrati e bisogna avere le idee più chiare possibile.

Il manuale di Lorenzo serve proprio a questo.

Per i disegni Lorenzo si è rivolto ad un amico disegnatore che ha fatto un lavoro davvero egregio. I disegni sono bellissimi, chiari e precisi. E ce ne sono una marea in tutto il libro.

Nella quarta di copertina troviamo una foto dell’autore insieme al suo amico disegnatore, sotto l’ala di un P66 Charlie. La foto è un po’ piccola, ma va bene ugualmente.

Il libro si può trovare sul sito di IBN, loro spediscono ovunque. Per chi abita a Roma occorre recarsi in via dei Marsi, 57 alla libreria Aviolibri. Il quartiere è quello storico di San Lorenzo. Aviolibri dispone anch’essa di un valido sito web con la possibilità di acquisti on-line. Altrimenti presso gli abituali rivenditori virtuali o reali.





Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Il MIO VOLO IN ALIANTE

titolo: Il mio volo in aliante

autore: Alan Steve Russell

editore: Libro indipendente (autostampato)

anno di pubblicazione: 2019

ISBN: 979-12-200-5606-9




Il titolo non lascia adito a dubbi, l’autore ci descriverà la sua personalissima esperienza per il conseguimento della licenza di volo a vela.

L’istantanea che ritrae un aliante ASK-13 in fase di atterraggio potrebbe idealmente sintetizzare questo libro che, come nella migliore tradizione letteraria, ha un sapore fortissimamente autobiografico. Ciò non toglie che, in un panorama letterario – come quello italiano – assai “magro” di libri dal contenuto squisitamente aeronautico (e in particolare volovelistico) questo volume abbia un indubbio valore divulgativo. Insomma un libro utile agli allievi piloti di volo a vela per dissolvere in loro paure ed errori di approccio al volo in aliante e anche per i molti curiosi del mondo aeronautico che potranno così approfittare di questa narrazione per vivere le esperienze così minuziosamente confidate dall’autore, quasi minuto per minuto, una missione di addestramento dopo l’altra. Semplicemente un modo diverso di fare divulgazione aeronautica. Non dimentichiamoci infatti che volare in aliante a Sud di Rieti (idealmente centro d’Italia) è praticamente impossibile e dunque temiamo di non essere facilmente smentiti a proposito di un aspetto assai deprimente: per il cosiddetto uomo/donna della strada, il volo a vela risiede ancora in quell’alone nebuloso di ignoranza (=che ignora, di non conoscenza). E riteniamo che, nell’anno del signore 2000 e passa, ciò non sia più accettabile. Il libro di Alan Steve Russell sana a suo modo questa imbarazzante carenza (foto proveniente da www.flickr.com).

Una passione nata fin da ragazzo, che lo porterà a diciannove anni alla scuola sottufficiali di Caserta, e alla fine del corso di marconista elettronico di bordo al reparto operativo di Grosseto. Al IX gruppo caccia intercettori con gli F-104 Starfighter.

Questo suo trascorso militare, la disciplina, la meticolosità lo accompagnerà durante il suo corso di volo a vela e affiorerà più volte.

L’approccio migliore alla lettura di questo libro è quello di essere consapevoli che andremo a leggere una specie di diario. Un diario dove l’autore ha descritto meticolosamente le missioni di volo (non tutte le più salienti), le emozioni provate, le relazioni interpersonali.

I trascorsi militari in seno al IX Gruppo Caccia Intercettori hanno lasciato un segno indelebile nell’animo e nella memoria dell’autore e dunque, in un’autobiografia non potevano certo mancare; ci accompagnano addirittura per un intero capitolo del volume. Si tratta di una frazione di testo dall’alto contenuto tecnico con una descrizione piuttosto minuziosa dell’attività svolta corredata di molti particolari, anche singolari. Purtroppo sono rivolti prevalentemente ai curiosi dell’ F-104  nonché agli appassionati delle macchine volanti in forza all’Aeronautica Militare Italiana giacché rendono un contributo davvero minimo alla narrazione. Certamente, da addetti ai “voli”, non li abbiamo disdegnati tuttavia, per un lettore occasionale possono risultare monotoni. A testimoniare il religioso rispetto che proviamo nei confronti dall’AMI per aver svolto per decenni il servizio di intercettamento con questo tipo di velivolo (affascinante quanto superato), ci è venuto spontaneo proporre ai nostri visitatori un’immagine simbolo della città di Grosseto e del IV Stormo (di cui il IX Gruppo fa parte). E’ il monumento posto a ridosso proprio dell’aeroporto Corrado Baccarini di Grosseto, appunto, e mostra il glorioso velivolo in speciale livrea puntare verso il cielo. Il monumento è stato posato in occasione del quarantennale dell’arrivo del F104 giunto a Grosseto nel 1963. (foto proveniente da www.flickr.com)

Anche lo stile tipografico, le foto a colori raggruppate al centro del testo, la copertina foderata, ci fanno pensare a un diario, che andremo a sfogliare, con il permesso dell’Autore il quale ha deciso di condividerlo.

“Volare in aliante è qualcosa di strano, non è semplice da descrivere, solo chi lo ha provato intensamente riesce ad esprimere quale vera sensazione si prova galleggiando nel cielo al semplice fruscio del vento che avvolge e risuona nell’abitacolo.”

Cosa vedrà un pilota di aliante attraverso i sui occhiali di una celebre marca facilmente riconoscibile per la montatura metallica dorata e le lenti verdi? In questa foto troviamo il cruscotto di un aliante ma leggendo il libro di Alan Steve Russell vedremo il suo personalissimo punto di vista durante tutto il corso di pilotaggio per aliante e poco oltre.  (foto proveniente da www.flickr.com)

E’ un voler imprimere per sempre il ricordo di questo suo percorso.

“Ogni volta che rileggo questo libro, rivivo esattamente le emozioni che ho provato in quei giorni intensi. E’ come continuare a volare, anche se fisicamente non sono a bordo.”

Il particolare rapporto che si crea con il proprio istruttore:

“Forse lui già lo sapeva che avrei fatto il decollo in quella giornata, io avevo capito che ormai non avrebbe più procrastinato quella data perché era arrivato il momento, e mi sarei trovato solo con me stesso e con il mio addestramento.”

“Un istruttore di volo a vela alle volte assomiglia più ad uno psicologo, che riesce a capire fino a quando un allievo è in grado di spingersi avanti per controllare la situazione circostante e a non farsi sopraffare dall’insicurezza e dalla paura.”

La paura, questo sentimento che, nell’immaginario collettivo, sembra non appartenga ai piloti :

“Avere paura è una cosa normalissima e del tutto normale. Per un pilota è un sentimento che bisogna accettare e controllare e di cui non bisogna mai vergognarsi.”

La retrocopertina del libro di Alan Steve Russell in cui è ritratto l’aliante acrobatico modello Alexander Schleicher ASK-21, marche I-IVWQ, in forza presso l’Aeroclub Volovelistico Castel Viscardo a bordo del quale l’autore ha speso diverse ore di volo del suo addestramento quale pilota di volo a vela. Si tratta di uno degli alianti scuola moderni tra i più diffusi al mondo, costruito completamente in materiali compositi benché il progetto risalga alla fine degli anni ’70. Disegnato dall’ingegner Rudolf Kaiser (da cui la lettera “K” che segue le iniziali del Costruttore e precede il numero di progetto realizzato in ordine di tempo dall’azienda di Poppenhausen in Germania) è stato costruito in più di 800 esemplari. Recentemente la Schleicher ne ha reso disponibile la versione “B” con l’introduzione di alcuni aggiornamenti e migliorie funzionali tali da rinverdire questo aliante universalmente riconosciuto come il modello per l’addestramento basico e l’acrobazia basica per antonomasia.

Come ogni esperienza risente del background, del presente e delle aspettative soggettive.

Certo non ci si aspetta l’uso di certi termini :

  • “vuoti d’aria” ogni pilota, soprattutto un volovelista sa bene che non esistono, ma sono solo forti discendenze. Ma per fortuna lo troviamo una volta sola.
  • “cabina” che riferito ad un aliante suona un pochino fuori luogo, infatti nel testo lo troviamo alternato a “abitacolo” termine più appropriato.

Tipograficamente parlando il volume “Il mio volo” è di ottima fattura. Curata nei minimi dettagli la copertina e la IV di copertina, i risguardi interni (che contengono la canonica biografia dell’autore e la sinossi del volume). Ottima la qualità della carta, l’impaginazione, il glossario dei termini tecnici presenti nella narrazione. Trattandosi di un volume autopubblicato si nota l’attenzione maniacale che l’autore ha avuto per ciascun dettaglio. Assai pregevoli le foto a colori presenti al centro del volume nonché le pagine che precedono ogni capitolo con uno stralcio del periodo chiave dell’intero capitolo, appunto; il tutto sottolineato da un gradevole carattere in corsivo che rende quasi confidenziale il testo. Viceversa l’uso molto parsimonioso del punto a capo rendono il testo piuttosto compatto (quasi monolitico) privando così il lettore di qualche istante di respiro o delle opportune pause di riflessione. Probabilmente il lavoro di un correttore di bozze avrebbe evitato un simile errore di gioventù … ma questo è il rovescio della medaglia dell’autopubblicazione di un volume … così, mentre possiamo leggere con occhio benigno i frequenti errori del “d eufonico”, non possiamo essere altrettanto indulgenti per quanto riguarda gli svarioni colossali come l’uso del termine “velivoli” riferito agli alianti o “vuotì d’aria” anziché turbolenze. 

Qualcuno potrà riconoscersi negli stati d’animo nelle emozioni provate.

Qualcun altro potrà ritenerle un po’ troppo esagerate.

L’autobiografia dell’autore conferma la sensazione che Alan Steve Russell sia l’elaborato pseudonimo scelto dall’autore per celare la sua vera identità. Mario Rossi no?

Il lettore non addentro al mondo del volo potrà rimanere anche un po’ disorientato, se non addirittura annoiato, dal forte dettaglio tecnico nel descrivere il volo.

“Questo è ‘Il mio volo in aliante’, un racconto, una storia realmente accaduta, come un piccolo fotogramma di un periodo della mia vita”

Ebbene sì! Questo è il volo in aliante di Marco Forcella.

Non è un racconto generico, ma il suo personalissimo percorso.

Il suo sentire e vivere il volo.

Essere parte di quel cielo che fin da bambino lo attirava, e che guardava voltando la testa all’insù.






Recensione e didascalie a cura di Franca Vorano

Didascalia e fotografie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





La missione segreta

titolo: La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale

autore: Eric Carter con Antony Loveless

editore: Newton Compton Editori

anno di prima pubblicazione: 2014, novembre

ISBN cartaceo: 978-88-541-6981-4





Confesso la mia ignoranza! E nell’accezione più genuina del termine: inconsapevolezza, non conoscenza, mancanza di informazione. Ossia, ammetto che ignoravo quasi completamente un episodio storico forse fondamentale  eppure religiosamente celato per anni nelle pieghe della storia della II Guerra Mondiale. Mi riferisco a quella che venne denominata in codice: missione “Force Benedict”.

Confessatelo: anche voi vi sentite molto ignoranti, nevvero? Tranquilli, temo che costituiremo una compagnia ben nutrita giacché avremo modo di parlarvi di una delle operazioni militari tra le più segrete fra quelle effettuate dalle forze armate alleate, in particolare britanniche. Soprattutto perché – udite, udite – praticata in collaborazione con quelle sovietiche.

Ma ora metteremo un po’ di ordine fornendo alcune coordinate temporali e geografiche.

Domenica 22 Giugno 1941.

Gran Bretagna.

Questo scatto è apparso nelle pagine del Daily Mirror e ritrae l’autore all’età di 93 anni alla vigilia della speciale cerimonia tenutasi nel 2013 a Downing Street nel corso della quale l’allora primo ministro David Cameron gli ha conferito uno speciale riconoscimento: la medaglia Arctic Convoy Star. Erano trascorsi solo 72 anni da che Eric era partito alla volta di Murmansk passando per l’Islanda e attraversando il burrascoso quanto gelido Mare Artico  col rischio continuo di affondamento ad opera degli U-boot tedeschi nonché delle forze aeree naziste di stanza in Finlandia. 72 anni: il tempo tecnico per riconoscergli i giusti meriti e riportare alla luce una missione di cui lui era rimasto uno dei pochi sopravvissuti. Nel corso dell’intervista dichiarò: “Non credo che l’operazione ottenga il credito che merita. Se Murmansk fosse caduta, l’intero corso della storia sarebbe stato molto diverso.”  Purtroppo la sua immagine serena e sorridente è riapparsa qualche anno dopo (luglio 2021) sempre nelle pagine dei giornali britannici quando il figlio ha annunciato la sua morte e ha dichiarato:”Ha condotto una vita piena e affascinante.” e ha aggiunto: “Sono orgoglioso di lui e degli altri di quella più grande generazione che ha sacrificato la propria giovinezza, se non la propria vita, per consentirci di godere delle libertà che abbiamo oggi”. foto proveniente dal Daily Mirror, www.https://www.mirror.co.uk/)

Primo ministro britannico, al secolo Winston Churcill.  

Alle 8 in punto del mattino egli riceve una notizia di una gravità inequivocabile: Hitler ha lanciato la missione in codice Operazione Barbarossa!

Vale a dire che l’invasione dell’Unione Sovietica è cominciata. E tutto lascia pensare che avrà luogo con la stessa fulminea ferocia con cui la Luftwaffe (l’Aeronautica militare germanica) e la Wehrmacht (l’Esercito germanico) hanno già sbaragliato la modesta Polonia, la grande Francia, gli indifesi paesi nordici di Svezia, Finlandia e Norvegia nonché i minuscoli stati neutrali di Olanda, Belgio, Danimarca e Lussemburgo. Solo l’intrepida Gran Bretagna ha resistito all’orda teutonica giacché, grazie ad una difesa aerea moderna e ben organizzata e, non ultimo, all’aiuto di piloti anche stranieri, la RAF (Royal Air Force – Aeronautica militare britannica) ha avuto la meglio in quella che viene universalmente chiamata come “La battaglia d’Inghilterra”. Tuttavia ancora brucia la fuga da Dunkerque del Corpo di spedizione britannico costretto a battere in ritirata, con la coda tra le gambe, lasciando il continente alla mercé dei teutonici.

La breve sinossi del libro di Eric Carter

In effetti, agli occhi miopi del primo ministro britannico, anche se l’assalto al suolo natio appare ormai scongiurato, la resistenza del colosso sovietico non sembra poi così scontata. Anzi.

In un istante egli comprende che, senza l’aiuto della Gran Bretagna e, in misura ancora maggiore, degli amici statunitensi, lo Stato comunista potrebbe cadere facilmente sotto l’incalzare delle armate germaniche. E una volta caduta la Russia quel satanasso di Hitler avrebbe di nuovo rivolto tutte le sue forze – non solo aeree stavolta – verso la Gran Bretagna.

Anche se la foto ha un non so che di poetico, in realtà mostra le difficili condizioni ambientali in cui dovette muoversi il 151° Wing britannico nell’aeroporto di Vaende prima che le copiose nevicate riducessero drasticamente la sua attività operativa. L’Hawker Hurricane qui ritratto era uno dei trentanove inviati in prima battuta da Churchill in aiuto a Stalin il quale aveva chiesto degli Spitfire. Ovviamente i Supermarine rimasero a difendere i cieli dell’isola britannica e, per quanto gli Hurricane non fossero da buttare via, erano ormai considerati superati dai più maneggevoli e veloci “Sputafuoco”. Sicuramente ancora peggio fecero gli alleati statunitensi che inviarono ai sovietici dei poco convenzionali Bell P-39 Aircobra (foto proveniente da www.flickr.com)

Churcill sapeva perfettamente che la Russia era ancora un paese arretrato con armamenti obsoleti e vertici militari impreparati a gestire un’invasione. Così, probabilmente senza neanche consultare i membri del suo gabinetto, la sera stessa, nel corso di un discorso radiofonico alla nazione, dichiarò il sostegno della Gran Bretagna al paese guidato dal dittatore Josif Stalin.

Detto fatto: dopo neanche un mese, esattamente il 20 luglio, a mezzo di messaggio telegrafico,  Churchill annunciò a Stalin che la Gran Bretagna avrebbe fornito un primo stormo di caccia Hurricane al completo. Era nato il 151° Wing e aveva preso avvio la missione Force Benedict.

Rigorosamente sorvegliati da un milite sovietico, alcuni equipaggi britannici ingannano l’attesa di una missione su allarme ascoltando un grammofono. (foto proveniente da www.flickr.com)

Come anticipato la missione si avviò, si sviluppò e terminò nella più assoluta segretezza e dunque non ci deve stupire se, a tutt’oggi poco sia trapelato o ricordato. Occorre perciò riconoscere il merito di aver provveduto a questa lodevole opera di divulgazione storica a Eric Carter e Antony Loveless che si sono cimentati nella stesura di un diario dal tono giornalistico che è appunto il volume oggetto di questa recensione.

Il primo, che ci ha lasciato per sempre nel luglio del 2021 alla veneranda età di 101 anni, partecipò alla missione in qualità di pilota mentre il secondo è un affermato giornalista-fotografo, autore di alcuni libri dedicati a piloti del II conflitto mondiale.

Dunque non corrucciatevi per la vostra “ignoranza” in fatto di Force Benedict. Non siete i soli.

Spiega Carter:

“L’obiettivo della nostra missione era consegnare la prima partita di Hurricane, difendere il porto di Murmansk e insegnare ai russi a volare e curare la manutenzione degli aerei. Semplice. Avremmo ceduto ai russi tutto l’equipaggiamento che avevamo portato con noi”

Alcuni numeri della Force Benedict: 550 uomini impegnati per circa 4 mesi in territorio russo. Tra questi 38 piloti. E tra questi il nostro autore. Sortite effettuate: 365. Attività operativa effettiva: 5 settimane. Aeroplani abbattuti: 11 Messerschmitt Bf-109, e 3 bombardieri Junkers Ju-88. Inoltre quattro velivoli probabilmente abbattuti ma non confermati, almeno sette velivoli nemici danneggiati. Hurricane trasportati dalla HMS Argus: 24. Hurricane trasportati in container e poi assemblati: 15. (foto proveniente da www.flickr.com)

A questo punto occorre premettere che difendere strenuamente la base navale di Murmansk non fu un vezzo eccentrico di Churcill o del ministro dell’Aria britannico. Semplicemente aggiunge Carter:

“Murmansk e il porto di Arcangelo sul mar Bianco assorbivano grandi quantità di aiuti dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, i quali avrebbero giocato un importante ruolo nella sopravvivenza della Russia”.

In effetti Murmansk, porto libero dai ghiacci anche in pieno inverno, era collegato con le regioni della Russia centrale mediante una valida rete ferroviaria tanto che in quel luogo giunsero innumerevoli convogli artici alleati destinati a rifornire tutta la Russia di ogni ben di Dio possibile e immaginabile. Ecco perché la base navale – parole di sir Winston Churchill – “andava difesa ad ogni costo”.

Le copertine delle edizioni in lingua originale. Il ragazzone cresciuto con i baffetti e in divisa della RAF è ovviamente l’autore del volume quando partecipò appunto alla missione Force Benedict. Sullo sfondo, in basso, è possibile notare alcuni soldati russi che sorvegliano – armati – gli Hurricane del 151° Wing parcheggiati in una delle tante aeree di diradamento completamente innevate dell’aeroporto di Vaende; in alto è ritratto uno stuolo di Hurricane che scortano i bombardieri russi in una delle tante missioni congiunte di bombardamento delle linee tedesche. La copertina risulta perciò perfettamente attinente al contenuto del libro che custodisce e pubblicizza. Purtroppo ben altra storia riguarda la copertina della versione italiana.

Affinché i nazisti non potessero dilagare nella penisola di Kola partendo da Norvegia e Finlandia e sfondando definitivamente il fronte per giungere poi fino a Mosca, i britannici decisero di dislocare il reparto nell’aeroporto di Vaende, proprio nelle immediate vicinanze di Murmansk. Proprio a ridosso del fronte.

E fin qui – direte voi – niente di particolare. Sì, in effetti … se non fosse per un espediente alquanto originale: una parte degli Hurricane – rigorosamente terrestri, occorre precisarlo – vennero trasportati e lanciati in volo dal ponte della portaerei HMS Argus che incrociava a diverse centinaia di miglia dalla costa russa mentre la restante parte giunse ad Arcangelo (dall’altra parte del Mar Bianco) via Islanda, in nave, smontati all’interno di container. Al loro seguito uomini e mezzi necessari per rimontarli, renderli e mantenerli operativi. Dunque piloti, meccanici, magazzinieri, addetti alla logistica, insomma uno stormo completo e operativo in tutte le sue attività.

Siamo nel settembre del ’41, a soli tre mesi dall’inizio dell’invasione del colosso sovietico. Perdonate la precisazione.

Accenniamo invece all’episodio dell’Argus per farvi comprendere il grado di audacia che contraddistingueva questa missione e che – altra precisazione – presupponeva la piena collaborazione – non certo scontata – dei russi. Viceversa non aggiungeremo altro circa quanto accadde a Vaende fino 6 al dicembre del 1941 quando, ufficialmente, la missione ebbe termine … lasciamo perciò ai lettori il piacere e la sorpresa di leggere di combattimenti aerei all’ultima pallottola, di memorabili ubriacature, nevicate impensabili, miracoli tecnologici e, purtroppo, anche incidenti tragicomici.

Se la IV di copertina della versione in lingua italiana riporta diligentemente le opinioni di due prestigiosi quotidiani britannici (ma in realtà di diffusione internazionale), la I di copertina ci è apparsa letteralmente scandalosa. Anzitutto non si capisce come sia venuto in mente ai curatori (Carol Gullo per il progetto grafico e Alessandro Tiburtini per la realizzazione) di porre in primo piano un cappello di ordinanza di un ufficiale tedesco quando il libro ha per protagonista un pilota britannico. Della serie: che c’azzecca? Praticamente nulla! Nondimeno equivoca è la foto di sfondo che mostra un drappello di soldati germanici a rapporto di fronte ad alcuni loro ufficiali. Peccato che i primi indossino il classico elmetto con la punta di lancia in uso nel corso della I Guerra Mondiale anziché nella seconda. Potremmo sorvolare sugli sbarramenti di filo spinato e paletti posti alle loro spalle tuttavia, la sensazione che l’immagine reca nell’insieme è quello tipico della tristemente famosa guerra di trincea che caratterizzò il I conflitto mondiale. Probabilmente l’unico aspetto visivo allineato con quanto narrato da Eric Carte è la coltre di neve che ricopre il terreno. Insomma una copertina da dimenticare che non ha alcuna pertinenza con il volume che ricopre. Anzi testimonia in modo pressoché inequivocabile che chi l’ha allestita non ha neanche sbirciato il risguardo interno contenente la sinossi del libro, figuriamoci leggere tutto il libro. Peccato perché questo squalifica immancabilmente la qualità editoriale del prodotto e l’editore stesso sebbene abbia sostenuto in modo tangibile questa lodevole iniziativa culturale in un mercato editoriale – quello italiano – non certo curioso su simili tematiche. D’altra parte, se è vero che un buon editore deve incaricare un valido traduttore – nel caso specifico Alessandro Borelli – e deve affidarne la stampa a una buona tipografia (la Puntoweb) affinché stampi il libro con carta opaca di buona qualità, lo rileghi accuratamente e infine lo confezioni con una copertina  altrettanto valida … beh, su questo aspetto la Newton Compton Editori è scivolata letteralmente su un casco di banane.

Ora, a distanza di tanti anni da quei giorni, viene da chiedersi: il buon Winston aveva visto giusto? E la Force Benedict fu davvero determinante nella vittoria contro Hitler?

Ebbene, con il senno di poi, noi posteri possiamo affermare che il primo ministro britannico aveva visto giusto: le forze militari tedesche, nelle prime settimane di ostilità fecero letteralmente scempio dell’Aviazione con la stella rossa e nondimeno dell’Esercito con la stella rossa. Il paese rischiò davvero di crollare e lo salvò il famoso “generale inverno” di bonapartiana memoria, l’immensità del suo territorio e l’allungamento impossibile delle linee di rifornimento tedesche. Non ultimo la drammatica tattica russa di fare terra bruciata attorno alle armate hitleriane oppure i vertiginosi ripiegamenti o la folle resistenza delle truppe sovietiche con combattimenti casa per casa.

Per quanto concerne la reale utilità  della Force Benedict, nell’epilogo del volume, l’autore ammette che non fu una missione davvero determinante ai fini della vittoria della II Guerra Mondiale. Piuttosto fu certamente la missione con la quale presero avvio i convogli artici diretti verso la Russia e, aspetto fondamentale, dimostrò che era possibile una coalizione contro Hitler anche con i sovietici. Non dimentichiamo infatti che, al momento in cui prese avvio della missione, gli Stati Uniti erano ancora ufficialmente neutrali e ben si guardavano, sulla scorta dell’esperienza del precedente conflitto mondiale, di impegnarsi in un’altra guerra sul suolo europeo. Poi avvenne Pearl Harbour … e la storia ebbe tutto un altro percorso!

I russi, viceversa, nel 1939 avevano sottoscritto un patto di non aggressione (il famoso Molotov-Ribbentrop) con la Germania ciononostante erano stati ugualmente invasi dalle armate naziste e dall’oggi al domani si erano trovati nella medesima situazione della Gran Bretagna. Forse peggiore.

Il risguardo interno del volume che contiene alcune note biografiche degli autori

In effetti, sintetizzando l’opinione dell’autore espressa nel libro, anche se Murmansk rimase sempre saldamente in mano ai sovietici, poco e quasi nulla fecero a tal fine le prime dozzine di Hurricane del 151° Wing mentre qualcosa di ben più consistente poterono le migliaia di velivoli che giunsero nei mesi successivi attraverso il corridoio artico inaugurato dalla missione Force Benedict.

Intendiamoci: durate la loro breve permanenza a Vaende i piloti britannici le suonarono di santa ragione ai nazisti come pure gli Hurricane scortarono diligentemente  i bombardieri sovietici senza che questi fossero minimamente disturbati dai caccia nemici ma di qui a dire che la loro presenza diede una svolta al conflitto … beh, ci siamo capiti!? 

In verità circa l’utilizzo di velivoli britannici, in particolare Hurricane, da parte dei sovietici ne avevo una sbiadita memoria. Ero incappato nei pregi e difetti espressi dai sovietici proprio in occasione della stesura di alcune note didascaliche a corredo di una recensione di un volume che li aveva per protagonisti. E dire che le opinioni formulate (e pedissequamente riportate), non erano per nulla entusiasmanti … tutt’altra storia invece nel libro di Eric Carter. A suo dire, i piloti della forza aerea con la stella rossa, furono entusiasti fin da subito dei velivoli della Hawker e furono ben lieti di utilizzarli dopo un breve addestramento sebbene Stalin avesse chiesto per loro i più performanti Spitfire. Naturalmente ricordavo perfettamente la “Legge affitti e prestiti” con la quale gli Stati Uniti, non ancora entrati nel conflitto mondiale, riversarono tonnellate e tonnellate di materiale di tutti i generi (non solo bellico) sulla Gran Bretagna prima e verso la Russia dopo. Come dimenticare poi convogli facevano la spola tra il continente americano e quello europeo o la battaglia navale nell’Atlantico degli U-boot contro le frotte di navi cargo dirette in Europa? Ma di una missione britannica in terra sovietica proprio non ci avrei giurato. Tutto merito del com.te Fernando Bucciolotti che, prima mi ha pungolato con un: “Non conosci la Forza Benedict” ?! e poi mi ha concesso in prestito (un lungo prestito) il volume di Eric Carter affinché ne potessi scrivere la recensione. Questa (foto proveniente da www.flickr.com) 

Quanto alla collaborazione dei sovietici … la loro vena di disponibilità si esaurì molto rapidamente e divenne pressoché unidirezionale. I sovietici infatti tornarono ad essere sfuggenti, atavicamente diffidenti nei confronti degli stranieri, ossia approfittarono a mani basse degli aiuti alleati ma non si coordinarono mai con loro né adottarono le efficaci tecniche di combattimento introdotte proprio dai piloti britannici. Insomma manifestarono ciò che poi divennero negli anni a venire: un blocco monolitico impermeabile e addirittura avverso all’Occidente.

In buona sostanza il contenuto del libro smentisce i caratteri cubitali maldestramente presenti in copertina che molto ricordano quei tabloid scandalistici britannici attentissimi agli scandali di corte. Copertina sulla quale preferiremmo stendere un velo pietosissimo salvo esprimere la nostra spassionata opinione nella didascalia relativa. E dire che l’edizione in lingua originale ha una copertina impeccabile!

Anche sul modo con cui è stato convertito il titolo originale del libro nutriamo una sincera perplessità. Con tutto il rispetto per la regista Lina Wertmuller … ma questo sembra il titolo chilometrico di uno dei suoi film anziché un libro di guerra!?

Generalmente un editore avveduto si prefigge di catturare l’attenzione di un potenziale acquirente appassionato del mondo aeronautico o di storia dell’aviazione a mezzo di copertina e titolo  … beh, questa copertina e questo titolo non lo aiutano certo nel suo scopo. Già il settore della narrativa aeronautica in Italia è ridotto a un lumicino, se poi consideriamo che un siffatto libro non brilla sicuramente di luce propria, è probabile che un potenziale lettore non lo vedrà neanche per errore nel marasma di volumi presenti in libreria, convenzionale o digitale sia. Obiettivo mancato, libro dimenticato.

Venendo al testo del volume, benché diviso in capitoli disposti in modo cronologico, ci è  apparso alquanto disordinato nella narrazione iniziale. Infatti, contrariamente a quanto ci potremmo aspettare sfogliando le prime pagine, il libro non segue la logica ferrea di un diario con tanto di date che cadenzano i vari capitoli. E forse, detto tra noi, sarebbe stata la salvezza per il lettore …

In osservanza allo scopo della missione, un pilota britannico istruisce un suo omologo sovietico al pilotaggio dell’Hurricane. Naturalmente occorreva sempre passare attraverso la mediazione di interpreti tuttavia, nonostante la barriera linguistica, tra piloti ci si capiva facilmente e l’addestramento fu relativamente veloce (foto proveniente da ww.flickr.com)

Il secondo capitolo, in particolare – quello dedicato alla Battaglia d’Inghilterra – espone una tale sequela di personaggi e di fatti che il lettore ne rimane disorientato. Fortunatamente i capitoli successivi diventano più ordinati e i filo cronologico riprende a dipanarsi senza deviazioni disordinate.

Inoltre il testo del volume, benché in buona parte autobiografico, è fastidiosamente costellato di citazioni di altri volumi, di altri autori o voci narranti che – a nostro modesto parere – sono state enfatizzate in modo assai discutibile da un carattere di dimensioni più minute rispetto al testo di Eric Carter e Antony Loveless. Forse un corsivo sarebbe stato più adeguato a renderlo tipograficamente omogeneo. E anche meno faticoso da leggere giacché siamo a limiti dell’uso di una lente d’ingrandimento. In verità ci domandiamo: da quando in qua si inserisce una citazione con un carattere più piccolo di tutto il resto? Solo in questo libro! Bah …

Anche la scelta di narrare la storia personale dell’autore in ordine cronologico ci appare poco strategica ai fini della cattura dell’attenzione del lettore. Avviare il libro con l’adunata inspiegabile e segretissima dei piloti della missione avrebbe letteralmente incollato il lettore alle pagine successive mentre qualche flashback collocato ad arte avrebbe potuto fornire gli elementi per comprendere meglio certi personaggi, Eric Carter per primo. Ma gli autori lo hanno impostato in altro modo … peccato! 

Strepitoso invece il prezzo di vendita per un volume in brossura, rilegato in modo impeccabile, con tanto di sovraccoperta a colori. 

Per carità, siamo di fronte ad un libro di nicchia, di buona fattura che, solo per la sua nobile opera divulgativa, merita tutto il nostro rispetto. Inoltre la narrazione risulta piacevole e solo in alcuni tratti appena poco più lenta.

Hurricane e pilota in russia
L’inconfondibile muso di un Hurricane spicca in mezzo alla landa imbiancata e gelida dell’aeroporto ove si dislocò la forza aerea britannica inviata a dare man forte ai sovietici. Le proibitive condizioni ambientali rallentarono inesorabilmente le attività del reparto e inoltre, poiché lo scopo della missione era ormai raggiunto, già a novembre i piloti di Sua Maestà bighellonavano indolenti. La missione Force Benedict rimase sempre celata giacché i britannici non vollero mai mettere in imbarazzo gli assai suscettibili alleati sovietici dichiarando che erano andati in loro soccorso e, di contro, Stalin non ammise mai apertamente di aver chiesto aiuto a Churchill. Lo stesso primo ministro britannico si ostinò a mantenere segreta la missione malgrado i membri dello stormo fossero rientrati in patria da più di due mesi e la pressione della stampa fosse divenuta ingestibile. Tuttavia, pur di non fornire argomenti alla propaganda tedesca, tentò in ogni modo di minimizzare la portata della missione pilotando l’opinione pubblica verso altri fronti e argomenti. Viceversa egli teneva molto alla Force Benedict, missione che volle fortissimamente e, come se fosse una sua creatura, la seguì sempre con molta attenzione nonostante non fosse certo privo di impegni e preoccupazioni. (proveniente da www.flickr.com)

Ottimo il racconto di episodi di battaglia aerea e praticamente assenti svarioni di carattere tecnico.

Eccellente la premessa del libro di un certo Fermot O’Leary il quale chiude con una riflessione la cui bontà costituisce il vero valore aggiunto del libro. Eccola:

“Col passare degli anni è molto importante preservare queste testimonianze di prima mano.”

Si riferisce chiaramente alla testimonianza oculare di Eric Carter. E conclude affermando:

“Voglia il cielo che i nostri figli e i figli dei nostri figli non debbano mai sopportare le cose che Eric e quella della sua generazione hanno vissuto. Ma dovranno conoscere ed essere grati per il sacrificio che tante persone hanno fatto per tutti loro.”

 Che poi è il senso ultimo del libro di Eric Carter …






Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR